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IDENTITÀ DI GENERE E RISPETTO DELLA PERSONA: ECCO I GIOCATTOLI UNISEX.

Questa notizia è una di quelle che normalmente passano in sordina sulle nostre bacheche Facebook. Noi italiani spesso guardiamo all’estero per rilevare ciò che non va a casa nostra. Ma quando lo facciamo stiamo ben attenti a selezionare ciò che vogliamo vedere. Così, critichiamo il nostro servizio postale, gli sportelli pubblici davanti a cui ci mettiamo in coda, fino all’incuria delle città in cui abitiamo e alla cattiva manutenzione delle strade su cui camminiamo o viaggiamo in macchina. Ma quasi mai ci rendiamo conto di quali e quanti passi avanti nel campo dei diritti civili si sono fatti altrove. Da noi, per esempio, si discute ancora su civil partnership alla tedesca, sì o no. Si pensa ancora che per avere un diritto non ci sia bisogno di riconoscerlo. Si nega il concetto di identità di genere, ritenendo che la percezione del sé non possa discostarsi da ciò che si è fuori: come dire che la terra sia piatta perché non se ne percepisce la rotondità. E via con le battute da bar dello sport, bullismo, sorrisetti e sfottò. Come se il bersaglio non fosse un essere umano e non avesse una sensibilità.

di Andrea Serpieri

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Nel nord Europa, quindi non a Sodoma e Gomorra, da qualche anno accade qualcosa di straordinario. Quando ero piccolo, all’asilo e a casa venivo richiamato se anziché giocare a pallone con gli altri maschietti, passavo troppo tempo con le femminucce, se anziché giocare alla guerra con i soldatini, guardavo la Dolcissima Creamy su Italia 1 o se giocavo con He-Man insieme alla mia vicina di casa che portava la sua Barbie Rockstar. E non vi dico che storie se lasciavo He-Man da solo con Skeletor per giocare con le cuginette e le loro bambole, sia pure per fare la parte di Ken. In realtà, io volevo solo giocare, non avevo alcun secondo fine e nella maggior parte dei casi non capivo il motivo del richiamo o della punizione. Ebbene, in Svezia e Danimarca, ormai da tempo, i bambini vengono lasciati liberi di giocare con quello che vogliono. Badate bene che nessuno istiga i maschi a giocare con Barbie e le femmine col Meccano. Per questa ragione, esistono perfino alcune catene di negozi di giocattoli che propongono cataloghi di giochi unisex, in cui i pregiudizi di genere vengono decostruiti, mostrando bambini e bambine giocare indiscriminatamente anche con giocattoli pensati per il sesso opposto.

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In Italia cataloghi di questo tipo non solo solleverebbero un mare di polemiche, ma farebbero indignare molti genitori, indecisi e probabilmente contrari all’idea di regalare una mitragliatrice giocattolo alla loro bambina, o un Cicciobello al figlio maschio. Tuttavia, visti i recenti fatti di cronaca con figli picchiati a sangue e costretti a fughe rocambolesche, in quanto vergogna della famiglia, forse sarebbe appena il caso di cominciare a mostrare alle future generazioni che non c’è niente di male ad allontanarsi da certi stereotipi. Gli uomini non sono solo quelli che non devono chiedere mai, quei rozzi scimpanzé machissimi e pieni di peli, dalla scorza dura e dal volto rude che il più delle volte hanno pure da puzzà, che guardano la partita di calcio in mutande e canottiera bevendo birra e ruttando liberamente come Fantozzi. E le donne non sono solo angeli del focolare, mini casalinghe destinate comunque ai fornelli. I giochi tradizionali che vediamo sugli scaffali dei nostri negozi sono ancora molto legati agli schemi sociali del passato: per quanto la Mattel con Barbie I can be faccia credere alle bambine che da grandi si possa diventare quel che si vuole, continua ancora a proporre il classico modello Fiori d’Arancio. E comunque esiste anche una I can be casalinga.

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Nei cataloghi di giocattoli svedesi e danesi, invece, è possibile vedere bambine che si divertono con una grande pistola giocattolo e bambini che giocano con una bambola. Se non mi credete, provate a cercare on line il catalogo dell’azienda svedese Toy Top, che distribuisce sia in Svezia che Danimarca per Toys R Us e BR: basta andare su Google, scrivere Toy Top catalogs e fare la ricerca per immagini, alcune delle quali sono anche qui in questo mio post. Ovviamente, neppure nella modernissima Svezia sono mancati accenni di polemica. Un paio d’anni fa circa, per esempio, l’azienda svedese Leklust propose un catalogo unisex dove un bambino travestito da Spiderman spingeva una carrozzina. Alle critiche ricevute il direttore della compagnia, Kaj Wiberg, replicò spiegando che arrivato alla veneranda età di 71 anni, era ormai perfettamente consapevole che, non solo le bimbe, ma anche i bambini giocassero con le bambole: allora, perché non aiutarli a non sentirsi diversi?

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Voi, che siete italiani, vi starete forse domandando come uno Stato possa permettere una simile corruzione di minori. Ebbene, lo Stato ne è addirittura promotore. In Svezia, per esempio, la questione della parità dei sessi si è evoluta contemporaneamente alla progressiva rivoluzione del concetto stesso di identità di genere. Nel 2008 il Governo svedese è arrivato a stanziare ben 110 milioni di corone per promuovere la parità di genere nelle scuole e per invitare gli insegnanti ad attivarsi fattivamente per combattere gli stereotipi di genere. Da noi, invece, nel 2014 gli insegnanti picchiano i loro allievi più gay. Sempre nello stesso anno fu anche proposto di eliminare il “lei” e il “lui” e di introdurre un nuovo pronome neutro. Adesso, l’italiota medio mi dirà, beh non è che dobbiamo copiare per forza gli orrori degli stranieri! Vero! Però sul fronte dei diritti civili c’è chi si ispira alla Russia di Putin, che, per quanto compagno di bunga bunga dell’ex premier, è pur sempre straniero. Ma allora avevo ragione quando dicevo che noi italiani guardiamo solo ciò che vogliamo guardare? Quand’è così, che aspettate? Chiudete questo ridicolo post e voltatevi pure dall’altra parte. Ma sì, avete ragione: continuiamo a far finta di niente. Ripetiamo insieme la storia dell’ape che impollina il fiore, che ai maschietti da grandi viene il vocione e cresce la barba, mentre alle bambine, dopo essersi sposate, succede di rimanere impollinate e ricordiamoci sempre che se non è così si è affetti da una malattia del cervello che, per fortuna, si può curare. Magari col Prozac e la preghiera di una sentinella in piedi.

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DAVIDE, PICCHIATO DALLA FAMIGLIA PERCHÉ GAY.

Proprio stamattina una pagina Facebook dedicata alle scienze naturali pubblicava un album fotografico, in cui si mostravano cuccioli di orso, giraffa e koala teneramente avvolti dall’abbraccio della mamma e del papà. Titolo, la famiglia: è lì che ti senti sempre al sicuro. Si trattava semplicemente di uno di quei post ‘acchiappa-like’ che ’fanno al bene al cuore’ di chi ha la pancia piena e la testa vuota, dall’animo tendenzialmente incline alla facile commozione, ma spesso irriducibile dinanzi alle devianze della società – è così che oggi (???) va di moda bollare ciò che non è conforme a mamma orsa che col marito scalda i suoi dolcissimi orsacchiotti. In effetti, la famiglia è il posto in cui dovremmo essere accettati per quello che siamo: per una legge del sangue, per l’appartenenza al nucleo, per la storia comune, per un amore che va oltre ogni comprensione. In teoria. A volte, tuttavia, i legami familiari sono deviati, malati. Talora la condanna di quella che vuole essere vista come una scelta è più forte di ogni altro sentimento. Deviato non è, però, il soggetto che a mamma orsa preferisce un daddy bear (perché, se permettete, cosa facciamo sotto le coperte sono affari nostri). Il legame familiare, in questi casi, risulta infettato dal pregiudizio, dall’odio. Soprattutto, dalla paura del diverso. Quella che leggerete tra poco è una vicenda triste, una brutta storia, una di quelle che, francamente, vorrei non accadessero più. Una vicenda, che non dovrebbe verificarsi in un Paese laico, civile e democratico. E se non ‘scalda il cuore’ di chi ha ‘voglia di tenerezze’, pazienza. Il mio intento è disturbare le coscienze altrui. Facebook, in fondo, è pieno di ‘micini coccolosi’, che non troverete mai su questa pagina, perché preferiamo perdere un like, ma conservare la dignità.

Nonostante il disgusto che ho provato nel leggerlo, quest’articolo di cronaca va, comunque, condiviso e diffuso, perché dobbiamo riflettere sugli effetti drammatici di un odio inarrestabile, che sembra diffondersi nella società italiana come un virus. E miete vittime, non solo tra gay, lesbiche e trans, ma tra tutti coloro che sono considerati diversi: tra stranieri, clochard e tossicodipendenti. En passant, voglio rivolgermi al gentile signore che sulla mia bacheca personale (parzialmente pubblica) ha commentato un link di BlogNomos con una fotina di Hitler e la scritta in maiuscolo “ALLE DOCCE”: mi sono appena lavato, se la risparmi pure, oggi; o, alla prossima, non mi limiterò a cancellare il suo ridicolo commento, ma la denuncerò per apologia e minacce, continuando a non darLe la soddisfazione di una risposta. Perché non ne è degno. Alle docce di Hitler, non ci si lavava, come io ho fatto poco fa. Si moriva. E lei è forse Dio per decidere della vita e della morte di un altro essere umano?

Tornando al tema di questo post, la storia su cui vi invito ad una profonda riflessione è quella di Davide, un ragazzo siciliano di vent’anni, picchiato e segregato in casa dalla famiglia, dopo aver confessato la sua omosessualità, affinché espiasse la vergogna arrecata a tutti quanti. La vergogna, quel sentimento nobile, che fiorisce accanto alla dignità, nella coscienza di ognuno. Ma vergognarsi dei sentimenti di un figlio fino ad infliggergli violenza fisica e psichica, non ha nulla di nobile: è ignoranza, cattiveria, cinismo e incapacità d’amare. E chi è incapace d’amare prova fastidio anche per i sentimenti altrui e non sa far altro che esprimersi con la violenza, prima arma della persona ignorante. Per il padre/carceriere di Davide sarebbe stato meglio un figlio drogato o in galera. Così il ragazzo, visto che, di fatto, in galera già c’era, lo scorso agosto, si è lanciato di notte dalla finestra, rischiando la morte, pur di fuggire via, verso la libertà. La storia, seppur triste, ha un lieto fine (lieto perché nessuno ha perso la vita). Ora, infatti, Davide vive in un’altra città, ha un lavoro e condivide un appartamento con altri ragazzi. Ogni tanto riceve un messaggio su Facebook da un’amorevole zia che gli scrive: ‘impiccati’. Secondo loro non devo esistere, racconta Davide. Tu, invece, esisti, Davide. E ne hai ogni diritto. Ricordalo sempre.

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Queste sono storie d’ordinaria follia italiana, di un piccolo mondo antico, ancora vivissimo, dove l’ipocrisia è una malattia letale e dove abbandonare le proprie radici è l’unica via di scampo. Capirete, quindi, perché, dopo che ho visto mamma orsa stamattina, ho smesso di seguire quella pagina Facebook dedicata alle scienze naturali. Davvero molto poco scientifica, direi. La fuga dalla famiglia, come quella di Davide, ancora oggi, è il solo mezzo per evitare che la tua vita diventi erba da marciapiede, calpestata da tutti. Per evitare il labirinto della loro follia, o quel tunnel a senso unico, oltre cui c’è solo il suicidio.

Vi lascio all’articolo di cronaca pubblicato da Meridionews – ed. Catania.

Andrea Serpieri

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LEGGI ANCHE ‘SE L’OMOFOBIA È PIÙ FORTE DELL’AMORE’

CRONACA – Una notte di agosto un ragazzo fugge da casa. Per tre settimane padre, fratello e zii lo hanno tenuto segregato, picchiandolo più volte. La sua colpa? Essere omosessuale. «Secondo loro non devo esistere. Non a queste condizioni»

«Avevo davanti due scelte: farmi uccidere o provare a scappare». Davide ha poco più di vent’anni e un viso pulito nel quale sembra facile leggere ogni emozione. Una notte di agosto ha scelto di fuggire dalla casa nel quale è nato e cresciuto. Una casa nella quale è rimasto rinchiuso per tre settimane senza poter avere contatti con l’esterno. Si è lasciato cadere da un balcone del secondo piano, ha dormito nei campi, ha preso un treno per lasciarsi alle spalle la sua famiglia. Padre, fratello, zii per i quali ha commesso una gravissima colpa: essere omosessuale.

Davide non vuole che il suo nome venga cambiato per raccontare la sua storia. «Io sono questo», afferma scuotendo leggermente la testa, come se l’idea di usare uno pseudonimo fosse quasi inconcepibile. La sua vita, prima di questa estate, scorre tranquilla in un paesino del Palermitano. La scuola, i lavoretti, gli amici con cui uscire il sabato in città. Qualche malalingua ogni tanto racconta alla famiglia qualche storia, insinuazioni che lui puntualmente respinge. «Era l’unica cosa che dovevo tenere nascosta».

Poi una sera, al culmine dell’ennesima lite, decide di parlare chiaramente al padre. «Mi ha chiesto: “Ti droghi? Parla con me. Qualsiasi cosa sia, io ci sono”». Ma quando finalmente le labbra articolano quel pensiero celato per anni, «lui mi ha detto che era meglio che fossi drogato. Meglio la galera, una rapina in banca». Chiama così il fratello e gli zii di Davide che lo picchiano selvaggiamente, per fare espiare quella che ai loro occhi è una colpa.

“Secondo loro non devo esistere. Non a queste condizioni”

«Per tre settimane ho vissuto rinchiuso», ricorda. Difficile per il circolo palermitano di Arcigay intervenire. Il tentativo di servirsi di un cellulare per chiedere aiuto scatena nuove violenze. Lunghe giornate passate chiuso in camera, la famiglia costretta a mentire su dove si trovasse il ragazzo e perché non rispondesse al telefono. È anche il pensiero di mettere al riparo da quelle violenze gli amici che tormenta Davide. «Dovevo proteggerli – spiega – avevo paura che facessero loro qualcosa di male».

«L’unica mia idea, una fissazione, era andare via». Una sera di agosto, raccoglie qualche vestito e i pochi risparmi messi al sicuro. Lancia il borsone dal secondo piano, poi si lascia scivolare anche lui dal balcone rischiando di farsi del male. «Non mi importava, dovevo scappare». La prima notte la passa in mezzo alle campagne. «Avevo paura che mi venissero a cercare». Una volta giunto alla stazione, gli vengono in mente alcune persone conosciute durante una festa a Catania. «Ho comprato il biglietto e sono venuto qui», afferma con semplicità.

A chi chiede aiuto non racconta quanto ha appena vissuto, anche se qualche livido spicca sulla carnagione chiara. «La prima notte che ho passato a Catania ho pensato: “Come faccio a restare?”». In tasca 80 euro e una casa che non può più chiamare tale. Quando confida quanto ha appena vissuto, trova accoglienza, calore, affetto. «Sono stato fortunato. Mi rendo conto che avrei potuto fare una brutta fine. Se ne sentono tante in giro… Avrei potuto non essere vivo».

Da quei giorni sono passati pochi mesi. Davide ha un lavoro stabile, condivide un appartamento con altri fuori sede. Ogni tanto una zia lo contatta su Facebook. «Mi scrive “impiccati” – racconta – Secondo loro non devo esistere. Non a queste condizioni». Gli insulti, quelli più coloriti, non riesce quasi a ripeterli. Una sorta di pudore, un’educazione d’altri tempi, gli impedisce di riportare quelle frasi. Dopo la sua partenza, la famiglia ha solo segnalato l’allontanamento di Davide ai carabinieri, non la scomparsa. E, dal canto suo, il giovane ha deciso di non denunciare quanto subito.

“Sono stato fortunato. Mi rendo conto che avrei potuto fare una brutta fine. Avrei potuto non essere vivo”

«Con la mia famiglia non ho più contatti, ma ci siamo visti con mio padre». L’uomo non ha mai preso parte ai pestaggi, «ma ha chiamato lui mio fratello e i miei zii per farmi picchiare», precisa indurendo lo sguardo. Anche se i chilometri li dividono, le raccomandazioni sono sempre le solite: «Non frequentare persone sbagliate». Intendendo amici omosessuali. «A me non interessa». Alza gli occhi, si blocca per qualche istante. Sembra ripercorrere tutte le sofferenze che è stato costretto ad affrontare. Poi si rilassa. «Adesso ho la mia vita da vivere».

11 novembre 2014

di Carmen Validano

MERIDIONEWS Ed. Catania

NO, L’OMOFOBIA NON È UN’OPINIONE.

di Andrea Serpieri

Nei giorni scorsi in diverse piazze italiane sono tornate le sentinelle in piedi. Queste figure altro non sono che riedizioni stantie di un Savonarola che la stessa storia ha già condannato, donne che vivono la propria confessione come se fossero replicanti di una Giovanna d’Arco postmoderna, neo-crociati della fede che si battono contro la diffusione delle teorie di genere – strumenti occulti del demonio, con cui il male tenta di farsi strada nell’umanità. Sono, quindi, i paladini del bene, laddove il male è rappresentato da quell’amore che, come cantava Dante, ‘puote errar per male obiecto’. Il male del 2000, infatti, sono i gay. Ed ecco, allora le sentinelle farsi difensori del diritto all’omofobia. Il diritto di dire no all’altrui libertà, se questa libertà fa dispiacere a Gesù, e di recriminare, nel contempo, un razzismo inverso ai propri danni: quello di chi isola gli omofobi come tali. Quando, invece, la loro è solo difesa strenua e santa (e dunque benedetta) della famiglia naturale. Dell’amore puro tra un uomo e una donna (biologici), di quell’amore, che Dante celebrava come ‘lo naturale’, quello che pertanto ‘è sempre senza errore’.

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Lungi da me la condanna del Sommo Poeta, a cui ricorro soltanto per dimostrare la più totale inattualità delle parole con cui le sentinelle difendono le proprie opinioni. Opinioni che, piuttosto, sarebbero state adatte ai tempi dello stesso Alighieri. Meglio ancora: le sentinelle avrebbero trovato il più opportuno spazio alle proprie idee all’epoca della Santa Inquisizione, quando, in un virtuale confronto, perfino gli abitanti dell’Atene del V secolo a.c. sarebbero parsi di mentalità più aperta.

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Sorto all’indomani dell’approvazione del DL Scalfarotto dello scorso anno, questo movimento ha finora manifestato contro i diritti – ad oggi, tuttavia, solo rivendicati, ma nient’affatto riconosciuti – delle popolo LGBTQIA. Sebbene si siano sempre dichiarati aconfessionali e apartitici, le sentinelle manifestano le proprie idee con il sostegno esplicito e per nulla ininfluente delle destre e dei centristi, oltreché della stampa cattolica e delle più alte eminenze ecclesiastiche.

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Se la tesi di fondo delle sentinelle è quella di poter liberamente manifestare il proprio pensiero, BlogNomos che si è sempre occupato, per sua stessa vocazione, di diritti umani e civili e che dell’educazione alla legalità ha fatto il proprio principio ispiratore, propone a voi tutti (e a questi soggetti) una riflessione costituzionalmente orientata su tale affermazione. Invocare l’art. 21 Cost. per manifestare liberamente e legittimamente il proprio pensiero, infatti, non basta. Le norme giuridiche, a partire da quelle alla base del nostro ordinamento, costituiscono un sistema e sistematicamente, quindi, devono essere intese. L’art. 21, per esempio, è annoverato nel Titolo I della Carta, quello dedicato ai Rapporti Civili, che, sebbene contemplati dalla stessa Costituzione, devono, comunque, attendere ai cd. Principi Fondamentali, contenuti nei primi dodici articoli. Questi ultimi individuano le caratteristiche generali, i valori fondamentali, e, potrebbe dirsi, la fisionomia stessa della Repubblica Italiana. Per tale ragione, i principi fondamentali devono essere utilizzati obbligatoriamente per interpretare tutte le altre norme costituzionali, art. 21 compreso. Oltretutto, i principi fondamentali, proprio perché individuano i valori fondamentali di questo Stato, non sono modificabili, salvo l’ipotesi remota di un colpo di Stato. La Corte Costituzionale può arrivare anche ad abrogare leggi ed atti aventi valore di legge, qualora fossero in contrasto con i principi fondamentali. E la giurisprudenza costituzionale, fin da quando il Palazzo della Consulta è stato operativo, ha offerto innumerevoli sentenze, che le sentinelle farebbero forse bene a visionare. Cambiare i principi fondamentali significherebbe, quindi, cambiare il tipo di Stato. I Principi Fondamentali della Costituzione hanno, pertanto, il compito di impegnare i futuri governanti a realizzare norme che traducano in pratica quanto in esse contenuto. Per questo motivo hanno valore di ‘norme programmatiche’. Ora, all’art. 3, la Costituzione della Repubblica Italiana pone questo principio fondamentale:

“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

Dalla lettera del diritto discende che se l’art.3 è un principio fondamentale (e lo è), significa non solo che lo Stato italiano ha l’obbligo di tutelare anche i diritti degli omosessuali, ma che l’istigazione all’odio, così come perpetrata dalle sentinelle, non può essere libertà d’espressione.

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Fatto questo breve quadro sinottico sul diritto costituzionale vigente, sento il dovere (più intellettuale che morale) di contestare alle sentinelle in piedi anche la pretesa (infondata) di spacciare per scientifica e legittima la paura e l’odio che nutrono verso gay, lesbiche e transgender. Dal Rapporto Kinsey in poi, la scienza ha, peraltro, dimostrato che l’omoaffettività non è una patologia e dal 17 maggio 1990 l’omosessualità è stata depennata dal manuale diagnostico e statistico delle malattie mentali e le ricerche più recenti dimostrano come le famiglie omogenitoriali non rappresentino un rischio né per il bambino né per la società civile. Mi chiedo se i libri che le sentinelle portano in piazza rechino queste notizie o se preferiscano la più rassicurante censura…

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In verità, nonostante le sentinelle in piedi si professino pacifiche, ciò che rivendicano è il diritto di discriminare ed opprimere, invocando la negazione delle libertà per tante donne e tanti uomini che considerano ‘diversi’ solo perché assolutizzano un modello di ‘normalità’ che sentono di incarnare e che la società propone come tale. (Chi è patologico?) La loro opinione altro non è che un insulto ai diritti umani. Protestare contro l’introduzione del reato di omofobia e ridurre in questo modo a mera opinione ciò che ha condotto e conduce a tanti episodi di violenza, a tanti casi di suicidio, alle quotidiane aggressioni, agli episodi di bullismo ai danni di fragili ragazzi gay, fino alla violenza psicologica e verbale che in Italia si manifesta anche nelle dichiarazioni pubbliche di ministri come Alfano e in eurodeputati come Buonanno, significa disprezzare il valore assoluto che ogni essere umano, unico ed irripetibile, porta con sé. Significa non avere alcun rispetto proprio della ‘vita’.

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E se i nostri rappresentanti in Parlamento non saranno in grado di tutelare i propri cittadini, sarà compito dell’Unione Europea offrire una tutela all’Italia LGBT. L’Europa non ci chiede solo il pareggio di bilancio.

“Il Parlamento europeo […] ribadisce il suo invito a tutti gli Stati membri a proporre leggi che superino le discriminazioni subite da coppie dello stesso sesso e chiede alla Commissione di presentare proposte per garantire che il principio del riconoscimento reciproco sia applicato anche in questo settore al fine di garantire la libertà di circolazione per tutte le persone nell’Unione europea senza discriminazioni.”
(Risoluzione del Parlamento europeo del 26 aprile 2007 sull’omofobia in Europa, art 8).

“Il Parlamento europeo […] condanna i commenti discriminatori formulati da dirigenti politici e religiosi nei confronti degli omosessuali, in quanto alimentano l’odio e la violenza, anche se ritirati in un secondo tempo, e chiede alle gerarchie delle rispettive organizzazioni di condannarli.”
(Risoluzione del Parlamento europeo del 26 aprile 2007 sull’omofobia in Europa, art 10).

O sarà, forse, la Comunità Internazionale ad imporre all’Italia un comportamento civile? L’Articolo 2 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, ratificata dall’Italia con L. n. 848/55, contiene, infatti, due indicazioni relative alla non discriminazione in genere:

“Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del Paese o del territorio cui una persona appartiene, sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi limitazione di sovranità.”

Il successivo articolo 7 proibisce, poi, ogni forma di discriminazione:

“Tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad una eguale tutela da parte della legge. Tutti hanno diritto ad una eguale tutela contro ogni discriminazione che violi la presente Dichiarazione come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione.”

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No, decisamente l’omofobia non è una di quelle opinioni che le sentinelle possano liberamente manifestare.

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SE L’OMOFOBIA È PIÙ FORTE DELL’AMORE.

Capita a volte di leggere racconti di coming-out toccanti, storie di accettazione e di amore incondizionato. Altre volte questi racconti assumono sfumature tragiche e la storia che leggiamo parla di abbandoni e separazioni. Quello di cui mi accingo a parlarvi è il resoconto traumatico e doloroso di un rifiuto.

di Andrea Serpieri

Provare a spiegare a un eterosessuale come si senta un figlio gay prima di uscire allo scoperto con i suoi non è facile. Ancora più difficile – impossibile?- è tentare di farlo capire a quei tanti italiani che pensano che un diverso orientamento sessuale sia una scelta e che non vada quindi sbandierato, a quelli che credono che esista una cura per guarirne, a quelli per cui va bene a patto che chi è così non si faccia vedere in giro, a quelli che ritengono che l’istinto sessuale vada represso, a quelli che credono in Madre Natura e ai peggiori di tutti, quelli che confidano nel castigo eterno per chi sia dedito alla sodomia. Queste storie servono a loro, perché comprendano che un omosessuale non è un mostro, ma un essere umano. Queste storie non servono a fare propaganda in favore delle lobby gay, finanziate dai poteri forti. Supportare i diritti dei gay non è un atteggiamento da radical chic, ma da persona civile. Sui social network ho ultimamente letto le peggiori bestialità sui gay, alcune delle quali ho appena elencato. La peggiore, però, è quella per cui ci sarebbero problemi più importanti in Italia. Non è vero. La questione degli omosessuali in questo Paese è importante quanto la crisi economica. Perché se i gay pagano le tasse come gli altri cittadini, allora devono avere gli stessi diritti civili. Invece non è così, perché sono gay. Dunque, o parliamo solo delle cose importanti per le famiglie italiane e non facciamo più pagare le tasse ai gay, o il loro problema diventa un problema importante per tutta la nazione. Anche per i cattolici e i fascisti. È per questo che spero che il racconto che state per leggere raggiunga il maggior numero di persone: affinché dall’altra parte si intuisca, per lo meno, una parte della sofferenza che c’è nell’essere considerato dalla società un diverso. E nel sentirsi rifiutato per qualcosa che non si è scelto. Questa è la storia di Daniel.

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Daniel Ashley Pierce è un giovane ventenne della Georgia, che mercoledì scorso ha deciso di uscire allo scoperto con i suoi. Conoscendo la sua famiglia, temeva di subire delle violente ripercussioni a causa della sua rivelazione, così si è preventivamente organizzato per filmare di nascosto la tragedia. A quel punto sono iniziate le riprese del video che tutti voi potete visualizzare su YouTube a questo link.

In una mail inviata ad Huffington Post Usa, Daniel rivela, “Ho voluto assicurarmi che ci fossero prove nel caso in cui fosse accaduto qualcosa.”

Il video di Daniel è subito diventato virale. Nei suoi cinque minuti non si concentra mai sul volto dei suoi familiari, di cui, però, è possibile ascoltare la voce mentre lo aggrediscono dicendogli che la sessualità è una scelta.

“Io credo nella parola di Dio e Dio non crea nessuno in quel modo. È un percorso che si è scelto.” Dice una donna nella stanza, presumibilmente la nonna. E continua avvertendo il giovane che se sceglierà quel percorso la famiglia non lo supporterà più. Dovrà andarsene. Perché lei non può permettere alla gente di credere che giustifichi ciò che fa il nipote.

“Sei pieno di stronzate!”, dice la madre. Lui le chiede di lasciarlo restare a casa, lei si rifiuta. “Mi hai detto al telefono che non hai fatto questa scelta. Sai che non è iniziata così. Sai dannatamente bene che l’hai scelto.” Rincara la dose, poi, sostenendo che il padre ha fatto tutto il possibile per aiutarlo. L’uomo non ha nulla di cui rimproverarsi.

A questo punto, i due giungono alle mani. Anzi, è lei che picchia violentemente il figlio. L’obiettivo inizia a muoversi e si sente Daniel urlare alla donna di smettere di colpirlo. Allora un uomo, il padre, grida: “Sei un maledetto frocio!” e, alla fine del video, qualcuno apostrofa ulteriormente Daniel, definendolo ‘una vergogna’.

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Daniel, ormai fuori di casa, decide allora di sfogarsi su Facebook:
Che giornata…Pensavo che svegliarsi alle 9:48 ed arrivare al lavoro con 15 minuti di ritardo sarebbe stato il problema più grande di oggi. Ignoravo, invece, che il mio problema più grande sarebbe stato quello di essere rinnegato per sempre e cacciato dalla casa in cui ho vissuto per quasi vent’anni. E oltre al danno la beffa: mamma mi ha preso a pugni in faccia più volte, incitata da mia nonna. Sono ancora sotto shock e completamente incredulo.

La loro reazione, ha spiegato il ragazzo all’Huffngton, era prevedibile: sono molto credenti e conosceva la loro opinione sui gay. Dopo l’incidente, questa devota famiglia non ha contattato i media per dare la propria versione dei fatti, ma ha lasciato un messaggio vocale a Daniel, intimandogli di rimuovere il video dell’incidente da YouTube. Il ragazzo, peraltro, non ha denunciato l’aggressione alle forze dell’ordine. Ma il filmato, originariamente postato dal compagno di Daniel sulla community Reddit e subito rimbalzato sul sito LGBT del Nuovo Movimento dei Diritti Civili, non solo è ancora on line, ma ha, altresì, ottenuto più di 3.874.000 visualizzazioni ed oltre 31.000 commenti. La veridicità del video è stata confermata dallo zio del ragazzo, Teri Cooper, ad Advocate.com. È stata, altresì, lanciata, ad opera del suo ragazzo, una campagna GoFundMe per raccogliere i fondi necessari a coprire le spese di Daniel. In soli tre giorni, dal 27 agosto ad oggi, sono già stati raccolti circa 94.000 $, ma nemmeno un centesimo – temo – potrà compensare la perdita degli affetti familiari per questo ragazzo appena rimasto ‘orfano’.

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L’audio del video e l’impeto delle urla che ascoltiamo parlano da sé. Ho cercato di fornirvi un resoconto breve, ma il più possibile fedele, tralasciando la disputa tra nonna e nipote su verità scientifiche e dogmi religiosi. Guardatelo, non occorre conoscere la lingua per capire che qualcosa di sbagliato deve esserci nei familiari di Daniel. L’unica cosa contro natura che traspare è proprio l’aggressione di un figlio da parte di un genitore e solo perché questo figlio non è come lo si vorrebbe. Forse è vero che certe famiglie meritano soltanto menzogna. Perché far conoscere loro la nostra più intima verità significa munirli di una potente arma per distruggerci. E ciò che ci resta dopo la visione del filmato è solo tanta tristezza.

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IN BOCCA AL LUPO, DANIEL!

VIDEO: How not to react when your child tells you that he’s gay.

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AGGREDITA CON ACIDO LA CO-PRESIDENTE DELL’EUROGRUPPO LGBT.

Sabato scorso, la deputata verde al Parlamento Europeo Ulrike Lunacek, militante e sostenitrice dei diritti della comunità LGBT europea, è stata vittima di un’aggressione con acido, che solo fortuitamente non ha avuto conseguenze drammatiche. L’episodio si è verificato durante il Vienna Pride. A rivelarlo è il sito dell’eurogruppo di cui la Lunacek è co-presidente, The Intergroup on LGBT Rights.

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Il vicepresidente dell’Intergroup on LGBT Rights, l’olandese Sophia in ‘t Veld, ha dichiarato di essere rimasta scioccata e disgustata da questo attacco. “Vorrei che questi episodi fossero ormai legati al passato, invece ancora nel corso dell’ultimo anno un gay su quattro è stato aggredito o minacciato da gruppi omofobi, come rilevato da un’inchiesta condotta dall’Agenzia UE per i Diritti fondamentali.”

“Dobbiamo prendere quest’episodio come un segnale grave: gli omofobi sono pronti a fare qualsiasi cosa, ad arrivare perfino ad attacchi diretti, come la violenza personale, pur di imporre le proprie opinioni. I leader politici e religiosi devono mostrare più responsabilità, e parlare con forza contro l’odio omofobico e la violenza di genere, piuttosto che accettarlo tacitamente o addirittura supportarlo.”

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Messaggi di solidarietà sono arrivati anche dagli esponenti di Green Italia Verdi Europei. “Questo ennesimo episodio di razzismo omofobo rende ancora più urgente mettere la lotta all’omofobia nell’agenda delle priorità dell’Europa. L’obiettivo è tanto più importante per l’Italia, uno dei Paesi con la legislazione più arretrata su questo tema. Per questo ci auguriamo che il Parlamento decida finalmente di occuparsi del problema, approvando rapidamente la legge sull’omofobia e sciogliendo anche il nodo delle unione civili tra omosessuali”. Così dichiarano Monica Frassoni, co-presidente del Partito Verde Europeo, e Roberto Della Seta, di Green Italia Verdi Europei.

“È inaccettabile – aggiungono – che il veto di pochi politici della maggioranza tenga il nostro Paese in questo stato di vistosa arretratezza in una materia così decisiva: in Parlamento c’è una larga maggioranza favorevole a norme chiare, che riconoscano i diritti delle persone omosessuali, bisessuali e trans gender. È ora il momento di farla valere.”

A.S.
REDAZIONE
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CIVIL PARTNERSHIP ALLA TEDESCA. ANZI NO, ALL’ITALIANA.

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di Andrea Serpieri

“A settembre, dopo la riforma della legge elettorale, realizzeremo un impegno preso durante le primarie, un impegno vincolante: quello sui diritti civili“. A dirlo è stato il Presidente del Consiglio Matteo Renzi. La promessa giunge direttamente dall’Assemblea Nazionale del Partito Democratico. Renzi è tornato a parlare di diritti civili e all’assise Dem ha illustrato il suo progetto sulla civil partnership alla tedesca, già annunciata durante la campagna elettorale per le primarie, ma finora rimasta sostanzialmente fuori dall’agenda politica dell’esecutivo. Ricordiamo che a tutt’oggi la legge contro l’omofobia stagna al Senato da settembre scorso. E a un anno da quell’ultimo (debole) step, il prossimo mese di settembre sarà quello della riforma copernicana della società italiana.

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Riforma difficile, comunque: il premier sarà infatti costretto a trattare con la destra di Alfano e Giovanardi (sic!) e il centro di Monti, ma forse l’apertura di Grillo sulla legge elettorale, potrebbe portare esiti insperati anche su altri temi importanti come questo e magari i grillini si sporcheranno le mani con quelli del PD. Magari. La speranza, si sa, è l’ultima a morire, ma, come si dice, chi di speranza vive, disperato muore: il M5S è lo stesso non-partito che nel PE è alleato di un’orda di xenofobi della peggior specie e di omofobi convinti guidati da Capitan Farage.

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Non sarà, quindi, una proposta indolore, anzi. Francesco Clementi come altri dello staff di Renzi, alla fine del 2013 aveva avanzato proposte alternative, come il riconoscimento delle Coppie di fatto, ottime proposte, animate dai migliori intenti (nessuno vuol metterlo in dubbio), ma pur sempre insufficienti per un vero salto di qualità. Perché? Perché innanzitutto bisogna sgomberare il campo da strumentalizzazioni e contrapposizioni ideologiche, operando in maniera davvero laica ma pragmatica, dando dignità ‘giuridica’ all’amore che lega due persone dello stesso sesso. Il semplice riconoscimento di fatto verrebbe a creare un istituto di serie B. In pratica, ciò che verrebbe a riconoscersi sarebbe solo il valore della diversità naturale del rapporto rispetto a quello tradizionalmente matrimoniale. Ma affinché l’Italia riparta, perché sia davvero l’Italia della svolta buona, c’è bisogno di riforme profonde, non solo in campo istituzionale ed economico. Serve un terremoto come lo fu per la famiglia tradizionale quando vennero introdotti il divorzio e in seguito l’aborto.

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Ad un Paese come il nostro abituato a stanche contrapposizioni tra laici e cattolici che da trent’anni bloccano qualsiasi processo di riforma civile serve una rivoluzione, come detto prima, copernicana della società. La colpa di questo stato paludoso delle riforme, tuttavia, non è solo della Chiesa e della destra. Sul blocco delle riforme civili ci hanno lucrato in tanti, troppi forse. Anche tra coloro che si stracciavano le vesti proclamando o matrimonio o niente, nella sinistra radicale, che raccoglieva il consenso dei gay insoddisfatti, ma anche in certe associazioni gay che sostenevano quella sinistra. Di fatto fermando il cammino verso un’evoluzione del dialogo. Anzi del non-dialogo. È un Paese strano il nostro: si afferma con forza per negare, infine, ciò per cui si lotta.

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Finora solo alcuni sindaci e consigli comunali (a Grosseto, Latina, Fano e ora Napoli) si sono mossi per ordinare la trascrizione dei matrimoni conclusi all’estero da coppie gay e lesbiche italiane. Un piccolo passo, che insieme al recente convegno romano organizzato il 30 maggio scorso da Magistratura Democratica, Rete Lenford e Articolo 29 sulla discriminazione matrimoniale di gay e lesbiche, dimostra l’insofferenza della società civile e giuridica per una discriminazione sofferta quotidianamente dalle persone omosessuali, e che significativamente si muove ‘dal basso’, dalle aule di giustizia dei tribunali di periferia, dalle università e dai comuni, per rimuovere l’assordante silenzio del Parlamento.

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Ma torniamo all’attualità: all’annuncio di Renzi. Il Governo italiano sta lavorando su un disegno di legge che introduca entro la fine di quest’anno una forma di unioni civili, peraltro, già sperimentate in altre realtà come Germania e Regno Unito. Non parliamo di matrimonio, quindi. Ma di civil partnership. Vediamo di cosa si tratta. Dal punto di vista dei diritti e dei doveri acquisiti non c’è nessuna differenza tra il matrimonio civile e la civil partnership: eredità, pensione, visite in ospedale, protezione contro la violenza domestica. Nel caso delle civil partnership britanniche, inoltre, l’adozione è ammessa sia a singoli che a coppie, senza distinzione di orientamento sessuale e le responsabilità sono le medesime che per una coppia etero sposata con il rito del civil marriage. Ma le nostre unioni saranno di ispirazione teutonica: per cui tranquilli, moralisti italiani, ché in programma non c’è la corruzione di anime innocenti, la cui sorte verrà lasciata alla follia omicida dei loro stimati padri biologici, nell’intervallo di tempo tra un amplesso consumato con la moglie già uccisa al piano di sotto e una partita di calcio in TV con gli amici del bar.
Tornando al tema del post, se i diritti e i doveri della civil partnership sono gli stessi che scaturiscono dal matrimonio, dobbiamo, allora, chiederci qual è la differenza tra i due istituti. Quella principale è che la civil partnership non può avere nessuna connotazione o riferimento alla religione, mentre la parola ‘matrimonio’ nell’immaginario collettivo ha già, di per sé, una connotazione religiosa. L’altra differenza è invece di natura tecnica: una civil partnership per essere valida deve solo essere firmata dai coniugi e quindi non è obbligatoria una cerimonia. Per un matrimonio, invece, è obbligatorio che vengano scambiate alcune formule rituali prima della firma da parte dei coniugi.

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Rispetto al riconoscimento delle coppie di fatto, d’altro canto, che registrano a posteriori un rapporto già consolidato, fornendogli diritti e doveri, che dovrebbe essere disciplina aggiuntiva estesa a tutte le coppie, le civil partnership sono un contratto pubblico che fa sorgere diritti e doveri della coppia che dichiara di voler condividere un progetto di vita comune per il proprio futuro.

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Alla luce della recentissima sentenza della Corte Europea che ha equiparato il trattamento delle coppie sposate con unioni civili rispetto a quelle che hanno contratto matrimonio, il Governo è ormai investito di un’urgente richiesta di sanare quel vuoto legislativo, già denunciato dal Presidente della Corte Costituzionale Gallo, solo un anno fa, che costituisce la prima e più inaccettabile delle discriminazioni che esistono in Italia. Ha senso disporre una strategia antidiscriminazione senza affrontare la più importante tra queste? Ha senso che ancora una volta la politica se ne lavi le mani delegando quel che può alle associazioni gay oppure ad un Parlamento che non ha ancora avuto neanche la forza di far diventare legge una proposta contro l’omofobia? Oggi, dall’Europa, siamo ancora clamorosamente fuori. Fuori luogo, fuori tempo massimo, fuori tutto.

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HO FATTO OUTING E ADESSO SONO FELICE!

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di Andrea Serpieri

Coming out significa uscire allo scoperto. Fare outing vuol dire rivelare il proprio orientamento sessuale al mondo e vivere una vita alla luce del sole. Io l’ho fatto e devo ammettere che ciò che si dice in proposito è tutto vero: fa bene alla salute. Gay, lesbiche e bisessuali che dichiarano apertamente la propria condizione sessuale, anche se solo alla famiglia o agli amici, conducono una vita più serena, hanno meno ansie e, tutto sommato, sono più rilassati. Per non parlare di tutta una serie di complessi che ci si lascia alle spalle vuotando il sacco. Semplicemente smettendo di mentire. Non è, però, solo una constatazione. C’è anche un fondamento scientifico. I fratelli e le sorelle di condizione che dichiarano il proprio status senza vergogna al mattino hanno livelli di cortisolo più bassi, dal che dipende un minore stress rispetto a quanti nascondono la loro scelta. Anche i livelli degli altri indicatori di salute e benessere come colesterolo, insulina, adrenalina e pressione del sangue risultano migliori. Diminuiscono, inoltre, gli episodi di ansia e gli stati depressivi. Insomma la sincerità è meglio del Seropram.

A parte l’ultima affermazione, di cui rivendico la paternità, quanto ho appena sostenuto è il risultato di una ricerca promossa dall’Università di Montreal che ha preso in esame 87 volontari sui 25 anni, di cui la metà eterosessuali. Attraverso questionari, test psicologici e analisi mediche si è tentato di delineare un quadro sullo stato generale di salute dei soggetti esaminati. I primi risultati sperimentali hanno evidenziato che chi vive una sessualità libera, consapevole e trasparente, presenta un quadro clinico migliore di chi vive all’ombra. Parliamoci più chiaramente. Fare outing vale per noialtri: che lo si voglia fare davanti a un microonde mentre si assaggia un risotto 4 salti in padella Findus o con modalità meno televisive, l’importante è che si riesca a vivere liberamente e serenamente la propria vita sessuale. Il che, nondimeno, vale anche per gli eterosessuali. Sdoganiamo certi tabù! Il sesso è bello chiunque sia il vostro partner. Fatelo. Amatevi e divertitevi. Perché non è un peccato. Magari per noi che siamo cresciuti in un Paese cattolico è difficile da capire. Ma dobbiamo sforzarci. Avete presente quella sigaretta che vi godete dopo? O la sensazione che provate anche senza sigaretta? Immaginate una vita intera così. Ecco…

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Vero è che i risultati per ora sono ancora provvisori, la ricerca è ancora in una fase sperimentale ed il campione su cui si è basata è troppo ridotto per poter avere un reale valore scientifico. Ma, in effetti, l’identità sessuale è una componente significativa dell’individuo e viverla con coerenza significa certamente migliorare la propria qualità di vita.
Un valido approccio alla psicologia, per esempio, ci ha insegnato che quando non si vive in armonia con i bisogni, i desideri e le convinzioni dell’Io si genera una distonia, ovvero una condizione di disallineamento tra i comportamenti e l’essere che è, poi, alla radice delle nevrosi. Rispondere, dunque, in maniera adeguata alle proprie pulsioni sessuali è prima di tutto una questione di salute. Certamente il coming out è un momento destabilizzante e doloroso. Si teme, innanzitutto, il giudizio delle persone a cui vogliamo bene, da cui non vorremmo mai essere scacciati, si ha paura di perdere gli affetti fondamentali di un individuo e si vive il senso di colpa per aver contravvenuto a regole sociali e morali che si presume siano assolute. Ma che tali non sono, appunto perché sociali e morali e, quindi, in costante evoluzione con la società stessa. Invece, presentarsi per quello che si è veramente, ha indiscutibili effetti positivi a lungo termine, sia a livello personale che socio-relazionale.

Non mi fraintendete. Vivo anch’io in Italia e non mi sognerei mai di istigare nessuno al coming out. Tant’è che gli stessi studiosi di Montreal hanno avuto la premura di precisare che la loro ricerca ha senso solo se collocata nel giusto scenario; si parla, infatti, della possibilità di fare outing relativamente al popolo occidentale. In alcuni Paesi, purtroppo, l’omosessualità è costretta alla clandestinità per cause di forza maggiore, tra cui arresto, tortura e pena di morte. Fortunatamente non è il caso dell’Italia. Tuttavia, anche qui la condanna sociale in ambienti culturalmente arretrati, filofascisti e patologicamente influenzati dalle omelie domenicali può ancora essere ugualmente severa. Per cui l’outing fatelo solo se siete davvero convinti che sia giusto. Sia per voi che per i vostri cari.

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L’Italia cambierà: qualche passo è stato fatto, ma sono ancora tanti quelli da fare: se pensiamo che una scelta di marketing della Findus sia una conquista per i nostri diritti civili vuol dire che siamo messi ancora molto male. È perciò importante ricordare che affinché la società sia in grado di evolversi positivamente ed orientarsi verso l’universalizzazione dei diritti civili, è necessario il contributo di tutti noi. È un cambiamento lento, ma inevitabile. E ognuno di noi è chiamato a fare la propria parte. Per questo su questo blog abbiamo deciso di dedicare uno spazio importante alle tematiche LGBTQ, perché è anche dalla condivisione di queste idee che passa l’educazione alla legalità di una società, quella legalità che ispira sempre il nostro desiderio di informare. Ed è soprattutto per questo che noi non ci stancheremo mai di dire stop all’omofobia e alla violenza di genere.

E voi che fate? Siete con noi, amici?

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ROMA PRIDE. NICHI CI METTE LA FACCIA!

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Come gia anticipato anche qui su BlogNomos, è in programma per sabato 7 giugno il Roma Pride 2014. Per l’occasione Nichi Vendola, Presidente della Regione Puglia e segretario di SEL, e il suo compagno Ed hanno deciso di farsi ritrarre per la campagna della manifestazione.

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Il Roma Pride entra nel vivo. Oggi pomeriggio aprirà i battenti il Pride Park, che fino a venerdì 6 giugno vedrà decine di iniziative. Ad inaugurarlo ci sarà alle 18.00 il vicesindaco di Roma, Luigi Nieri. A seguire incontro sul lavoro con la Segretaria generale della CGIL, Susanna Camusso.

A.S.
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IL CASO DELLA DRAG QUEEN LICENZIATA.

Ricordate il caso ‘Lady Limoncella’, la drag queen del teramano che circa quattro anni fa fu licenziata dopo aver partecipato ad uno show serale di un locale omosessuale del litorale abruzzese? Lei sosteneva che si fosse trattato di un caso di discriminazione. Ma il suo ex datore di lavoro aveva smentito sostenendo che si trattasse, piuttosto, di licenziamento per giusta causa, legittimo poiché la drag, in quel periodo, risultava assente per malattia. Ebbene, il Tribunale di Teramo ha prodotto la sentenza di primo grado. Vediamo cos’ha stabilito il giudice.

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di Andrea Serpieri

Licenziamento per giusta causa. È questo il verdetto relativo al caso ‘Lady Limoncella’, al secolo Giuseppe Starace, secondo il giudice del lavoro Maria Rosaria Pietropaolo. Tuttavia, seppur legittimo, il magistrato non ha esitato a definire le modalità con cui il licenziamento è stato comunicato ed attuato discriminatorie e perciò lesive della dignità umana. La sentenza si è basata principalmente sulla normativa e sulla giurisprudenza comunitarie in materia di diritto antidiscriminatorio e antivessatorio. Il giudice ha ritenuto «che tali fatti al di là della loro incidenza sulla persistenza del rapporto di lavoro abbiano comunque rilevanza sul piano di tutela dell’integrità fisica e psichica del lavoratore dipendente, nonché del rispetto del generale obbligo del neminem laedere, con particolare riferimento al diritto all’intangibilità della sfera personale e alla libertà di esprimere la propria personalità in contesti estranei al luogo di lavoro».
Sostiene, dunque, il magistrato che Starace abbia sbagliato ad esibirsi durante un periodo in cui era assente dal lavoro per motivi di malattia «perchè ha, di fatto, pregiudicato e, comunque, ritardato la guarigione e il rientro in servizio, in aperta violazione degli obblighi preparatori e strumentali rispetto alla corretta esecuzione del contratto. La partecipazione del ricorrente allo spettacolo integra grave violazione dei doveri generali di buona fede e correttezza e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà». E quindi il licenziamento è da ritenersi legittimo «in quanto proporzionato all’illecito disciplinare commesso». Ciononostante, nella sentenza si sottolinea come «le modalità con cui la società è pervenuta a tale risultato» siano «censurabili, in quanto il comportamento di fatto tenuto dalla società e, comunque, ad essa riferibile evidenzia un atteggiamento non rispettoso della dignità del lavoro in quanto incentrato sulla valorizzazione di aspetti attinenti alle abitudini e al modo di essere di ogni persona, estranei al rapporto di lavoro». Per tale ordine di ragioni, il giudice ha disposto un risarcimento danni di 8 mila euro e annullato le lettere di dimissioni presentate da Starace in quanto prodotte «in un stato di ridotta capacità di discernimento e volizione sul quale hanno indubbiamente inciso i discorsi che hanno accompagnato la lettera di contestazione. Il timore del ricorrente che tale vicenda potesse giungere a conoscenza della madre dimostra, implicitamente, che i responsabili dell’azienda hanno fatto leva sull’unico aspetto che avrebbe potuto creare, secondo la morale corrente, un qualche imbarazzo o discredito sulla persona del ricorrente, vale a dire quello relativo all’esibizione tenuta in qualità di drag queen». E inoltre: «L’atteggiamento di censura disciplinare, nella specie oggettivamente connotato da subdoli pregiudizi moralistici o, comunque, non corretto da parte dell’azienda si palesa anche nel tenore letterale della comunicazione di licenziamento, nella quale risulta del tutto gratuito il riferimento a concetti estranei al rapporto di lavoro, quale quello dell’etica morale e del costume, evidentemente riferito alle tendenze personali del ricorrente rilevanti esclusivamente nella sfera del privato».
Ora il caso passerà alla Corte d’Appello, a cui l’avvocato Sigmar Frattarelli, difensore di Starace, ha fatto ricorso per ottenere il reintegro.

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Io, prof trans, e i sorrisini dei ragazzi.

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di Carlotta De Leo, da Il Corriere della Sera del 31 maggio 2014

Il supplente di matematica e fisica è entrato in classe in gonna. Gli studenti del liceo scientifico Oberdan di Trieste hanno pensato a un errore: aspettavano un uomo, e invece si sono trovati di fronte una professoressa con tacchi e rimmel. Nessuno sbaglio: Michele Romeo, il docente che in questi ultimi giorni di scuola ha preso il posto di quello di ruolo, è un trans. «Io non sono una travestita, sono androgina: in me convivono aspetti femminili e maschili» dice.
La storia, pubblicata dal quotidiano Il Piccolo , ha suscitato reazioni e polemiche, con genitori che sarebbero sul piede di guerra. «Non mi reputo così importante come il polverone sollevato –dice Romeo – Non ho problemi a parlare di me, e anzi trovo importante che il mio caso abbia aperto discussioni. Spero serva a tutte le persone che vivono di nascosto e con sofferenze simili alla mia».

La scoperta
Nato in Puglia nel 1976, a dieci anni ha scoperto la sua vera identità. «Avevo la passione per gli abiti e le scarpe della mamma, e un amore infinito per le scienze che sono tutt’oggi la mia vita» dice Romeo. E in effetti, nel tempo ha collezionato un curriculum di tutto rispetto: laurea in Fisica a Lecce, due anni al Politecnico di Monaco di Baviera come ricercatore associato, e attualmente un dottorato in nanotecnologie all’università di Trieste. Ed è proprio in questa città che, nel gennaio del 2013, ha sposato la sua fidanzata storica: «Stiamo insieme da 17 anni e lei ha accettato con grande intelligenza la mia decisione».

Il coming out
Cinque anni fa, infatti, dopo una crisi di panico – «unica e terrificante, mi sentivo sdoppiato» – ha iniziato il lungo percorso del coming out. «Mi sono liberato di tutti i fardelli inutili, con grande onestà intellettuale. E ho cominciato a vivere nella massima naturalezza quello che sento di essere – dice – Certo, non mi aspetto che tutti comprendano. Non mi impongo né voglio rivendicare sonoramente i miei diritti: non vado al gay pride, non frequento ambienti Lgbt. Cerco solo quella che comunemente è chiamata normalità».

«Cerco di motivare i ragazzi»
A iniziare dal lavoro. Romeo, è iscritto nelle graduatorie della scuola, «terza fascia, quella dei precari». «Insegno non solo per solo per avere un po’ più di soldi, ma perché credo che sia importante indirizzare i ragazzi – dice – All’università ho fatto il tutor con buoni risultati. Non solo, per circa un decennio durante gli studi ho anche dato lezioni private. Lavoravo tanto con l’obiettivo di fare superare ai ragazzi la maturità o gli esami di recupero a settembre. Non insegnavo solo le formule, ma cercavo di motivarli, nutrivo la loro autostima minata dai docenti, dai genitori e dal contesto. Insomma, volevo portarli ad avere fiducia in se stessi. Insomma, quello che un docente normale deve fare».

«Faccio scorrere l’imbarazzo»
Con questo approccio Michele si presenta a scuola anche oggi. E quando sale in cattedra, di fronte agli immancabili sorrisini e alle battute, resta impassibile. «Faccio scorrere l’imbarazzo iniziale. Una volta finito le risate, i ragazzi sono obbligati a fare i conti con il motivo della loro reazione di disagio. E nella maggior parte dei casi quei sorrisi non tornano più».

«Non voglio fare l’animale da circo»
Più complicato, invece, il rapporto con il mondo degli adulti e dei media. «Ma non sempre. Questa al liceo Oberdan non è stata la prima supplenza, ma la prima a fare rumore» chiarisce. Poi però confessa qualche timore: «Sono preoccupato di quanto sta accadendo, non per me, ma per i miei cari. Da scienziata so bene quello che può accadere: o la cosa si spegne per un non allineamento delle variabili, oppure si amplifica in un effetto butterfly che porterà conseguenze che io non vorrei. Ovvero al circo degli animali di esposizione. Tutta la mia vita è all’insegna dell’onestà e del serio impegno».

«Non c’è nulla di più normale»
Di fronte alle polemiche dei genitori dell’Oberdan, in sua difesa è scesa anche la preside del liceo triestino, Maria Cristina Rocco: «Queste reazioni mi stupiscono: è allucinate che un insegnante venga giudicato dagli abiti che indossa – afferma – La legge tutela i diritti di tutti e siamo noi a dover imparare che la normalità non è rappresentata dalla cosa più frequentate che siamo abituati a vedere». Ai genitori, Romeo direbbe solo poche parole: «Io faccio bene il mio dovere: insegno con la massima dedizione, occupando un posto che mi spetta di diritto. E questo è molto più importante degli aspetti esteriori. Non c’è nulla di più normale per un essere vivente che si esprime liberamente, nel rispetto altrui. Questo vale per me, ma anche per i loro figli».

Fonte: Il Corriere della Sera

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