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È stato firmato il più grande patto commerciale del pianeta. Si chiama RCEP e coinvolgerà 15 paesi dell’Asia e del Pacifico.

di Germano De Sanctis

Durante un importante vertice dell’ASEAN tenutosi on line , quindici economie dell’area Asia-Pacifico hanno sottoscritto il più grande patto di libero scambio del mondo. Si tratta di un accordo sostenuto dalla Cina e che esclude gli Stati Uniti d’America.

Il suo nome è “Regional Comprehensive Economic Partnership” (RCEP) ied è un ulteriore colpo al “Trans-Pacific Partnership” (TPP), l’accordo promosso, a suo tempo, dall’ex presidente americano Barack Obama e dal quale il suo successore Donald Trump è uscito sin dal 2017.

Secondo molti analisti, il RCEP rafforzerà la posizione della Cina come partner economico di tutto il Sudest asiatico, il Giappone e la Corea del Sud, garantendo, al contempo, alla seconda economia mondiale una migliore posizione per dettare le regole commerciali in questa regione.

Gli Stati Uniti d’America sono assenti, sia dal RCEP, sia dal successore del Trans-Pacific Partnership (TPP), il quale fu fortemente voluto da Barack Obama. Ne consegue che l’economia più grande del pianeta è fuori dalle due intese commerciali che interessano la regione in più rapida crescita di tutto il mondo.

Inoltre, il RCEP potrebbe favorire la Cina nel suo tentativo di ridurre la sua dipendenza dal mercato e dalla tecnologia statunitense. Si tratta di un’esigenza molto sentita in Cina, a seguito della nota e sempre più profonda frattura con gli Stati Uniti d’America.

All’interno del RCEP, si è trovata la possibilità di intersecare mediante un patto multilaterale esteso, da una parte, gli accordi dei dieci membri dell’Associazione delle nazioni del Sudest asiatico (ASEAN) – cioè il Brunei, Cambogia, Indonesia, Laos, Malaysia, Myanmar, Filippine, Singapore, Thailandia e Vietnam – d’altra parte, la partecipazione in forma unitaria di Australia, Cina, Giappone, Nuova Zelanda e Corea del Sud.
L’India non ha sottoscritto l’accordo in questione, a causa dei suoi timori relativamente all’aumento del suo deficit commerciale con la Cina, ma non si esclude affatto una sua adesione in un secondo momento.

Il nuovo accordo commerciale interesserà circa un terzo della popolazione e dell’economia mondiale, in quanto coinvolgerà 2,2, miliardi persone ed un volume di affari pari a circa 26 mila e 200 miliardi di dollari.
Inoltre, secondo le stime di alcuni economisti riportate dal Financial Times, il RCEP potrebbe potenzialmente aggiungere 186 miliardi di dollari all’economia globale, incrementando il PIL dei Paesi sottoscrittori dello 0,2%.

Nello specifico, il patto prevede l’eliminazione immediata di una serie di tariffe, mentre altre saranno abolite nel corso dei prossimi dieci anni. Non sono ancora noti i dettagli su quali prodotti e quali Paesi sottoscrittori beneficerebbero della riduzione immediata dei dazi.
La maggior parte degli esperti ha giudicato il RCEP come un trattato abbastanza superficiale, caratterizzato da una serie di canonici capitoli che interessano principalmente:
• il commercio di beni;
• i servizi;
• gli investimenti;
• il commercio elettronico;
• la proprietà intellettuale;
• gli appalti pubblici;
• i dazi;
• la gestione delle dogane;
• le misure di sicurezza sanitarie.
Gli analisti hanno subito evidenziato che il RCEP si connota per alcune lacune regolamentari rispetto al TPP. Infatti, ad esempio, vi è una minore incisività sulla eliminazione dei dazi (il 90% contro il 100% del TPP) ed, inoltre, sussiste una evidente assenza di aperture su un settore cruciale come l’agricoltura, mentre i servizi regolamentati non coprono tutti i settori delle economie dei Paesi sottoscrittori ed anche sull’e-commerce si denota la mancanza di decisioni veramente importanti.

Il RCEP entrerà ufficialmente in vigore, non appena tutti i Paesi firmatari lo avranno ratificato.
A quel punto, il RCEP sarà il più grande accordo commerciale multilaterale per l’area asiatica, facendo anche concorerenza a quello globale e progressivo per la partnership transpacifica (CPTPP), il quale non è altro che la versione con solo undici Paesi aderenti del TPP, a seguito dell’uscita degli Stati Uniti d’America. Si evidenzia che sette Paesi aderenti al CPTPP risultano essere anche sottoscrittori del RCEP.

Si tratta di un accordo commerciale che produrrà anche diverse conseguenze socio-politiche che esuleranno dagli aspetti squisitamente commerciali. Infatti, è la prima volta che le storiche potenze rivali dell’Asia orientale – cioè, la Cina, il Giappone e la Corea del Sud – decidono di sottoscrivere un accordo di libero scambio ed appare evidente che difficilmente lo avrebbero siglato muovendosi da sole.
È molto probabile che il RCEP potrebbe divenire, nel corso della ripresa post Covid-19, un valido strumento a favore della conquista da parte dei Paesi della regione dell’Asia-Pacifico della leadership economica globale, riducendo, in tal modo, l’egemonia che gli Stati Uniti d’America hanno in quest’area geografica.
A questo punto, sarà interessante esaminare come l’entrata in vigore del RCEP muterà le dinamiche politico-economiche tra i Paesi asiatici e gli Stati Uniti d’America, i quali, dopo aver perso agli occhi dei Paesi di quest’area il ruolo di potenza economica alternativa alla Cina a seguito dell’uscita avvenuta nel 2017 dal TPP, dovranno, con la nuova amministrazione Biden, fornire una risposta adeguata per recuperare parte della leadership perduta.

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LA POCHEZZA DELLA TV GENERALISTA CHE ANTONIO RICCI HA VOLUTO RICORDARCI A TUTTI I COSTI. 

Dopo il fantomatico scoop della trasmissione Mediaset ‘Striscia la Notizia’ ai danni di ‘Masterchef Italia’ in onda su Sky Uno, abbiamo fatto qualche riflessione su una certa televisione. E siccome qui ci occupiamo anche di cultura, in questo momento per noi cultura è sconsigliarvi caldamente alcuni programmi. Qualunque trasmissione di Antonio Ricci, per esempio, nuoce gravemente al vostro bagaglio culturale e alla vostra capacità di critica. Analizziamo questa notizia di cronaca e vediamo come e perché vi danneggia. 



Striscia svela l’inganno. Quale poi non si capisce: il programma è registrato e lo sanno tutti. Se lo scoop, poi, era sulla professione del secondo classificato, un controllo in più prima di spoilerare eviterebbe le querele. Ma tant’è. Diversamente non sarebbe Striscia. Diversamente si potrebbe fare spazio a programmazioni più fresche. Ma a decidere non siamo noi. Noi al massimo possiamo scegliere di non guardare certe trasmissioni. E infatti…Solo che certe trasmissioni (quando sono alla frutta) fanno di tutto per far parlare di sé. Un po’ come la mosca che ti si avvicina all’orecchio e che non riesci ad uccidere. Arriva però il giorno che la chiudi fuori dalla finestra e magari è già autunno inoltrato e la mosca morirà da sola.



La domanda, quindi, non è perché l’ha fatto né che ci guadagna? È chiaro che Ricci ci guadagna in termini di pubblicità, perché la puntata di ieri porterà nelle prossime ore un po’ di notorietà a un programma vecchio e stantio ormai ridotto a parlare dei programmi Sky, pur di destare interesse. Anche perché quelli Mediaset fanno gracidare le rane solo per gli alzabandiera di Rocco Siffredi e le beghe familiari di Mara Venier e Simona Ventura. La domanda magari è fino a quando riuscirà ancora a guadagnarci? Un’altra domanda poi è questa: siamo sicuri che Sky sia stata realmente danneggiata? Quanti di noi vedranno comunque la finale? Io credo quasi tutti e anche i non aficionados. Striscia, infatti, ha fatto un regalone a quelli di Sky Uno – la stagione di Masterchef che sta per concludersi è stata un po’ moscia (io l’ho vista) e questo scoop era proprio ciò che ci voleva per tenersi buoni gli sponsor. Solo che probabilmente non era questo l’effetto sperato.



Striscia si dimostra ancora una volta trasmissione d’elezione dell’italiota meschino e poco titolato che spara a zero contro chi è migliore di lui, senza tuttavia fare nulla per cercare di elevarsi dal suo stato primordiale. E nello strillare contro il competitor, gli ha fatto il più grande regalo che potesse confezionare. Il punto drammatico è che nel caso di Ricci lo stato primordiale è una televisione da tubo catodico che ride ancora degli scivoloni altrui, lancia tormentoni stagionali, crea l’immaginario erotico dell’uomo medio con donne maggioratissime, smutandate e quasi sempre fidanzate a un calciatore di serie A che conduce una vita da sogno. Solo che l’uomo medio che si eccita con il calendario della Canalis è in via di estinzione. Non perché si sia evoluto, ma perché si è evoluto il mondo intorno a lui. Può creare il suo immaginario erotico direttamente col porno gratuito offerto da Youporn, ridere delle papere uploadate su YouTube (utilizzate anche da Paperissima Sprint) ed appassionarsi perfino a tormentoni asiatici al ritmo di Gangnam Style. 



Tuttavia, in prima battuta non sono rimasti tutti contenti. A conti fatti, in questa truffa mediatica c’è un grande sconfitto, che in queste ore, grazie ai social network, sta esternando il proprio disprezzo per Striscia e lo scontento dovuto alle informazioni che la trasmissione ha voluto a tutti i costi diffondere. A perdere, infatti, è il pubblico di Sky che paga un abbonamento mensile. E non certo per seguire la puntata nella speranza di una smentita che non arriverà, ma per il gusto di sapere se il cuoco per cui tifa ce la farà o meno. Se non è sacro il divieto di spoilerare una serie TV, sono sacri, invece, i soldi degli abbonati Sky spesi per seguire quella serie in anteprima. Senza che una triste trasmissione intervenga a rovinare il loro divertimento di telespettatori appagati. Ricci non è un genio che sfata il mito e svela ciò che non dovrebbe svelarsi, come fa ogni anno da 20 anni per Sanremo, tanto che ormai è una tradizione noiosa quanto il festival, ma uno che ieri sera, nemmeno troppo tra le righe, ha trattato i clienti Sky come scimmie paganti, come dei perfetti imbecilli da poter beffare in virtù di uno pseudo scoop. Come ha sempre fatto. Attaccando le prede facili (mettendole alla gogna) e facendo ‘giornalismo’ da parrucchiera commentato dai peggiori avventori del bar dello sport. Il tutto farcito con una velina che fa la spaccata, un’altra che si china e mostra mezzo seno, un tenerissimo cagnolino quando c’è la Hunziker e un Gabibbo più insulso del Tenerone e meno intelligente di As Fidanken. A conti fatti, tuttavia, a perderci è anche il pubblico di Canale 5, aizzato come fanno i capipopolo con le masse. E trattato come un organismo privo di raziocinio. 



Ecco perché, nonostante i costi (e la crisi) i clienti Sky continuano a crescere. Ecco perché uno passa a Sky e su certi canali non ci finisce più neppure per sbaglio. Per disperazione! Per non assistere oltre alla quotidiana mediocrità della TV generalista offerta da Mediaset e anche dalla Rai oltreché da tutti gli altri tristi canali free del digitale terrestre. E – si spera – per scordarsi di Antonio Ricci una volta su tutte e ignorare a vita i suoi programmi fatti di tette, culi, gaffe, tapiri e sfottò. E dei fuori onda che propone dagli anni ’90 e dei suoi soliti scoop degni dell’astuta asta del Drive In. Ma soprattutto delle denunce degli inviati di Striscia, connotate tutte da una coerenza di fibra scilipotiana e razziana persistenza nel puntare il dito facendosi i cazzi degli altri fintantoché ciò sia funzionale a farsi i propri. Cioè quelli del padrone. Nessuno si chiede com’è che sulla graticola di Striscia in quasi 30 anni di J’accuse, Berlusconi (condannato con sentenza passata in giudicato) non c’è mai finito? E se per salvare le forme ogni tanto c’è stata la rubrica del Cavaliere Mascarato, perché l’ex cavaliere non è stato mai veramente affidato alla gogna mediatica, vale a dire al pubblico ludibrio riservato a tutti gli altri? Com’è?

A.S. – BlogNomos 

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NON POSSIAMO PERDERE LA SPERANZA

di Germano De Sanctis

In seguito all’attentato terroristico avvenuto l’11 settembre 2001, il mondo occidentale ha inizialmente risposto alla minaccia del terrorismo dichiarando guerra alle Nazioni ritenute complici degli attentatori, non risolvendo minimamente il problema e non assicurando ai suoi cittadini alcuna sicurezza.

Infatti, quattordici anni dopo e all’indomani del un nuovo attacco terroristico alla redazione del settimanale parigino Charlie Hebdo, si è reso evidente come il c.d. terrorismo islamico non solo non è stato debellato, ma anzi non è stato minimamente scalfito da anni di politiche di contrasto, attuate anche, come detto, ricorrendo agli strumenti offerti dalla guerra convenzionale.
Inoltre, la nostra libera, pacifica e democratica società europea si è scoperta totalmente incapace di prevenire l’accadimento di eventi di tale portata.

Lo sgomento è amplificato dal fatto che questi attacchi terroristici hanno sempre colpito sempre un simbolo della democrazia occidentale. Infatti, l’attentato alla redazione del settimanale Charlie Hebdo ha come obiettivo simbolico la libertà di stampa. In precedenza, altri simboli del nostro sistema democratico sono stati chirurgicamente colpiti: la scuola a Tolosa (la libertà d’struzione), il museo ebraico di Bruxelles (il divieto di discriminazione), il coffee shop di Sidney (il diritto di riunione) ed il Parlamento del Canada a Ottawa (il diritto di rappresentanza).

In altri termini, emerge una chiara strategia di destrutturare la società civile occidentale, mirando ai suoi luoghi che più rappresentano simbolicamente le libertà conquistate da secoli di lotte democratiche.

La violenza del fanatismo religioso ha provocato un improvviso risveglio delle nostre coscienze che vedono inaspettatamente in pericolo il nostro sistema di valori, cresciuto godendo di un lungo periodo di reciproca e pacifica convivenza e rinnegando i germi malefici che hanno portato allo scoppio della seconda guerra mondiale.

Pertanto, è naturale percepire l’istinto di difendere la nostra democrazia da questo attacco morale e politico, magari opponendoci emotivamente ed irrazionalmente al totalitarismo fanatico, con ogni mezzo possibile, purché rispettoso dei nostri principi etici e di legalità.

Invece, tutti questi eventi impongono una analisi serena e razionale, per comprendere cosa stia realmente accadendo in Europa e nel mondo, senza farsi condizionare dalla vendetta, dall’odio e dall’intolleranza.

Così ragionando, appare necessario rinforzare subito la nostra cultura democratica e tollerante, avendo fiducia e speranza sulle sue potenzialità, nonché abbandonando i sempre più diffusi atteggiamenti critici e disfattisti. Soltanto l’assunzione di un simile atteggiamento può rendere possibile la difesa della nostra democrazia, per trasmetterla intatta alla prossima generazione.

Infatti, promuovere lezioni d’intolleranza razziale e/o religiosa è un’operazione pericolosa, in quanto la diffusione di un simile messaggio può influenzare ampi settori della società, insinuandosi anche nelle sue fasce di età più giovane. Gli atteggiamenti di odio e di discriminazione sono soltanto capaci di risvegliare gli istinti più biechi, rendendo ammissibile ogni misfatto.
In momenti storici di tale delicatezza deve prevalere un atteggiamento responsabile e capace di ripensare completamente il nostro sistema di convivenza civile. Infatti, gli accadimenti che si stanno succedendo dal 2001 hanno delineato un nuovo scenario internazionale, che sta finendo per cambiare irrimediabilmente il mondo ed il modo di pensare di noi occidentali, essendo costretti a rimettere in discussione l’intero nostro sistema di relazioni tra culturale e religioni diverse. Si tratta di un’occasione unica da affrontare con speranza, poiché rappresenta l’unico modo per costruire un futuro migliore, rispetto a quello che l’odio e la xenofobia possono assicurarci.

Pertanto, la guerra e gli atteggiamenti xenofobi non sono la soluzione, in quanto la vendetta non è uno strumento di giustizia, ma soltanto uno strumento per generare altra e maggiore violenza.

Bisogna evitare di finire in una spirale di odio e violenza, per ricercare la pace del mondo attraverso una complessa, ancorché fragile, interconnessione tra le varie ideologie, culture e religioni.
Sin dagli albori della cultura occidentale, la politica, intesa nella sua accezione più nobile, si è distinta per essere il superamento di ogni violenza, nella consapevolezza della sua inutilità a raggiungere qualsiasi scopo.

Dobbiamo interessarci degli aspiranti kamikaze e guerriglieri islamici non per combatterli aprioristicamente, ma per capire quali siano le ragioni più profonde che li rendano disposti ad accettare l’idea della propria morte mediante l’innaturale atto del suicidio. Soltanto in tal modo, sarà possibile fermare costoro e la spirale di violenza che essi sovente generano. Infatti, la storia umana insegna che molto raramente sussiste una correlazione diretta e precisa tra un evento e l’altro, in quanto un numero indefinito di concause producono gli eventi della nostra vita.

Non è, quindi, possibile dividere in modo manicheo quelli che stanno con noi occidentali e quelli contro di noi, in quanto in questo scenario mondiale fluido ed orfano delle ideologie del XX Secolo non vi sono più certezze. Anzi, diventa necessario porre il dubbio alla base dello sviluppo futuro della nostra cultura. Soltanto il dubbio (supportato dalla curiosità) può generare la necessità di conoscere e comprendere le culture diverse dalla nostra.

In altri termini, la ricerca della conoscenza non deve pretendere di ottenere soluzioni univoche, chiare e precise ai problemi del mondo, ma deve ritenere utile porre (anche a se stessi) delle domande oneste, per, poi, ascoltare le risposte altrui.
Un simile atteggiamento culturale ci permetterà di uscire da consunti e banali stereotipi sul terrorismo, in quanto esso, inteso come modo di usare la violenza, può esprimersi in molteplici forme, a volte anche economiche, al punto che è impossibile arrivare ad una individuazione univoca del nemico da debellare.

In passato, i governi occidentali hanno preteso di sapere esattamente chi fossero i terroristi e come andassero combattuti. Invece, come hanno dimostrato i fatti di Parigi, anche questo stereotipo è destinato a dissolversi in un attimo. Soltanto quando la politica si ricongiungerà con l’etica, sarà possibile porre le basi per vivere in un mondo migliore.

Tutto dipenderà da come la politica reagirà a questi ultimi attentati. Come ha giustamente detto Francois Hollande, i terroristi hanno colpito al cuore la libertà e la laicità della società europea, ma non la sua ragione. Di conseguenza, bisognerà impedire che trionfino i rigurgiti anti-islamici, che tenderanno, nel breve periodo, a radicalizzarsi ed a stigmatizzare tutte le popolazioni musulmane. Sarà necessario reagire alla paura crescente di chi si sentirà minacciato, per impedire un pericoloso processo di disgregazione.

La scelta operata dai terroristi islamici di trasformare l’Europa nel loro terreno di scontro d’elezione impone a quest’ultima di muoversi unitariamente, non soltanto sotto gli assetti economici, ma anche e soprattutto politicamente. Occorre, quindi, una politica unitaria dell’immigrazione nell’Eurozona, per non pericolosamente ghettizzare le sempre più numerose minoranze stanziate negli Stati Membri dell’Unione Europea, dove tra l’altro, vivono, già due o tre generazioni di immigrati, che necessitano del rispetto della loro diversità, nell’ambito di uno spazio comune di valori condivisi e dove tutti devono convivere pacificamente.

Se non si ragiona in tal modo, queste minoranze rischiano di diventare oggetto dell’attività di proselitismo dei terroristi. Invece, la loro integrazione, comporterà la loro educazione alla democrazia, al lavoro, ai diritti e ai doveri della civile convivenza. In altri termini, essi possono diventare pienamente cittadini europei, nel rispetto delle loro singole diversità culturali e religiose.
Si tratta di una necessità di equità sociale sempre più cogente, visto l’imponente flusso migratorio proveniente dalla sponda africana del Mediterraneo. Di conseguenza, deve prevalere un intervento politico che contrasti visioni localistiche e protezionistiche, ormai pericolosamente fuori dal tempo. Soltanto se la società europea saprà condannare questi fermenti di odio e di violenza, sarà possibile contrastare e debellare il terrore.

La condanna al messaggio di odio dei terroristi deve passare anche attraverso i medesimi strumenti di propaganda finora usati dagli jihadisti. Quindi, bisognerà ricorrere a forme di mobilitazione di massa che dovranno attraversare trasversalmente proprio quei social network che hanno svolto da cassa di risonanza dei messaggi di odio e distruzione.

In questi giorni, si è riscontrato che la rete internet, attraverso Facebook, Twitter e gli altri principali social network, ha prodotto rapidamente una immediata risposta al messaggio di odio e terrore lanciato dai terroristi. Si tratta di una novità importante. Infatti, nel 2001, ai tempi dell’attentato alle Torri Gemelle, una simile reazione era impossibile a causa, sia dell’assenza delle attuali reti sociali, sia dell’assenza di consapevolezza collettiva del terrore globale.

In altri termini, la rete ha reso possibile una risposta immediata ed internazionale all’orrore, rendendo evidente come la diretta conseguenza della globalizzazione del terrorismo è stata la globalizzazione della sua condanna.

Si tratta di un atteggiamento condiviso importante ed incoraggiante, poiché la nostra società è ormai dominata dalle immagini e dalla comunicazione. E le immagini di morte che hanno visto come protagonisti i terroristi nei pressi della redazione di Chalie Hebdo sono state sopraffatte dalle coinvolgenti immagini ritraenti migliaia di persone scese spontaneamente in piazza a comunicare la loro alterità da tutto questo odio e da tutta questa violenza, indipendentemente dalle proprie rispettive opinioni politiche e religiose.

Siamo di fronte ad immagini che comunicano l’unione e la solidarietà su cui radicare un messaggio di speranza per uno sviluppo civile e tollerante dell’intera comunità mondiale.

Tale ultima affermazione trova anche riscontro nel fatto che nelle piazze vi erano molti cittadini musulmani, che sono le prime vittime morali di simili attentati. Le autorità islamiche francesi hanno avuto il coraggio di dichiarare senza ambiguità la loro condanna alla violenza, intesa anche come violenza interna alla loro religione. Soltanto in tal modo, è possibile non far ricadere su tutti i musulmani che vivono nei Paesi occidentali il sospetto di una loro possibile connivenza e probabile condivisione dei valori di odio e terrore trasmessi dagli jihadisti.

Nella medesima maniera, dovrebbe agire la politica, liberandosi da ogni atteggiamento ipocrita, come quello che permette di tollerare il fondamentalismo religioso (anche islamico) di certi paesi totalitari, soltanto in nome degli interessi economici.

In estrema sintesi, credo che stiamo vivendo un momento storico cruciale per la storia contemporanea, in quanto il mondo occidentale si trova di fronte ad un bivio. Da un lato, l’Occidente può manifestare i primi segnali di una positiva reazione collettiva all’odio ed al terrore, dall’altro, invece, può abbracciare un pensiero totalitariamente xenofobo, abbandonando il proprio destino agli istinti più bassi e segregazionisti e rinnegando tutto il retaggio della cultura della tolleranza che l’Illuminismo ci ha lasciato. Ricordo a tutti che Voltaire, nel suo celebre “Trattato sulla tolleranza”, ha rinvenuto nell’unione tra l’intolleranza e la tirannia la causa del regresso della società civile.

Dobbiamo ricordare, però, che la nostra ferma risposta a coloro che rappresentano il fanatismo deve agire nel rigoroso rispetto del principio di legalità, che è tanto importante, quanto la tutela delle libertà faticosamente conquistate nei secoli passati.

Uno dei rischi più gravi di questo attacco terroristico è che esso stimoli ulteriormente la xenofobia nei partiti estremisti europei (e non), i quali rappresentano un pericolo per la democrazia, alla stessa stregua dei fanatici islamisti.

Questa strage non deve far guadagnare aderenti alle organizzazioni ed ai gruppi che vorrebbero distruggere l’Europa e farla tornare all’epoca dei nazionalismi intolleranti e xenofobi dell’inizio del XX Secolo. L’Europa potrà fermare questa barbarie soltanto se i suoi cittadini saranno uniti in quest’ora difficile, comunicando un messaggio di tolleranza e rispetto reciproco.

Per il momento, le reazioni dell’opinione pubblica e del mondo politico ci consentono di sperare in un processo positivo. Ovviamente, tale spirito unitario e solidale deve essere quotidianamente coltivato, affinché prevalga anche in futuro.

Possiamo cominciare noi stessi, individuando insieme l’elenco di valori comuni che costituiscono il minimo comune denominatore della nostra società democratica e stigmatizzando tutti gli atti ed i fatti violenti che non possiamo subire. In seguito, bisognerà trasmettere tale humus culturale ed ideologico alle generazioni future, abituandole, sin dai primi anni del loro percorso di istruzione e formazione, alla convivenza ed alla tolleranza tra culture e religioni diverse.

Se il mondo occidentale riuscisse a perseguire tale risultato, il terrorismo scomparirebbe da solo, perché non troverebbe più alcun “terreno fertile” su cui attecchire.

Pertanto, è necessario promuovere con ogni mezzo una cultura di pace e di speranza capace di vincere la paura e di costruire ponti tra gli uomini. Infatti, l’unico bene fondamentale è la convivenza pacifica tra le persone ed i popoli, superando ogni differenza di civiltà, di cultura e di religione.

Personalmente, credo che tutto questo sia ancora possibile. Basta avere la speranza in un mondo migliore e privo di odio e diffidenza verso chi è diverso da noi.

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A.A.A. APPARTAMENTO DOTATO DI OGNI COMFORT AFFITTASI A PROSTITUTA REFERENZIATA.

Quella che vi propongo oggi è la vicenda giudiziaria di un imprenditore immobiliare abruzzese, alla cui attività di agente aveva affiancato quella di imprenditore del sesso. Secondo voi è pericoloso dare un immobile in locazione ad una squillo? Non è che rischiamo di finire in carcere, come l’imputato di questo processo, solo per aver affittato ad una di loro? Scopriamolo insieme.

di Michele De Sanctis

Colpevole di favoreggiamento della prostituzione: è questo il verdetto definitivo riconosciuto a carico di un agente immobiliare abruzzese, condannato in appello alla pena di 4 anni di reclusione e 5 di interdizione dai pubblici uffici, oltreché a diecimila euro di multa, in base all’art 3 comma 8 della L. n. 75/58 (c.d. Legge Merlin). Con Sent. n. 47387 dello scorso 18 novembre, la Terza Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione ha, infatti, confermato la condanna subita dall’imprenditore in secondo grado, facendo, dunque, scattare l’ordine di carcerazione e, nel contempo, l’esecuzione di precedenti condanne per altri reati, per un totale di 7 anni e 8 mesi di reclusione.

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A ricorrere al Giudizio di Legittimità era stato lo stesso agente immobiliare, indagato nel 2010 nel corso di un’operazione denominata ‘Non solo affitti 3’, dopo che in secondo grado si era visto confermare la condanna inflittagli dal Tribunale di Teramo nel dicembre del 2011 per favoreggiamento. Secondo l’accusa, a provare la sua colpevolezza era stata la stessa attività di agente immobiliare, attraverso cui l’uomo gestiva i contratti di locazione degli appartamenti in cui circa quaranta prostitute esercitavano abitualmente il loro mestiere, unitamente al fatto che questi si era reso disponibile ad assistere tali donne nelle loro varie necessità. L’uomo, peraltro, fin dal primo grado era stato assolto dall’accusa di sfruttamento della prostituzione perché il fatto non sussisteva, al pari dell’altro imputato, il proprietario di alcuni degli immobili, assolto sia dall’accusa di sfruttamento che di favoreggiamento. Ma per l’imprenditore restava in piedi il secondo dei due capi d’imputazione.

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Questi erano i fatti. Ora, però, analizziamo la sentenza della Cassazione e se avete un’inquilina poco raccomandabile di cui non sapete molto, tranquilli: il semplice ‘affitto’ ad una prostituta non è condotta sufficiente a provare la vostra colpevolezza (quanto meno mancherebbe l’elemento soggettivo). Sia che voi siate proprietari sia che svolgiate attività di mediazione immobiliare. Come noto, nel nostro Paese la prostituzione non è un reato, mentre lo è se ci si approfitta dell’altrui attività di meretricio, cioè se la si sfrutta, oppure semplicemente quando la si favorisce. È questa, infatti, la condotta contestata all’agente immobiliare, ma non per aver gestito i contratti di locazione di un gruppo di prostitute. La mera stipula del contratto, del resto, come in passato già precisato dagli Ermellini, di per sé “non integra la fattispecie criminosa, in quanto l’atto negoziale, in assenza di altre prestazioni accessorie, riguarda la persona e le sue esigenze abitative, e non costituisce diretto ausilio all’attività di prostituzione” (Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 7338 del 04/02/2014). Anzi, il proprietario di un immobile locato ad una squillo non commette reato di favoreggiamento della prostituzione, neppure se consapevole dell’uso che la donna ne faccia, trattandosi, in questo caso, tutt’al più di tolleranza, punita dal comma 2 dell’art. 3 della L. 75/1958. Ma non è colpevole di favoreggiamento, purché – badate bene- il canone di locazione sia onesto, vale a dire in linea con i prezzi di mercato, dal momento che “la stipulazione del contratto non rappresenta un effettivo ausilio per il meretricio” (Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 28754 del 20/03/2013). Pertanto, affinché il locatore (o l’agente immobiliare) possa essere ritenuto colpevole del delitto di favoreggiamento è necessario che questi fornisca qualcosa in più rispetto al semplice godimento del bene immobile, diciamo pure una sorta di extra che la Corte indica in “prestazioni accessorie che esulino dalla stipulazione del contratto ed in concreto agevolino il meretricio” (Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 33160 del 19/02/2013). L’extra offerto dal locatore può essere di varia natura: si va da attività decisamente partecipative all’esercizio dell’attività di meretricio (inserzioni pubblicitarie, fornitura di preservativi, ricezione dei clienti: Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 7338/2014) fino a collaborazioni meno ‘fattive’, ma, non per questo, meno censurabili dal punto di vista penale.
Nel caso di specie, ad esempio, l’agente immobiliare abruzzese, consapevole che le inquiline avrebbero utilizzato quegli appartamenti per prostituirsi, non solo aveva locato tali immobili a un prezzo superiore a quello di mercato, ma si era, peraltro, attivato per favorire il più possibile quella loro particolare attività professionale, predisponendo a tal proposito “un allestimento specifico degli appartamenti diretto a ottimizzare il loro utilizzo per la prostituzione, collocandosi letti matrimoniali anche nelle cucine” (Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 47387 del 18/11/2014). L’uomo, poi, si era altresì reso disponibile ad assistere le donne in molte altre necessità quotidiane: accompagnandole, per esempio, a fare la spesa o in banca o scortandole fino a casa di qualche conoscente.

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La Cassazione non ha, dunque, ravvisato vizi di legittimità nella pronuncia del Giudice d’Appello, secondo cui l’imputato, lungi dall’essersi limitato alla mera locazione delle abitazioni in gestione a un gruppo di squillo, era, piuttosto, “colui che tirava i fili di tutta una organizzazione che favoriva l’attività delle prostitute sue inquiline” (Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 47387 del 18/11/2014), così commettendo il reato contestatogli che testualmente punisce “chiunque in qualsiasi modo favorisca o sfrutti la prostituzione altrui” (art. 3 comma 8 della L. 75/1958). In qualsiasi modo, anche con una locazione particolare. L’uomo, originario di un comune della costa abruzzese tra le province di Teramo e Pescara, è attualmente detenuto presso la Casa Circondariale teramana di Castrogno, dopo l’ordine di carcerazione portato ad esecuzione lo scorso 26 novembre.

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DANNI DA INSIDIE STRADALI: ECCO UN CASO IN CUI SPETTA IL RISARCIMENTO.

Per i danni da omessa manutenzione della strada a risponderne è il Comune, a meno che non venga dimostrato il caso fortuito – Corte di Cassazione Civile, sentenza 23 ottobre 2014, n. 22528.

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di Michele De Sanctis

Se il pedone scivola su un ‘cubetto instabile’ non visibile né segnalato, il Comune deve risarcire il danno. È quanto ha stabilito la IV Sezione della Suprema Corte di Cassazione con sentenza del 23 ottobre 2014, n. 22528. I giudici di Piazza Cavour nel cassare la precedente decisione d’appello, che aveva risparmiato il Comune dalla condanna, ha richiamato un ragionamento giuridico su cui si fonda un orientamento ormai pacifico sia in giurisprudenza che in dottrina. Tale ragionamento poggia sulla figura pretoria della cd. insidia stradale e del trabocchetto, per cui la Pubblica Amministrazione è tenuta a mantenere il patrimonio stradale in uno stato tale da impedire che l’utente possa subire conseguenze pregiudizievoli a causa dell’esistenza di situazioni di pericolo occulte e imprevedibili.

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Questi i fatti. In primo grado il Tribunale accoglieva la richiesta di risarcimento danni avanzata da un pedone per un sinistro occorsogli nel comune di Guardia Sanframondi. Tuttavia, tale decisione veniva rigettata in secondo grado dalla Corte di Appello di Napoli, che dava ragione al Comune.

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Per la Cassazione, al contrario, il caso doveva essere esaminato alla luce dei principi di cui all’art. 2051 c.c. (Danno cagionato da cosa in custodia). La Corte, infatti, ha dapprima richiamato una consolidata sequenza di decisioni in materia (per tutte cfr. Cass. n. 9546/2010), basata, peraltro, su una lettura costituzionalmente orientata delle norme di tutela riferite alla responsabilità civile della Pubblica Amministrazione, rispetto alla non corretta manutenzione del manto stradale e del marciapiede, che costituisce il normale percorso di calpestio dei pedoni). Successivamente il giudice ha affermato che “la presunzione di responsabilità di danni alle cose si applica, ai sensi dell’art. 2051 c.c. per i danni subiti dagli utenti dei beni demaniali, quando la custodia del bene, intesa quale potere di fatto sulla cosa legittimamente e doverosamente esercitato, sia esercitabile nel caso concreto, tenuto conto delle circostanze, della natura limitata del tratto di strada vigilato”. Questa presunzione può essere superata solo con la prova del caso fortuito che – ha rilevato la Cassazione – non sussiste nel caso in esame, dal momento che il danneggiato è caduto “in presenza di un avvallamento sul marciapiede coperto da uno strato di ghiaino, ma lasciato aperto al calpestio del pubblico, senza alcuna segnalazione delle condizioni di pericolo”.

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Per questi motivi, la Corte ha accolto il ricorso del pedone e rinviato il giudizio alla Corte di Appello di Napoli, in diversa composizione.

Di seguito in testo della sentenza Cass. n. 22528 del 23 ottobre 2014.

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Fatto e diritto

R.G. ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi avverso la sentenza della Corte d’Appello di Napoli del 28.5.2010 che ha accolto l’appello proposto dal Comune di Guardia Sanframondi in un giudizio di risarcimento danni da sinistro stradale, causato dallo scivolamento dell’attuale ricorrente, all’epoca dei fatti minore, su un cubetto instabile della pavimentazione stradale “non visibile, né segnalato”, che gli aveva causato lesioni personali alla caviglia sinistra.
Resiste con controricorso il Comune di Guardia Sanframondi.
I motivi esaminati congiuntamente sono fondati ed il ricorso va , quindi, accolto.
L’errore del ragionamento giuridico, compiuto dalla Corte di merito sta nell’avere applicato al caso in esame una giurisprudenza ormai superata basata sui caratteri dell’insidia e trabocchetto.
Questa Corte, viceversa, con una sequenza consolidata di decisioni, da Cass. 6 luglio 2006 n. 15383 a Cass. 22 aprile 2010 n. 9546 sino a recentissime pronunciate – con una lettura costituzionalmente orientata delle norme di tutela riferite alla responsabilità civile della pubblica amministrazione in relazione alla non corretta manutenzione del manto stradale e del marciapiede, che costituisce il normale percorso di calpestio dei pedoni – ha stabilito che la presunzione di responsabilità di danni alle cose si applica, ai sensi dell’art. 2051 c.c. per i danni subiti dagli utenti dei beni demaniali, quando la custodia del bene, intesa quale potere di fatto sulla cosa legittimamente e doverosamente esercitato, sia esercitabile nel caso concreto, tenuto conto delle circostanze, della natura limitata del tratto di strada vigilato. La presunzione in tali circostanze resta superata dalla prova del caso fortuito, e tale non appare il comportamento del danneggiato che cade in presenza di un avvallamento sul marciapiede coperto da uno strato di ghiaino, ma lasciato aperto al calpestio del pubblico, senza alcuna segnalazione delle condizioni di pericolo.
Le censure, unitariamente considerate, pongono in evidenza gli errori di applicazione delle norme giuridiche rispetto alla fattispecie come circostanziata, per fatto illecito e responsabilità da custodia, dovendo, viceversa, il caso essere esaminato alla luce dei principii di cui all’art. 2051 c.c..
La cassazione avviene con rinvio alla Corte di appello di Napoli in diversa composizione, con vincolo di attenersi ai principi di diritto come sopra enunciati, e ribaditi nel precedente di questa Corte del 22.4.2010 n. 9546; Cass. 15.10. 2010 n. 21329). Le spese sono rimesse al giudice del rinvio.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso, cassa e rinvia anche per le spese di questo giudizio di cassazione alla Corte di appello di Napoli in diversa composizione.

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DAVIDE, PICCHIATO DALLA FAMIGLIA PERCHÉ GAY.

Proprio stamattina una pagina Facebook dedicata alle scienze naturali pubblicava un album fotografico, in cui si mostravano cuccioli di orso, giraffa e koala teneramente avvolti dall’abbraccio della mamma e del papà. Titolo, la famiglia: è lì che ti senti sempre al sicuro. Si trattava semplicemente di uno di quei post ‘acchiappa-like’ che ’fanno al bene al cuore’ di chi ha la pancia piena e la testa vuota, dall’animo tendenzialmente incline alla facile commozione, ma spesso irriducibile dinanzi alle devianze della società – è così che oggi (???) va di moda bollare ciò che non è conforme a mamma orsa che col marito scalda i suoi dolcissimi orsacchiotti. In effetti, la famiglia è il posto in cui dovremmo essere accettati per quello che siamo: per una legge del sangue, per l’appartenenza al nucleo, per la storia comune, per un amore che va oltre ogni comprensione. In teoria. A volte, tuttavia, i legami familiari sono deviati, malati. Talora la condanna di quella che vuole essere vista come una scelta è più forte di ogni altro sentimento. Deviato non è, però, il soggetto che a mamma orsa preferisce un daddy bear (perché, se permettete, cosa facciamo sotto le coperte sono affari nostri). Il legame familiare, in questi casi, risulta infettato dal pregiudizio, dall’odio. Soprattutto, dalla paura del diverso. Quella che leggerete tra poco è una vicenda triste, una brutta storia, una di quelle che, francamente, vorrei non accadessero più. Una vicenda, che non dovrebbe verificarsi in un Paese laico, civile e democratico. E se non ‘scalda il cuore’ di chi ha ‘voglia di tenerezze’, pazienza. Il mio intento è disturbare le coscienze altrui. Facebook, in fondo, è pieno di ‘micini coccolosi’, che non troverete mai su questa pagina, perché preferiamo perdere un like, ma conservare la dignità.

Nonostante il disgusto che ho provato nel leggerlo, quest’articolo di cronaca va, comunque, condiviso e diffuso, perché dobbiamo riflettere sugli effetti drammatici di un odio inarrestabile, che sembra diffondersi nella società italiana come un virus. E miete vittime, non solo tra gay, lesbiche e trans, ma tra tutti coloro che sono considerati diversi: tra stranieri, clochard e tossicodipendenti. En passant, voglio rivolgermi al gentile signore che sulla mia bacheca personale (parzialmente pubblica) ha commentato un link di BlogNomos con una fotina di Hitler e la scritta in maiuscolo “ALLE DOCCE”: mi sono appena lavato, se la risparmi pure, oggi; o, alla prossima, non mi limiterò a cancellare il suo ridicolo commento, ma la denuncerò per apologia e minacce, continuando a non darLe la soddisfazione di una risposta. Perché non ne è degno. Alle docce di Hitler, non ci si lavava, come io ho fatto poco fa. Si moriva. E lei è forse Dio per decidere della vita e della morte di un altro essere umano?

Tornando al tema di questo post, la storia su cui vi invito ad una profonda riflessione è quella di Davide, un ragazzo siciliano di vent’anni, picchiato e segregato in casa dalla famiglia, dopo aver confessato la sua omosessualità, affinché espiasse la vergogna arrecata a tutti quanti. La vergogna, quel sentimento nobile, che fiorisce accanto alla dignità, nella coscienza di ognuno. Ma vergognarsi dei sentimenti di un figlio fino ad infliggergli violenza fisica e psichica, non ha nulla di nobile: è ignoranza, cattiveria, cinismo e incapacità d’amare. E chi è incapace d’amare prova fastidio anche per i sentimenti altrui e non sa far altro che esprimersi con la violenza, prima arma della persona ignorante. Per il padre/carceriere di Davide sarebbe stato meglio un figlio drogato o in galera. Così il ragazzo, visto che, di fatto, in galera già c’era, lo scorso agosto, si è lanciato di notte dalla finestra, rischiando la morte, pur di fuggire via, verso la libertà. La storia, seppur triste, ha un lieto fine (lieto perché nessuno ha perso la vita). Ora, infatti, Davide vive in un’altra città, ha un lavoro e condivide un appartamento con altri ragazzi. Ogni tanto riceve un messaggio su Facebook da un’amorevole zia che gli scrive: ‘impiccati’. Secondo loro non devo esistere, racconta Davide. Tu, invece, esisti, Davide. E ne hai ogni diritto. Ricordalo sempre.

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Queste sono storie d’ordinaria follia italiana, di un piccolo mondo antico, ancora vivissimo, dove l’ipocrisia è una malattia letale e dove abbandonare le proprie radici è l’unica via di scampo. Capirete, quindi, perché, dopo che ho visto mamma orsa stamattina, ho smesso di seguire quella pagina Facebook dedicata alle scienze naturali. Davvero molto poco scientifica, direi. La fuga dalla famiglia, come quella di Davide, ancora oggi, è il solo mezzo per evitare che la tua vita diventi erba da marciapiede, calpestata da tutti. Per evitare il labirinto della loro follia, o quel tunnel a senso unico, oltre cui c’è solo il suicidio.

Vi lascio all’articolo di cronaca pubblicato da Meridionews – ed. Catania.

Andrea Serpieri

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LEGGI ANCHE ‘SE L’OMOFOBIA È PIÙ FORTE DELL’AMORE’

CRONACA – Una notte di agosto un ragazzo fugge da casa. Per tre settimane padre, fratello e zii lo hanno tenuto segregato, picchiandolo più volte. La sua colpa? Essere omosessuale. «Secondo loro non devo esistere. Non a queste condizioni»

«Avevo davanti due scelte: farmi uccidere o provare a scappare». Davide ha poco più di vent’anni e un viso pulito nel quale sembra facile leggere ogni emozione. Una notte di agosto ha scelto di fuggire dalla casa nel quale è nato e cresciuto. Una casa nella quale è rimasto rinchiuso per tre settimane senza poter avere contatti con l’esterno. Si è lasciato cadere da un balcone del secondo piano, ha dormito nei campi, ha preso un treno per lasciarsi alle spalle la sua famiglia. Padre, fratello, zii per i quali ha commesso una gravissima colpa: essere omosessuale.

Davide non vuole che il suo nome venga cambiato per raccontare la sua storia. «Io sono questo», afferma scuotendo leggermente la testa, come se l’idea di usare uno pseudonimo fosse quasi inconcepibile. La sua vita, prima di questa estate, scorre tranquilla in un paesino del Palermitano. La scuola, i lavoretti, gli amici con cui uscire il sabato in città. Qualche malalingua ogni tanto racconta alla famiglia qualche storia, insinuazioni che lui puntualmente respinge. «Era l’unica cosa che dovevo tenere nascosta».

Poi una sera, al culmine dell’ennesima lite, decide di parlare chiaramente al padre. «Mi ha chiesto: “Ti droghi? Parla con me. Qualsiasi cosa sia, io ci sono”». Ma quando finalmente le labbra articolano quel pensiero celato per anni, «lui mi ha detto che era meglio che fossi drogato. Meglio la galera, una rapina in banca». Chiama così il fratello e gli zii di Davide che lo picchiano selvaggiamente, per fare espiare quella che ai loro occhi è una colpa.

“Secondo loro non devo esistere. Non a queste condizioni”

«Per tre settimane ho vissuto rinchiuso», ricorda. Difficile per il circolo palermitano di Arcigay intervenire. Il tentativo di servirsi di un cellulare per chiedere aiuto scatena nuove violenze. Lunghe giornate passate chiuso in camera, la famiglia costretta a mentire su dove si trovasse il ragazzo e perché non rispondesse al telefono. È anche il pensiero di mettere al riparo da quelle violenze gli amici che tormenta Davide. «Dovevo proteggerli – spiega – avevo paura che facessero loro qualcosa di male».

«L’unica mia idea, una fissazione, era andare via». Una sera di agosto, raccoglie qualche vestito e i pochi risparmi messi al sicuro. Lancia il borsone dal secondo piano, poi si lascia scivolare anche lui dal balcone rischiando di farsi del male. «Non mi importava, dovevo scappare». La prima notte la passa in mezzo alle campagne. «Avevo paura che mi venissero a cercare». Una volta giunto alla stazione, gli vengono in mente alcune persone conosciute durante una festa a Catania. «Ho comprato il biglietto e sono venuto qui», afferma con semplicità.

A chi chiede aiuto non racconta quanto ha appena vissuto, anche se qualche livido spicca sulla carnagione chiara. «La prima notte che ho passato a Catania ho pensato: “Come faccio a restare?”». In tasca 80 euro e una casa che non può più chiamare tale. Quando confida quanto ha appena vissuto, trova accoglienza, calore, affetto. «Sono stato fortunato. Mi rendo conto che avrei potuto fare una brutta fine. Se ne sentono tante in giro… Avrei potuto non essere vivo».

Da quei giorni sono passati pochi mesi. Davide ha un lavoro stabile, condivide un appartamento con altri fuori sede. Ogni tanto una zia lo contatta su Facebook. «Mi scrive “impiccati” – racconta – Secondo loro non devo esistere. Non a queste condizioni». Gli insulti, quelli più coloriti, non riesce quasi a ripeterli. Una sorta di pudore, un’educazione d’altri tempi, gli impedisce di riportare quelle frasi. Dopo la sua partenza, la famiglia ha solo segnalato l’allontanamento di Davide ai carabinieri, non la scomparsa. E, dal canto suo, il giovane ha deciso di non denunciare quanto subito.

“Sono stato fortunato. Mi rendo conto che avrei potuto fare una brutta fine. Avrei potuto non essere vivo”

«Con la mia famiglia non ho più contatti, ma ci siamo visti con mio padre». L’uomo non ha mai preso parte ai pestaggi, «ma ha chiamato lui mio fratello e i miei zii per farmi picchiare», precisa indurendo lo sguardo. Anche se i chilometri li dividono, le raccomandazioni sono sempre le solite: «Non frequentare persone sbagliate». Intendendo amici omosessuali. «A me non interessa». Alza gli occhi, si blocca per qualche istante. Sembra ripercorrere tutte le sofferenze che è stato costretto ad affrontare. Poi si rilassa. «Adesso ho la mia vita da vivere».

11 novembre 2014

di Carmen Validano

MERIDIONEWS Ed. Catania

NO, L’OMOFOBIA NON È UN’OPINIONE.

di Andrea Serpieri

Nei giorni scorsi in diverse piazze italiane sono tornate le sentinelle in piedi. Queste figure altro non sono che riedizioni stantie di un Savonarola che la stessa storia ha già condannato, donne che vivono la propria confessione come se fossero replicanti di una Giovanna d’Arco postmoderna, neo-crociati della fede che si battono contro la diffusione delle teorie di genere – strumenti occulti del demonio, con cui il male tenta di farsi strada nell’umanità. Sono, quindi, i paladini del bene, laddove il male è rappresentato da quell’amore che, come cantava Dante, ‘puote errar per male obiecto’. Il male del 2000, infatti, sono i gay. Ed ecco, allora le sentinelle farsi difensori del diritto all’omofobia. Il diritto di dire no all’altrui libertà, se questa libertà fa dispiacere a Gesù, e di recriminare, nel contempo, un razzismo inverso ai propri danni: quello di chi isola gli omofobi come tali. Quando, invece, la loro è solo difesa strenua e santa (e dunque benedetta) della famiglia naturale. Dell’amore puro tra un uomo e una donna (biologici), di quell’amore, che Dante celebrava come ‘lo naturale’, quello che pertanto ‘è sempre senza errore’.

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Lungi da me la condanna del Sommo Poeta, a cui ricorro soltanto per dimostrare la più totale inattualità delle parole con cui le sentinelle difendono le proprie opinioni. Opinioni che, piuttosto, sarebbero state adatte ai tempi dello stesso Alighieri. Meglio ancora: le sentinelle avrebbero trovato il più opportuno spazio alle proprie idee all’epoca della Santa Inquisizione, quando, in un virtuale confronto, perfino gli abitanti dell’Atene del V secolo a.c. sarebbero parsi di mentalità più aperta.

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Sorto all’indomani dell’approvazione del DL Scalfarotto dello scorso anno, questo movimento ha finora manifestato contro i diritti – ad oggi, tuttavia, solo rivendicati, ma nient’affatto riconosciuti – delle popolo LGBTQIA. Sebbene si siano sempre dichiarati aconfessionali e apartitici, le sentinelle manifestano le proprie idee con il sostegno esplicito e per nulla ininfluente delle destre e dei centristi, oltreché della stampa cattolica e delle più alte eminenze ecclesiastiche.

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Se la tesi di fondo delle sentinelle è quella di poter liberamente manifestare il proprio pensiero, BlogNomos che si è sempre occupato, per sua stessa vocazione, di diritti umani e civili e che dell’educazione alla legalità ha fatto il proprio principio ispiratore, propone a voi tutti (e a questi soggetti) una riflessione costituzionalmente orientata su tale affermazione. Invocare l’art. 21 Cost. per manifestare liberamente e legittimamente il proprio pensiero, infatti, non basta. Le norme giuridiche, a partire da quelle alla base del nostro ordinamento, costituiscono un sistema e sistematicamente, quindi, devono essere intese. L’art. 21, per esempio, è annoverato nel Titolo I della Carta, quello dedicato ai Rapporti Civili, che, sebbene contemplati dalla stessa Costituzione, devono, comunque, attendere ai cd. Principi Fondamentali, contenuti nei primi dodici articoli. Questi ultimi individuano le caratteristiche generali, i valori fondamentali, e, potrebbe dirsi, la fisionomia stessa della Repubblica Italiana. Per tale ragione, i principi fondamentali devono essere utilizzati obbligatoriamente per interpretare tutte le altre norme costituzionali, art. 21 compreso. Oltretutto, i principi fondamentali, proprio perché individuano i valori fondamentali di questo Stato, non sono modificabili, salvo l’ipotesi remota di un colpo di Stato. La Corte Costituzionale può arrivare anche ad abrogare leggi ed atti aventi valore di legge, qualora fossero in contrasto con i principi fondamentali. E la giurisprudenza costituzionale, fin da quando il Palazzo della Consulta è stato operativo, ha offerto innumerevoli sentenze, che le sentinelle farebbero forse bene a visionare. Cambiare i principi fondamentali significherebbe, quindi, cambiare il tipo di Stato. I Principi Fondamentali della Costituzione hanno, pertanto, il compito di impegnare i futuri governanti a realizzare norme che traducano in pratica quanto in esse contenuto. Per questo motivo hanno valore di ‘norme programmatiche’. Ora, all’art. 3, la Costituzione della Repubblica Italiana pone questo principio fondamentale:

“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

Dalla lettera del diritto discende che se l’art.3 è un principio fondamentale (e lo è), significa non solo che lo Stato italiano ha l’obbligo di tutelare anche i diritti degli omosessuali, ma che l’istigazione all’odio, così come perpetrata dalle sentinelle, non può essere libertà d’espressione.

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Fatto questo breve quadro sinottico sul diritto costituzionale vigente, sento il dovere (più intellettuale che morale) di contestare alle sentinelle in piedi anche la pretesa (infondata) di spacciare per scientifica e legittima la paura e l’odio che nutrono verso gay, lesbiche e transgender. Dal Rapporto Kinsey in poi, la scienza ha, peraltro, dimostrato che l’omoaffettività non è una patologia e dal 17 maggio 1990 l’omosessualità è stata depennata dal manuale diagnostico e statistico delle malattie mentali e le ricerche più recenti dimostrano come le famiglie omogenitoriali non rappresentino un rischio né per il bambino né per la società civile. Mi chiedo se i libri che le sentinelle portano in piazza rechino queste notizie o se preferiscano la più rassicurante censura…

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In verità, nonostante le sentinelle in piedi si professino pacifiche, ciò che rivendicano è il diritto di discriminare ed opprimere, invocando la negazione delle libertà per tante donne e tanti uomini che considerano ‘diversi’ solo perché assolutizzano un modello di ‘normalità’ che sentono di incarnare e che la società propone come tale. (Chi è patologico?) La loro opinione altro non è che un insulto ai diritti umani. Protestare contro l’introduzione del reato di omofobia e ridurre in questo modo a mera opinione ciò che ha condotto e conduce a tanti episodi di violenza, a tanti casi di suicidio, alle quotidiane aggressioni, agli episodi di bullismo ai danni di fragili ragazzi gay, fino alla violenza psicologica e verbale che in Italia si manifesta anche nelle dichiarazioni pubbliche di ministri come Alfano e in eurodeputati come Buonanno, significa disprezzare il valore assoluto che ogni essere umano, unico ed irripetibile, porta con sé. Significa non avere alcun rispetto proprio della ‘vita’.

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E se i nostri rappresentanti in Parlamento non saranno in grado di tutelare i propri cittadini, sarà compito dell’Unione Europea offrire una tutela all’Italia LGBT. L’Europa non ci chiede solo il pareggio di bilancio.

“Il Parlamento europeo […] ribadisce il suo invito a tutti gli Stati membri a proporre leggi che superino le discriminazioni subite da coppie dello stesso sesso e chiede alla Commissione di presentare proposte per garantire che il principio del riconoscimento reciproco sia applicato anche in questo settore al fine di garantire la libertà di circolazione per tutte le persone nell’Unione europea senza discriminazioni.”
(Risoluzione del Parlamento europeo del 26 aprile 2007 sull’omofobia in Europa, art 8).

“Il Parlamento europeo […] condanna i commenti discriminatori formulati da dirigenti politici e religiosi nei confronti degli omosessuali, in quanto alimentano l’odio e la violenza, anche se ritirati in un secondo tempo, e chiede alle gerarchie delle rispettive organizzazioni di condannarli.”
(Risoluzione del Parlamento europeo del 26 aprile 2007 sull’omofobia in Europa, art 10).

O sarà, forse, la Comunità Internazionale ad imporre all’Italia un comportamento civile? L’Articolo 2 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, ratificata dall’Italia con L. n. 848/55, contiene, infatti, due indicazioni relative alla non discriminazione in genere:

“Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del Paese o del territorio cui una persona appartiene, sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi limitazione di sovranità.”

Il successivo articolo 7 proibisce, poi, ogni forma di discriminazione:

“Tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad una eguale tutela da parte della legge. Tutti hanno diritto ad una eguale tutela contro ogni discriminazione che violi la presente Dichiarazione come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione.”

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No, decisamente l’omofobia non è una di quelle opinioni che le sentinelle possano liberamente manifestare.

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CASSAZIONE SHOCK: ATTENUANTI PER STUPRO ALL’UOMO CHE VIOLENTAVA LA MOGLIE SOTTO L’INFLUENZA DELL’ALCOL.

di Michele De Sanctis

Pur se la violenza sessuale è stata completa, è lecito concedere l’attenuazione della pena. È questo quanto è stato recentemente deciso dalla Terza Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione, con Sentenza n. 39445 depositata lo scorso 25 settembre (udienza del primo luglio). La Corte ha annullato (con rinvio) la precedente decisione della Corte di Appello di Venezia, che condannava un uomo per violenze ripetute sulla moglie, confermando, peraltro, il giudizio di I grado. Avverso la sentenza di II grado, l’imputato aveva presentato ricorso in Cassazione, sostenendo che andava valutata la ‘qualità’ del gesto (e segnatamente il grado di coartazione, il danno arrecato e l’entità della compressione), più che la ‘quantità’ della violenza fisica esercitata.

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Infatti, i giudici veneziani nel condannarlo per stupro e maltrattamenti in famiglia, avevano negato la concessione di attenuanti alla pena, rilevando che una violenza sessuale non è mai un “fatto di minore gravità”. Tuttavia, a giudizio degli Ermellini, non può negarsi tale concessione, anche in un caso come quello di specie, in cui la violenza perpetrata ai danni della vittima è stata completa, dal momento che la “tipologia” dell’atto sarebbe “solo uno degli elementi indicativi dei parametri”, in base a cui stabilire la gravità della violenza e non costituirebbe, dunque, un elemento “dirimente”.

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In particolare, la Suprema Corte ha sottolineato che “così come l’assenza di un rapporto sessuale ‘completo’ non può, per ciò solo, consentire di ritenere sussistente l’attenuante, simmetricamente la presenza dello stesso rapporto completo non può, per ciò solo, escludere che l’attenuante sia concedibile, dovendo effettuarsi una valutazione del fatto nella sua complessità”. Nel caso di specie, la decisione dei giudici d’appello risulta viziata, in quanto sarebbe “mancata ogni valutazione globale”, in particolare “in relazione al fatto che le violenze sarebbero sempre state commesse sotto l’influenza dell’alcol”.

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Davvero singolare, in realtà, risulta la valutazione della commissione di un reato in stato di ebbrezza quale circostanza meritevole di valutazione ai fini della concessione dell’attenuazione della pena, ove, per altri reati, la stessa è, invece, una circostanza aggravante. Né lo stato di alterazione psichica procuratosi dall’aggressore può considerarsi alla stregua di un’attenuante generica ex art. 62bis cp, ossia come una di quelle circostanze indeterminate e non tipizzate, che il giudice può prendere in considerazione quando le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena. Tuttavia, lo stato di ebbrezza dell’aggressione non è il solo parametro di riferimento. La Corte, a tal proposito, rileva che “ai fini della concedibilità dell’attenuante di minore gravità, assumono rilievo una serie di indici, segnatamente riconducibili, attesa la ‘ratio’ della previsione normativa, al grado di coartazione esercitato sulla vittima, alle condizioni fisiche e mentali di quest’ultima, alle caratteristiche psicologiche, valutate in relazione all’età, all’entità della compressione della libertà sessuale ed al danno arrecato alla vittima anche in termini psichici”.
Se così non fosse, – prosegue la Corte – si verrebbe a riprodurre la “vecchia distinzione, ripudiata dalla nuova disciplina, tra ‘violenza carnale’ e ‘atti di libidine’ che lo stesso legislatore ha ritenuto di non focalizzare preferendo attestarsi sulla generale clausola di ‘casi di minore gravità’”.

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Il problema, però, è che per mezzo di questa clausola, il reato in parola, a prescindere dalla fattispecie in esame, sembra uscire in qualche misura ‘derubricato’. Come se l’analisi formale delle parole del Legislatore avesse scoperto che la norma, in realtà, prevede una sorta di bonus per tutti quei rispettabili padri di famiglia, che, nel chiuso delle pareti domestiche, in preda ai fumi dell’alcol, sono soliti picchiare e violentare la moglie. In effetti, per come è impostato il ricorso dell’aggressore, che la Cassazione ha accolto, si è quasi portati a pensare che l’ebbrezza fosse addirittura propedeutica alla violenza. Se così fosse, tuttavia, le attenuanti non sarebbero concedibili: la fattispecie si configurerebbe come ‘actio libera in causa’, ossia come quel fenomeno (giuridicamente rilevante) che si verifica quando un soggetto si ponga in stato di incoscienza al fine di commettere un reato o di procurarsi una scusante. In tal caso, infatti, viene applicata la pena anche se chi ha commesso il fatto era in stato di incapacità di intendere e di volere al momento della consumazione del reato. Ma dobbiamo sempre ricordare che la Corte di Cassazione non giudica i fatti nel loro merito. La Corte, piuttosto, ha precisato che la circostanza attenuante “deve considerarsi applicabile tutte quelle volte in cui – avuto riguardo ai mezzi, alle modalità esecutive ed alle circostanze dell’azione – sia possibile ritenere che la libertà sessuale della vittima sia stata compressa in maniera non grave”. E questo vale anche nel caso di specie.

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La Corte di Appello di Venezia, per negare l’attenuante, aveva fatto riferimento soltanto “ai plurimi rapporti sessuali completi ottenuti con la violenza e senza il minimo rispetto della dignità e libertà di determinazione della donna”. L’attenuante, però, può essere applicata tutte le volte in cui è possibile ritenere “che la libertà sessuale della vittima sia stata compressa in maniera non grave”. Per la Cassazione, infatti, è necessaria “una disamina complessiva, con riferimento alla valutazione delle ripercussioni delle condotte, anche sul piano psichico, sulla persona della vittima”: i giudici, in casi come quello esaminato, non possono fare come i magistrati della Corte di Appello di Venezia che si sono piuttosto “limitati” a “descrivere il fatto contestato, necessariamente comprensivo, per la stessa definizione normativa, di violenza, senza tuttavia analizzarne, come necessario, gli effetti”.
Il caso viene, quindi, rinviato ad altra sezione della Corte di Appello del Capoluogo lagunare.

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CASSAZIONE: MARITO MAMMONE, MATRIMONIO NULLO.

La mamma è sempre la mamma. In Italia, poi, più che altrove, quest’affermazione trova piena conferma negli usi e costumi di una società che non si è mai posta troppe domande quando un giovane di trent’anni, benché occupato e senza particolari problemi economici, sceglieva di restare a casa. Meno ancora se ne pone adesso, in tempi di magra, in cui anche coloro i quali vorrebbero emanciparsi sono, invece, costretti a stare da mamma, oltre il limite della decenza, a causa del lavoro che non c’è o non è pagato a sufficienza. Ma, se il legame con la madre diventa patologico, non è questione di congiuntura economica: qualcosa non va. Anzi, c’è il serio rischio che un’eventuale vita di coppia possa risultarne seriamente compromessa.

di Michele De Sanctis

Un legame troppo intenso di dipendenza del marito dalla propria figura materna, tale da generare problematiche di natura sessuale, contestualmente ad “un comportamento anaffettivo e indifferente nei confronti” della moglie ignara di una simile ‘patologia’ accusata dal consorte, può essere causa di annullamento del matrimonio concordatario, anche ai fini della nullità di quello civile. È quanto afferma la Suprema Corte di Cassazione, I Sez. Civ., con sentenza n. 19691 del 18 settembre 2014, ammettendo la nullità del matrimonio concordatario di una coppia di coniugi mantovani ritrovatasi in tale situazione non appena iniziata la nuova vita coniugale.

La Corte d’Appello di Brescia, contro la cui decisione era stato proposto ricorso dinanzi al Giudice di Legittimità, aveva esaminato nel 2012 una richiesta di delibazione di una sentenza resa dal Tribunale Ecclesiastico Regionale Lombardo nel 2010, che, a sua volta, aveva considerato rilevante l’accertamento di una patologia a carico di uno dei coniugi (un legame morboso con la madre) ai fini della dichiarazione di nullità del matrimonio concordatario celebrato nel 2007.

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Secondo i Giudici Ecclesiastici, l’uomo aveva sviluppato una vera e propria dipendenza dalla figura materna tale da impedirgli di adempiere anche le minime manifestazioni d’affetto nei confronti della moglie – e necessarie a preservare l’equilibrio psicofisico della coppia. Comportamento che, nella decisione assunta secondo il diritto canonico, integrerebbe un patologia (di cui lo stesso soggetto afflitto, fin dalle prime manifestazioni, ignorava l’esistenza). Più esattamente, il Tribunale Ecclesiastico, sottoponendo i coniugi a test e perizie, era arrivato alla conclusione che l’uomo, a causa del particolare rapporto di dipendenza dalla madre, aveva sviluppato una “patologia produttiva dell’incapacità ad assumere l’obbligo di quella minima integrazione psico-sessuale che il matrimonio richiede, con la conseguenza di un comportamento anaffettivo e indifferente nei confronti” della compagna. Legittima, dunque, la richiesta di dichiarare la nullità del matrimonio. Aspetto da non sottovalutare ai fini dell’esame di questa sentenza è che la richiesta di nullità era stata fatta dal marito, non dalla moglie.

Tale nullità veniva successivamente riconosciuta, in fase delibativa, dal giudice italiano, nella specie, la Corte d’appello territorialmente competente. Brevemente, per i non addetti ai lavori, si chiarisce che la delibazione è una procedura giudiziaria con cui in un determinato Paese si riconosce un provvedimento giudiziario emesso da un’Autorità straniera. Lo stesso vale per il riconoscimento delle decisioni prese dai Tribunali Ecclesiastici, posto che quello canonico è un diritto di un altro Stato, il Vaticano. Il procedimento in questione si instaura in Corte d’Appello.

In seguito a tale decisione, la donna si opponeva al riconoscimento del Giudice Civile, sostenendo che l’uomo era perfettamente consapevole delle turbe che lo affliggevano ed era soltanto lei ad essere all’oscuro degli effetti negativi del legame morboso del marito con sua suocera. Secondo la ricorrente, dunque, il matrimonio era perfettamente valido, con la conseguenza di aver diritto, quale effetto della separazione, all’assegno di mantenimento.

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I Giudici di Piazza Cavour, tuttavia, nel motivare la propria decisione, rilevavano come, nel decidere sulla delibazione, il giudice italiano non possa sindacare nel merito le valutazioni operate dal Tribunale Ecclesiastico, o da qualunque altra Autorità Giudiziaria straniera. Pertanto, la Corte rigettava il ricorso della moglie, evidenziando, peraltro, che “in un caso come quello in esame in cui l’altro coniuge ha determinato con la sua incapacità derivante da una patologia psichica, la invalidità del matrimonio concordatario si pone, sia pure ex post, una questione di effettività e validità del consenso che prevale sulla tutela dell’affidamento riposto dal coniuge inconsapevole al momento della celebrazione del matrimonio”. La Cassazione, inoltre, ha precisato che “la giurisprudenza ha da tempo affermato che la delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa di nullità del matrimonio concordatario per ‘incapacitas assumendi onera coniugalia’ di uno dei coniugi non trova ostacolo nella diversità di disciplina dell’ordinamento canonico rispetto alle disposizioni del codice civile in tema di invalidità del matrimonio per errore essenziale su una qualità personale del consorte e precisamente sulla ritenuta inesistenza in quest’ultimo di malattie (fisiche o psichiche) impeditive della vita coniugale poichè questa diversità non investe un principio essenziale dell’ordinamento italiano, qualificabile come limite di ordine pubblico”. In riferimento alla richiesta di nullità da parte del marito, invece che dalla moglie, poi, gli Ermellini proseguono chiarendo che nell’ordinamento italiano non esiste “un principio di ordine pubblico secondo il quale il vizio che inficia il matrimonio possa essere fatto valere solo dal coniuge il cui consenso sia viziato” e quindi sia il marito che la moglie avrebbero potuto chiedere la dichiarazione di nullità.

In definitiva, a detta della Corte di Cassazione, “non esistono ostacoli” al riconoscimento dell’efficacia della sentenza di nullità di questo sfortunato matrimonio, così come emessa dal Tribunale Ecclesiastico. Pertanto, alla donna, che, in conseguenza dell’intervenuto annullamento del matrimonio, ha, comunque, facoltà di chiedere risarcimento danni, non resta che aspettare l’esito (e sperare che sia positivo) della causa civile dinanzi al Tribunale di Mantova contro il suo ‘ex’ – che, in verità, non può più considerare neppure come il suo ex marito. Nel frattempo, tuttavia, è stata condannata a sborsare 6.200 euro di spese processuali.

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Dunque, d’ora in avanti, state sempre in campana, ragazze: prima di sposarlo, cercate di capire bene se contate più voi o sua madre. Perché se è uno di quelli che ‘mamma fa così’, ‘mamma dice questo’, ‘mamma preferisce quello’, fuggite da lui prima ancora di arrivare all’altare. L’avvertimento vale per tutte, sia che siate in procinto di pronunciare il vostro ‘sì’ in Chiesa sia che vogliate sposarvi in Comune: i vizi della volontà sono contemplati anche dal nostro Codice Civile e una patologia del genere, con il giusto avvocato, volete che non renda il vostro mammone incapace di intendere e volere al momento della firma? E soprattutto ricordate: un cocktail solitario nel peggior bar della città, uno speed date tra single disperati, uno streap club per insospettabili signore un po’ agée, o, peggio, una serata con le fiction di Rai e Mediaset sono pur sempre esperienze meno tristi di un matrimonio con un uomo patologicamente legato a sua madre. Tanto più se il rischio che correte non è solo quello di restare senza marito, ma pure a mani vuote. Ma soprattutto perché con uomo così, figuriamoci la suocera…

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SE L’OMOFOBIA È PIÙ FORTE DELL’AMORE.

Capita a volte di leggere racconti di coming-out toccanti, storie di accettazione e di amore incondizionato. Altre volte questi racconti assumono sfumature tragiche e la storia che leggiamo parla di abbandoni e separazioni. Quello di cui mi accingo a parlarvi è il resoconto traumatico e doloroso di un rifiuto.

di Andrea Serpieri

Provare a spiegare a un eterosessuale come si senta un figlio gay prima di uscire allo scoperto con i suoi non è facile. Ancora più difficile – impossibile?- è tentare di farlo capire a quei tanti italiani che pensano che un diverso orientamento sessuale sia una scelta e che non vada quindi sbandierato, a quelli che credono che esista una cura per guarirne, a quelli per cui va bene a patto che chi è così non si faccia vedere in giro, a quelli che ritengono che l’istinto sessuale vada represso, a quelli che credono in Madre Natura e ai peggiori di tutti, quelli che confidano nel castigo eterno per chi sia dedito alla sodomia. Queste storie servono a loro, perché comprendano che un omosessuale non è un mostro, ma un essere umano. Queste storie non servono a fare propaganda in favore delle lobby gay, finanziate dai poteri forti. Supportare i diritti dei gay non è un atteggiamento da radical chic, ma da persona civile. Sui social network ho ultimamente letto le peggiori bestialità sui gay, alcune delle quali ho appena elencato. La peggiore, però, è quella per cui ci sarebbero problemi più importanti in Italia. Non è vero. La questione degli omosessuali in questo Paese è importante quanto la crisi economica. Perché se i gay pagano le tasse come gli altri cittadini, allora devono avere gli stessi diritti civili. Invece non è così, perché sono gay. Dunque, o parliamo solo delle cose importanti per le famiglie italiane e non facciamo più pagare le tasse ai gay, o il loro problema diventa un problema importante per tutta la nazione. Anche per i cattolici e i fascisti. È per questo che spero che il racconto che state per leggere raggiunga il maggior numero di persone: affinché dall’altra parte si intuisca, per lo meno, una parte della sofferenza che c’è nell’essere considerato dalla società un diverso. E nel sentirsi rifiutato per qualcosa che non si è scelto. Questa è la storia di Daniel.

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Daniel Ashley Pierce è un giovane ventenne della Georgia, che mercoledì scorso ha deciso di uscire allo scoperto con i suoi. Conoscendo la sua famiglia, temeva di subire delle violente ripercussioni a causa della sua rivelazione, così si è preventivamente organizzato per filmare di nascosto la tragedia. A quel punto sono iniziate le riprese del video che tutti voi potete visualizzare su YouTube a questo link.

In una mail inviata ad Huffington Post Usa, Daniel rivela, “Ho voluto assicurarmi che ci fossero prove nel caso in cui fosse accaduto qualcosa.”

Il video di Daniel è subito diventato virale. Nei suoi cinque minuti non si concentra mai sul volto dei suoi familiari, di cui, però, è possibile ascoltare la voce mentre lo aggrediscono dicendogli che la sessualità è una scelta.

“Io credo nella parola di Dio e Dio non crea nessuno in quel modo. È un percorso che si è scelto.” Dice una donna nella stanza, presumibilmente la nonna. E continua avvertendo il giovane che se sceglierà quel percorso la famiglia non lo supporterà più. Dovrà andarsene. Perché lei non può permettere alla gente di credere che giustifichi ciò che fa il nipote.

“Sei pieno di stronzate!”, dice la madre. Lui le chiede di lasciarlo restare a casa, lei si rifiuta. “Mi hai detto al telefono che non hai fatto questa scelta. Sai che non è iniziata così. Sai dannatamente bene che l’hai scelto.” Rincara la dose, poi, sostenendo che il padre ha fatto tutto il possibile per aiutarlo. L’uomo non ha nulla di cui rimproverarsi.

A questo punto, i due giungono alle mani. Anzi, è lei che picchia violentemente il figlio. L’obiettivo inizia a muoversi e si sente Daniel urlare alla donna di smettere di colpirlo. Allora un uomo, il padre, grida: “Sei un maledetto frocio!” e, alla fine del video, qualcuno apostrofa ulteriormente Daniel, definendolo ‘una vergogna’.

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Daniel, ormai fuori di casa, decide allora di sfogarsi su Facebook:
Che giornata…Pensavo che svegliarsi alle 9:48 ed arrivare al lavoro con 15 minuti di ritardo sarebbe stato il problema più grande di oggi. Ignoravo, invece, che il mio problema più grande sarebbe stato quello di essere rinnegato per sempre e cacciato dalla casa in cui ho vissuto per quasi vent’anni. E oltre al danno la beffa: mamma mi ha preso a pugni in faccia più volte, incitata da mia nonna. Sono ancora sotto shock e completamente incredulo.

La loro reazione, ha spiegato il ragazzo all’Huffngton, era prevedibile: sono molto credenti e conosceva la loro opinione sui gay. Dopo l’incidente, questa devota famiglia non ha contattato i media per dare la propria versione dei fatti, ma ha lasciato un messaggio vocale a Daniel, intimandogli di rimuovere il video dell’incidente da YouTube. Il ragazzo, peraltro, non ha denunciato l’aggressione alle forze dell’ordine. Ma il filmato, originariamente postato dal compagno di Daniel sulla community Reddit e subito rimbalzato sul sito LGBT del Nuovo Movimento dei Diritti Civili, non solo è ancora on line, ma ha, altresì, ottenuto più di 3.874.000 visualizzazioni ed oltre 31.000 commenti. La veridicità del video è stata confermata dallo zio del ragazzo, Teri Cooper, ad Advocate.com. È stata, altresì, lanciata, ad opera del suo ragazzo, una campagna GoFundMe per raccogliere i fondi necessari a coprire le spese di Daniel. In soli tre giorni, dal 27 agosto ad oggi, sono già stati raccolti circa 94.000 $, ma nemmeno un centesimo – temo – potrà compensare la perdita degli affetti familiari per questo ragazzo appena rimasto ‘orfano’.

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L’audio del video e l’impeto delle urla che ascoltiamo parlano da sé. Ho cercato di fornirvi un resoconto breve, ma il più possibile fedele, tralasciando la disputa tra nonna e nipote su verità scientifiche e dogmi religiosi. Guardatelo, non occorre conoscere la lingua per capire che qualcosa di sbagliato deve esserci nei familiari di Daniel. L’unica cosa contro natura che traspare è proprio l’aggressione di un figlio da parte di un genitore e solo perché questo figlio non è come lo si vorrebbe. Forse è vero che certe famiglie meritano soltanto menzogna. Perché far conoscere loro la nostra più intima verità significa munirli di una potente arma per distruggerci. E ciò che ci resta dopo la visione del filmato è solo tanta tristezza.

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IN BOCCA AL LUPO, DANIEL!

VIDEO: How not to react when your child tells you that he’s gay.

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