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Fiscal compact: la paura (infondata) dei 50 miliardi.

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dal Blog di Stefano Feltri su Il Fatto Quotidiano – Blog. Post del 9 aprile 2014

Possiamo mai tagliare 50 miliardi all’anno per un ventennio?”, si chiedeva Beppe Grillo nell’intervista al Fatto di sabato scorso. Risposta: no, perché non è sostenibile e no, perché non è questo che impongono i vincoli di bilancio europei, nonostante ormai si sia affermata l’idea che Fiscal Compact e Six Pack impongano manovre gigantesche ogni anno. Non è così, come spiega bene Franco Mostacci, ricercatore dell’Istat, sul suo sito.

Il cosiddetto Six Pack (regolamenti europei) impone di ridurre di un ventesimo all’anno la parte di debito pubblico che eccede il 60 per cento del Pil. Noi abbiamo il 132 per cento circa e quindi, con un conto a spanne, dovremmo ridurre il debito in valore assoluto di 50 miliardi all’anno. Ma la regola – combinata con il vincolo al rispetto del 3 per cento del deficit/Pil – funziona in un altro modo. L’Italia viene considerata in pari se il debito si sarà ridotto al giusto ritmo tra 2012 e 2014, oppure se lo farà nei due anni successivi oppure ancora se si sarà ridotto del ventesimo tra 2012 e 2014 considerato sia il Pil che il debito corretti per gli effetti della recessione.

Stando così le cose, l’Italia sarà a posto senza bisogno di alcuna manovra se si rispettano i numeri che hanno stimato Istat e Bankitalia: una crescita reale del Pil dello 0,6 nel 2014 e dell’1,2 per cento nel 2015 sarebbe sufficiente, tenendo ferme le altre variabili (purché non salga troppo il debito pubblico, per esempio per pagare gli arretrati della Pubblica amministrazione). È più stringente l’Obiettivo di medio termine (MTO) che riguarda l’indebitamento strutturale, cioè i conti pubblici al netto degli effetti del ciclo economico e delle misure una tantum. Si considera la distanza tra il Pil potenziale (quanto crescerebbe l’economia se corresse senza i freni della crisi e senza stimolare l’inflazione) e il Pil che si registra davvero. Una volta calcolato l’output gap, cioè quanto il Pil è frenato da dinamiche esterne che non dipendono dalle politiche adottate, si calcola il saldo di bilancio corretto per il ciclo, considerando l’elasticità delle entrate alle variazioni di Pil (per ogni 100 euro di Pil in meno, quanti sono gli euro che mancano al Tesoro?). Poi si tolgono le misure una tantum. Et voilà il saldo di bilancio strutturale. La correzione deve essere di almeno 0,5 punti di Pil all’anno, per ottenerla servono tagli duraturi di circa 4-5 miliardi all’anno.

Morale: incrociando le dita, se le previsioni di crescita vengono rispettate, se il debito non sale troppo e se non arriva la deflazione, la gabbia del rigore europeo ci costa circa 5 miliardi all’anno. Che non sono pochi, ma sempre meglio di 50.

Fonte: I blog de Il Fatto Quotidiano

Ecco come funziona il cervellone che protegge l’euro (e perché al Sud viene imposta austerity anche in fasi recessive).

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di Vito Lops, da Il Sole 24 Ore del 16 aprile 2014

A fine maggio si terranno le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo.Il dibattito politico ed economico si concentra su maggioranze, coalizioni, pro-euro e anti-euro. Delle tecnicalità, quelle che però spesso incidono più di qualsiasi altro aspetto sul futuro dei cittadini, si parla poco.
Ma è bene soffermarvicisi. E quando parliamo di tecnicalità nell’area euro ci riferiamo in particolare al funzionamento del sistema Target2. Alzi la mano chi sa di cosa stiamo parlando. A voi tutti, sinceri che le mani non le avete alzate, è rivolto questo articolo.

Il Target 2 è il sistema di compensazione dei pagamenti tra le banche commerciali e le rispettive banche centrali dei Paesi dell’Eurozona (vi aderiscono anche Danimarca, Bulgaria, Polonia, Lituania e Romania). Con la supervisione finale della Banca centrale europea. E’ stato introdotto nel novembre del 2007. Prima c’era il sistema Target, più altre stanze di compensazione (clearing house). Da fine 2007 c’è solo il Target 2, dove Target sta per Trans-European Automated Real-time Gross settlement Express Transfer system.
Ogni pagamento, dall’acquisto di un frigorifero in un centro commerciale all’ordine di una maschera da sub dalla Grecia, passa attraverso questo cervellone elettronico. Una piramide, alla base della quale c’è la Bce, immediatamente sotto ci sono le banche centrali nazionali (Banca d’Italia, Bundesbank, Banco d’Espana, ecc.). E poi nel terzo gradino ci sono le banche commerciali.

Per entrare nel cuore di questo cervellone bisogna però conoscere un po’ di come viene creata oggi la moneta a livello bancario. Ci sono due tipi di moneta. La prima è creata dalle banche centrali, la seconda è creata dalle banche commerciali.
La prima moneta è creata dalle banche centrali attraverso la semplice immissione di un impulso elettronico su un computer. Si tratta di moneta che non può circolare nell’economia reale ma viene utilizzata in un conto bancario che le banche commerciali devono detenere presso le banche centrali nazionali (dove sono obbligate a tenere delle riserve un apposito “conto riserve”). Anche le banche commerciali emettono moneta attraverso impulsi elettronici e lo fanno nel momento in cui concedono prestiti ai clienti. Ma è importante sapere che nel sistema Target 2 circola solo la moneta delle banche centrali, quella delle riserve bancarie, che serve per i pagamenti interbancari.
Nel “conto corrente riserve” presso la banca centrale deve essere presente una riserva obbligatoria (in % dei depositi o delle obbligazioni emesse dalla banca, viene stabilita dalla Bce come strumento di politica monetaria, viene aumentata quando intende sottrarre liquidità dal sistema per drenare la crescita, o aumentata per ottenere un effetto opposto).

Oltre alla riserva obbligatoria una banca può depositare in questo “conto riserve” presso la banca centrale anche riserve libere, per agevolare le operazioni di pagamenti con altre banche. Di giorno può utilizzare tutte le riserve ma la sera almeno la riserva obbligatoria deve rientrare. La riserva obbligatoria è remunerata al tasso refi, l’eccesso di riserva non viene remunerato.
Prima di procedere dobbiamo imparare questa importante distinzione. I depositi per le banche rappresentano una passività (un debito) mentre i prestiti rappresentano un’attività (un credito). Questo punto è fondamentale per capire il funzionamento del Target 2 e molte scelte politiche che vengono oggi adottate al netto di frasi e comportamenti di facciata da parte di alcuni politici europei.
Cosa succede se un italiano acquista in un centro commerciale un frigorifero venduto da una società tedesca? L’italiano ha il conto corrente presso la banca commerciale A, il tedesco presso la banca commerciale B. Poniamo che il frigorifero costi 1.000 euro. A livello interbancario (e di saldi Target 2) accade questo. La banca commerciale A elimina dal saldo del conto corrente del cliente italiano 1.000 euro ed effettua un bonifico presso la banca commerciale B tedesca che, di conseguenza, aumenta i depositi del cliente (la società che vende frigoriferi) per 1.000 euro.

L’operazione però passa anche attraverso il Target 2 e quindi coinvolge anche la Banca d’Italia, la Bundesbank e la Banca centrale europea e i conti dove sono depositate le riserve obbligatorie. In che modo? Il sistema Target 2 manda un segnale alla Banca d’Italia di “distruggere” (elettronicamente) 1.000 euro di riserve detenute nel “conto riserve” della banca commerciale A (dopodiché la Banca commerciale A ha meno riserve per l’equivalente di 1.000 euro nel conto che ha presso la Banca d’Italia). Allo stesso tempo il sistema Target 2 invia anche un segnale alla Bundesbank dicendo di accreditare 1.000 euro nel “conto riserve” che la Banca commerciale B ha presso la Bundesbank.
Alla fine di questo giro emerge che la banca commerciale B tedesca ha incrementato le riserve nel conto della Bundesbank per 1.000 euro e, contestualmente, la banca commerciale B italiana “vanta” meno riserve per 1.000 euro presso la Banca d’Italia. Tutto compensato, quindi, come una stanza di compensazione funzionante vuole.
Vi ricordate però cosa rappresentano i depositi per una banca? Sono una passività. Quindi a conti fatti la vendita del frigorifero avrà prodotto una passività sul conto riserve della banca commerciale B tedesca presso la Bundesbank mentre avrà liberato la banca commerciale A italiana della passività che aveva presso il conto riserve di Banca d’Italia.
Vi ricordate che i depositi detenuti dalle banche commerciali presso il conto della Banca centrale nazionale sono rappresentati da moneta di banca centrale che non può essere utilizzata nell’economia reale? Bene, questo è un passaggio importante perché questi 1.000 euro di depositi in più sul conto presso la Bundesbank, la banca commerciale B tedesca potrà utilizzarli solo per investire in titoli o per estendere credito ai propri clienti (maggiori sono le riserve più crediti si possono fare perché i crediti sono proporzioni alla riserve secondo il moltiplicatore dei depositi).

Quindi, quando un cittadino compra un frigorifero prodotto da una società straniera si crea un meccanismo per cui ballano le riserve nei “conti riserve” delle banche commerciali presso le banche centrali nazionali, sotto il coordinamento del sistema di compensazione Target 2. A livello bancario, è come se la banca commerciale B tedesca (e di conseguenza il sistema finanziario della Germania) accumulasse un credito nei confronti della banca commerciale A italiana (e di conseguenza sul sistema finanziario italiano) per aver venduto un bene fisico (il frigorifero) che è passato dalla Germania all’Italia. Ne consegue che quando un Paese dell’area è in deficit nella bilancia dei pagamenti (è in debito con l’estero) il meccanismo Target 2 impone automaticamente che questo deficit sia finanziato dal Paese creditore del Target 2. Oppure impone un intervento a sostegno da parte della Banca centrale europea (quello che è stato fatto dalla Bce a partire dal 2010). Perché se il banco salta il creditore resta con il cerino accesso in mano.

Si crea quindi uno squilibrio nei sistemi Target 2 che può essere compensato in due modi:
1) l’Italia vende un bene di pari valore alla Germania creando lo stesso meccanismo al contrario e azzerando i saldi Target 2 tra il sistema finanziario tedesco e quello italiano;
2) la Germania utilizza il surplus di riserve per acquistare titoli italiani
3) interviene la Banca centrale europea erogando liquidità aggiuntiva a favore dell’Italia
Quello che si è verificato fino al 2008 è stata proprio l’opzione numero due. I saldi risultavano in equilibrio, ma in realtà dietro c’era un forte squilibrio perché in buona sostanza la Germania vendeva prodotti al Sud Europa e compensava la posizione creditoria nel sistema Target 2 acquistando titoli di Stato del Sud Europa (Grecia, Italia, ecc.). Il credito Target 2 della Germania determinato dalla vendita del bene fisico veniva compensato dal debito Target 2 determinato dall’acquisto di titoli del Sud Europa.
Dopo lo scoppio della bolla dei mutui subprime il flusso degli acquisti si è interrotto, anzi è stato ancor più aggravato dalle vendite (ricordate quando Deutsche Bank ha venduto 8 miliardi in titoli di Stato italiani in pochissimo tempo?). Questo ha fatto esplodere i saldi Target 2 facendo venire a galla gli squilibri dell’Eurozona con un Paese (la Germania) che vantava crediti superiori a 700 miliardi rispetto al debito dei Paesi del Sud Europa (vicinissimo a quella cifra) speculare.

Ne consegue che l’esistenza stessa dell’Eurozona si fonda oggi su questo sistema di pagamenti attraverso cui oggi transita un controvalore giornaliero di circa 2mila miliardi di euro e che, tecnicamente, non prevede limiti. In caso di crollo del sistema Target 2 – in sostanza se la Germania interrompesse tramite il meccanismo delle riserve Target 2 – di finanziare il deficit dei Paesi del Sud Europa anche per un solo giorno, rischierebbe di crollare l’intero sistema e l’euro stesso.
A patto che non subentri la Bce (come ha fatto) con liquidità che rende meno brusca la correzione delle partite correnti dei Paesi in deficit.
Va anche detto – spiega un banchiere che preferisce restare anonimo – che il meccanismo di garanzia dei crediti vantati dal Nord Europa verso il Sud Europa ha come alter ego il meccanismo del collaterale, ossia garanzie tramite titoli governativi. Per essere più precisi più che di acquisti in senso assoluto si tratterebbe di acquisti repo (repurchase agreement) ossia pronti contro termine, titoli presi in garanzia fin a quando è in essere il relativo credito.

Come si correggono questi squilibri?
1) I Paesi del Sud Europa in deficit passano da una situazione di deficit a una di surplus di bilancia dei pagamenti
2) I Paesi del Sud Europa acquistano Bund tedeschi
La strada dell’austerità e del rigore che è stata finora praticamente imposta (pur in una fase di recessione economica) è quella che è stata praticata (punto 1). Non a caso i Paesi del Sud Europa, pur sperimentando una crescita debole e tassi di disoccupazione a livelli record (soprattutto quella giovanile) stanno riportando il saldo dei conti con l’estero in pareggio o in attivo. Questa sta favorendo un graduale rientro degli squilibri Target 2 e un ridimensionamento dell’enorme credito accumulato dalla Germania nei primi 15 anni dell’Eurozona.
E stanno ritornando flussi di capitale nella periferia dell’Eurozona
Che stanno contribuendo a far migliorare i saldi Target 2. Non a caso Il credito Target 2 della Germania è sceso da oltre 700 sotto i 500 miliardi.
Il rinnovato surplus della periferia dell’Eurozona non è però totalmente virtuoso. In molti casi è più figlio di una diminuzione delle importazioni (complice il calo del potere d’acquisto della domanda interna e dell’aumento del tasso di disoccupazione che a loro volta stanno causando un processo di disinflazione/deflazione) che non per un aumento spiccato delle esportazioni (per quanto in alcuni casi rifletta un aumento effettivo della competitività sul fronte export).

Grafico / I saldi Target 2

E’ quello che sta accadendo in un percorso lento e doloroso. La Germania cerca così lentamente di rientrare dei propri crediti che continuano ad essere massicci, così come gli irrisolti squilibri nell’Eurozona. Ed è probabilmente questo il motivo per cui l’euro non è crollato quando nel 2011-2012 molti economisti davano per spacciata una deflagrazione dell’Eurozona. In quel periodo è vero gli spread balzavano alle stelle ma l’euro sul mercato dei cambi si manteneva estremamente tonico, segnale che gli investitori non hanno mai creduto fino in fondo al crollo dell’euro. L’allarme finale prima della sua deflagrazione (una improvvisa svalutazione valutaria) non è mai scattato.
Capire come funziona il “cervellone dell’euro” (il sistema Target 2) ci aiuta anche a capire che più dei Paesi del Sud, ha interesse tecnico a far restare in piedi l’euro proprio la Germania, il principale creditore finanziario nell’Eurozona. Perché si sa quando un debitore è piccolo è molto fragile, ma quando il debitore è grande rischia di essere più potente del creditore. E questo la Germania lo sa. E probabilmente anche per questo ha insistito sull’applicazione di politiche di austerità nei Paesi del Sud Europa anche in fasi recessive. Per rientrare quanto prima dei crediti.

Fonte: Il Sole 24 Ore

Filoeuropeo o euroscettico? Sono i fatti che contano

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Fonte: Osservatorio Balcani e Caucaso

Per orientarsi nel mare delle informazioni e dei dati in vista delle elezioni europee di maggio, la Rete ci offre un interessante strumento di controllo della veridicità delle dichiarazioni espresse dai politici europei: FactchechEU, la prima piattaforma europea di crowd-checking.
Nato dal lavoro di un gruppo di giovani professionisti italiani che avevano già creato una piattaforma di fact-checking operativa a livello nazionale (Pagella Politica), FactcheckEU è uno strumento online con cui è possibile verificare e monitorare le dichiarazioni dei candidati in corsa alle elezioni europee e valutarne la veridicità confrontando le parole con numeri e fonti di riferimento.
La piattaforma è concepita in modo interattivo e gli utenti hanno un ruolo chiave: possono caricare dichiarazioni e verificarle insieme al team di FactcheckEU, oppure navigare alla ricerca di dati già verificati suddivisi nelle principali policy area dell’UE e corredati da grafici e tabelle.
Loggandosi sul sito, si può partecipare in quattro modi diversi: verificando direttamente una dichiarazione impugnando studi e tabelle; traducendo per rendere un’affermazione disponibile in altre lingue europee; dando un voto ad una dichiarazione in una scala graduata da “Vero” a “Panzana pazzesca”, oppure caricando un’affermazione che suona sospetta e che si vuole controllare.
Per capire meglio come funziona il Fact-checking, prendiamo l’ultimo caso riportato sulla piattaforma: l’affermazione di Jean-Claude Junker, candidato alla presidenza della Commissione dal Partito Popolare Europeo, che afferma che tra trent’anni nessun paese europeo preso singolarmente rientrerà nel club dei sette paesi più ricchi del mondo.
FactcheckEU ha verificato, fonti alla mano, ed ha concluso che la validità di questa frase dipende dall’indicatore economico a cui si fa riferimento.
La Germania e la Gran Bretagna avrebbero un posto in un ipotetico G7 nel 2050 (rispettivamente al 5° e al 6° posto in una classifica che vedrebbe la Cina, gli USA e l’India ai primi tre posti) nel caso in cui l’indicatore economico di riferimento è il valore in dollari USA delle economie considerate. Al contrario, se l’indicatore del Pil usato è corretto rispetto al costo della vita (tecnicamente, parità del potere d’acquisto) nel 2050 nessun paese europeo comparirebbe nella classifica dei primi sette al mondo, con la Germania, la più forte, al nono posto dopo Messico e Indonesia. FactCheckEU conclude: “Junker non sbaglia a denunciare il collasso relativo del peso delle singole economie europee a livello mondiale. La scelta di un indicatore piuttosto che un altro non è sbagliata, ma rende la sua dichiarazione in qualche modo incompleta”.
Il factchecking è una forma di partecipazione civica e dal basso all’informazione. Aiuta a rendere il dibattito pubblico più trasparente, e a ridare fiducia alle parole e alla possibilità dei cittadini di comprendere i fenomeni, anche i più complessi. Come si legge sul sito, “nasce dalla convinzione che con la crescente integrazione europea diventa sempre più importante avere dei watchdogs in grado di monitorare il dibattito pubblico”. Perché dopo tutto i fatti sono fatti, e le bugie hanno le gambe corte.

Innovazione: l’Italia è nel gruppo di coda, con Grecia e Ungheria. Bene solo Friuli, Piemonte ed Emilia

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Di Beda Romano. Da Il Sole 24 Ore del 4 marzo 2014

È una Italia ancora drammaticamente in ritardo quella che emerge da un rapporto della Commissione europea pubblicata oggi e tutto dedicato alla capacità dei paesi di innovare. Secondo la relazione, il paese è tra gli innovatori moderati, insieme alla Grecia e all’Ungheria. Neppure a livello regionale l’Italia riesce a fare sensibilmente meglio. Le regioni più brave in questo campo sono tutte nel Nord – il Friuli, l’Emilia Romagna e il Piemonte.

Nel rapporto annuale della Commissione, i paesi dell’Unione sono divisi in quattro gruppi: i paesi leader (tra i quali c’è la Finlandia e la Germania), i paesi che tengono il passo (fra questi l’Austria e la Francia), i paesi innovatori moderati (che vede l’Italia in compagnia di stati dell’Europa orientale o meridionale), e i paesi in ritardo (tre in tutto: Bulgaria, Romania e Lettonia). “Le differenze sul piano della resa innovativa tra gli stati sono ancora considerevoli”, avverte l’esecutivo comunitario.

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Secondo Bruxelles, l’Europa nel suo complesso sta colmando il divario con gli Stati Uniti e il Giappone nel settore dell’innovazione, ma molto lentamente. Secondo un indicatore della Commissione, la resa innovativa dell’Europa è pari a 0,630. In cima alla classifica sono la Corea del Sud (0,740) e gli USA (0,736). Il grado di capacità di un paese a innovare viene misurato sulla base di 25 indicatori che spaziano dal numero di dottorati ai successi brevettuali, agli investimenti in ricerca e sviluppo.

Ha commentato il commissario all’industria Antonio Tajani: “Maggiori investimenti da parte delle imprese, una forte domanda di soluzioni innovative europee e la riduzione degli ostacoli che si frappongono all’applicazione commerciale delle innovazioni sono la chiave della crescita. Abbiamo bisogno di imprese maggiormente innovative e di un contesto favorevole alla crescita al fine di portare efficacemente le innovazioni sui mercati”.
Ha aggiunto il commissario alla ricerca Máire Geoghegan-Quinn : “Con un bilancio di quasi 80 miliardi di euro per i prossimi sette anni, Orizzonte 2020, il nostro nuovo programma di ricerca, contribuirà a mantenere la spinta propulsiva”. L’Italia ha risultati inferiori alla media per la maggior parte degli indicatori. I punti deboli sono nella bassa presenza di dottorandi extraeuropei e nelle poche imprese innovative che collaborano con altre. I punti di forza si osservano nelle co-pubblicazioni scientifiche internazionali.

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Spiega la Commissione: “Un’analisi del periodo 2004-2010 indica che i risultati sul piano dell’innovazione sono migliorati nella maggior parte delle regioni europee (155 su 190). Per più della metà delle regioni (106) l’innovazione è progredita a un ritmo anche maggiore della media dell’UE. Nello stesso tempo la resa innovativa è peggiorata in 35 regioni ripartite in 15 paesi. Per quattro regioni la resa è addirittura calata bruscamente, superando mediamente all’anno il -10%”.
L’Italia conta tre regioni che tengono il passo (Friuli, Piemonte ed Emilia Romagna). Tutte le altre – comprese la Lombardia, il Veneto o il Lazio – innovano solo moderatamente. I motivi di questo ritardo italiano sono economici, politici e culturali. Da un lato, l’enorme debito pubblico limita certamente il margine di manovra del bilancio pubblico negli investimenti in ricerca. Dall’altro, il clientelismo frena l’innovazione, preferendo la lealtà familistica alla capacità inventiva.

Fonte: Il Sole 24 Ore

Capital Economics: gli Olandesi Starebbero Meglio se Uscissero dall’Euro

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Bruno Waterfield (The Telegraph – Londra)
Bruno Waterfield commenta sul Telegraph un recente studio pubblicato dall’istituto internazionale di ricerca macroeconomica Capital Economics, già vincitore del Premio Wolfson per l’Economia nel 2012 con uno studio sul miglior modo per smantellare la moneta unica. Secondo Capital Economics gli Olandesi avrebbero grandi vantaggi economici ad abbandonare sia l’euro che l’Unione Europea. Lo studio è stato commissionato dal politico “euroscettico” Geert Wilders, tuttora in testa ai sondaggi in Olanda. L’articolo del Telegraph: “Secondo un importante studio, ci sarebbero grandi benefici economici per gli olandesi se lasciassero l’UE. Secondo un recente studio, se l’Olanda abbandonasse euro e Unione Europea la famiglia media olandese starebbe meglio per l’equivalente di oltre 8000 sterline l’anno e il reddito nazionale olandese crescerebbe di oltre mille miliardi. Lo studio sul Nexit, termine che designa una potenziale uscita dell’Olanda, condotto dalla sezione britannica della rispettabile società di ricerca Capital Economics, riporta che ci sarebbero significativi benefici durante i prossimi due decenni se il paese cambiasse la sua appartenenza all’UE con uno status simile a quello che hanno Svizzera o Norvegia. “Un’eventuale decisione di lasciare l’UE è prima di tutto una decisione sociale, culturale e politica. Ruota attorno a questioni che riguardano la sovranità nazionale, la cittadinanza e la libertà di autodeterminarsi,” sostiene il report. “Ci sono comunque anche delle buone ragioni per ritenere che un paese, svincolandosi dalla burocrazia di Bruxelles e diventando capace di prendere decisioni da solo, anziché lasciarsi imporre delle politiche in stile taglia-unica-adatta-a-tutti, trarrebbe dei benefici anche dal punto di vista economico.” La ricerca è stata colta al volo dagli euroscettici per contrastare quelli che essi ritengono degli avvertimenti allarmistici da parte di leaders del mondo delle imprese e politici mainstream sul presunto tracollo economico della Gran Bretagna se lasciasse l’UE. “Questo report è significativo perché è stato prodotto da un gruppo di ricerca credibile della City. Non può essere liquidato tanto facilmente,” ha dichiarato Douglas Carswell, un parlamentare conservatore del collegio elettorale di Clacton. “Dimostra che non siamo più soli. Non siamo solo noi britannici ad avere capito che l’integrazione europea è difettosa fin dalle basi. Noi siamo molto simili agli olandesi, un piccolo paese che ha prosperato commerciando su scala globale. Pensate cosa potrebbero essere paesi come i nostri in un tipo diverso di Europa.” Pur riconoscendo i rischi di un’uscita dall’UE, Capital Economics conclude il report sostenendo che l’Olanda, paese creditore dell’eurozona con rating AAA, starebbe meglio fuori dall’UE a causa della minaccia alla sua ricchezza a lungo termine posta dai problemi strutturali della moneta unica europea. “Ci sono ovviamente dei rischi a lasciare l’unione – e questi devono essere riconosciuti e affrontati da tutti nel momento in cui si considera il Nexit,” dice il report. “Ma ci sono anche dei rischi significativi nel restare dentro il blocco dei paesi che condividono una moneta che ha dei difetti fondamentali. Qui la nostra analisi mostra che l’Olanda farebbe meglio a riprendere il controllo del proprio destino, anzichè mantenere un atteggiamento del tipo ‘si vedrà’.” Il report conclude che il reddito nazionale olandese potrebbe crescere per un ammontare pari a 1500 miliardi entro il 2035, portando un aumento della ricchezza di circa 9800 euro a famiglia ogni anno. Anche se l’Olanda non fosse in grado di ottenere accordi come quelli concessi a Svizzera e Norvegia, che sono nel mercato unico europeo pur non essendo membri dell’UE, “l’economia sarebbe in condizioni migliori restando fuori piuttosto che dentro l’unione,” sostiene il report. Lo studio indipendente era stato commissionato da Geert Wilders, leader del partito olandese anti-UE, il Freedom Party, per valutare i costi che l’Olanda dovrebbe affrontare lasciando l’Unione, giacché lui è in testa ai sondaggi nazionali per la corsa alle elezioni europee di questa primavera. “Al contrario di quanto di quanto affermano gli allarmisti, la nostra economia non s’inchioderebbe. Anzi, guadagneremmo miliardi rispetto ad ora,” ha detto. “All’inizio ci sarebbe un periodo di transizione per passare, ad esempio, dall’euro al fiorino. Ma passato quello, l’economia crescerebbe molto più di ora, un dieci percento in più entro il 2024 e un tredici percento entro il 2035.” ha concluso. Sondaggi d’opinione svolti da Maurice de Hond in Olanda hanno rilevato che una maggioranza del 55 percento sarebbe favorevole a lasciare l’UE se si dimostra che ciò porterebbe una maggiore crescita economica e alla creazione di posti di lavoro. Nel 2012 Capital Economics aveva vinto il prestigioso premio Wolfson per uno studio su come gestire uno smantellamento ordinato dell’euro, durante il picco della crisi del debito in Europa. Lo studio, lungo 164 pagine, sdrammatizza i costi e la turbolenza implicati dall’uscita dall’euro. “Ci sono costi economici per lasciare l’UE, specialmente legati al fatto di dover rimpiazzare la moneta unica con una moneta nazionale. Ma questi costi sono modesti e gestibili,” afferma. Molta della crescita economica prevista in caso di abbandono dell’UE, in un paese dominato dal porto di Rotterdam, viene da una “crescita più veloce delle esportazioni verso i mercati non-europei, dovuta alla possibilità di negoziare e commerciare con economie emergenti in rapida crescita senza essere vincolati alle politiche comunitarie europee sul commercio”. Attualmente molti accordi di libero scambio nell’UE sono sospesi o impantanati nei dissensi interni tra paesi più orientati al libero scambio come Gran Bretagna e Olanda e i paesi più protezionisti del blocco latino guidati da Francia e Italia. Il report sul “Nexit”, un’espressione che mescola l’abbreviazione della parola “Netherlands” (cioè “Paesi Bassi”, ndt) e la parola “exit” (cioè “uscita”, ndt), considera anche che ci sono vantaggi economici nello stare fuori dall’UE, tra cui una riduzione dei costi per le imprese per “un minimo di 20 miliardi all’anno entro il 2034, attraverso il ritorno a una regolamentazione nazionale nelle aree attualmente sotto la giurisdizione delle istituzioni di Bruxelles”. Complessivamente, il rapporto conclude che gli olandesi sarebbero in grado di gestire la propria economia “in modo più efficiente avendo la libertà di stabilire delle politiche monetarie e fiscali su misura per le condizioni del loro paese, e non su misura dell’intera eurozona”. Lo studio riporta anche di una “riduzione della spesa pubblica di minimo 7,5 miliardi di euro all’anno sino al 2035, per il fatto di non essere più legati alle leggi UE sulla libera circolazione e “attraverso una revisione delle politiche sull’immigrazione per orientarle più strettamente su coloro che possono dare un contributo economico”. Lo studio contraddice un precedente studio ufficiale olandese sui benefici dell’appartenenza all’UE, calcolati in Olanda sui duemila euro all’anno a persona. Jeroen Dijsselbloem, il ministro delle finanze olandese nonché presidente dell’eurogruppo, ha attaccato l’idea del Nexit come “decisamente imprudente”, e ha difeso la moneta unica europea. “Lo leggerò, ma so una cosa per certo: l’Olanda è una potenza economica dell’Europa. Noi guadagnamo la maggior parte della nostra ricchezza commerciando con paesi dell’UE, per cui l’Olanda ha decisamente interesse ad avere un mercato interno in cui il commercio sia facilitato” ha detto. “C’è anche la moneta unica. Attualmente è molto forte e le condizioni dell’eurozona adesso appaiono molto migliorate rispetto ad alcuni anni fa. Non c’è motivo di intraprendere nuove avventure. Sarei decisamente contrario.”

Fonte: Voci dall’estero

I medici italiani lavorano troppo. La Ue pronta a sanzionare l’Italia

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Turni di 48 ore settimanali che sfiorano le 70 e l’assenza di un riposo settimanale garantito. Secondo Bruxelles negli ospedali italiani non vengono rispettate le direttive Ue sugli orari di lavoro. Per questo ha deferito il nostro paese alla Corte di giustizia dell’Unione europea.
di VALERIA PINI (La Repubblica)

TURNI estenuanti che sembrano non finire mai. Sulla carta sono 48 ore settimanali, ma spesso diventano 60 o 70. Negli ospedali italiani i medici lavorano troppo e per questo la Commissione europea ha deciso di deferire l’Italia alla Corte di giustizia dell’Unione europea per non aver applicato correttamente le normative in materia. Per la precisione si tratta della Direttiva sull’orario di lavoro ai medici che lavorano nel servizio sanitario pubblico. Tutto questo con rischi per i pazienti e per i camici bianchi, costretti ad affrontare situazioni stressanti e sempre più preoccupati per la paura di eventuali cause legali.

“Senza diritti”. Secondo la Ue, negli ospedali i dottori affrontano condizioni di lavoro difficili. Ad oggi, la normativa italiana priva questi medici del loro diritto a un limite nell’orario lavorativo settimanale e a un minimo di periodi di riposo giornalieri. Spulciando la normativa italiana gli esperti della Commissione hanno scoperto che non esiste neanche il diritto a un periodo minimo di riposo nell’arco della settimana.

Il primo avvertimento. Da tempo la questione è allo studio dei burocrati europei che già a maggio scorso aveva inviato un ‘parere motivato’ in materia al nostro paese. “In Italia diversi diritti fondamentali contenuti nella direttiva sull’orario di lavoro, come il limite di 48 ore stabilito per l’orario lavorativo settimanale medio e il diritto a periodi minimi giornalieri di riposo di 11 ore consecutive, non si applicano ai dirigenti operanti nel servizio sanitario nazionale – spiega la Commissione – . Invece la direttiva non consente agli Stati membri di escludere i dirigenti o le altre persone aventi potere di decisione autonomo dal godimento di tali diritti”.

La questione dei dirigenti. La Commissione ricorda che i medici attivi nel Servizio sanitario pubblico italiano sono formalmente classificati come dirigenti, senza necessariamente godere delle prerogative o dell’autonomia dirigenziali durante il loro orario di lavoro. Inoltre, “la normativa italiana contiene altre disposizioni e regole che escludono i lavoratori del servizio sanitario nazionale dal diritto di riposo giornaliero e settimanale minimo. Dopo aver ricevuto diverse denunce, la Commissione ha inviato all’Italia un “parere motivato” in cui le chiedeva di adottare le misure necessarie per assicurare che la legislazione nazionale ottemperasse alla direttiva”. Non c’è stata una risposta e e oggi Bruxelles ha deciso di rinviare il caso alla Corte europea di giustizia.

La direttiva Ue. La direttiva sull’orario di lavoro prevede che, per motivi di salute e sicurezza, si lavori in media un massimo di 48 ore alla settimana, compresi gli straordinari. I lavoratori hanno inoltre diritto a fruire di un minimo di 11 ore ininterrotte di riposo al giorno e di un ulteriore riposo settimanale ininterrotto di 24 ore. C’è peò una certa flessibilità che consente di posporre i periodi minimi di riposo per motivi giustificati, ma soltanto a condizione che il lavoratore possa recuperare subito dopo le ore di riposo di cui non ha fruito.

A chi si applica. La direttiva si applica a tutti i medici con un contratto di lavoro subordinato. Solo per i medici in formazione la limitazione dell’orario di lavoro è stata introdotta gradualmente, sulla base di regole speciali, nel periodo 2000-2009. Dal 1° agosto 2009, il limite di 48 ore si applica anche ai dottori in formazione, mentre i periodi minimi di riposo si applicavano anche a questa categoria in tutti gli Stati membri già dal primo agosto 2004. Ma l’Italia ha ignorato queste norme.

Fonte: La Repubblica