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CONVERTITO IN LEGGE IL DECRETO DI RIFORMA DELLA P.A.

Con il voto della Camera al cd. ‘decreto P.A.’, senza modifiche rispetto al testo già passato in Senato, la prima parte della Riforma della Pubblica Amministrazione è ora legge. Tuttavia, come ha precisato il Ministro Madia, il fulcro della riforma sarà nel disegno di legge delega la cui discussione in Senato, per ora, è stata rinviata a settembre.

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di Michele De Sanctis

Dopo aver posto per tre volte la fiducia in una sola settimana, lo scorso 7 agosto il Governo ha incassato il via libera definitivo sulla prima parte della riforma P.A.: analizziamo i principali punti della legge di conversione del DL 90/2014.

Il decreto in parola introduceva una serie di disposizioni finalizzate alla semplificazione ed alla trasparenza amministrativa, oltreché all’efficienza degli uffici giudiziari. Nel corso dell’esame parlamentare sono state approvate numerose modifiche al testo del decreto e la discussione di alcuni punti è stata rinviata all’approvazione di specifici provvedimenti.

Tra le novità più importanti, la norma appena approvata prevede la mobilità obbligatoria per i dipendenti pubblici, cui potrà essere applicata, anche senza il loro consenso, entro una distanza di 50 km, salvo alcune deroghe per coloro i quali abbiano figli con meno di tre anni e diritto al congedo parentale e per quei lavoratori che usufruiscano dei permessi di cui alla L. 104/92, per l’assistenza a un familiare disabile.

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Confermata l’abrogazione del trattenimento in servizio, con deroga parziale per i magistrati, cui la soppressione dell’istituto in parola si applicherà solo dal 2016. Viene, inoltre, resa più stringente la disciplina del collocamento ‘fuori ruolo’ di magistrati, avvocati e procuratori dello Stato, che intendano assumere incarichi extragiudiziari. In particolare, si prevede il collocamento obbligatorio in ‘fuori ruolo’ allorché questi soggetti intendano accettare incarichi di diretta collaborazione o consulenza giuridica con un’Amministrazione Pubblica. Tuttavia, vengono fatti salvi i collocamenti in aspettativa già concessi e ancora in essere alla data di entrata in vigore del decreto.

Per quanto riguarda l’urgente questione posta dall’attuale blocco del turn over, sono state riviste le percentuali in riferimento al periodo 2014-2018, diventate adesso più flessibili rispetto ai parametri imposti dall’austerity, in precedenza chiesti dall’Europa e che sul piano operativo hanno dimostrato un’insostenibilità pratica ed una totale irrazionalità giuridica. In pratica, con le modifiche apportate, le Amministrazioni Pubbliche potranno ora assumere nel limite del 20% della spesa relativa alle uscite di quest’anno; tale percentuale passerà poi al 40% nel 2015, fino ad arrivare al 100% nel 2018.

Viene contestualmente consentita l’ulteriore proroga, oltre quella già prevista fino al 31/12/2014, per quei contratti a termine in essere e in passato stipulati dalle Province per specifiche necessità. Inoltre, per alcune tipologie di lavoratori socialmente utili non verranno applicati i limiti di assunzione previsti, ma soltanto nel caso in cui il costo relativo al personale risulti coperto da specifici finanziamenti.

Altra novità in materia pensionistica interessa chi dopo la pensione intenderà accettare incarichi di studio o di consulenza nella Pubblica Amministrazione: potrà farlo, ma solo a titolo gratuito.

I Dirigenti della P.A. potranno essere mandati in pensione a 62 anni, ma è saltato il pensionamento a 68 anni per primari e professori universitari.

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Per qesti ultimi, inoltre, diventerà più facile ottenere l’abilitazione di cui alla L. 240/2010: saranno, infatti, sufficienti 10 pubblicazioni (e non più 12) per presentare la propria candidatura. Saranno altresì rivisti i criteri di valutazione.

In previsione fino al 2019 sono stati “spalmati” i 62 milioni già stabiliti per i prepensionamenti nel fondo triennale per l’editoria. Viene nel contempo fissato per legge l’obbligo di almeno un’assunzione a tempo indeterminato ogni 3 prepensionamenti. Per quanto riguarda le provvidenze all’editoria di cui alla L. 416/81, viene finanziata la spesa di 3 milioni per il 2014, di 9 milioni nel 2015, di 13 milioni nel 2016, di altri 13 nel 2017, di 10,8 nel 2018 e di 2 milioni nel 2019. Fissato, inoltre, un altro limite al Fondo straordinario per l’editoria: il finanziamento concesso per i prepensionamenti sarà revocato qualora i giornalisti prepensionati stipulino contratti di collaborazione sia con la testata presso cui già lavoravano sia con un’azienda editoriale diversa, ma facente parte del medesimo gruppo editoriale.

Sul fonte dei dirigenti pubblici, si introduce una norma che ne consente l’assunzione presso gli Enti Locali con contratto a termine e senza concorso. La chiamata diretta vede un margine di discrezionalità più ampio rispetto all’attuale, che passa dal 10% al 30% dei posti in pianta organica. È poi consentito agli enti “virtuosi”, ossia quelli che agiscono nel rispetto dei limiti di spesa, di non applicare alcuna limitazione. Con questa disposizione sembrerebbe, quindi, che la dirigenza stia tornando sotto un più serrato controllo della politica.

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Novità anche presso le Camere di Commercio, dove le tariffe delle segreterie saranno ora definite sulla base di costi standard prefissati dal Ministero dello Sviluppo Economico, dopo aver consultato le società per gli studi di settore e Unioncamere. Il taglio degli importi dovuti alle CCIA sarà graduale nei prossimi tre anni (-35% nel 2015, -40% nel 2016 e -50% nel 2017).

Per quanto concerne l’organizzazione degli Enti Territoriali, resta confermata, invece, l’eliminazione delle quote dei diritti di segreteria e dei diritti di rogito spettanti ai segretari comunali e provinciali.

Sono salve le sezioni distaccate dei Tar, che si trovano nelle città sedi di corti d’appello: Salerno, Reggio Calabria, Lecce, Brescia e Catania. La soppressione delle altre sedi slitta di quasi un anno, da ottobre 2014 a luglio 2015.

Per quanto riguarda la disciplina dei lavori pubblici, sono conferiti maggiori poteri all’Autorità Nazionale Anticorruzione in materia di vigilanza. In sostanza, il diritto degli appalti pubblici si arricchisce di un importante elemento di novità: potranno, infatti, essere commissariate anche le società appaltatrici dei lavori, coinvolte in inchieste per casi di corruzione. Inoltre, al Presidente dell’ANAC – attualmente, Raffaele Cantone – verranno assegnati compiti di alta sorveglianza, con l’obiettivo di garantire la correttezza e la trasparenza delle procedure connesse alla realizzazione delle opere milanesi di Expo 2015. Viene creata, poi, una corsia veloce per accelerare il giudizio amministrativo in materia di appalti: si prevede la possibilità di definirlo con sentenza in forma semplificata pronunciata in udienza fissata d’ufficio entro 30 giorni dalla scadenza del termine per la costituzione delle parti diverse dal ricorrente, con possibilità di rinvio a 45 giorni per effettuare approfondimenti istruttori. Sempre in materia processuale, è previsto un inasprimento delle sanzioni per le cd. ‘liti temerarie’: l’importo della sanzione pecuniaria può essere elevato fino all’1% del valore del contratto d’appalto.

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I componenti delle Authority dovranno attendere 5 anni per prima di essere nuovamente nominati a capo di un’altra Autorità. La razionalizzazione delle strutture deve poi prevedere una concentrazione del personale nella sede centrale non inferiore al 70%. Inoltre, i dirigenti di BankItalia ed ISVAP non potranno avere collaborazioni, consulenze o impieghi con i soggetti regolati entro due anni dalla cessazione del proprio incarico.

Per quanto riguarda il personale scolastico, il Governo ha deciso di rimandare a fine mese, con uno specifico provvedimento, la soluzione del problema dei cd. ‘quota 96’, che era stato precedentemente accantonato in Senato. Inoltre, pare che il Ministero dell’Istruzione abbia già iniziato a lavorare su un pacchetto scuola che dovrebbe prevedere concorsi nazionali banditi ogni due-tre anni per l’assunzione di nuovi docenti, insieme al reclutamento per il 50%, derivante dallo scorrimento delle graduatorie.

Come sempre, noi vi terremo aggiornati su tutte le prossime novità.

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Documenti:

Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari – D.L. 90/2014 – A.C. 2486 Sintesi del contenuto ed elementi per l’istruttoria legislativa 25 giugno 2014

Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari – D.L. 90/2014 – A.C. 2486 Schede di lettura 25 giugno 2014

Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari – D.L. 90/2014 – A.C. 2486-A/R Elementi per l’esame in Assemblea 30 luglio 2014

Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari – D.L. 90/2014 – A.C. 2486-B Schede di lettura 5 agosto 2014

Scarica QUI il testo del decreto DL PA AC 2486 – B

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IL NUOVO PATTO PER LA SALUTE PUNTO PER PUNTO.

Riguarderà circa 60 milioni di cittadini e, almeno nelle promesse del Ministro Lorenzin, dovrebbe cambiare la Sanità italiana. Il rinnovato accordo tra Stato e Regioni sul nuovo Patto per la Salute relativo al triennio 2014-2016 è stato siglato lo scorso 10 luglio 2014. Esaminiamone i punti salienti.

di Michele De Sanctis

Il Patto per la Salute è l’accordo finanziario e programmatico tra Governo, Regioni e Province Autonome di Trento e Bolzano, con cui viene fissata la spesa e la programmazione del Servizio Sanitario Nazionale per il triennio successivo. La sue finalità sono quelle di migliorare la qualità dei servizi, promuovere l’appropriatezza delle prestazioni e garantire l’unitarietà del sistema.

L’aspetto più innovativo del rinnovato accordo è senz’altro rappresentato dal fatto che col nuovo Patto le Regioni avranno certezza di budget: sarà, cioè, possibile avviare una programmazione triennale (anche in termini di spesa).
L’obiettivo dichiarato è quello di rendere il sistema sanitario sostenibile di fronte alle nuove sfide: invecchiamento della popolazione, arrivo di nuovi farmaci sempre più efficaci ma molto più costosi, medicina personalizzata, lotta a sprechi e a inefficienze, risparmi da reinvestire in salute, accesso alle cure garantito per tutti (dai farmaci fino ad uno standard qualitativo di assistenza).

Rileva, inoltre, l’aggiornamento dei Livelli Essenziali di Assistenza, vale a dire quelle prestazioni che il Servizio Sanitario Nazionale è tenuto a garantire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di un ticket.
Aggiornare i LEA significa eliminare prestazioni e cure ormai obsolete, che, comunque, hanno un costo e sostituirle con nuove e moderne cure più efficaci per la lotta contro le malattie e la tutela della salute collettiva e individuale. Vengono, quindi, introdotte nuove prestazioni, come quelle relative alla cura di malattie rare. Il Patto sancisce, inoltre, che il mancato conseguimento degli obiettivi di salute ed assistenziali, previsti dallo stesso, per i Direttori Generali costituirà grave inadempimento contrattuale, a cui conseguirà la decadenza automatica.

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Con il Patto per la Salute 2014 viene aggiornato anche il Il Nomenclatore Tariffario delle Protesi e degli Ausili, cioè quel documento, emanato dal Ministero della Salute, che stabilisce la tipologia e le modalità di fornitura di protesi e ausili a carico del Servizio Sanitario Nazionale. Il relativo aggiornamento si è reso indispensabile al fine di garantire ai cittadini protesi moderne, visto che era fermo da quasi quindici anni.

Leggi anche RIFORME: ECCO COME CAMBIERÀ LA SANITÀ.

Ulteriore indirizzo programmatico del nuovo Patto è quello della mission del SSN che vede il malato al centro del sistema: l’umanizzazione delle cure, ha dichiarato il Ministro nel corso dei lavori preparatori, è il fulcro del nuovo Patto. Nessuna novità, in realtà, se tale dichiarazione programmatica non viene tradotta in azioni concrete a livello territoriale, posto che l’umanizzazione delle cure, oltreché naturale corollario dei principi della Costituzione italiana e delle varie convenzioni internazionali per la garanzia dei diritti dell’uomo, già ratificate dallo Stato italiano, è richiamata, altresì, dal Piano Sanitario Nazionale vigente e da quelli Regionali e da quasi tutti gli atti di autonomia aziendale delle Aziende Sanitarie Locali. L’umanizzazione delle cure, prevedendo un’attenzione particolare alla persona nella sua totalità, fatta di bisogni organici, psicologici e relazionali, implica, di fatto, un’integrazione socio-sanitaria dei servizi locali e distrettuali che, con l’agenda Monti e, nelle Regioni commissariate, con i Piani di Rientro è, invece, venuta via via a mancare.

I tagli lineari degli anni passati hanno inciso notevolmente sull’organizzazione degli ospedali, con l’avvenuta chiusura di quelli minori o la trasformazione degli stessi in Distretti Sanitari di Base, insieme alla rimodulazione del bacino di utenza per presidio, senza, peraltro, tenere in considerazione la conformazione geografica del territorio italiano, a svantaggio, pertanto, di quei cittadini che vivono nelle zone montane più impervie e mal collegate con i principali centri cittadini e, quindi, con gli ospedali maggiori. Anche il nuovo Patto, dispone la compressione dei posti letto, ma, contestualmente, dispone una riorganizzazione degli ospedali tale da potenziare la medicina del territorio, creando una rete d’assistenza, nelle intenzioni del documento in parola, molto più efficiente e capillare ed evitando l’ingolfamento dei presidi più grandi. Per riorganizzare la medicina del territorio, l’accordo del 10 luglio affida un ruolo da protagonisti ai medici di medicina generale e ai pediatri di libera scelta, oltreché alle farmacie di servizio. Ciò dovrebbe servire ad incrementare quei servizi più vicini all’utenza e ridurre in maniera efficiente il tasso di ospedalizzazione, ove possibile, che non solo diminuirebbe le spese a carico del SSN, ma sempre in un’ottica di umanizzazione delle cure, dovrebbe semplificare l’accesso per il cittadino alle cd. cure domiciliari, supplendo, di fatto, alla carenza di una struttura ospedaliera ad alta/media complessità e ad alta/media intensità di cura nelle vicinanze del cittadino-utente. Per quest’ultimo aspetto, si evidenzia, per l’appunto, la previsione del Patto, in base alla quale i posti letto negli ospedali dovranno scendere a un livello di 3,7 letti ogni mille abitanti, comprensivi di 0,7 posti letto, sempre per mille abitanti, per la riabilitazione e la lungodegenza. Riduzione, questa, che dovrà essere attuata, seguendo coordinate ben precise, con l’adozione di provvedimenti da emanare entro il prossimo 31 dicembre 2014.

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Per quanto riguarda le strutture ospedaliere private, invece, dal 1 gennaio 2015 saranno accreditate solo quelle con una soglia non inferiore a 60 posti letto per acuti, ad esclusione di quelle mono specialistiche. Le strutture che non raggiungono la soglia dei 60 posti letto potranno, tuttavia, fondersi con altre strutture: da 40 posti letto in su sarà, infatti, consentito effettuare accorpamenti amministrativi.

Saranno, inoltre, previsti i cd. ospedali di comunità: strutture nuove, già sperimentate in talune regioni, che serviranno a ridurre i ricoveri non appropriati dovuti a ricadute di pazienti non seguiti abbastanza presso il proprio domicilio. In questi piccoli ospedali, l’assistenza sarà assicurata da medici di famiglia e pediatri di libera scelta o comunque da medici del SSN. Si faranno ricoveri di breve durata per utenti per i quali non sarà possibile il ricovero domiciliare o che necessiteranno di assistenza infermieristica continua.

Quanto all’assistenza territoriale, cui si accennava poc’anzi,
il Patto sancisce l’importanza delle Unità Complesse di Cure Primarie (UCCP) e delle Aggregazioni Funzionali Territoriali (AFT), organizzazioni di medici di famiglia e pediatri di libera scelta, che si uniranno al fine di dare migliori servizi ai cittadini e, soprattutto, per assicurare una presenza continua nel corso della giornata. L’accordo Stato-Regioni prevede che in questi maxi ambulatori potranno essere inserite anche figure specialistiche.

Inoltre, il Patto mira alla promozione di una medicina di iniziativa, che coinvolga i pazienti cronici: i malati in questione dovrebbero essere invitati dal proprio medico curante a fare i vari controlli e le visite periodiche legate alla loro patologia, senza la necessità di aspettare che siano loro a presentarsi. Le UCCP e le AFT faranno anche prevenzione ed educazione dei cittadini a corretti stili di vita, ma organizzeranno, se necessari, anche servizi sanitari a domicilio. Tali interventi di prevenzione, finalizzati ad impedire o a ridurre il rischio (o la probabilità) che si verifichino eventi non desiderati, ovvero ad abbatterne o attutirne gli effetti in termini di morbosità, disabilità e mortalità, non costituiscono una novità nell’ambito del nostro SSN, visto che sono previsti sia nell’attuale PSN che nel precedente, lo è invece il maggior coinvolgimento dei MMG, che – si spera – non si limiti al semplice invito, ma possa prevedere un intervento attivo delle Regioni nella loro piena partecipazione per ciò che concerne la prevenzione a tutti i livelli, primaria, secondaria e terziaria.

Si noti, infine, la previsione di un apposito regolamento su standard quali-quantitavi, strutturali e tecnologici offerti dai presidi ospedalieri.

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Altre novità sono quelle di un Fondo Sanitario certo per i prossimi tre anni, riforma dei ticket, numero unico per l’emergenza. E ancora: via libera alla riforma dell’intramoenia e allentamento dei vincoli sull’assunzione del personale sanitario anche per le Regioni in Piano di Rientro. Per quanto riguarda il Fondo Sanitario, nel Patto ci sono cifre certe: per il 2014 il Fondo ammonterà a 109,9 miliardi di euro, a 112 miliardi per il 2015 e per il 2016 a 115,4. La suddivisione del Fondo tra le Regioni dovrà rispettare nuovi criteri, che premieranno quelle più virtuose da un punto di vista della spesa. Il patto, inoltre, introduce la nuova regola secondo cui i risparmi che deriveranno dall’applicazione delle misure di contenimento della spesa rimarranno nella disponibilità delle Regioni, che, a loro volta, saranno vincolate ad utilizzarli solo per fini sanitari.

Entro il 30 novembre 2014 un’apposita commissione si occuperà di cambiare il sistema dei ticket. Le nuove regole di compartecipazione dovranno tenere in considerazione il reddito delle famiglie. Secondo quanto già dichiarato nei mesi scorsi da Beatrice Lorenzin, non si esclude che a chi avrà dichiarato redditi alti non verranno più concesse
eventuali esenzioni per patologia.

Leggi anche TICKET SANITARI LEGATI AL REDDITO, TAGLI ALLE CLINICHE.

Come disposto dall’Unione Europea, il 118 dovrebbe essere gradualmente soppresso e sostituito dal 112, che diverrà il numero unico di emergenza. Le Regioni sono tenute ad iniziare le procedure per il cambiamento. Contestualmente, si procederà, altresì, alla creazione di un numero unico 116-117 per le guardie mediche su tutto il territorio nazionale.

Per quanto riguarda i farmaci, l’AIFA, Agenzia Italiana del Farmaco, dovrà provvedere ad aggiornare il prontuario farmaceutico dei medicinali rimborsabili sulla base del criterio costo/beneficio ed efficacia terapeutica, prevedendo prezzi di riferimento per categorie terapeutiche omogenee. Il punto più importante riguarda, però, la revisione della normativa per l’autorizzazione all’immissione in commercio di nuovi farmaci e la contestuale definizione del regime di rimborsabilità.

Il nuovo Patto per la Salute contiene, inoltre, un ulteriore Patto per la Sanità Digitale. Si tratta di un piano strategico per la diffusione della sanità digitale, per eliminare gli ostacoli che rallentano la diffusione dell’e-health ed evitare realizzazioni parziali a macchia di leopardo come avvenuto finora. Il Patto per la Sanità Digitale rappresenta un importante passo avanti per un’azione concreta per la sostenibilità del SSN, la sua efficienza e ed efficacia di servizio e, più ampiamente, una spinta per l’innovazione del Paese, in un momento particolare come quello del semestre italiano di Presidenza UE.

Quanto ai ‘famigerati’ Piani di Rientro dal deficit, il Patto per la Salute 2014 li trasforma in Piani di riorganizzazione, riqualificazione e rafforzamento dei Servizi Sanitari Regionali e ne indica i principali obiettivi. Inoltre, il commissario ad acta, nel caso di nuovi commissariamenti, non potrà più avere a che fare con incarichi politici e dovrà essere in possesso di un curriculum che evidenzi qualificate e comprovate professionalità ed esperienza in materia di gestione sanitaria.

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Il Patto prevede anche una cabina di regia, cui competeranno monitoraggi e verifiche mirati all’attuazione dello stesso nei tempi e nei modi convenuti. Tale compito sarà affidato ad un tavolo politico composto da Ministeri della Salute e dell’Economia, Regioni e Province Autonome di Trento e Bolzano.

La vigilanza sull’attuazione delle disposizioni contenute nel Patto, il monitoraggio, l’analisi ed il controllo sull’andamento dei sistemi sanitari regionali con particolare attenzione a qualità, sicurezza, efficacia, efficienza e appropriatezza dei servizi erogati saranno, invece affidati all’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali. All’AGENAS spetterà anche il monitoraggio sull’andamento e l’applicazione delle proposte in campo sanitario circa la revisione della spesa sanitaria. E ancora, la revisione dei ticket, delle esenzioni e del sistema di remunerazione delle prestazioni sanitarie, nonché tutte le nuove funzioni in materia di HTA (Health Technology Assessment).

Novità anche per il personale del SSN. Il blocco del turn over per le Regioni in Piano di Rientro continuerà ad essere operativo fino al 31 dicembre dell’anno successivo a quello della verifica positiva, finora era necessario attendere la fine del Piano. Viene, inoltre, prevista la sospirata revisione del parametro della riduzione dell’1,4% rispetto alla spesa del personale del 2004.

Per razionalizzare e facilitare l’accesso dei giovani medici al SSN, Governo e Regioni dovranno, poi, istituire nel brevissimo periodo un tavolo ad hoc, al fine di individuare soluzioni normative, anche in base a quanto previsto negli altri Paesi UE, i cui lavori dovranno concludersi entro il 31 dicembre 2014.

Per quanto riguarda le professioni sanitarie, si segnala, infine, la conferma, contenuta nel Patto, delle disposizioni di cui al DL 158/2012, cd. Decreto Balduzzi, relativamente all’attività intramuraria. Le Regioni dovranno, quindi, reperire – per acquisto o locazione – presso strutture sanitarie autorizzate, o in convenzione con altri soggetti pubblici, i necessari spazi ambulatoriali esterni. Se questi non saranno disponibili, la Regione potrà adottare un programma sperimentale per svolgere l’attività libero-professionale intramuraria (ALPI) presso gli studi privati dei singoli professionisti collegati da una rete infrastrutturale. Il tutto dovrà avvenire con pagamento in chiaro delle prestazioni e relativo obbligo di tracciabilità della corresponsione di qualsiasi importo; a tal fine il Patto, riprendendo le disposizioni già varate dal Governo per tutte le attività produttive, sancisce l’obbligatorietà del POS in tutti gli studi convenzionati e in rete telematica.

Da ultimo, si evidenziano le previsioni in materia di cure all’estero. In particolare, il Patto fissa al prossimo 31 ottobre la deadline per l’adozione delle linee guida sull’assistenza sanitaria transfrontaliera. Sono diversi gli adempimenti e i diritti che le linee guida saranno chiamate a disciplinare, ma la priorità assoluta è quella di stabilire i criteri di autorizzazione e rimborso. Infine, senza ulteriori oneri a carico del SSN, è previsto che le Regioni istituiscano dei contact point regionali dedicati, per consentire lo scambio efficace di informazioni con il Punto di Contatto nazionale, peraltro, già attivo presso il Ministero della Salute.

Documenti:

INTESA, AI SENSI DELL’ARTICOLO 8, COMMA 6, DELLA LEGGE 5 GIUGNO 2003, N. 131, TRA IL GOVERNO, LE REGIONI E LE PROVINCE AUTONOME DI TRENTO E DI BOLZANO CONCERNENTE IL NUOVO PATTO PER LA SALUTE PER GLI ANNI 2014-2016

Gli adempimenti e le scadenze temporali derivanti dal Patto per Salute appena sottoscritto da Governo e Regioni sono stati riassunti in un quadro sinottico elaborato dal settore Salute e politiche sociali della segreteria della Conferenza delle Regioni. Il dossier sarà periodicamente aggiornato ed è stato pubblicato originariamente sul sito www.regioni.it, dove potete scaricare tale documentazione nella sezione Archivi Sanità

PATTO PER LA SANITÀ DIGITALE – Documento programmatico

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VIVERE DA MAMMA NON TI RENDE PROPRIETARIO DI CASA.

La sentenza che vi propongo in questo nuovo post richiama situazioni familiari che al giorno d’oggi sono sempre più frequenti. La crisi ha riportato molti giovani ultratrentenni nelle case paterne, o ha impedito che potessero lasciarla al termine degli studi. C’è chi ha chiamato questi ragazzi bamboccioni, chi, vittima di influenze anglofone, li ha apostrofati come ‘choosy’, ma, a parte la completa avulsione dal Paese reale dimostrata da chi s’è lasciato andare in questi commenti semplicistici (oltreché banalizzanti), ciò che vorrei tentare è un’analisi degli effetti giuridici che il ‘ritorno a casa’ dei figli potrebbe avere nel lungo periodo. E soprattutto delle conseguenze che sarebbe meglio evitare, nel caso in cui i choosy non siano figli unici. L’argomento di oggi è l’istituto dell’usucapione.

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di Michele De Sanctis

In tema di usucapione ventennale di beni immobili, il comportamento della madre che concede alla figlia l’uso di un appartamento non costituisce requisito valido a far decorrere il tempo utile per l’acquisto originario della proprietà.
È quanto ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione con una recente sentenza (Cass. Civ. sez. II, sent. 18 febbraio – 4 giugno 2014, n. 12571 Presidente Triola – Relatore D’Ascola). Nel caso di specie, la madre, a sua volta usufruttuaria ex lege del bene e quindi titolare del diritto di godere dell’immobile, aveva concesso a una figlia, già nuda proprietaria di una quota, l’uso dell’appartamento, continuando, però, a recarsi in visita in quella casa fino al giorno della morte e, peraltro, consentendo agli altri figli il deposito di alcuni oggetti all’interno della stessa. Ebbene, secondo la Cassazione una simile situazione era priva dei requisiti necessari perché potesse configurarsi l’impossessamento del bene da parte della figlia, che l’avrebbe poi condotta ad usucapirlo, acquistando la proprietà anche delle quote degli altri fratelli. Invero, ciò che giuridicamente si è venuto a creare è una mera detenzione benevolmente concessa dall’usufruttuaria stessa.

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La giurisprudenza, in realtà, offre molti esempi di liti tra familiari in riferimento alla proprietà di un bene immobile, quando chi lo abita ne reclama l’usucapione. Questa è solo una delle più recenti delle pronunce di Piazza Cavour in merito. Ma appunto perché il motivo del contendere è così frequente, credo opportuno circoscrivere l’istituto in parola, prima di analizzare la sentenza, al fine di agevolarne la comprensione anche a chi non ha mai sostenuto un esame di diritto privato.

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L’usucapione rappresenta una modalità di acquisto a titolo originario della proprietà o dei diritti reali di godimento (eccetto le servitù non apparenti, cioè non visibili, che non possono usucapirsi ai sensi dell’art. 1061 c.c.), in ragione del possesso dei beni reclamati, purché tale possesso non sia viziato e sia continuato per un determinato periodo di tempo (variabile dai dieci ai vent’anni a seconda delle circostanze e del tipo di bene, mobile o immobile). Usucapire vuol dire, quindi, diventare proprietari (o usufruttuari o titolari di servitù) per il semplice fatto d’essersi comportati come tali per tot numero di anni, senza che nel frattempo qualcuno abbia agito giudizialmente per contestare tale condotta (interrompendo quindi la decorrenza dei termini di usucapione). In quest’ultima circostanza, in particolare, il codice civile, all’art. 1144, specifica che “gli atti compiuti con l’altrui tolleranza non possono servire di fondamento all’acquisto del possesso”. Insomma, chi agisce in un determinato modo con il benestare del proprietario, non sta possedendo un bene in modo da usucapirlo. Ed è altresì vero che non è sempre facile provare la tolleranza (l’onere della prova grava su chi la invoca), come del resto non sempre è agevole dimostrare il possesso utile ai fini dell’usucapione. Peraltro, vista la genericità del dettato normativo sul punto, i casi come quello risolto dalla Cassazione con la sentenza n. 12751 sono sempre significativi in tal senso. Soprattutto perché forniscono agli operatori del diritto un importante strumento interpretativo.

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Nella causa che ha portato gli ermellini a pronunciare la sentenza in esame, le parti litigavano in relazione alla proprietà (ed alla divisione) di un bene immobile e ne reclamava l’acquisto per usucapione, alla fine, è rimasto deluso.
Questi i fatti. Nel 1948 il padre proprietario dell’immobile decedeva lasciando il bene in proprietà dei suoi cinque figli, ancorché gravato dall’usufrutto vedovile. Successivamente, nel ’60 una delle figlie cedeva la propria quota ad una delle sorelle. Restavano, quindi, quattro nudi proprietari e la madre usufruttuaria, che veniva a mancare nel 1968. Quest’ultima, però, come già anticipato, dal ’57 aveva concesso l’utilizzo del bene ad una figlia appena sposata, che aveva nel frattempo continuato a vivere nell’immobile in questione. Nel 1986 una degli eredi, in seguito succeduta mortis causa dalla figlia, conveniva in giudizio gli altri fratelli per la divisione del compendio. Chiedeva, altresì, che la coerede che deteneva il bene, abitando ancora nella casa paterna, venisse condannata a rendere il conto. Quest’ultima resisteva e in via riconvenzionale chiedeva l’accertamento dell’intervenuta usucapione in forza di possesso ultraventennale. Questa domanda, tuttavia, veniva respinta dal tribunale di Salerno in data 5 febbraio 2003 e con sentenza definitiva del 20 dicembre 2006, il g.o. attribuiva l’appartamento, ritenuto indivisibile, alla ricorrente, previo versamento dei conguagli di circa ventimila euro in favore di ciascuno dei fratelli o dei loro aventi causa, essendo le parti originarie decedute nelle more del procedimento.

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La pronuncia di primo grado veniva integralmente confermata il 7 settembre 2010 dalla corte d’appello salernitana, che rigettava i motivi di gravame proposti dagli eredi della sorella che abitava nell’appartamento.
In particolare, la corte d’appello rilevava che i ricorrenti non avevano fornito la prova di un possesso esclusivo della cosa, in capo alla propria madre, incompatibile col permanere del compossesso altrui, negando, inoltre, la comoda divisibilità del bene.

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Successivamente, il ricorso in Cassazione si imperniava su due punti. Con il primo motivo la parte ricorrente lamentava una violazione e una falsa applicazione degli artt. 112 c.p.c. e 1142, 2697 e 1140 c.c. e per omessa o comunque insufficiente motivazione su un punto decisivo. La censura concerneva, in particolare, la pretesa usucapione dell’intero compendio immobiliare da parte della madre dei ricorrenti. Ma per i giudici di Piazza Cavour, la corte d’appello con esauriente e congrua motivazione aveva già esaminato e respinto gli argomenti che il ricorso riproponeva in Cassazione. I giudici d’appello avevano, infatti, escluso che la dante causa dei ricorrenti avesse posseduto in via esclusiva l’immobile a partire dal 1957 e hanno indicato alcuni elementi, quali le visite assidue che la usufruttuaria faceva nell’immobile e il deposito in esso di beni per desumere che non sussistesse quella vasta signoria sulla cosa che contraddistingue, invece, il possesso ad usucapionem. Per scalfire questa tesi il ricorso muoveva dal presupposto che l’usufruttuaria (ossia la nonna dei ricorrenti, cioè la vedova deceduta nel ’68) aveva dismesso il possesso del bene perché vi aveva “insediato” (questo il verbo usato) la figlia e la sua famiglia, sicché le circostanze valorizzate dalla Corte di appello costituivano invece “episodici casi di affettuosa ospitalità”. La censura, tuttavia, è manifestamente infondata.
Proprio la circostanza che ad “insediare” la figlia nell’uso dell’immobile fosse stata la madre, che continuava a recarvisi, dimostra che l’inizio della fase di uso del bene da parte della figlia non fosse espressione di impossessamento, ma di una detenzione benevolmente concessa dall’usufruttuario, titolare del diritto di godere della casa, secondo un costume familiare diffuso nel nostro Paese (si veda a tal riguardo anche Cass. S.U. n. 13603/04 in tema di comodato di casa coniugale). Per dimostrare di aver usucapito, la dante causa dei ricorrenti avrebbe dovuto, piuttosto, dimostrare ben maggiori elementi di valutazione comprovanti un possesso pieno, esclusivo e manifestamente contrastante con i diritti degli altri eredi e dell’usufruttuaria, rispetto a quelli già provati e ritenuti dai ricorrenti malvalutati (pagamento di imposte ed oneri per pratiche amministrative).

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Anche il secondo motivo addotto, nondimeno, è infondato. Esso concerneva la mancata assegnazione di una porzione dell’immobile oggetto di divisione. La parte ricorrente sosteneva che il ctu avesse ammesso la divisibilità dell’immobile in due appartamenti e che essa avesse domandato in appello l’assegnazione del più piccolo in misura tale da corrispondere, secondo la consulenza, al valore dei due quinti del compendio. Ma la corte di appello aveva rilevato che proprio perché gli altri eredi erano proprietari di un quinto, siffatta quota non giustificasse l’attribuzione di un appartamento di entità pari a due quinti del complesso. La Corte aveva poi sottolineato la non comoda divisibilità del bene anche secondo l’ipotesi “ventilata” dal consulente “in via straordinaria”, rimarcando l’alterazione invece strutturale dell’immobile, che rendeva più logica l’attribuzione totale al comunista avente la maggior quota. Questa decisione è stata ritenuta razionale ed incensurabile in sede di legittimità. Perché – è sempre bene ribadirlo – quello della Cassazione è un giudizio di legittimità, non un terzo grado di giudizio. Va, peraltro, rilevato che i due ricorrenti non erano portatori dell’intera quota del de cuius, non essendo gli unici eredi della figlia che dopo il matrimonio aveva detenuto con la sua famiglia l’appartamento di cui la madre era usufruttuaria: essi erano, in realtà, proprietari solo di un decimo dell’appartamento. Tra l’altro, dei quattro eredi e ricorrenti in appello, due avevano omesso di impugnare la decisione del gravame, facendovi acquiescenza.

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La valutazione resa dall’appello, già congrua rispetto alla titolarità di una quota del 20% di un appartamento, circostanza che di regola non giustifica la suddivisione di un immobile in due parti, quando, come nel caso di specie, l’eredità sia da dividere in quattro parti (i quattro gruppi di discendenti della comune genitrice, residuati dopo la cessione della quinta quota) e vi sia un condividente titolare di quota maggiore, appare ancor più corretta ed ineccepibile se si considera tale circostanza (la titolarità di un decimo soltanto del bene), opportunamente sottolineata in sede di controricorso. Per tutte queste ragioni, il ricorso in Cassazione è stato rigettato ed i ricorrenti condannati alla refusione delle spese di lite, liquidate in dispositivo, in relazione al valore della controversia.

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Il caso è abbastanza complesso: nuda (com)proprietà dei figli, cessione di una quota da parte di uno di questi, usufrutto della madre che dispone del suo titolo lasciando che uno dei suoi cinque figli lo detenga finché lo stesso non si estingua (cioè fino all’avvenuto decesso), successiva lite sulla divisibilità dell’immobile in regime di comunione, controdomanda della detentrice per una sua pretesa usucapione, successione mortis causa delle parti in lite ed ulteriore frammentazione delle quote proprietarie, infine passaggio in giudicato della sentenza dopo molti anni dall’inizio dell’iter. Visti i tempi – e suppongo i costi – io avrei optato per la locazione di un bilocale a Rocca Cannuccia Scalo. Perdonatemi l’ironia, ma considerate pure che nelle more del procedimento le originarie parti in causa sono venute a mancare e che la lite è stata ‘ereditata’ dai loro figli. E non è affatto un caso isolato, quanto una frequente ricorrenza nella giustizia civile italiana. Mi domando se residuasse davvero una qualche convenienza nell’agire in capo a chi era titolare solo di un decimo dell’immobile. Ma il tema del post è l’usucapione e la sua difficile dimostrazione in giudizio, non la facilità estrema con cui noi italiani facciamo ricorso al giudice, lamentando, poi, l’estrema lungaggine dei processi, come se la responsabilità fosse ascrivibile solo alla magistratura. E poiché, per quanto qui interessa, sono motivazioni personali che esulano dal ‘giuridicamente rilevante’, la mia indagine deve fermarsi qui, sperando di avervi lasciato qualche utile spunto di riflessione.

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NUOVE COSTRUZIONI E INFILTRAZIONI: POTETE CHIEDERE IL RISARCIMENTO PER DIFETTO DI COSTRUZIONE.

Hai comprato casa e il tuo nuovo appartamento fa già acqua da tutte le parti? È giusto pretendere un risarcimento dal venditore. Investire su di un immobile è di per sé un grosso impegno. Non è giusto pagare per buono qualcosa che, invece, fa difetto, non lo è soprattutto se ce lo vendono ‘nuovo’. Di fronte a eventuali vizi bisogna, quindi, agire. Prima di tutto per tutelare i nostri risparmi. Sul punto è di recente intervenuto il Tribunale di Genova. Esaminiamo insieme il caso e vediamo quali sono i nostri diritti e come farli valere.

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di Michele De Sanctis

Ai sensi dell’art. 1669 c.c. la garanzia di buona esecuzione dell’opera deve essere esercitata entro il termine di un anno che decorre dal giorno in cui il committente ha raggiunto un apprezzabile grado di conoscenza oggettiva della gravità dei difetti di costruzione. È in base a questo principio che il Tribunale di Genova, con sentenza n. 537 del 13 febbraio 2014, ha accolto la domanda risarcitoria della proprietaria di un immobile danneggiato da infiltrazioni, in quanto tempestivamente presentata dalla stessa entro un anno dall’effettiva conoscenza dei difetti e della loro derivazione causale dall’imperfetta esecuzione dell’opera.

Questi i fatti. La proprietaria dell’immobile citava in giudizio la società venditrice chiedendo il risarcimento dei danni causati da infiltrazioni presenti nell’immobile e riconducibili a difetto di costruzione. La società venditrice eccepiva allora che l’attrice, avendo acquistato l’immobile nel 2005, aveva denunciato le infiltrazioni in questione solo nel 2011. Secondo quanto sostenuto dalla società convenuta, infatti, tali vizi strutturali erano già stati riscontrati durante un precedente accertamento tecnico preventivo promosso dai proprietari di altre unità immobiliari adiacenti e, pertanto, erano già conosciuti dall’attrice molto prima della denuncia. Per tale ordine di ragioni, la convenuta chiedeva il rigetto della domanda, appunto perché avanzata oltre il termine annuale di cui all’art. 1669 c.c.
ai fini della garanzia di buona esecuzione dell’opera. L’attrice, in verità, chiedeva, altresì, il risarcimento per danni alla salute, ma il G.O. ha rigettato, perché non fondata, la domanda in questa sua parte, non ravvedendo alcun nesso causale tra la patologia sofferta, peraltro già in essere dal 1988 come rilevabile dai referti presentati, e le caratteristiche tecniche costruttive dell’abitazione viziata in cui risiede dal 2005.

Invece, sotto il profilo della responsabilità per il nocumento economico patito dall’attrice, l’articolo 1669 c.c., rubricato ‘Rovina e difetti di cose immobili’ configura una speciale forma di responsabilità extracontrattuale disponendo che, in caso di edifici o di altre cose immobili destinate per la loro natura a lunga durata, se, nel corso di dieci anni dal compimento, l’opera, per vizio del suolo o per difetto della costruzione, rovina in tutto o in parte, ovvero presenta evidente pericolo di rovina o gravi difetti, l’appaltatore è responsabile nei confronti del committente e dei suoi aventi causa, purché sia fatta la denunzia entro un anno dalla scoperta. Ribadisco che deve trattarsi di immobili destinati a lunga durata per loro natura, il che significa che si deve avere riguardo solo al tipo ed al modo della costruzione obiettivamente considerata e non anche alla destinazione che le parti vi abbiano dato. Mentre, quanto all’evidente pericolo di rovina, di cui alla norma in parola, deve ritenersi tale non solo la situazione di pericolo apparente, e quindi di immediata percezione, ma anche quella che pur non essendo rilevabile prima facie sia comunque effettiva.

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Oggetto della tutela offerta dal Legislatore civile sono, pertanto, i gravi difetti di cui all’art. 1669 c.c. che l’opera presenti nel tempo: si noti che gli stessi ricorrono anche in carenza di fenomeni tali da influire sulla stabilità della costruzione e consistono in qualsiasi alterazione, conseguente ad un’insoddisfacente realizzazione dell’opera, che, pur non riguardando le sue parti essenziali, ne compromettono comunque la conservazione, limitandone sensibilmente il godimento o diminuendone in maniera rilevante il valore. Sul punto è, peraltro, intervenuta anche la Suprema Corte di Cassazione che ha considerato rientranti nella nozione di gravi difetti anche le infiltrazioni d’acqua determinate da carenze d’impermeabilizzazione e da inidonea realizzazione degli infissi (cfr. Cass. civ. 11/06/2013, n. 14650). La responsabilità di cui trattasi nasce dal puro e semplice fatto di aver costruito l’immobile. Da tale qualificazione consegue che la responsabilità può essere fatta valere, non solo dal committente e dai suoi aventi causa, ma da qualsiasi terzo danneggiato dalla rovina.

Tuttavia, siffatta tutela incontra un limite temporale: l’azione di garanzia, che per consolidata giurisprudenza è esercitabile anche nei confronti del costruttore-venditore, si prescrive in un anno dalla denuncia, che, a sua volta, deve essere promossa entro il termine di un anno dalla scoperta del vizio, pena la decadenza dal diritto. Di qui l’eccezione avanzata dalla società convenuta nel caso di specie. E proprio in virtù di quanto eccepito dalla convenuta, pertanto, la sentenza in commento si sofferma sull’esatta individuazione del termine entro cui va azionata la garanzia in esame. Ai fini della denuncia dei vizi, è, infatti, necessaria l’oggettiva conoscenza del vizio. Il Tribunale di Genova ha, quindi, rilevato che, poiché la denuncia dei vizi o del pericolo di rovina dell’opera costituisce un presupposto dell’azione, il soggetto interessato ha “l’onere di fornire la prova di avere operato la denunzia entro l’anno dalla scoperta”. Suddetto termine, inoltre, “decorre dal giorno in cui il committente consegua un apprezzabile grado di conoscenza oggettiva della gravità dei difetti e della loro derivazione causale dall’imperfetta esecuzione dell’opera, non essendo sufficienti, viceversa, manifestazioni di scarsa rilevanza e semplici sospetti” (tra le altre, Cass. civ. 23 gennaio 2008, n. 1463).

Ora, poiché nel caso in esame è stato accertato che l’attrice abbia raggiunto la piena conoscenza delle cause delle infiltrazioni soltanto a novembre 2011 e dal momento che la citazione è intervenuta a febbraio 2012, l’azione deve ritenersi esercitata tempestivamente. In particolare, per il G.O. il precedente accertamento tecnico, cui aveva fatto riferimento la convenuta, risulta ininfluente, poiché l’attrice, invero, non aveva né promosso né preso parte a quel procedimento.
Per questi motivi, viene accolta la domanda risarcitoria dei danni causati dalle infiltrazioni denunciate, che il giudice liquida in 6 mila euro circa e si condanna, altresì, la parte soccombente al pagamento delle spese di lite e di CTU.

Clicca QUI per leggere il testo integrale della sentenza.

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GOOD COUNTRY INDEX: IL PAESE MIGLIORE DEL MONDO, A SORPRESA, È L’IRLANDA.

È l’Irlanda il Paese migliore del mondo. A stabilirne il primato è la classifica del primo Good Country Index, realizzato da un team di esperti, che ha raccolto i dati dell’Onu, della Banca Mondiale e di altre organizzazioni internazionali. Sebbene soltanto ieri la Commissione Europea abbia rinnovato al Governo irlandese l’appello a rispettare le misure di austerità e a rafforzare il consolidamento fiscale nonostante i segni di ripresa economica (Pil in crescita dell’1%), oggi la nazione, che – lo ricordiamo – insieme a Italia, Spagna, Grecia e Portogallo, era annoverata tra i cd. PIIGS, può, finalmente, festeggiare il titolo di miglior Paese del mondo.
E noi? Saremo stati promossi o bocciati? Scopriamolo insieme…

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di Michele De Sanctis

LONDRA – Sono oltre 35 i parametri valutati dal Good Country Index: dalla qualità della vita alla tecnologia fino alla cultura. E l’Irlanda primeggia su tutti, in particolare per quanto riguarda prosperità ed eguaglianza, risultando il Paese che più di ogni altro è capace di offrire un maggior contributo all’umanità e al pianeta. Nella classifica generale (che vede 125 Paesi valutati) è seguita da Finlandia, Svizzera, Olanda, Nuova Zelanda, Svezia, Gran Bretagna, Norvegia, Danimarca e Belgio. In fondo alla classifica generale troviamo Iraq, Vietnam e Libia, segnati da conflitti e povertà.

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Per creare l’elenco, i ricercatori, guidati da Simon Anholt, hanno preso in considerazione la dimensione economica di ogni Paese e ne hanno quindi valutato i contributi globali a scienza e tecnologia, cultura, pace e sicurezza internazionale, ma anche per quel che interessa il clima, il rispetto del pianeta e il benessere della popolazione.
Gli esperti hanno dichiarato che l’indagine non ha l’obiettivo di esprimere giudizi morali sui diversi Paesi del mondo, quanto piuttosto quello di riconoscere l’importanza di contribuire al bene comune in una società globalizzata e di accendere un vero e proprio dibattito su quale sia lo scopo di ogni Paese.
“Tutto il mondo è connesso come mai prima d’ora, ma i Paesi agiscono ancora come se ognuno si trovasse sul proprio pianeta privato” – ha dichiarato a tal proposito Anholt – “È tempo che i Paesi inizino a considerare le conseguenze internazionali delle loro azioni; se non lo faranno, le sfide globali, come il cambiamento climatico, la povertà, la crisi economica, il terrorismo, la droga e le pandemie, potranno solo peggiorare.”

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Ma quali sono gli aspetti che hanno portato il Paese più verde (ma non più al verde) d’Europa in vetta alla classifica? L’Irlanda si è distinta principalmente per l’attenzione ai diritti, alla prosperità e all’uguaglianza. L’isola è, infatti, al settimo posto per quanto riguarda la cultura, al nono posto nel settore salute e benessere e in quarta posizione dal punto di vista dell’ordine internazionale. Le posizioni di Irlanda e Finlandia erano quasi equivalenti, ma l’Irlanda si è distinta soprattutto per il proprio contributo ai diritti umani a e al benessere dell’umanità.

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È, dunque, per il maggior contributo globale offerto alla qualità della vita sul nostro pianeta, come si accennava poco fa, che l’Irlanda supera qualsiasi altro Paese del mondo.

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Tra i Paesi in via di sviluppo, invece, il Kenya è l’unico Stato africano ad essere rientrato tra i primi 30 posti in classifica. Nell’indice generale si trova al ventiseiesimo posto. Il Kenya viene considerato un esempio da seguire, in quanto dimostra che un contributo significativo alla società non è affatto appannaggio esclusivo delle nazioni ricche.

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E l’Italia, come si sarà piazzata? Il Bel Paese ottiene il ventesimo posto nella classifica generale e batte gli Stati Uniti, che raggiungono solo il ventunesimo. Nelle singole categorie, poi, l’Italia si piazza al diciannovesimo posto per salute e benessere, al ventiduesimo per cultura e al trentottesimo per scienza e tecnologia. Scende, invece, alla posizione numero 102 per quanto concerne il contributo alla pace e alla sicurezza internazionale.

Clicca QUI per vedere tutta la classifica del Good Country Index.

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L’OFFESA A TERZI VIA SMS NON È DIFFAMAZIONE: LO DICE LA CASSAZIONE.

Se l’insulto su Facebook è diffamazione, lo stesso non può dirsi per chi ricorre ai messaggini sul cellulare per offendere qualcuno. È, infatti, escluso il reato di diffamazione, se l’offesa, diretta a terzi, è inviata tramite sms. A stabilirlo è stata la Suprema Corte di Cassazione, sez. V Penale, Sent. n. 22853 del 30 maggio 2014.

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di Michele De Sanctis

Questi i fatti. Con sentenza del 24/10/2012, il Tribunale di Catania confermava la sentenza del Giudice di Pace del 17/02/2011 del capoluogo etneo, che aveva dichiarato la convenuta in giudizio responsabile del reato di diffamazione in danno della querelante mediante sms inviato alla figlia di quest’ultima.
L’imputata, tuttavia, ricorrendo dinanzi Suprema Corte avverso la decisione dell’appello, eccepiva la violazione di legge in relazione all’art. 595 c.p., dal momento che, in mancanza di una prova che l’sms avesse destinazione di propalazione alla persona offesa o a terzi, ovvero di una prova della sua volontà in tal senso (non potendo ravvisarsi l’elemento probatorio di tale volontà nella mera circostanza che l’invio del messaggio fosse stato effettuato nel weekend, in un momento in cui la famiglia della donna offesa era riunita per il pranzo). Deduceva, d’altro canto, il legale della ricorrente che la comunicazione agli altri membri della famiglia era stata frutto dell’esclusiva iniziativa della diretta destinataria del messaggio.

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Ebbene, i Giudici di Piazza Cavour hanno ritenuto il ricorso fondato.
Secondo costante orientamento della giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. 36602/2010), infatti, in tema di delitti contro l’onore, per integrare il reato di diffamazione occorre non solo l’elemento psicologico consistente nella consapevolezza di pronunciare (o scrivere) frasi lesive della reputazione altrui, ma, altresì, la volontà che le offese denigratorie siano conosciute da più persone. Ai fini della commissione del reato di diffamazione, pertanto, è necessario che l’autore comunichi, ad una o più persone, il contenuto lesivo della reputazione altrui, con modalità tali che la notizia venga sicuramente a conoscenza di altri, evento che egli deve rappresentarsi e volere. Condotta, questa, che, per esempio, si sarebbe configurata se l’sms fosse stato inviato in una chat di gruppo, ovvero pubblicato su un social network, ecc. Invece, l’invio di un sms privato, pur contenendo un messaggio diffamatorio, non concretizza la fattispecie prevista per il reato in parola, poiché, invero, evidenzia la volontà dell’agente di non diffondere o comunicare a terzi il contenuto offensivo espresso nei confronti di un altro soggetto. Nel caso impugnato, però, il Tribunale, pur richiamando i principi giurisprudenziali di cui sopra, non ne ha poi tratto le debite conseguenze.

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Di qui la ragione che ha portato il giudizio d’appello ad ad essere cassato da Piazza Cavour. Infatti, essendo pacifico che l’sms era stato inviato ad un’unica persona (la figlia della donna offesa), il Tribunale, nel confermare la decisione del GdP, ha ritenuto “del tutto evidente”, senza, peraltro, indicarne le ragioni, il “chiaro intento” dell’imputata che il destinatario delle offese e “le altre persone presenti” ne fossero messi a conoscenza, come di fatto era avvenuto. Oltretutto, neppure il concetto di “persone presenti” risulta esplicitato nella pronuncia oggetto del ricorso, poiché non collegato alla testimonianza della figlia, evocata in sentenza solo nella parte relativa alla sintesi della vicenda processuale, ma non anche utilizzata al fine della conferma dell’affermazione di responsabilità, secondo cui il messaggio era pervenuto di sabato o domenica, nell’orario in cui tutta la famiglia era riunita per il pranzo, affinché fosse portato a conoscenza della terza persona che si intendeva offendere, la madre della destinataria del messaggio.
Diversamente, sempre per la Cassazione, l’sms denigratorio, inviato direttamente al soggetto destinatario dell’offesa, avrebbe configurato il diverso reato di ingiuria.

Per questi motivi, la sentenza pronunciata al termine del gravame è meritevole di annullamento con rinvio per nuovo esame al giudice a quo (il Tribunale di Catania) in diversa composizione.

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RIFORME: FISCO PIÙ SEMPLICE E LEGGERO.

Nella riforma della Pubblica Amministrazione recentemente presentata è incluso anche uno specifico pacchetto di semplificazioni in materia fiscale, per il quale Consiglio dei Ministri ha, peraltro, già avviato un primo esame ai fini dell’attuazione alla delega fiscale, con l’obiettivo di introdurre la dichiarazione dei redditi precompilata. A tal proposito, il premier Matteo Renzi ha dichiarato: “Abbiamo fatto un primo esame. Il vice ministro Morando lo porterà in Parlamento e la prossima settimana lo approviamo definitivamente.”

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Dunque, la novità è che per il 730 si prevede l’invio di un modulo precompilato direttamente a casa del contribuente. La dichiarazione precompilata dovrebbe in un primo momento essere operativa solo per dipendenti pubblici e pensionati, vale a dire circa 18 milioni su 41 milioni di contribuenti (15 milioni di pensionati e 3 milioni di dipendenti pubblici). Successivamente, la riforma coinvolgerà tutti i lavoratori dipendenti, rendendo la dichiarazione precompilata disponibile per oltre 3 contribuenti su 4. Nel modulo compariranno una serie di informazioni di cui il Fisco già dispone come quelle anagrafiche e reddituali già presenti nel CUD. Si aggiungeranno, poi, le detrazioni per familiari a carico, per lavoro dipendente e pensione.
L’Erario, inoltre, già dispone dei dati sugli immobili, e per chi è in regime di cedolare secca anche dei dati sui beni concessi in locazione e adibiti ad abitazione principale. Ne dovrebbe, quindi, risultare alleggerito il lavoro dei CAF, ai quali potrebbero però essere affidate maggiori responsabilità in termini di certificazione della correttezza.

Per i titolari di p.i. viene, invece, meno il visto di conformità per i rimborsi IVA sopra i 10.000 euro. La norma attuale prevede, invece, l’obbligo di ottenere da un CAF imprese un pre-controllo formale sulla documentazione prima di poter ottenere il via libera al rimborso.

Sale, inoltre, il tetto sotto cui i contribuenti non devono presentare la dichiarazione di successione, qualora gli eredi siano il coniuge e i parenti in linea retta. L’importo, finora fissato in circa 25.800 euro (la norma, entrata in vigore con la vecchia valuta, parla di 50 milioni di lire) adesso passa a 75.000 euro. Semplificazioni ulteriori anche per ciò che concerne la documentazione da presentare, che potrà essere sostituita da un’autodichiarazione.

Le nuove norme fanno venir meno, infine, la responsabilità solidale dell’appaltatore nei casi di elusione contributiva ai danni del personale dipendente. Fino ad oggi, infatti, era previsto che l’appaltatore principale fosse responsabile in solido con il subappaltatore in caso di mancati versamenti da parte di quest’ultimo delle trattenute sui salari dei dipendenti per contributi previdenziali, oltreché per i premi assicurativi obbligatori INAIL. Con la riforma, unico obbligato sarà il solo subappaltatore, quale datore di lavoro dei dipendenti per i quali non risultano (o non risultano interamente) versati i contributi previdenziali e i premi assicurativi.

MDS
REDAZIONE
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INPS: AGGIORNATE LE TABELLE PER IL CALCOLO DEGLI ASSEGNI AL NUCLEO FAMILIARE.

L’assegno al nucleo familiare è una prestazione di natura assistenziale, a sostegno delle famiglie dei lavoratori dipendenti e dei titolari di prestazione a carico dell’assicurazione generale obbligatoria (AGO) dell’Inps, che abbiano un reddito complessivo al di sotto delle fasce stabilite ogni anno per legge. La sussistenza del diritto e la misura dell’importo dell’assegno dipendono dal numero dei componenti il nucleo familiare, dal reddito complessivo del nucleo familiare e dalla tipologia di nucleo. L’assegno mensile spettante, percepito generalmente per il tramite del datore di lavoro, va individuato nelle apposite tabelle ANF.

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Con circolare numero 76 dell’11 giugno 2014, l’INPS ha reso note le nuove tabelle per il calcolo degli assegni familiari relative al periodo 01/07/2014 – 30/06/2015.

La legge n. 153/88 stabilisce che i livelli di reddito familiare da tener conto, per il calcolo dell’assegno per il nucleo familiare spettante, sono rivalutati ogni anno, con decorrenza dal 1° luglio di ciascun anno, in misura pari alla variazione dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati, calcolato dall’ISTAT.

Per il 2014, la variazione percentuale dell’indice dei prezzi al consumo tra l’anno 2012 e l’anno 2013, secondo i calcoli dell’Istat è risultata pari al 1,1%.

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Alla circolare vengono allegate delle tabelle contenenti i nuovi livelli reddituali, nonché i corrispondenti importi mensili della prestazione, da applicare dal 1° luglio 2014 al 30 giugno 2015, alle diverse tipologie di nuclei familiari.

Clicca qui per conoscere la tabella pubblicata dall’INPS relativa al 2014-2015. Per consultare la tabella è necessario per prima cosa calcolare il proprio reddito familiare, rapportarlo alla propria composizione familiare e poi procedere all’individuazione dell’importo dell’assegno per il nucleo familiare corrispondente al proprio reddito.

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L’ANF è una prestazione il cui scopo è quello di integrare il reddito familiare: viene erogata tramite i datori di lavoro, in busta paga, oppure direttamente dall’Inps in alcuni casi particolari. Per richiederlo, il lavoratore deve compilare il modulo fornito dall’INPS con i dati del proprio nucleo familiare e i redditi relativi al 2013 e consegnarlo al proprio datore di lavoro il quale provvede al calcolo dell’importo corretto in base alle informazioni inserite nel modulo e alla corresponsione dell’assegno, andando poi a recuperare l’importo direttamente dall’INPS.

Spetta a:
– Lavoratori dipendenti, anche per i periodi nei quali fruiscono di prestazioni previdenziali legate alla sospensione del rapporto di lavoro (malattia, cassa integrazione guadagni CIG o CIGS, disoccupazione, mobilità, ecc.);
– Soci delle cooperative, lavoratori assistiti per tubercolosi, lavoratori richiamati alle armi;
– Lavoratori in aspettativa per cariche pubbliche elettive e sindacali;
– Personale statale in servizio ed in quiescenza, pensionati del Fondo pensioni lavoratori dipendenti;
– Pensionati dei fondi speciali come autoferrotranvieri, Fondo Elettrici e gas, esattoriali, telefonici, personale di volo e dazieri;
– Pensionati degli Enti Pubblici territoriali e non territoriali;
– Ai caratisti imbarcati sulla nave da loro stessi armata e agli armatori e proprietari armatori imbarcati, in quanto, secondo quanto previsto dalla risoluzione n. 19 del 1998 del Ministero delle Finanze, il loro reddito derivante dall’attività è equiparato a quello di lavoro dipendente;
– Agli iscritti alla Gestione Separata dei lavoratori autonomi (collaboratori coordinati e continuativi, collaboratori con contratto a progetto, venditori porta a porta e liberi professionisti).

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L’assegno per il nucleo familiare spetta solo se la somma dei redditi da lavoro dipendente, da pensione o da altra prestazione previdenziale derivante da lavoro dipendente, relativa al nucleo familiare nel suo complesso, ammonta almeno al 70% dell’intero reddito familiare.

MDS
REDAZIONE
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SÌ DEL SENATO ALLA FIDUCIA: IL DECRETO DROGA È LEGGE.

Dopo l’ok della Camera, via libera anche da Palazzo Madama al decreto legge Lorenzin sulle droghe leggere.

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di Michele De Sanctis

Lo scorso 14 maggio, il Senato ha votato, senza modifiche al testo, la fiducia richiesta dal Governo sul d.l. 36/2014. Con 155 voti a favore, 105 contrari e nessun astenuto, il provvedimento è ora legge e in attesa di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Precedentemente il decreto era stato approvato il 30 aprile alla Camera, anche in quell’occasione dopo voto di fiducia.

Il d.l. 36/2014 sostituisce la cd. ‘legge Fini-Giovanardi’, già dichiarata incostituzionale dalla Consulta con sentenza n. 32/2014, e la ‘legge Iervolino-Vassalli’, rientrata in vigore dopo la predetta declaratoria di illegittimità costituzionale. Con il Decreto Droga tornano le tabelle che distinguono tra droghe pesanti (Tab. 1) e droghe leggere (Tab. 2), in base agli effetti prodotti dall’assunzione e il relativo regime sanzionatorio.

In particolare, nella Tabella 1, insieme agli oppiacei, alla cocaina, all’eroina e alle anfetamine, troviamo altresì la cannabis di derivazione sintetica, mentre quella di origine naturale è classificata come droga leggera e, pertanto, ricompresa nella Tabella 2. Le Tabelle delle sostanze psicotrope, inoltre, ricomprendono tutti i nuovi stupefacenti identificati e classificati a partire dal 2006, anno di entrata in vigore della ‘Fini-Giovanardi’.

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Sebbene sia la vendita che la coltivazione di tali sostanze costituiscano tuttora condotta penalmente rilevante, la sanzione, in caso di spaccio di modiche quantità, viene ridotta a quattro anni nel suo massimo edittale, escludendo di fatto la reclusione, mentre, in caso di consumo personale, la sanzione non è penale, bensì amministrativa. Tuttavia, poiché in caso di piccolo spaccio non vi è differenziazione tra droghe pesanti e leggere, la graduazione dell’entità della pena spetta al giudice che dovrà valutare, di volta in volta, qualità e quantità della sostanza. In caso di condanna, infine, sono previste anche misure alternative alla detenzione, quali l’affidamento in prova al servizio sociale.

Ulteriori disposizioni, poi, vengono dedicate ai farmaci cd. off label, ossia quei medicinali registrati ma impiegati per patologie diverse da quelle per le quali sono previsti. La norma sugli off label, contenuta nel decreto, si è resa necessaria dopo la condanna da parte dell’Antitrust di Roche e Novartis a una multa di oltre 180 milioni di euro. L’accusa era stata quella di aver creato un cartello per favorire l’uso contro la maculopatia del farmaco Lucentis, più caro, rispetto all’Avastin, che avrebbe, però, avuto gli stessi effetti curativi dell’altro. Tuttavia, mentre il primo era nato apposta per affrontare il problema oculistico in questione, per il secondo, invece, trattandosi di un medicinale oncologico, Roche non aveva mai chiesto l’estensione delle indicazioni alla patologia che porta alla cecità di molte persone, soprattutto anziane.

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La legge finora non permetteva l’utilizzo di farmaci off label, nel caso in cui ne esistessero di on label. Per questo motivo in Italia non si poteva utilizzare l’Avastin per curare la maculopatia. Con il d.l. 36/14, adesso, l’impiego di tali farmaci viene, invece, consentito, anche in presenza di un farmaco concorrente specifico, a condizione che l’efficacia del medicinale off label per la patologia non inclusa risulti comprovata a livello scientifico. La condizione è, pertanto, che l’efficacia del primo farmaco sia nota e conforme a ricerche condotte dalla comunità scientifica nazionale ed internazionale: vale a dire che devono esserci degli studi che ne provino l’efficacia per quella determinata patologia, che, pure, non rientra nelle sue indicazioni. Una volta concluso l’iter delle predette ricerche l’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) potrà avviare la procedura di autorizzazione, valutando anche le condizioni di sicurezza concernenti la relativa assunzione del farmaco off label da parte dell’utenza finale. Soltanto nel caso in cui l’istruttoria dell’AIFA dovesse avere esito positivo, il prodotto off label potrà allora essere usato e dispensato, peraltro, dal Servizio Sanitario Nazionale.

Vai al testo del Decreto Droga d.l. 36/2014
Vedi anche il Testo Unico Stupefacenti DPR 309/90 (aggiornato alle modifiche introdotte dal d.l. 36/2014)

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L’UNIVERSITÀ CHE PARLA ALLE AULE VUOTE.

In Italia è crollo dei giovani laureati. Persi in un anno 34.000 neo dottori. E il trend per il futuro è in peggioramento.

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di Michele De Sanctis

Crolla il numero dei laureati: il bilancio vede quasi 18mila laureati triennali in meno – il 10 % – e circa 34mila laureati complessivi in meno, cioè l’11,5 % in un solo anno. A diffondere questi dati è il Cineca, il consorzio di università italiane che offre supporto alle attività della comunità scientifica tramite il cd. supercalcolo, realizza sistemi gestionali per le amministrazioni universitarie e il MIUR e, inoltre, progetta e sviluppa sistemi informativi per imprese, sanità e P.A. .

Il calo riguarda soprattutto le donne e l’area più colpita è quella sanitaria, medicina compresa, che accusa un crollo del 16 % sulle lauree brevi e del 13 % sul totale. L’area scientifica, invece, è quella che risente in misura minore di questa flessione: meno 8 %. Oltre alla discrepanza tra settori di studio, come appena accennato, si è resa evidente anche una certa differenza di genere: quasi 12mila laureati triennali in meno sui 18mila totali sono, infatti, donne. Ciò denoterebbe una propensione maggiore da parte del sesso maschile a voler conseguire il tanto agognato titolo di studio, ma è, altresì, conseguenza delle difficoltà che le donne, soprattutto nel meridione, incontrano nel momento in cui si approcciano al mercato del lavoro. L’Italia perde continuamente terreno rispetto agli altri Paesi europei, superata perfino da Romania, Repubblica Ceca, Slovacchia e Portogallo. Con il suo 22,4 % di giovani laureati, l’Italia è in coda alla classifica delle 28 nazioni dell’Unione Europea. Ancora più allarmante allo stato attuale è, poi, il distacco con la media del vecchio continente che è al suo massimo storico dal 2002, quando ci separavano solo 10,4 punti, a fronte dei 14 del 2012/2013.

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Il nostro Paese, così, rischia di perdere terreno rispetto ai partner europei per quota di 30/34enni laureati, obiettivo principale della strategia Education and Training 2020, che mira a trasformare l’economia europea nella più competitiva e dinamica del mondo, poiché basata sulla conoscenza, e in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e, contestualmente, una maggiore coesione sociale. Come ho già scritto lo scorso 15 febbraio, ET 2020 è obiettivo irrinunciabile, vista l’emergenza rappresentata dalle attuali dinamiche del mercato del lavoro.

Se analizziamo i dati dei nostri partner, per esempio, scopriamo che in Francia la percentuale di 30/34enni in possesso della laurea è pari al 44 %, cioè oltre 20 punti in più rispetto a noi. In Germania si attestano intorno al 33,1 %, oltre un punto in più rispetto all’anno precedente. L’Italia procede, invece, a rilento: appena 0,7 punti in più in un anno. Mentre nel Regno Unito si viaggia sull’invidiabile quota del 47,1 %.

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E in futuro, visto il crollo degli immatricolati degli ultimi anni, il solco con gli altri Stati europei potrebbe diventare addirittura incolmabile. Gli studenti, ormai da tempo, chiedono di cancellare il numero chiuso in ingresso e di mettere in cantiere interventi concreti sul fronte del diritto allo studio. Il nostro Paese, infatti, è stato penalizzato dalle pessime politiche in materia di istruzione e formazione degli ultimi vent’anni, dalla famigerata scuola ‘delle tre i’ col ministro Moratti e il premier Berlusconi fino alla disastrosa riforma Gelmini, la quale, con la sua teoria sul tunnel di neutrini che partiva dal Gran Sasso per arrivare a Ginevra, ha solo rappresentato la scuola dell’unica ‘i’ possibile all’epoca del ‘bunga bunga’, quella dell’ignoranza. La crisi, poi, ha introdotto un concetto perverso, veicolato dal peggior populismo di sempre, che si fa strada tra i più disperati di noi, tra chi ha rinunciato a credere in un futuro migliore: quello che la laurea non serva a nulla perché costa soldi e non porta pane a casa. Un concetto che al nord, quando la Lega spopolava, aveva già attecchito qualche anno fa. Lavorare e guadagnare subito. Efficace, nel breve periodo, ma fondamentalmente sbagliato. Lavorare senza aver studiato, senza quindi un particolare tipo di specializzazione, ha, infatti, reso vulnerabile un’intera classe di lavoratori, manodopera non qualificata, che con l’arrivo della crisi è rimasta priva di lavoro e per lo più incapace di ‘riciclarsi’.

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A dimostrazione di quanto affermo, ci sono i dati diffusi da AlmaLaurea lo scorso 10 marzo, che evidenziano come ad essere più colpiti, in questi tempi di recessione, siano proprio i giovani sprovvisti di titoli accademici: tra il 2007 e il 2013 il differenziale tra tasso di disoccupazione dei neolaureati e neodiplomati è passato dal 2,6 % all’11,9. La laurea, quindi, anche se destinata a ‘rendere’ nel medio periodo, piuttosto che nel breve, è ancora un importante strumento nella ricerca di un lavoro.

C’è chi è convinto che con i libri non si mangia, la gente ha fame, si dice. Vero, ma non leggere e non studiare, diversamente, neppure aiuta a trovare lavoro prima. Se non Italia all’estero: sono stati circa 68.000 gli italiani che nel 2012 si sono trasferiti fuori dai confini del belpaese, in posti dove, peraltro, i lavori migliori non sono certo destinati agli individui meno qualificati.

Non si possono trascurare questi dati così preoccupanti. L’istruzione d’ogni ordine e grado è una priorità. Sempre. E poi è anche una questione di dignità personale. Qualsiasi sacrificio vale la pena per l’istruzione. Un solo euro dedicato alla formazione vale più di un lingotto d’oro ed è l’investimento migliore che si possa fare. Vale per lo Stato come per i cittadini.

La lettura rende l’uomo completo, diceva Bacon. La capacità di ragionare con la propria testa, di avere gli strumenti per farlo non ha davvero prezzo e un Paese che rinuncia alla propria conoscenza è un Paese che ha deciso di morire.

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