Archivi tag: cassazione

EVASIONE: LA CRISI NON BASTA A GIUSTIFICARE LO STATO DI NECESSITÀ.

Se solo qualche mese fa, la terza Sezione penale della Suprema Corte di Cassazione (sent. n. 40394 del 30 settembre 2014) aveva annullato la condanna di un imprenditore catanese per il mancato versamento dell’Iva rimandando tutto all’Appello, ora, sempre per la Terza Sezione, l’imprenditore deve pagare le tasse, anche nel caso in cui vanti crediti dallo Stato. Anche di fronte all’evenienza in cui questi abbia onorato i crediti vantati nei suoi confronti dal personale dipendente.

IMG_7823

Negli ultimi anni abbiamo assistito allo sviluppo di un filone interpretativo di natura giurisprudenziale, ad opera dei giudici di merito e ancor di più della Cassazione, in base al quale nel giudizio di evasione perpetrata da un imprenditore andasse valutata la specifica situazione che porta il soggetto ad evadere. Spesso, infatti, sempre più spesso, anzi, ricorre l’ipotesi in cui l’imprenditore pur sapendo di dover pagare, non lo fa perchè materialmente obbligato a scegliere tra gli stipendi dei propri dipendenti e il fisco. A mancare, secondo quest’orientamento, sarebbe quello che, per la teoria generale del reato, è l’elemento psicologico del reato, vale a dire l’elemento soggettivo. Il processo penale, infatti, impone di valutare e provare la volontarietà della commissione del delitto (o dell’omissione come in questo caso), volontarietà che evidentemente finora, in questa particolare fattispecie, per il giudice non sussisteva a causa della crisi finanziaria, per cui l’imprenditore si trovava in difficoltà anche in conseguenza di condotte di terzi inadempienti nei suoi confronti, primo fra tutti lo Stato.

CRISI: PROSEGUE BOOM FALLIMENTI, 3.000 PRIMO TRIMESTRE

Sostanzialmente, sono tre i motivi di illiquidità che la giurisprudenza ha finora ritenuto validi:
1) l’avere ritenuto di privilegiare il pagamento delle retribuzioni ai dipendenti per evitare licenziamenti;
2) l’aver dovuto pagare i debiti ai fornitori, per scongiurare richieste di fallimento della società;
3) la mancata riscossione di crediti vantati e documentati, spesso nei confronti dello Stato per appalti pubblici.

IMG_7822

Tuttavia, con la sentenza n. 52038 del 15/12/2014, la Cassazione ha mostrato una netta inversione di tendenza, ritenendo impossibile invocare l’esimente dalla fattispecie penale in caso di illiquidità. In tale pronuncia, infatti, nessuna delle tre situazioni appena richiamate, anche se provata può può far riconoscere lo stato di necessità che conduce all’impunibilità. Non lo è, in primis la scelta di pagare in via preferenziale i lavoratori. Sul punto la Suprema Corte di Cassazione ricorda, anzi, che lo stato di necessità previsto dall’art. 54 c.p. esclude la sanzione per chi ha commesso il fatto costretto dalla necessità di salvare se stesso o altri dal pericolo serio attuale e concreto di un danno grave alla persona. Ed è perciò da escludere che la perdita del diritto al lavoro, di cui pure è riconosciuta l’importanza, possa essere annoverata tra i casi di danno grave alla persona, riferiti invece solo «ai beni morali e materiali che costituiscono l’essenza stessa dell’essere umano». Non costituisce esimente neppure il rischio di fallimento dell’impresa, che, sostiene la Cassazione, può essere chiesto anche dall’Erario, oltreché dai creditori. E non lo è, infine, il credito non riscosso, sia pure quello vantato nei confronti dello Stato perché, come evidenzia la Suprema Corte, è la legge a stabilire nel dettaglio in che modo stabilire la compensazione del debito tributario, escludendo la facoltà di scelta in capo al contribuente.

IMG_7821

Se, dunque, adesso per la Cassazione pagare gli stipendi piuttosto che le tasse non esime dalla condanna per evasione e se la circostanza di salvare intere famiglie, spesso monoreddito, dalla miseria non costituisce stato di necessità, c’è da porsi più di una domanda sull’eticità di uno Stato che condanna per evasione e che, nel contempo, non onora tempestivamente i propri debiti. L’etica, infatti, non è concetto avulso dalla legge né dalla sua applicazione. C’è da chiedersi allora se sia di diritto quello Stato che nega il danno grave alla persona conseguente alla perdita del posto di lavoro. Il primo articolo della Costituzione stabilisce che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro, non sulla contribuzione. Ma uno Stato che richiede il sacrificio costante dei suoi cittadini per la propria sopravvivenza, per un bene superiore, non si è già trasformato nella società di Moloch?

MDS
BlogNomos

Ti è piaciuto questo articolo? Metti mi piace sulla nostra pagina Facebook per essere sempre aggiornato sui migliori contenuti da condividere e commentare con i tuoi amici o seguici su Twitter.

A.A.A. APPARTAMENTO DOTATO DI OGNI COMFORT AFFITTASI A PROSTITUTA REFERENZIATA.

Quella che vi propongo oggi è la vicenda giudiziaria di un imprenditore immobiliare abruzzese, alla cui attività di agente aveva affiancato quella di imprenditore del sesso. Secondo voi è pericoloso dare un immobile in locazione ad una squillo? Non è che rischiamo di finire in carcere, come l’imputato di questo processo, solo per aver affittato ad una di loro? Scopriamolo insieme.

di Michele De Sanctis

Colpevole di favoreggiamento della prostituzione: è questo il verdetto definitivo riconosciuto a carico di un agente immobiliare abruzzese, condannato in appello alla pena di 4 anni di reclusione e 5 di interdizione dai pubblici uffici, oltreché a diecimila euro di multa, in base all’art 3 comma 8 della L. n. 75/58 (c.d. Legge Merlin). Con Sent. n. 47387 dello scorso 18 novembre, la Terza Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione ha, infatti, confermato la condanna subita dall’imprenditore in secondo grado, facendo, dunque, scattare l’ordine di carcerazione e, nel contempo, l’esecuzione di precedenti condanne per altri reati, per un totale di 7 anni e 8 mesi di reclusione.

IMG_5576.JPG

A ricorrere al Giudizio di Legittimità era stato lo stesso agente immobiliare, indagato nel 2010 nel corso di un’operazione denominata ‘Non solo affitti 3’, dopo che in secondo grado si era visto confermare la condanna inflittagli dal Tribunale di Teramo nel dicembre del 2011 per favoreggiamento. Secondo l’accusa, a provare la sua colpevolezza era stata la stessa attività di agente immobiliare, attraverso cui l’uomo gestiva i contratti di locazione degli appartamenti in cui circa quaranta prostitute esercitavano abitualmente il loro mestiere, unitamente al fatto che questi si era reso disponibile ad assistere tali donne nelle loro varie necessità. L’uomo, peraltro, fin dal primo grado era stato assolto dall’accusa di sfruttamento della prostituzione perché il fatto non sussisteva, al pari dell’altro imputato, il proprietario di alcuni degli immobili, assolto sia dall’accusa di sfruttamento che di favoreggiamento. Ma per l’imprenditore restava in piedi il secondo dei due capi d’imputazione.

IMG_5575.JPG

Questi erano i fatti. Ora, però, analizziamo la sentenza della Cassazione e se avete un’inquilina poco raccomandabile di cui non sapete molto, tranquilli: il semplice ‘affitto’ ad una prostituta non è condotta sufficiente a provare la vostra colpevolezza (quanto meno mancherebbe l’elemento soggettivo). Sia che voi siate proprietari sia che svolgiate attività di mediazione immobiliare. Come noto, nel nostro Paese la prostituzione non è un reato, mentre lo è se ci si approfitta dell’altrui attività di meretricio, cioè se la si sfrutta, oppure semplicemente quando la si favorisce. È questa, infatti, la condotta contestata all’agente immobiliare, ma non per aver gestito i contratti di locazione di un gruppo di prostitute. La mera stipula del contratto, del resto, come in passato già precisato dagli Ermellini, di per sé “non integra la fattispecie criminosa, in quanto l’atto negoziale, in assenza di altre prestazioni accessorie, riguarda la persona e le sue esigenze abitative, e non costituisce diretto ausilio all’attività di prostituzione” (Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 7338 del 04/02/2014). Anzi, il proprietario di un immobile locato ad una squillo non commette reato di favoreggiamento della prostituzione, neppure se consapevole dell’uso che la donna ne faccia, trattandosi, in questo caso, tutt’al più di tolleranza, punita dal comma 2 dell’art. 3 della L. 75/1958. Ma non è colpevole di favoreggiamento, purché – badate bene- il canone di locazione sia onesto, vale a dire in linea con i prezzi di mercato, dal momento che “la stipulazione del contratto non rappresenta un effettivo ausilio per il meretricio” (Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 28754 del 20/03/2013). Pertanto, affinché il locatore (o l’agente immobiliare) possa essere ritenuto colpevole del delitto di favoreggiamento è necessario che questi fornisca qualcosa in più rispetto al semplice godimento del bene immobile, diciamo pure una sorta di extra che la Corte indica in “prestazioni accessorie che esulino dalla stipulazione del contratto ed in concreto agevolino il meretricio” (Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 33160 del 19/02/2013). L’extra offerto dal locatore può essere di varia natura: si va da attività decisamente partecipative all’esercizio dell’attività di meretricio (inserzioni pubblicitarie, fornitura di preservativi, ricezione dei clienti: Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 7338/2014) fino a collaborazioni meno ‘fattive’, ma, non per questo, meno censurabili dal punto di vista penale.
Nel caso di specie, ad esempio, l’agente immobiliare abruzzese, consapevole che le inquiline avrebbero utilizzato quegli appartamenti per prostituirsi, non solo aveva locato tali immobili a un prezzo superiore a quello di mercato, ma si era, peraltro, attivato per favorire il più possibile quella loro particolare attività professionale, predisponendo a tal proposito “un allestimento specifico degli appartamenti diretto a ottimizzare il loro utilizzo per la prostituzione, collocandosi letti matrimoniali anche nelle cucine” (Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 47387 del 18/11/2014). L’uomo, poi, si era altresì reso disponibile ad assistere le donne in molte altre necessità quotidiane: accompagnandole, per esempio, a fare la spesa o in banca o scortandole fino a casa di qualche conoscente.

IMG_5578.JPG

La Cassazione non ha, dunque, ravvisato vizi di legittimità nella pronuncia del Giudice d’Appello, secondo cui l’imputato, lungi dall’essersi limitato alla mera locazione delle abitazioni in gestione a un gruppo di squillo, era, piuttosto, “colui che tirava i fili di tutta una organizzazione che favoriva l’attività delle prostitute sue inquiline” (Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 47387 del 18/11/2014), così commettendo il reato contestatogli che testualmente punisce “chiunque in qualsiasi modo favorisca o sfrutti la prostituzione altrui” (art. 3 comma 8 della L. 75/1958). In qualsiasi modo, anche con una locazione particolare. L’uomo, originario di un comune della costa abruzzese tra le province di Teramo e Pescara, è attualmente detenuto presso la Casa Circondariale teramana di Castrogno, dopo l’ordine di carcerazione portato ad esecuzione lo scorso 26 novembre.

BlogNomos
SEGUICI SU FACEBOOK E TWITTER!

DANNI DA INSIDIE STRADALI: ECCO UN CASO IN CUI SPETTA IL RISARCIMENTO.

Per i danni da omessa manutenzione della strada a risponderne è il Comune, a meno che non venga dimostrato il caso fortuito – Corte di Cassazione Civile, sentenza 23 ottobre 2014, n. 22528.

IMG_5025.JPG

di Michele De Sanctis

Se il pedone scivola su un ‘cubetto instabile’ non visibile né segnalato, il Comune deve risarcire il danno. È quanto ha stabilito la IV Sezione della Suprema Corte di Cassazione con sentenza del 23 ottobre 2014, n. 22528. I giudici di Piazza Cavour nel cassare la precedente decisione d’appello, che aveva risparmiato il Comune dalla condanna, ha richiamato un ragionamento giuridico su cui si fonda un orientamento ormai pacifico sia in giurisprudenza che in dottrina. Tale ragionamento poggia sulla figura pretoria della cd. insidia stradale e del trabocchetto, per cui la Pubblica Amministrazione è tenuta a mantenere il patrimonio stradale in uno stato tale da impedire che l’utente possa subire conseguenze pregiudizievoli a causa dell’esistenza di situazioni di pericolo occulte e imprevedibili.

IMG_5016.JPG

Questi i fatti. In primo grado il Tribunale accoglieva la richiesta di risarcimento danni avanzata da un pedone per un sinistro occorsogli nel comune di Guardia Sanframondi. Tuttavia, tale decisione veniva rigettata in secondo grado dalla Corte di Appello di Napoli, che dava ragione al Comune.

IMG_5018.JPG

Per la Cassazione, al contrario, il caso doveva essere esaminato alla luce dei principi di cui all’art. 2051 c.c. (Danno cagionato da cosa in custodia). La Corte, infatti, ha dapprima richiamato una consolidata sequenza di decisioni in materia (per tutte cfr. Cass. n. 9546/2010), basata, peraltro, su una lettura costituzionalmente orientata delle norme di tutela riferite alla responsabilità civile della Pubblica Amministrazione, rispetto alla non corretta manutenzione del manto stradale e del marciapiede, che costituisce il normale percorso di calpestio dei pedoni). Successivamente il giudice ha affermato che “la presunzione di responsabilità di danni alle cose si applica, ai sensi dell’art. 2051 c.c. per i danni subiti dagli utenti dei beni demaniali, quando la custodia del bene, intesa quale potere di fatto sulla cosa legittimamente e doverosamente esercitato, sia esercitabile nel caso concreto, tenuto conto delle circostanze, della natura limitata del tratto di strada vigilato”. Questa presunzione può essere superata solo con la prova del caso fortuito che – ha rilevato la Cassazione – non sussiste nel caso in esame, dal momento che il danneggiato è caduto “in presenza di un avvallamento sul marciapiede coperto da uno strato di ghiaino, ma lasciato aperto al calpestio del pubblico, senza alcuna segnalazione delle condizioni di pericolo”.

IMG_5019.JPG

Per questi motivi, la Corte ha accolto il ricorso del pedone e rinviato il giudizio alla Corte di Appello di Napoli, in diversa composizione.

Di seguito in testo della sentenza Cass. n. 22528 del 23 ottobre 2014.

IMG_5015.JPG

Fatto e diritto

R.G. ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi avverso la sentenza della Corte d’Appello di Napoli del 28.5.2010 che ha accolto l’appello proposto dal Comune di Guardia Sanframondi in un giudizio di risarcimento danni da sinistro stradale, causato dallo scivolamento dell’attuale ricorrente, all’epoca dei fatti minore, su un cubetto instabile della pavimentazione stradale “non visibile, né segnalato”, che gli aveva causato lesioni personali alla caviglia sinistra.
Resiste con controricorso il Comune di Guardia Sanframondi.
I motivi esaminati congiuntamente sono fondati ed il ricorso va , quindi, accolto.
L’errore del ragionamento giuridico, compiuto dalla Corte di merito sta nell’avere applicato al caso in esame una giurisprudenza ormai superata basata sui caratteri dell’insidia e trabocchetto.
Questa Corte, viceversa, con una sequenza consolidata di decisioni, da Cass. 6 luglio 2006 n. 15383 a Cass. 22 aprile 2010 n. 9546 sino a recentissime pronunciate – con una lettura costituzionalmente orientata delle norme di tutela riferite alla responsabilità civile della pubblica amministrazione in relazione alla non corretta manutenzione del manto stradale e del marciapiede, che costituisce il normale percorso di calpestio dei pedoni – ha stabilito che la presunzione di responsabilità di danni alle cose si applica, ai sensi dell’art. 2051 c.c. per i danni subiti dagli utenti dei beni demaniali, quando la custodia del bene, intesa quale potere di fatto sulla cosa legittimamente e doverosamente esercitato, sia esercitabile nel caso concreto, tenuto conto delle circostanze, della natura limitata del tratto di strada vigilato. La presunzione in tali circostanze resta superata dalla prova del caso fortuito, e tale non appare il comportamento del danneggiato che cade in presenza di un avvallamento sul marciapiede coperto da uno strato di ghiaino, ma lasciato aperto al calpestio del pubblico, senza alcuna segnalazione delle condizioni di pericolo.
Le censure, unitariamente considerate, pongono in evidenza gli errori di applicazione delle norme giuridiche rispetto alla fattispecie come circostanziata, per fatto illecito e responsabilità da custodia, dovendo, viceversa, il caso essere esaminato alla luce dei principii di cui all’art. 2051 c.c..
La cassazione avviene con rinvio alla Corte di appello di Napoli in diversa composizione, con vincolo di attenersi ai principi di diritto come sopra enunciati, e ribaditi nel precedente di questa Corte del 22.4.2010 n. 9546; Cass. 15.10. 2010 n. 21329). Le spese sono rimesse al giudice del rinvio.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso, cassa e rinvia anche per le spese di questo giudizio di cassazione alla Corte di appello di Napoli in diversa composizione.

BlogNomos
SEGUICI SU FACEBOOK E TWITTER!

CASSAZIONE: SE IL DATORE DI LAVORO NON VI HA VERSATO I CONTRIBUTI…

di Michele De Sanctis

In caso di mancato versamento dei contributi previdenziali da parte del datore di lavoro, ai fini dell’ammissibilità della domanda di condanna, oltre allo stesso datore di lavoro, è necessario citare anche l’Istituto previdenziale. Peraltro, resta precluso il pagamento dei contributi in favore del lavoratore.

È quanto ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione, con Sentenza n. 19398/2014, Sez. Lavoro in tema di condanna del datore di lavoro al pagamento dei contributi previdenziali.

In particolare, il caso di specie riguardava un dipendente che, dopo aver perso il posto di lavoro, aveva adito il Giudice del Lavoro per impugnare il licenziamento e contestualmente chiedere che il datore di lavoro venisse condannato al pagamento dei contributi INPS, dovuti in virtù del rapporto di lavoro e dell’attività lavorativa effettivamente prestata.

Tuttavia, la Cassazione ha sottolineato che in questi casi l’INPS (come qualunque altro ente previdenziale) deve essere necessariamente citato in causa, pena l’inammissibilità della domanda. Nella citata sentenza, infatti, la Suprema Corte ha ritenuto infondata l’impugnazione del licenziamento, relativamente all’obbligo di pagamento del datore di lavoro in favore dell’INPS, escludendo che il Giudice potesse emettere una condanna in tal senso, senza che il lavoratore avesse preventivamente citato in giudizio anche l’INPS.

“In caso di omissione contributiva – affermano gli Ermellini – il lavoratore può chiedere la condanna del datore di lavoro al pagamento dei contributi previdenziali in favore dell’ente previdenziale sole se quest’ultimo sia parte nel medesimo giudizio, restando esclusa in difetto l’ammissibilità di tale pronuncia (che sarebbe una condanna nei confronti di terzo, non ammessa nel nostro ordinamento in difetto di espressa previsione)”.

IMG_4668.JPG

Le norme processuali, in effetti, richiedono che il procedimento si svolga tra tutti i soggetti che possano costituirsi quali parti in causa, dal momento che l’ordinamento repubblicano riconosce loro il diritto di interloquire e contraddire sulle questioni che li riguardano (art. 24 Cost.), fatti salvi taluni casi eccezionali, per i quali si ammette una pronuncia che incida anche su un terzo, non convenuto. Nondimeno, la precedente giurisprudenza, in tema di omissione contributiva, aveva costantemente ammesso l’insussistenza in capo agli enti previdenziali della qualità di necessario contraddittore (cfr. Cass. Sent. n. 169/94 Sez. Lav.), vista la natura della controversia, che riguardava direttamente il rapporto di lavoro e non quello previdenziale, di cui il primo costituiva, piuttosto, il presupposto giuridico. In passato, quindi, secondo la Corte, ciò implicava un accertamento solo in relazione al rapporto di lavoro, mentre le conseguenze sul rapporto assicurativo obbligatorio (cioè la necessaria relazione tra lavoratore ed Istituto previdenziale) erano solo riflesse.

IMG_4161-0.JPG

Ebbene, la portata rivoluzionaria della sentenza in parola sta proprio in questo: se fino ad oggi l’esigenza di integrità del contraddittorio non era condizione di ammissibilità della domanda di condanna del datore di lavoro al versamento dei contributi previdenziali, adesso la Corte, senza entrare nel merito dei fatti e senza alcun riferimento al diritto soggettivo costituzionalmente tutelato dalla posizione assicurativa (ricordiamo sempre che quello della Cassazione è un giudizio di legittimità), ha stabilito una nuova prassi procedurale ai fini dell’ammissibilità di questo tipo di ricorsi – prassi, in realtà, già prevista del Legislatore – evidenziando la circostanza che “l’interesse del lavoratore è connesso con il diritto di credito dell’Istituto, sia geneticamente, perché nasce dal medesimo fatto che a quello dà origine (la costituzione del rapporto di lavoro), sia funzionalmente perché l’adempimento del debito contributivo realizza anche la soddisfazione del diritto alla posizione assicurativa”.

20140614-111041-40241734.jpg

Pertanto, “la sussistenza del suddetto interesse del lavoratore, ed il riconoscimento di una sua tutelabilità mediante la regolarizzazione della posizione contributiva, danno ragione del riconoscimento da parte dell’ordinamento della facoltà del lavoratore di chiamare in causa il datore di lavoro e l’ente previdenziale, convenendoli entrambi in giudizio, al fine di accertare l’obbligo contributivo del primo e sentirlo condannare al versamento dei contributi (che sia ancora possibile giuridicamente) nei confronti del secondo, a valere sulla sua posizione contributiva, impedendo il verificarsi di un danno nei suoi confronti (e nei limiti in cui a ciò il lavoratore vi abbia interesse, come avviene quando non operi in suo favore, o c’è il rischio che possa non operare, per qualsiasi ragione, il principio di automaticità delle prestazioni). Resta per converso esclusa per ragioni processuali la possibilità per il lavoratore di agire per ottenere una condanna del datore al pagamento dei contributi nei confronti dell’INPS che non sia stato chiamato in causa, stante la generale esclusione dei provvedimenti nei confronti di terzo ed il carattere eccezionale della condanna c.d. a favore di terzo. Infatti, di regola il processo deve svolgersi tra tutti coloro che sono parti del rapporto sostanziale dedotto, i quali hanno diritto ad interloquire sulle questioni che li riguardano (art. 24 Cost.), e il provvedimento che definisce il processo fa stato solo nei confronti delle parti e loro aventi causa, mentre solo in alcuni casi eccezionali (ne sono un esempio, nella materia del lavoro, le due condanne in favore di terzo previste dall’art. 18 stat. lav. in materia di licenziamenti illegittimi) è ammessa una pronuncia in favore di terzo”.

In conclusione, se non chiamate in causa l’INPS, il datore di lavoro che vi ha licenziato potrebbe non essere condannato al versamento dei contributi che vi spettano. E oltre a perdere qualcosa che vi siete guadagnati col vostro lavoro, correte il rischio concreto di essere, altresì, condannati al pagamento delle spese di lite.

BlogNomos
SEGUICI SU FACEBOOK E TWITTER

CASSAZIONE SHOCK: ATTENUANTI PER STUPRO ALL’UOMO CHE VIOLENTAVA LA MOGLIE SOTTO L’INFLUENZA DELL’ALCOL.

di Michele De Sanctis

Pur se la violenza sessuale è stata completa, è lecito concedere l’attenuazione della pena. È questo quanto è stato recentemente deciso dalla Terza Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione, con Sentenza n. 39445 depositata lo scorso 25 settembre (udienza del primo luglio). La Corte ha annullato (con rinvio) la precedente decisione della Corte di Appello di Venezia, che condannava un uomo per violenze ripetute sulla moglie, confermando, peraltro, il giudizio di I grado. Avverso la sentenza di II grado, l’imputato aveva presentato ricorso in Cassazione, sostenendo che andava valutata la ‘qualità’ del gesto (e segnatamente il grado di coartazione, il danno arrecato e l’entità della compressione), più che la ‘quantità’ della violenza fisica esercitata.

IMG_4159-0.JPG

Infatti, i giudici veneziani nel condannarlo per stupro e maltrattamenti in famiglia, avevano negato la concessione di attenuanti alla pena, rilevando che una violenza sessuale non è mai un “fatto di minore gravità”. Tuttavia, a giudizio degli Ermellini, non può negarsi tale concessione, anche in un caso come quello di specie, in cui la violenza perpetrata ai danni della vittima è stata completa, dal momento che la “tipologia” dell’atto sarebbe “solo uno degli elementi indicativi dei parametri”, in base a cui stabilire la gravità della violenza e non costituirebbe, dunque, un elemento “dirimente”.

IMG_4160-0.JPG

In particolare, la Suprema Corte ha sottolineato che “così come l’assenza di un rapporto sessuale ‘completo’ non può, per ciò solo, consentire di ritenere sussistente l’attenuante, simmetricamente la presenza dello stesso rapporto completo non può, per ciò solo, escludere che l’attenuante sia concedibile, dovendo effettuarsi una valutazione del fatto nella sua complessità”. Nel caso di specie, la decisione dei giudici d’appello risulta viziata, in quanto sarebbe “mancata ogni valutazione globale”, in particolare “in relazione al fatto che le violenze sarebbero sempre state commesse sotto l’influenza dell’alcol”.

IMG_4161-0.JPG

Davvero singolare, in realtà, risulta la valutazione della commissione di un reato in stato di ebbrezza quale circostanza meritevole di valutazione ai fini della concessione dell’attenuazione della pena, ove, per altri reati, la stessa è, invece, una circostanza aggravante. Né lo stato di alterazione psichica procuratosi dall’aggressore può considerarsi alla stregua di un’attenuante generica ex art. 62bis cp, ossia come una di quelle circostanze indeterminate e non tipizzate, che il giudice può prendere in considerazione quando le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena. Tuttavia, lo stato di ebbrezza dell’aggressione non è il solo parametro di riferimento. La Corte, a tal proposito, rileva che “ai fini della concedibilità dell’attenuante di minore gravità, assumono rilievo una serie di indici, segnatamente riconducibili, attesa la ‘ratio’ della previsione normativa, al grado di coartazione esercitato sulla vittima, alle condizioni fisiche e mentali di quest’ultima, alle caratteristiche psicologiche, valutate in relazione all’età, all’entità della compressione della libertà sessuale ed al danno arrecato alla vittima anche in termini psichici”.
Se così non fosse, – prosegue la Corte – si verrebbe a riprodurre la “vecchia distinzione, ripudiata dalla nuova disciplina, tra ‘violenza carnale’ e ‘atti di libidine’ che lo stesso legislatore ha ritenuto di non focalizzare preferendo attestarsi sulla generale clausola di ‘casi di minore gravità’”.

IMG_4163-0.JPG

Il problema, però, è che per mezzo di questa clausola, il reato in parola, a prescindere dalla fattispecie in esame, sembra uscire in qualche misura ‘derubricato’. Come se l’analisi formale delle parole del Legislatore avesse scoperto che la norma, in realtà, prevede una sorta di bonus per tutti quei rispettabili padri di famiglia, che, nel chiuso delle pareti domestiche, in preda ai fumi dell’alcol, sono soliti picchiare e violentare la moglie. In effetti, per come è impostato il ricorso dell’aggressore, che la Cassazione ha accolto, si è quasi portati a pensare che l’ebbrezza fosse addirittura propedeutica alla violenza. Se così fosse, tuttavia, le attenuanti non sarebbero concedibili: la fattispecie si configurerebbe come ‘actio libera in causa’, ossia come quel fenomeno (giuridicamente rilevante) che si verifica quando un soggetto si ponga in stato di incoscienza al fine di commettere un reato o di procurarsi una scusante. In tal caso, infatti, viene applicata la pena anche se chi ha commesso il fatto era in stato di incapacità di intendere e di volere al momento della consumazione del reato. Ma dobbiamo sempre ricordare che la Corte di Cassazione non giudica i fatti nel loro merito. La Corte, piuttosto, ha precisato che la circostanza attenuante “deve considerarsi applicabile tutte quelle volte in cui – avuto riguardo ai mezzi, alle modalità esecutive ed alle circostanze dell’azione – sia possibile ritenere che la libertà sessuale della vittima sia stata compressa in maniera non grave”. E questo vale anche nel caso di specie.

IMG_4158-0.JPG

La Corte di Appello di Venezia, per negare l’attenuante, aveva fatto riferimento soltanto “ai plurimi rapporti sessuali completi ottenuti con la violenza e senza il minimo rispetto della dignità e libertà di determinazione della donna”. L’attenuante, però, può essere applicata tutte le volte in cui è possibile ritenere “che la libertà sessuale della vittima sia stata compressa in maniera non grave”. Per la Cassazione, infatti, è necessaria “una disamina complessiva, con riferimento alla valutazione delle ripercussioni delle condotte, anche sul piano psichico, sulla persona della vittima”: i giudici, in casi come quello esaminato, non possono fare come i magistrati della Corte di Appello di Venezia che si sono piuttosto “limitati” a “descrivere il fatto contestato, necessariamente comprensivo, per la stessa definizione normativa, di violenza, senza tuttavia analizzarne, come necessario, gli effetti”.
Il caso viene, quindi, rinviato ad altra sezione della Corte di Appello del Capoluogo lagunare.

BlogNomos
SEGUICI SU FACEBOOK E TWITTER

CASSAZIONE: MARITO MAMMONE, MATRIMONIO NULLO.

La mamma è sempre la mamma. In Italia, poi, più che altrove, quest’affermazione trova piena conferma negli usi e costumi di una società che non si è mai posta troppe domande quando un giovane di trent’anni, benché occupato e senza particolari problemi economici, sceglieva di restare a casa. Meno ancora se ne pone adesso, in tempi di magra, in cui anche coloro i quali vorrebbero emanciparsi sono, invece, costretti a stare da mamma, oltre il limite della decenza, a causa del lavoro che non c’è o non è pagato a sufficienza. Ma, se il legame con la madre diventa patologico, non è questione di congiuntura economica: qualcosa non va. Anzi, c’è il serio rischio che un’eventuale vita di coppia possa risultarne seriamente compromessa.

di Michele De Sanctis

Un legame troppo intenso di dipendenza del marito dalla propria figura materna, tale da generare problematiche di natura sessuale, contestualmente ad “un comportamento anaffettivo e indifferente nei confronti” della moglie ignara di una simile ‘patologia’ accusata dal consorte, può essere causa di annullamento del matrimonio concordatario, anche ai fini della nullità di quello civile. È quanto afferma la Suprema Corte di Cassazione, I Sez. Civ., con sentenza n. 19691 del 18 settembre 2014, ammettendo la nullità del matrimonio concordatario di una coppia di coniugi mantovani ritrovatasi in tale situazione non appena iniziata la nuova vita coniugale.

La Corte d’Appello di Brescia, contro la cui decisione era stato proposto ricorso dinanzi al Giudice di Legittimità, aveva esaminato nel 2012 una richiesta di delibazione di una sentenza resa dal Tribunale Ecclesiastico Regionale Lombardo nel 2010, che, a sua volta, aveva considerato rilevante l’accertamento di una patologia a carico di uno dei coniugi (un legame morboso con la madre) ai fini della dichiarazione di nullità del matrimonio concordatario celebrato nel 2007.

IMG_4139.JPG

Secondo i Giudici Ecclesiastici, l’uomo aveva sviluppato una vera e propria dipendenza dalla figura materna tale da impedirgli di adempiere anche le minime manifestazioni d’affetto nei confronti della moglie – e necessarie a preservare l’equilibrio psicofisico della coppia. Comportamento che, nella decisione assunta secondo il diritto canonico, integrerebbe un patologia (di cui lo stesso soggetto afflitto, fin dalle prime manifestazioni, ignorava l’esistenza). Più esattamente, il Tribunale Ecclesiastico, sottoponendo i coniugi a test e perizie, era arrivato alla conclusione che l’uomo, a causa del particolare rapporto di dipendenza dalla madre, aveva sviluppato una “patologia produttiva dell’incapacità ad assumere l’obbligo di quella minima integrazione psico-sessuale che il matrimonio richiede, con la conseguenza di un comportamento anaffettivo e indifferente nei confronti” della compagna. Legittima, dunque, la richiesta di dichiarare la nullità del matrimonio. Aspetto da non sottovalutare ai fini dell’esame di questa sentenza è che la richiesta di nullità era stata fatta dal marito, non dalla moglie.

Tale nullità veniva successivamente riconosciuta, in fase delibativa, dal giudice italiano, nella specie, la Corte d’appello territorialmente competente. Brevemente, per i non addetti ai lavori, si chiarisce che la delibazione è una procedura giudiziaria con cui in un determinato Paese si riconosce un provvedimento giudiziario emesso da un’Autorità straniera. Lo stesso vale per il riconoscimento delle decisioni prese dai Tribunali Ecclesiastici, posto che quello canonico è un diritto di un altro Stato, il Vaticano. Il procedimento in questione si instaura in Corte d’Appello.

In seguito a tale decisione, la donna si opponeva al riconoscimento del Giudice Civile, sostenendo che l’uomo era perfettamente consapevole delle turbe che lo affliggevano ed era soltanto lei ad essere all’oscuro degli effetti negativi del legame morboso del marito con sua suocera. Secondo la ricorrente, dunque, il matrimonio era perfettamente valido, con la conseguenza di aver diritto, quale effetto della separazione, all’assegno di mantenimento.

IMG_4141.JPG

I Giudici di Piazza Cavour, tuttavia, nel motivare la propria decisione, rilevavano come, nel decidere sulla delibazione, il giudice italiano non possa sindacare nel merito le valutazioni operate dal Tribunale Ecclesiastico, o da qualunque altra Autorità Giudiziaria straniera. Pertanto, la Corte rigettava il ricorso della moglie, evidenziando, peraltro, che “in un caso come quello in esame in cui l’altro coniuge ha determinato con la sua incapacità derivante da una patologia psichica, la invalidità del matrimonio concordatario si pone, sia pure ex post, una questione di effettività e validità del consenso che prevale sulla tutela dell’affidamento riposto dal coniuge inconsapevole al momento della celebrazione del matrimonio”. La Cassazione, inoltre, ha precisato che “la giurisprudenza ha da tempo affermato che la delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa di nullità del matrimonio concordatario per ‘incapacitas assumendi onera coniugalia’ di uno dei coniugi non trova ostacolo nella diversità di disciplina dell’ordinamento canonico rispetto alle disposizioni del codice civile in tema di invalidità del matrimonio per errore essenziale su una qualità personale del consorte e precisamente sulla ritenuta inesistenza in quest’ultimo di malattie (fisiche o psichiche) impeditive della vita coniugale poichè questa diversità non investe un principio essenziale dell’ordinamento italiano, qualificabile come limite di ordine pubblico”. In riferimento alla richiesta di nullità da parte del marito, invece che dalla moglie, poi, gli Ermellini proseguono chiarendo che nell’ordinamento italiano non esiste “un principio di ordine pubblico secondo il quale il vizio che inficia il matrimonio possa essere fatto valere solo dal coniuge il cui consenso sia viziato” e quindi sia il marito che la moglie avrebbero potuto chiedere la dichiarazione di nullità.

In definitiva, a detta della Corte di Cassazione, “non esistono ostacoli” al riconoscimento dell’efficacia della sentenza di nullità di questo sfortunato matrimonio, così come emessa dal Tribunale Ecclesiastico. Pertanto, alla donna, che, in conseguenza dell’intervenuto annullamento del matrimonio, ha, comunque, facoltà di chiedere risarcimento danni, non resta che aspettare l’esito (e sperare che sia positivo) della causa civile dinanzi al Tribunale di Mantova contro il suo ‘ex’ – che, in verità, non può più considerare neppure come il suo ex marito. Nel frattempo, tuttavia, è stata condannata a sborsare 6.200 euro di spese processuali.

IMG_4140.JPG

Dunque, d’ora in avanti, state sempre in campana, ragazze: prima di sposarlo, cercate di capire bene se contate più voi o sua madre. Perché se è uno di quelli che ‘mamma fa così’, ‘mamma dice questo’, ‘mamma preferisce quello’, fuggite da lui prima ancora di arrivare all’altare. L’avvertimento vale per tutte, sia che siate in procinto di pronunciare il vostro ‘sì’ in Chiesa sia che vogliate sposarvi in Comune: i vizi della volontà sono contemplati anche dal nostro Codice Civile e una patologia del genere, con il giusto avvocato, volete che non renda il vostro mammone incapace di intendere e volere al momento della firma? E soprattutto ricordate: un cocktail solitario nel peggior bar della città, uno speed date tra single disperati, uno streap club per insospettabili signore un po’ agée, o, peggio, una serata con le fiction di Rai e Mediaset sono pur sempre esperienze meno tristi di un matrimonio con un uomo patologicamente legato a sua madre. Tanto più se il rischio che correte non è solo quello di restare senza marito, ma pure a mani vuote. Ma soprattutto perché con uomo così, figuriamoci la suocera…

BlogNomos
SEGUICI SU FACEBOOK È TWITTER

MOLESTIE SU FACEBOOK: PER LA CASSAZIONE IL SOCIAL NETWORK VA CONSIDERATO ‘LUOGO APERTO AL PUBBLICO’.

di Michele De Sanctis

La Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione con Sentenza n. 37596 ha affermato che, ai fini della configurabilità del reato di molestie o disturbo alle persone, di cui all’art. 660 c.p., la piattaforma sociale Facebook va considerata alla stregua di un luogo aperto al pubblico, in quanto luogo ‘virtuale’ aperto all’accesso di chiunque utilizzi la rete.

20140416-083535.jpg

Pertanto, l’invio di messaggi molesti mediante l’uso di Facebook integra la fattispecie descritta dall’art. 660 c.p., che sanziona «chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo». Il contravventore è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda fino a euro 516.

20140422-010807.jpg

Nel caso di specie, vittima del reato in parola era una donna, all’epoca dei fatti, nel 2008, caporedattore di una testata locale toscana, che aveva ricevuto ripetuti e continui apprezzamenti volgari e a sfondo sessuale sia presso gli uffici del quotidiano per cui lavorava, che sul proprio account Facebook. Sul social, il molestatore aveva, peraltro, celato la propria identità con un falso profilo.

20140419-124448.jpg

In un primo momento il Tribunale di Livorno aveva assolto l’imputato con la formula “il fatto non sussiste” quanto ai fatti commessi presso gli uffici del giornale, escludendo che una redazione fosse luogo pubblico, e con la formula “il fatto non è previsto dalla legge come reato” quanto ai fatti «commessi utilizzando l’indirizzo di posta elettronica». Tuttavia, la Corte di Appello di Firenze, riformando la decisione di primo grado, rilevava come la redazione di un quotidiano fosse paragonabile a un luogo aperto al pubblico, in quanto frequentato dai dipendenti del giornale stesso oltreché da eventuali soggetti estranei che ivi portano notizie o chiedono la pubblicazione di annunci. Quanto poi alla condotta realizzata mediante i messaggi inviati sotto pseudonimo tramite la chat di Facebook al profilo della vittima, il Giudice di II grado, ritenendo che tale comportamento integrasse il reato di cui all’art. 660 c.p., evidenziava come il profilo della vittima sul social network costituisse una community aperta «evidentemente accessibile a chiunque».

IMG_3533-0.JPG

L’imputato, a questo punto, ricorreva in Cassazione per chiedere l’annullamento della sentenza di secondo grado per violazione dell’art. 660 c.p., con riguardo alla nozione di luogo aperto al pubblico accolta in sede di gravame. In particolare, quanto alla condotta posta in essere su Facebook, rilevava l’imputato che l’invio dei messaggi era avvenuto tramite la chat privata del social network e non sul diario e che ciò escludesse l’analogia con altri luoghi aperti al pubblico. In verità, l’invio dei messaggi tramite la chat di Facebook lascerebbe, piuttosto, propendere per l’assimilabilità della comunicazione telematica alla comunicazione telefonica (l’altra modalità di realizzazione delle molestie di cui all’art 660 c.p.), ma resterebbero dei profili da chiarire per quanto concerne i principi di tassatività e legalità. Tuttavia, poiché il gravame aveva liquidato il caso come molestia in luogo aperto al pubblico, secondo gli Ermellini il ricorso non risulta manifestamente infondato, per difetto della sentenza di II grado nella sua base fattuale, laddove si fa riferimento all’invio di messaggi su un profilo evidentemente accessibile a tutti, trascurando, invece, la fattispecie concreta dell’invio tramite chat privata.

20140430-065006.jpg

A prescindere dalle risultanze del caso di specie, ciò che più rileva e che merita di essere commentato, ancorché non si tratti di una decisione delle Sezioni Unite, è tuttavia l’estensione da parte dei Giudici della I Sez. della Cassazione del concetto di luogo aperto al pubblico in riferimento al social network. Infatti, la Corte, ritiene «innegabile che la piattaforma sociale Facebook (disponibile in oltre 70 lingue, che già nel 2008 contava più di 100 milioni di utenti) rappresenti una sorta di piazza immateriale che consente un numero indeterminato di accessi e visioni, rese possibili da una evoluzione scientifica che il Legislatore non era arrivato ad immaginare. Ma che la lettera della legge non impedisce di escludere dalla nozione di luogo e che, a fronte della rivoluzione portata alle forme di aggregazione e alle tradizionali nozioni di comunità sociale, la sua ratio impone, anzi, di considerare».

20140419-124359.jpg

In definitiva, la molestia sul diario di Facebook integra la contravvenzione di cui all’art. 660 c.p. (lo stesso potrebbe, forse, dirsi anche per l’invio di messaggi molesti via Facebook, se fosse possibile assimilarli alla molestia telefonica). E quindi, nel caso di specie, il giudice di rinvio avrebbe dovuto riformare il proprio giudizio, non censurando la molestia nella chat di Facebook come se fosse stata fatta in luogo pubblico, perché è solo la bacheca ad essere assimilata a un’agorà, non anche la mailbox. Avrebbe, perché la sentenza di appello per il caso finora illustrato è stata cassata, ma senza rinvio per intervenuta prescrizione del reato contravvenzionale contestato.

Cassazione Penale, Sez. I, 12 settembre 2014 (ud. 11 luglio 2014), n. 37596 Presidente Chieffi, Relatore Di Tommasi

BlogNomos
SEGUICI SU FACEBOOK E TWITTER

Per la Cassazione l’acquirente di un computer non ha l’obbligo di accettare il sistema operativo preinstallato e può chiederne il rimborso

di Germano De Sanctis

La Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione, con la sentenza 11.09.2014, n. 19161, ha dichiarato che l’acquisto di un computer da parte di un privato non comporta anche l’obbligo di utilizzo del sistema operativo o di altro software preinstallato da parte del produttore. In estrema sintesi, la Suprema Corte ha riconosciuto il diritto del consumatore ad ottenere il rimborso per la sola parte del prezzo relativa alla licenza d’uso del programma informatico non negoziato con il venditore, qualora egli intenda installare un software alternativo e concorrente.

Nello specifico, la sentenza in questione è intervenuta sul tema delle politiche commerciali di vendita abbinata hardware/software dei computer, riconoscendo il diritto dell’acquirente di installare i programmi, senza essere essere vincolato, né, tanto meno, economicamente gravato di costi indebiti dalle scelte produttive del produttore della macchina.

La controversia, seppur di scarso impatto economico (i tre gradi di processo vertono sulla restituzione di 140 euro corrispondenti al costo stimato del sistema operativo Microsoft Windows XP Home Edition e del software applicativo Microsoft Work 8 forniti insieme ad un notebook Hp acquistato nel dicembre 2005) è rilevante dal punto di vista civilistico, per quanto concerne l’interpretazione fornita relativamente alla volontà negoziale delle parti coinvolte.

Venendo all’esame del caso di specie, un consumatore si è inizialmente rivolto al Tribunale di Firenze, dopo aver acquistato un computer portatile Hewlett Packard ed essere stato costretto ad attivare la licenza d’uso del pacchetto Microsoft. Alla base della sua citazione in giudizio vi era il diniego da parte del produttore della sua richiesta di rimborso del prezzo relativo al costo di Windows, in quanto le condizioni contrattuali rendevano possibile il predetto imborso soltanto in caso di restituzione, sia del notebook, che del software preinstallato.
In seguito, in opposizione alla sentenza di appello favorevole al consumatore, la società informatica produttrice del computer ha presentato ricorso in Cassazione, asserendo che non è possibile restituire il software, ottenendone il relativo rimborso e trattenendo il solo hardware, in quanto sussisterebbe l’unitarietà dell’acquisto del pacchetto hardware/software.

Tale ricorso è stato rigettato, in quanto i giudici della Suprema Corte hanno interpretato una specifica clausola contrattuale contenuta nel contratto di licenza con l’utente finale relativo all’utilizzo del software del sistema operativo Microsoft Windows preinstallato ed hanno concluso che l’integrazione tra software e hardware non si basa su un’esigenza di natura tecnologica, ma unicamente commerciale e, pertanto, non sussistono ostacoli tali da impedire la considerazione frazionata dei due prodotti.

La sentenza in esame afferma anche che l’oggetto del contratto di vendita in questione può essere soltanto il computer portatile acquistato dal consumatore, poiché esso è l’unico bene oggetto del contratto e soltanto su di esso è possibile riscontrare il perfezionamento dell’accordo negoziale.
I giudici di legittimità hanno trovato riscontro a tale interpretazione anche nel regolamento contrattuale predisposto dal produttore del computer in questione, il quale, a fronte dell’acquisto dell’hardware, ha previsto soltanto un mera sottoscrizione della licenza d’uso dei programmi proprietari preinstallati.

La Cassazione, confermando il giudizio già espresso nel corso dei due gradi del giudizio di merito, ha riscontrato l’esistenza di due distinte vicende negoziali, l’una relativa al computer e l’altra concernente il programma informatico proprietario preinstallato. In altri termini, hardware e software sono da intendersi come due beni distinti e strutturalmente scindibili, oggetto di due diverse tipologie negoziali.
Pertanto, sussiste un vero e proprio sdoppiamento di oggetto e negozio e soltanto sul primo fenomeno contrattuale, cioè, l’acquisto del computer, è possibile affermare che si è regolarmente formato il consenso. Al contrario, la Corte di Cassazione ha riscontrato che non è intercorso alcun rapporto contrattuale tra il produttore del software e l’acquirente del notebook, poiché si è in presenza soltanto di licenze economiche e licenze di vendita che vengono trattate, a monte della grande distribuzione, in virtù di accordi commerciali su vasta scala, direttamente stipulati tra la casa produttrice del software e le principali case produttrici dell’hardware.
La Suprema Corte ha rilevato che il rapporto commerciale instaurato tra il produttore del computer e la società produttrice del software non coinvolge minimamente il consumatore, il quale, invece, esercita la sua libertà di scelta contrattuale di acquistare un determinato computer, valutando esclusivamente le caratteristiche tecniche dell’hardware, anche in ragione del fatto che quest’ultimo assume obiettivamente una assoluta preponderanza nel valore economico del computer medesimo al momento della formazione del prezzo finale di mercato del bene informatico genericamente inteso.

Pertanto, non è possibile sostenere la tesi dell’unitarietà del contratto hardware/software (simul stabunt, simul cadent), in quanto non sussistono adeguati elementi volti a dimostrare che i due contratti in oggetto siano stati voluti dalle parti contraenti nell’ambito di una combinazione strumentale volta a realizzare uno scopo pratico unitario.
Anzi, secondo la Cassazione l’acquisto del computer non implica l’obbligo di accettare il sistema operativo, pena lo scioglimento della vendita e l’azzeramento dell’intera operazione contrattuale. Di conseguenza, il consumatore che acquista un computer con un sistema operativo preinstallato di serie ha diritto al rimborso del costo del software, anche quello applicativo, se non clicca sull’accettazione della licenza d’uso, trattenendo, in tal caso, il solo hardware, per, poi, avere diritto al rimborso per software proprietario preinstallato non accettato.

BlogNomos

Seguici anche su Facebook: https://www.facebook.com/blognomos
e su Twitter: @BlogNomos

VIETATO SPIARE LA MOGLIE! E SE SCOPRI CHE È INFEDELE, MEGLIO NON RACCONTARLO IN GIRO.

La moglie fedifraga, sorpresa dal marito mediante l’uso di un apparecchio di videoregistrazione, può invocare l’applicazione dell’art. 615 bis c.p., che punisce chiunque, mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, si procura indebitamente notizie o immagini relative alla vita privata altrui nella sua dimora. È, pertanto, illecita l’acquisizione delle prove dell’avvenuto adulterio con tali modalità. Né è consentito rivelare ad altri le informazioni apprese. Scoprire con tali mezzi un tradimento e raccontarlo non vi risparmierà, quindi, da un’accusa per diffamazione.
A scanso di equivoci, però, chiariamo subito che lo stesso vale se è il marito infedele ad essere spiato dalla moglie…

di Michele De Sanctis

IMG_3699.JPG

Con sentenza n. 35681/2014, la Suprema Corte di Cassazione ha confermato la decisione del Giudice di Pace di Senorbì del 10 maggio 2013, che aveva condannato per diffamazione (art. 595 c.p.) un marito, poiché, parlando con una coppia di conoscenti, aveva insinuato il tradimento della sua ex moglie. Il ricorso dinanzi al giudice di legittimità era incentrato su una presunta mancata considerazione da parte del G.d.P. dello stato d’ira dell’imputato, che aveva appena scoperto il tradimento della moglie per mezzo di un dispositivo di registrazione da lui installato in cucina. Il capo d’accusa non era, del resto, la registrazione in sé, bensì, la diffamazione che era seguita alla visione delle immagini catturate dal marito tradito.

IMG_3692.PNG

Leggi anche: L’INSULTO SU FACEBOOK È DIFFAMAZIONE, ANCHE SE LA VITTIMA RESTA ANONIMA. LO DICE LA CASSAZIONE.

Nel nostro ordinamento giuridico, a differenza di altri Paesi di Civil Law, perché possa escludersi il reato di diffamazione, non è necessario che quanto asserito non sia falso. Il delitto in parola, da noi, si consuma al ricorrere di questi tre elementi essenziali: l’offesa all’onore o al decoro di qualcuno, la comunicazione con più persone e l’assenza della persona offesa. Tuttavia sono previste delle cause di giustificazione, tra le quali è contemplato anche lo stato d’ira. Proprio per questo, la circostanza che quanto dichiarato dal marito non fosse falso, nel ricorso da questi presentato, rilevava non quale causa di esclusione del reato di diffamazione, ma quale presupposto dello stato di collera ingeneratosi nello stesso. O meglio, a provocarlo era stata la visione del filmato, che, in quanto tale, non poteva non corrispondere alla realtà. Veniva, pertanto, impugnata una presunta violazione di legge in sede di merito e il vizio di motivazione con riguardo all’esclusione della causa di non punibilità di cui all’art. 599, comma 2 c.p. Secondo il ricorrente, infatti, l’istruttoria espletata in sede di giudizio di merito aveva dimostrato come l’uomo avesse agito in stato d’ira determinato dalla scoperta, per mezzo delle videoregistrazioni, del tradimento della moglie. Per tale motivo, illegittima da parte del Giudice di Pace era stata l’esclusione di tale esimente e inadeguata la spiegazione fornita, secondo cui, poiché la prova del tradimento era stata illegittimamente acquisita (pur essendo stata fatta dal marito all’interno nell’abitazione coniugale), non era declamabile, cioè spendibile, in sede giudiziaria.

IMG_3698.JPGLa locandina del film ‘Io so che tu sai che io so’ con Alberto Sordi e Monica Vitti, in cui un marito scopre il tradimento della moglie per caso, guardando le riprese fatte alla donna a causa di un errore commesso da un investigatore privato.

I giudici di Piazza Cavour, però, hanno rigettato il ricorso dell’uomo e ravvisato la correttezza del giudizio di merito, richiamando proprio il principio dell’inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione di divieti di legge (ex art. 191 c.p.c.) e, soprattutto, quello dell’inviolabilità del diritto alla riservatezza del coniuge o del familiare convivente, confermando, peraltro, il proprio pacifico orientamento su questioni analoghe (cfr. Cass. Sent. n. 12698/2003). Infatti, la sanzione prevista dall’art. 615 bis c.p., che censura le interferenze illecite nell’altrui vita privata, non consente l’ammissione delle immagini registrate (illecitamente) dal marito, quale prova dello stato psicologico in cui versava. Sarebbe come rendersi colpevole di qualcosa e poi invocare quale esimente lo stato psicologico conseguente alla commissione di un altro reato. Perché la registrazione della moglie, a sua insaputa, è un reato. Quanto poi al principio di inviolabilità del diritto alla riservatezza del coniuge, la Corte ha più volte ribadito che i doveri di solidarietà derivanti dal matrimonio non sono incompatibili con il diritto alla riservatezza di ciascuno, ma ne presuppongono, anzi, l’esistenza, poiché la solidarietà si realizza solo tra persone che si riconoscono piena e pari dignità. Ciò vale anche nel caso di infedeltà del coniuge, poiché la violazione dei doveri di solidarietà coniugale non è sanzionata dalla perdita del diritto alla riservatezza. (cfr. Cass Sez. V 23 maggio 1994 n. 198994).

IMG_3695.JPG

Pertanto, il marito non solo non può lamentare il mancato riconoscimento dello stato d’ira, quale scriminante nei delitti contro l’onore, ma deve, altresì, ritenersi fortunato, perché condannato solo per diffamazione, visto che la sua attività ‘investigativa’ lo rendebbe addirittura passibile di querela per il reato di interferenze illecite nella vita privata ai sensi dell’art. 615 bis del codice penale. E di questo deve ringraziare proprio la moglie infedele, poiché il delitto in questione – se commesso da un privato cittadino, come nel caso di specie – è punibile solo a querela della persona offesa. Ma, a quanto pare, la signora ha avuto la ‘bontà’ di limitarsi alla sola diffamazione.

IMG_3696.JPG

Leggi anche: L’OFFESA A TERZI VIA SMS NON È DIFFAMAZIONE: LO DICE LA CASSAZIONE.

È, quindi, evidente che non c’è scusa che tenga: spiare il proprio partner è un reato. Evitatelo, perché rischiate dai sei mesi ai quattro anni. Che riusciate a farla franca o meno, non sentitevi migliori di chi ha tradito la vostra fiducia. Violare l’intimità del partner non è poi tanto diverso, a parte il fatto che l’infedeltà non costituisce reato e le interferenze illecite nella vita privata, invece, sì.

Cass. Sent. n. 35681/2014

BlogNomos
SEGUICI SU FACEBOOK E TWITTER

IPOTECHE: ISCRIZIONE NONOSTANTE SGRAVIO FISCALE, CASSAZIONE CONDANNA LA SOCIETÀ DI RISCOSSIONE.

di Michele De Sanctis

Società di riscossione condannata a pagare le spese di giudizio per aver iscritto un’ipoteca nonostante l’intervenuto sgravio del credito da parte del Fisco, senza quindi una preventiva verifica della pretesa tributaria.

IMG_3641.JPG

È quanto hanno stabilito i Giudici di Piazza Cavour con ordinanza n. 16948 dello scorso 24 luglio, respingendo il ricorso promosso da Serit Sicilia SpA per la cassazione di una sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Sicilia, che, non accogliendo l’appello della stessa Serit avverso la decisione della Commissione Tributaria Provinciale di Messina, aveva attribuito la responsabilità della lite alla società di riscossione, anche ai fini della regolazione delle spese. Il primo motivo di ricorso denunciava il vizio di omessa insufficiente e contraddittoria motivazione della circostanza che lo sgravio fosse stato comunicato all’agente della riscossione con flusso telematico successivo alla data di iscrizione dell’ipoteca. Il secondo motivo denunciava, invece, la violazione dell’art. 15, comma 2, L. n. 59/97, censurando la sentenza gravata per aver trascurato il disposto, ivi contenuto, in base a cui gli atti, dati e documenti formati dalla pubblica amministrazione e da privati con strumenti informatici o telematici,nonché la loro archiviazione e trasmissione con strumenti informatici sono validi e rilevanti a tutti gli effetti di legge.

IMG_3640.JPG

Tuttavia, la Cassazione, non ha ritenuto viziata la formulazione del primo e secondo grado di giudizio, secondo cui, dal momento che lo sgravio è un atto telematico, il concessionario, prima di procedere all’iscrizione ipotecaria, avrebbe dovuto controllarne la tempestività mediante l’uso del terminale allo stesso accessibile. Secondo gli Ermellini tale affermazione si articola in un implicito giudizio di fatto, per il quale l’agente di riscossione poteva conoscere lo sgravio utilizzando il terminale a sua disposizione. Situazione sufficiente, questa, ad escludere la non conoscenza dell’avvenuto sgravio ad opera dell’Agenzia delle Entrate, indipendentemente dall’eventuale ricezione per flusso telematico di idonea comunicazione ex art. 15, co. 2, L. 59/97.

IMG_3639.JPG

Per questi motivi, il ricorso della società di riscossione viene rigettato, con conseguente condanna a rifondere al contribuente le spese del giudizio di legittimità.

BlogNomos
SEGUICI SU FACEBOOK E TWITTER