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CONTRIBUTO FINO A 600 EURO ALLE LAVORATRICI MADRI. MODALITÀ, TERMINI E SCADENZE.

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Pubblicate in Gazzetta Ufficiale n. 287 dello scorso 11 dicembre 2014 le misure a sostegno delle mamme lavoratrici, di cui al DM 28 ottobre 2014, per l’erogazione del fondo perduto fino a € 3.600 per l’acquisto di servizi di baby sitting.

Al termine del periodo di congedo per maternità e, comunque, entro gli 11 mesi successivi, le madri lavoratrici, sia del settore pubblico sia del settore privato, nonché quelle che risultino iscritte alla gestione separata, di cui all’art. 2, L. n.335/95, potranno fare richiesta di accesso al contributo a fondo perduto per l’acquisto di servizi di baby sitting oppure per usufruire di servizi per l’infanzia presso strutture pubbliche e private. L’intervento, introdotto con la legge 28 giugno 2012, n. 92 di riforma del mercato del lavoro, stabilisce che a beneficiare del contributo saranno anche le donne libere professioniste. Il beneficio in parola, tuttavia, non è esteso alle coltivatrici dirette, mezzadre e colone, alle artigiane, alle imprenditrici del settore commerciale, alle imprenditrici agricole a titolo principale e alle pescatrici autonome.

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La misura è dotata di risorse complessive per € 20.000.000. Il contributo per ogni singola lavoratrice viene erogato sottoforma di voucher del valore massimo di 600 euro mensili per 6 mesi (con un importo totale di € 3.600) ed è spendibile nei 6 mesi successivi al termine del congedo per maternità.

La richiesta – che deve essere inoltrata per via telematica all’INPS entro il 31 dicembre di ciascun anno 2014 e 2015 – può essere presentata anche dalla lavoratrice che abbia usufruito in parte del congedo parentale.
La graduatoria è definita tenendo conto dell’ISEE.

I voucher, per l’importo riconosciuto, saranno ritirati dalla lavoratrice presso la Sede INPS territorialmente competente individuata in base alla residenza o al domicilio temporaneo.

DM 28 ottobre 2014

MDS
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LE DELEGHE LEGISLATIVE CONTENUTE NEL JOBS ACT

di Germano De Sanctis

Premessa.

Nel corso della giornata del 3 dicembre scorso, il Senato ha approvato in via definitiva la Legge delega di riforma del lavoro, meglio nota come “Jobs Act”. Entro entro sei mesi dall’entrata in vigore della presente legge, dovranno essere emanati i suoi Decreti Legislativi attuativi.

Esaminiamo nel dettaglio il contenuto delle deleghe conferite al Governo, evidenziando che esse interessano le seguenti cinque importanti aree tematiche:

  1. gli ammortizzatori sociali;
  2. i servizi per l’impiego e le politiche attive del lavoro;
  3. le procedure e gli adempimenti concernenti la costituzione e la gestione dei rapporti di lavoro;
  4. la disciplina dei rapporti di lavoro e l’attività ispettiva;
  5. la tutela e la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro.

La delega in materia di ammortizzatori sociali.

L’art. 1, comma 1, contiene una specifica delega al Governo per la riforma degli di ammortizzatori sociali, tenuto conto delle peculiarità dei diversi settori produttivi e senza produrre nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica (cfr., art 1, comma 12).

In particolare, tale delega interviene nella materia della disoccupazione involontaria, prevedendo l’introduzione di tutele uniformi e legate alla storia contributiva dei lavoratori, attraverso:

  • la razionalizzazione della normativa in materia di integrazione salariale;
  • il coinvolgimento attivo di quanti siano stati espulsi dal mercato del lavoro, ovvero siano beneficiari di ammortizzatori sociali;
  • la semplificazione delle procedure amministrative;
  • la riduzione degli oneri non salariali del lavoro.

L‘art. 1, comma 2, contiene i principi ed i criteri direttivi per l’esercizio della delega in esame.

In primo luogo, con riferimento agli strumenti di tutela in costanza di rapporto di lavoro, la legge delega prevede:

  • l’impossibilità di autorizzare le integrazioni salariali in caso di cessazione definitiva di attività aziendale o di un ramo di essa;
  • la semplificazione delle procedure burocratiche attraverso l’incentivazione di strumenti telematici e digitali, considerando anche la possibilità di introdurre meccanismi standardizzati a livello nazionale di concessione dei trattamenti prevedendo strumenti certi ed esigibili;
  • la necessità di regolare l’accesso alla CIG solo a seguito di esaurimento delle possibilità contrattuali di riduzione dell’orario di lavoro, eventualmente destinando una parte delle risorse attribuite alla cassa integrazione a favore dei contratti di solidarietà;
  • la revisione dei limiti di durata da rapportare al numero massimo di ore ordinarie lavorabili nel periodo di intervento della CIG ordinaria e della CIG straordinaria;
  • la previsione di una maggiore compartecipazione da parte delle imprese utilizzatrici;
  • la riduzione degli oneri contributivi ordinari e la rimodulazione degli stessi tra i settori in funzione dell’utilizzo effettivo;
  • la revisione dell’ambito di applicazione della cassa integrazione guadagni ordinaria e straordinaria e dei fondi di solidarietà ex art. 3 Legge n. 92/2012, fissando un termine certo per l’avvio dei fondi medesimi, anche attraverso l’introduzione di meccanismi standardizzati di concessione;
  • la revisione dell’ambito di applicazione e delle regole di funzionamento dei contratti di solidarietà ex Legge n. 863/1984;

Invece, per quanto concerne gli strumenti di sostegno in caso di disoccupazione involontaria, la legge delega dispone:

  • la rimodulazione dell’Assicurazione sociale per l’impiego (ASpI), con omogeneizzazione della disciplina relativa ai trattamenti ordinari e ai trattamenti brevi, rapportando la durata dei trattamenti alla pregressa storia contributiva del lavoratore;
  • l’incremento della durata massima per i lavoratori con carriere contributive più rilevanti;
  • l’universalizzazione del campo di applicazione dell’ASpI, con estensione ai lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa, fino al suo superamento, e con l’esclusione degli amministratori e sindaci, mediante l’abrogazione degli attuali strumenti di sostegno del reddito, l’eventuale modifica delle modalità di accreditamento dei contributi e l’automaticità delle prestazioni, e prevedendo, prima dell’entrata a regime, un periodo almeno biennale di sperimentazione a risorse definite;
  • l’introduzione di massimali in relazione alla contribuzione figurativa;
  • l’eventuale introduzione, dopo la fruizione dell’ASpI, di una prestazione, eventualmente priva di copertura figurativa, limitata ai lavoratori, in disoccupazione involontaria, che presentino valori ridotti dell’indicatore della situazione economica equivalente, con previsione di obblighi di partecipazione alle iniziative di attivazione proposte dai servizi competenti;
  • l’eliminazione dello stato di disoccupazione come requisito per l’accesso a servizi di carattere assistenziale.

Inoltre, i beneficiari degli ammortizzatori sociali dovranno essere destinatari di meccanismi ed interventi che incentivino la ricerca attiva di una nuova occupazione, ricorrendo a percorsi personalizzati (di cui all’art. 1, comma 4, lett. v)) d’istruzione, formazione professionale e lavoro, anche mediante l’adozione di strumenti di segmentazione dell’utenza basati sull’osservazione statistica. Coerentemente, viene previsto l’adeguamento delle sanzioni e delle relative modalità di applicazione, nei confronti del lavoratore beneficiario di sostegno al reddito che non si rende disponibile ad una nuova occupazione, o a programmi di formazione.

La delega in materia di servizi per l’impiego e di politiche attive per il lavoro.

L’art. 1, comma 3, contiene la delega al Governo in materia di servizi per l’impiego e di politiche attive per il lavoro. L’attività riformatrice oggetto di siffatta delega legislativa intende garantire un’effettiva fruizione dei servizi essenziali in materia di politica attiva per il lavoro su tutto il territorio nazionale, unitamente all’esercizio unitario delle relative funzioni amministrative.

L’art. 1, comma 4, contiene i principi ed i criteri direttivi per l’esercizio della delega cui il Governo deve attenersi. Essi sono:

  • la razionalizzazione degli incentivi all’assunzione esistenti;
  • la razionalizzazione degli incentivi per l’autoimpiego e l’autoimprenditorialità, anche nella forma dell’acquisizione delle imprese in crisi da parte dei dipendenti;
  • l’istituzione, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, di un’Agenzia Nazionale per l’Occupazione (qui, di seguito, denominata “Agenzia”), partecipata dallo Stato, dalle Regioni e dalle Province Autonome e vigilata dal Ministero del Lavoro, al cui funzionamento si provvede con le risorse umane, finanziarie e strumentali già disponibili a legislazione vigente;
    il coinvolgimento delle parti sociali nella definizione delle linee di indirizzo generali dell’azione dell’Agenzia;
  • l’attribuzione all’Agenzia di competenze gestionali in materia di servizi per l’impiego, politiche attive del lavoro e ASpI;
  • la razionalizzazione degli enti strumentali e degli uffici del Ministero del Lavoro, mediante l’utilizzo delle risorse umane, strumentali e finanziarie già disponibili a legislazione vigente;
  • la razionalizzazione e la revisione delle procedure e degli adempimenti in materia di inserimento mirato delle persone con disabilità ex Legge n. 68/1999;
  • l’individuazione del comparto contrattuale del personale dell’Agenzia con modalità tali da garantire l’invarianza di oneri per la finanza pubblica;
  • la determinazione della dotazione organica di fatto dell’Agenzia attraverso la corrispondente riduzione delle posizioni presenti nella pianta organica di fatto delle amministrazioni di provenienza del personale ricollocato presso l’Agenzia medesima;
  • il rafforzamento delle funzioni di monitoraggio e valutazione delle politiche e dei servizi;
  • la valorizzazione delle sinergie tra servizi pubblici e privati, nonché operatori del terzo settore, dell’istruzione secondaria, professionale e universitaria, anche mediante la definizione dei criteri per l’accreditamento e l’autorizzazione dei soggetti che operano sul mercato del lavoro e la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni nei servizi pubblici per l’impiego;
  • la valorizzazione della bilateralità attraverso il riordino della disciplina vigente in materia;
  • l’introduzione di principi di politica attiva del lavoro che prevedano la promozione di un collegamento tra misure di sostegno al reddito della persona inoccupata o disoccupata e misure volte al suo inserimento nel tessuto produttivo, anche attraverso la conclusione di accordi per la ricollocazione che vedano come parte le agenzie per il lavoro o altri operatori accreditati, con obbligo di presa in carico, e la previsione di adeguati strumenti e forme di remunerazione, proporzionate alla difficoltà di collocamento, a fronte dell’effettivo inserimento almeno per un congruo periodo, a carico di fondi regionali a ciò destinati, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica statale o regionale;
  • l’introduzione di modelli sperimentali, che prevedano l’utilizzo di strumenti per incentivare il collocamento dei soggetti in cerca di lavoro e che tengano anche conto delle buone pratiche realizzate a livello regionale;
  • la previsione di meccanismi di raccordo e di coordinamento delle funzioni tra l’Agenzia e l’INPS (sia a livello centrale, che territoriale), al fine di favorire una maggiore integrazione delle politiche attive e delle politiche di sostegno del reddito;
  • la previsione di meccanismi di raccordo tra l’Agenzia e gli enti che (a livello centrale e territoriale) esercitano competenze in materia di incentivi all’autoimpiego e all’autoimprenditorialità;
  • il mantenimento in capo alle Regioni ed alle Province Autonome delle competenze in materia di programmazione di politiche attive del lavoro;
  • l’attivazione del soggetto che cerca lavoro, in quanto mai occupato, espulso dal mercato del lavoro o beneficiario di ammortizzatori sociali, al fine di incentivarne la ricerca attiva di una nuova occupazione, secondo percorsi personalizzati di istruzione, formazione professionale e lavoro.

La delega per la semplificazione e la razionalizzazione delle procedure e degli adempimenti concernenti la costituzione e la gestione dei rapporti di lavoro.

La delega legislativa contenuta nell’art. 1, comma 5, concerne il conseguimento di obiettivi di semplificazione e razionalizzazione delle procedure in materia di costituzione e gestione dei rapporti di lavoro, nonché in materia di igiene e sicurezza sul lavoro.

I principi ed i criteri direttivi da osservare durante l’esercizio della delega legislativa in esame sono contenuti nell’art. 1, comma 6. Essi sono:

  • la razionalizzazione e la semplificazione delle procedure e degli adempimenti, anche mediante abrogazione di norme, connessi con la costituzione e la gestione del rapporto di lavoro, con l’obiettivo di ridurre drasticamente il numero di atti di gestione del medesimo rapporto, di carattere amministrativo;
  • la semplificazione, anche mediante norme di carattere interpretativo, o abrogazione delle norme interessate da rilevanti contrasti interpretativi, giurisprudenziali o amministrativi;
    l’unificazione delle comunicazioni alle Pubbliche Amministrazioni per i medesimi eventi e obbligo delle stesse Amministrazioni di trasmetterle alle altre amministrazioni competenti;
  • l’introduzione del divieto per le Pubbliche Amministrazioni di richiedere dati dei quali esse sono in possesso;
  • il rafforzamento del sistema di trasmissione delle comunicazioni in via telematica e abolizione della tenuta di documenti cartacei;
  • la revisione del regime delle sanzioni, tenendo conto dell’eventuale natura formale della violazione, in modo da favorire l’immediata eliminazione degli effetti della condotta illecita, nonché valorizzazione degli istituti di tipo premiale;
    la previsione di modalità semplificate per garantire data certa, nonché l’autenticità della manifestazione di volontà della lavoratrice o del lavoratore in relazione alle dimissioni o alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, anche tenuto conto della necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente in tal senso della lavoratrice o del lavoratore;
  • l’individuazione di modalità organizzative e gestionali che consentano di svolgere esclusivamente in via telematica tutti gli adempimenti di carattere amministrativo connessi con la costituzione, la gestione e la cessazione del rapporto di lavoro;
  • la revisione degli adempimenti in materia di libretto formativo del cittadino, anche con riferimento al sistema dell’apprendimento permanente;
  • la promozione del principio di legalità e priorità delle politiche volte a prevenire e scoraggiare il lavoro sommerso in tutte le sue forme ai sensi delle risoluzioni del Parlamento europeo del 9 ottobre 2008 sul rafforzamento della lotta al lavoro sommerso (2008/2035(INI)) e del 14 gennaio 2014 sulle ispezioni sul lavoro efficaci come strategia per migliorare le condizioni di lavoro in Europa (2013/2112(INI)).

La delega per il riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e delle tipologie dei relativi contratti e per la razionalizzazione e semplificazione dell’attività ispettiva.

L’art. 1, comma 7, reca una delega al Governo per il riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e delle tipologie dei relativi contratti, nonché per la razionalizzazione e semplificazione dell’attività ispettiva.

Allo scopo di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, nonché di riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo e di rendere più efficiente l’attività ispettiva, l’art. 1, comma 7, ha delegato il Governo è delegato ad adottare uno o più decreti legislativi. Uno di tali decreti legislativi deve contenere un testo organico semplificato delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro.

L’esercizio della delega legislativa avverrà nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi:

  • l’individuazione e l’analisi di tutte le forme contrattuali esistenti, in funzione dei predetti interventi di semplificazione, modifica o superamento delle medesime tipologie contrattuali;
  • la promozione del contratto di lavoro a tempo indeterminato come forma comune di contratto di lavoro, rendendolo più conveniente rispetto agli altri tipi di contratto in termini di oneri diretti e indiretti;
  • la previsione, per le nuove assunzioni, del contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento;
  • il rafforzamento degli strumenti per favorire l’alternanza tra scuola e lavoro;
  • la revisione della disciplina delle mansioni, in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale individuati sulla base di parametri oggettivi, contemperando gli interessi dei datori di lavori con gli interessi dei lavoratori, prevedendo limiti alla modifica dell’inquadramento;
  • la revisione della disciplina dei controlli a distanza sugli impianti e sugli strumenti di lavoro, tenendo conto dell’evoluzione tecnologica e contemperando le esigenze produttive ed organizzative dell’impresa con la tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore;
  • l’introduzione (anche in via sperimentale) del compenso orario minimo, applicabile ai rapporti aventi ad oggetto una prestazione di lavoro subordinato, nonché, fino al loro superamento, ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, nei settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale;
  • la previsione, nel rispetto dell’art. 70 D.Lgs. n. 276/2003, della possibilità di estendere, il ricorso a prestazioni di lavoro accessorio per le attività lavorative discontinue e occasionali nei diversi settori produttivi;
    l’abrogazione di tutte le disposizioni che disciplinano le singole forme contrattuali, incompatibili con le disposizioni del testo organico semplificato, al fine di eliminare duplicazioni normative e difficoltà interpretative e applicative;
  • la razionalizzazione e la semplificazione dell’attività ispettiva, attraverso misure di coordinamento ovvero attraverso l’istituzione, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica e con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, di una Agenzia Unica per le Ispezioni del Lavoro, tramite l’integrazione in un’unica struttura dei servizi ispettivi del Ministero del lavoro, dell’INPS e dell’INAIL, prevedendo, altresì, strumenti e forme di coordinamento con i servizi ispettivi delle ASL e delle agenzie regionali per la protezione ambientale.

La delega per la revisione e l’aggiornamento delle misure volte a tutelare le cure parentali, la maternità e le forme di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.

L‘art. 1, comma 8, prevede una specifica delega al Governo, finalizzata a garantire un adeguato sostegno alle cure parentali, attraverso misure volte a tutelare la maternità delle lavoratrici, nonché a favorire le opportunità di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro per la generalità dei lavoratori. Tale delega sarà attuata entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge delega attraverso l’emanazione di uno o più decreti legislativi finalizzati alla revisione e all’aggiornamento delle misure volte a tutelare la maternità e le forme di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.

I principi ed i criteri direttivi di tale delega sono rinvenibili nell’art. 1, comma 9. Essi sono:

  • la ricognizione delle categorie di lavoratrici beneficiarie dell’indennità di maternità, nella prospettiva di estendere tale prestazione a tutte le categorie di donne lavoratrici;
  • la garanzia, per le lavoratrici madri parasubordinate, del diritto alla prestazione assistenziale, anche in caso di mancato versamento dei contributi da parte del datore di lavoro;
  • l’introduzione del tax credit, quale incentivo al lavoro femminile, per le donne lavoratrici (anche autonome) con figli minori o disabili non autosufficienti e che si trovino al di sotto di una determinata soglia di reddito individuale complessivo;
  • l’armonizzazione del regime delle detrazioni per il coniuge a carico;
  • l’incentivazione di accordi collettivi volti a favorire la flessibilità dell’orario lavorativo e dell’impiego di premi di produttività, al fine di favorire la conciliazione tra l’esercizio delle responsabilità genitoriali e dell’assistenza alle persone non autosufficienti e l’attività lavorativa, anche attraverso il ricorso al telelavoro;
  • l’eventuale riconoscimento (compatibilmente con il diritto ai riposi settimanali ed alle ferie annuali retribuite) della possibilità di cessione fra lavoratori dipendenti dello stesso datore di lavoro di tutti o parte dei giorni di riposo aggiuntivi spettanti in base al CCNL in favore del lavoratore genitore di figlio minore che necessita di presenza fisica e cure costanti per le particolari condizioni di salute;
  • l’integrazione dell’offerta di servizi per le cure parentali forniti dalle imprese e dai fondi o enti bilaterali nel sistema pubblico-privato dei servizi alla persona in coordinamento con gli enti locali titolari delle funzioni amministrative;
  • la ricognizione delle disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, ai fini di poterne valutare la revisione per garantire una maggiore flessibilità dei relativi congedi obbligatori e parentali, favorendo le opportunità di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro;
  • l’introduzione di congedi dedicati alle donne inserite nei percorsi di protezione relativi alla violenza di genere debitamente certificati dai servizi sociali del comune di residenza.

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IDENTITÀ DI GENERE E RISPETTO DELLA PERSONA: ECCO I GIOCATTOLI UNISEX.

Questa notizia è una di quelle che normalmente passano in sordina sulle nostre bacheche Facebook. Noi italiani spesso guardiamo all’estero per rilevare ciò che non va a casa nostra. Ma quando lo facciamo stiamo ben attenti a selezionare ciò che vogliamo vedere. Così, critichiamo il nostro servizio postale, gli sportelli pubblici davanti a cui ci mettiamo in coda, fino all’incuria delle città in cui abitiamo e alla cattiva manutenzione delle strade su cui camminiamo o viaggiamo in macchina. Ma quasi mai ci rendiamo conto di quali e quanti passi avanti nel campo dei diritti civili si sono fatti altrove. Da noi, per esempio, si discute ancora su civil partnership alla tedesca, sì o no. Si pensa ancora che per avere un diritto non ci sia bisogno di riconoscerlo. Si nega il concetto di identità di genere, ritenendo che la percezione del sé non possa discostarsi da ciò che si è fuori: come dire che la terra sia piatta perché non se ne percepisce la rotondità. E via con le battute da bar dello sport, bullismo, sorrisetti e sfottò. Come se il bersaglio non fosse un essere umano e non avesse una sensibilità.

di Andrea Serpieri

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Nel nord Europa, quindi non a Sodoma e Gomorra, da qualche anno accade qualcosa di straordinario. Quando ero piccolo, all’asilo e a casa venivo richiamato se anziché giocare a pallone con gli altri maschietti, passavo troppo tempo con le femminucce, se anziché giocare alla guerra con i soldatini, guardavo la Dolcissima Creamy su Italia 1 o se giocavo con He-Man insieme alla mia vicina di casa che portava la sua Barbie Rockstar. E non vi dico che storie se lasciavo He-Man da solo con Skeletor per giocare con le cuginette e le loro bambole, sia pure per fare la parte di Ken. In realtà, io volevo solo giocare, non avevo alcun secondo fine e nella maggior parte dei casi non capivo il motivo del richiamo o della punizione. Ebbene, in Svezia e Danimarca, ormai da tempo, i bambini vengono lasciati liberi di giocare con quello che vogliono. Badate bene che nessuno istiga i maschi a giocare con Barbie e le femmine col Meccano. Per questa ragione, esistono perfino alcune catene di negozi di giocattoli che propongono cataloghi di giochi unisex, in cui i pregiudizi di genere vengono decostruiti, mostrando bambini e bambine giocare indiscriminatamente anche con giocattoli pensati per il sesso opposto.

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In Italia cataloghi di questo tipo non solo solleverebbero un mare di polemiche, ma farebbero indignare molti genitori, indecisi e probabilmente contrari all’idea di regalare una mitragliatrice giocattolo alla loro bambina, o un Cicciobello al figlio maschio. Tuttavia, visti i recenti fatti di cronaca con figli picchiati a sangue e costretti a fughe rocambolesche, in quanto vergogna della famiglia, forse sarebbe appena il caso di cominciare a mostrare alle future generazioni che non c’è niente di male ad allontanarsi da certi stereotipi. Gli uomini non sono solo quelli che non devono chiedere mai, quei rozzi scimpanzé machissimi e pieni di peli, dalla scorza dura e dal volto rude che il più delle volte hanno pure da puzzà, che guardano la partita di calcio in mutande e canottiera bevendo birra e ruttando liberamente come Fantozzi. E le donne non sono solo angeli del focolare, mini casalinghe destinate comunque ai fornelli. I giochi tradizionali che vediamo sugli scaffali dei nostri negozi sono ancora molto legati agli schemi sociali del passato: per quanto la Mattel con Barbie I can be faccia credere alle bambine che da grandi si possa diventare quel che si vuole, continua ancora a proporre il classico modello Fiori d’Arancio. E comunque esiste anche una I can be casalinga.

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Nei cataloghi di giocattoli svedesi e danesi, invece, è possibile vedere bambine che si divertono con una grande pistola giocattolo e bambini che giocano con una bambola. Se non mi credete, provate a cercare on line il catalogo dell’azienda svedese Toy Top, che distribuisce sia in Svezia che Danimarca per Toys R Us e BR: basta andare su Google, scrivere Toy Top catalogs e fare la ricerca per immagini, alcune delle quali sono anche qui in questo mio post. Ovviamente, neppure nella modernissima Svezia sono mancati accenni di polemica. Un paio d’anni fa circa, per esempio, l’azienda svedese Leklust propose un catalogo unisex dove un bambino travestito da Spiderman spingeva una carrozzina. Alle critiche ricevute il direttore della compagnia, Kaj Wiberg, replicò spiegando che arrivato alla veneranda età di 71 anni, era ormai perfettamente consapevole che, non solo le bimbe, ma anche i bambini giocassero con le bambole: allora, perché non aiutarli a non sentirsi diversi?

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Voi, che siete italiani, vi starete forse domandando come uno Stato possa permettere una simile corruzione di minori. Ebbene, lo Stato ne è addirittura promotore. In Svezia, per esempio, la questione della parità dei sessi si è evoluta contemporaneamente alla progressiva rivoluzione del concetto stesso di identità di genere. Nel 2008 il Governo svedese è arrivato a stanziare ben 110 milioni di corone per promuovere la parità di genere nelle scuole e per invitare gli insegnanti ad attivarsi fattivamente per combattere gli stereotipi di genere. Da noi, invece, nel 2014 gli insegnanti picchiano i loro allievi più gay. Sempre nello stesso anno fu anche proposto di eliminare il “lei” e il “lui” e di introdurre un nuovo pronome neutro. Adesso, l’italiota medio mi dirà, beh non è che dobbiamo copiare per forza gli orrori degli stranieri! Vero! Però sul fronte dei diritti civili c’è chi si ispira alla Russia di Putin, che, per quanto compagno di bunga bunga dell’ex premier, è pur sempre straniero. Ma allora avevo ragione quando dicevo che noi italiani guardiamo solo ciò che vogliamo guardare? Quand’è così, che aspettate? Chiudete questo ridicolo post e voltatevi pure dall’altra parte. Ma sì, avete ragione: continuiamo a far finta di niente. Ripetiamo insieme la storia dell’ape che impollina il fiore, che ai maschietti da grandi viene il vocione e cresce la barba, mentre alle bambine, dopo essersi sposate, succede di rimanere impollinate e ricordiamoci sempre che se non è così si è affetti da una malattia del cervello che, per fortuna, si può curare. Magari col Prozac e la preghiera di una sentinella in piedi.

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A El Salvador accusa di omicidio aggravato per le donne che scelgono l’aborto

 

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di Luigia Belli

 

 

A El Salvador, piccolo stato dell’America Centrale, stretto tra il Guatemala e l’Honduras e bagnato dalle acque dell’Oceano Pacifico, è proibita qualsiasi forma di aborto, fin anche nei casi in cui la gravidanza pone in pericolo la vita della madre o ne mina gravemente la salute. Attualmente sono 17 le donne che stanno scontando una pena che oscilla tra i 30 e i 40 anni di carcere per aver commesso ciò che la legge salvadoregna bolla come omicidio aggravato ai danni dei propri figli. Altre 18 donne stanno affrontando il processo che le vedrà condannate senza scampo.

 

Morena Herrera, una delle leader femministe del paese, ha promosso la fondazione di un movimento territoriale il cui obiettivo è quello di realizzare attività in difesa delle donne vittime di questo assurdo sistema. La Herrera, in collaborazione con il Gruppo per la Depenalizzazione dell’Aborto a El Salvador, si sta impegnando in prima persona per ottenere l’indulto per le donne che hanno subito condanne pluriennali per fatti legati all’aborto.

 

El Salvador non è l’unico Paese dell’America Latina ad applicare norme altamente restrittive per l’aborto. Altri sei Paesi ne seguono l’esempio, arrivando a proibire l’aborto anche nel caso in cui la gravidanza sia frutto di una violenza sessuale nei confronti della donna o, addirittura, in caso di gravidanza ectopica, ovvero quando l’impianto dell’embrione avviene in sedi diverse dalla cavità uterina che, se non riconosciuta ed affrontata in tempo, può portare a conseguenze gravissime per la donna, fino ad avere un esito letale. La Herrera sottolinea che, stando ai pareri scientifici, una emorragia causata da una gravidanza ectopica equivale ad una ferita da arma da fuoco nel ventre di una donna. E, di fatto, a El Salvador si contano numerose donne decedute a seguito della mancata estirpazione dell’ovulo fecondato in caso di gravidanza ectopica. Stando ai dati ufficiali, nel 2012, a El Salvador, 5 donne sono rimaste vittime di gravidanze ectopiche. Mentre, nel 2013, vi sono state ulteriori 13 donne morte a causa della mancata interruzione della gravidanza.

 

Delle 17 donne condannate, la maggior parte ha perso il proprio bambino a causa di un parto precipitoso. La Herrera spiega che molte di queste donne, vivendo in sacche di povertà e marginalità, non aveva realizzato nessun controllo prenatale. Addirittura, non sono state loro a rivolgersi all’ospedale, bensì vi sono state portate da familiari che, in molti casi, le avevano trovate sanguinanti in casa. Dall’ospedale, queste donne sono state direttamente trasferite in procura per essere sottoposte ad un processo in direttissima per omicidio aggravato, che prevede da 30 a 40 anni di carcere. Sembra davvero paradossale che siano gli stessi medici, a discapito del segreto professionale che dovrebbero rispettare come valore, innanzi tutto, etico, a realizzare le denunce. Inoltre, è bene segnalare che, in nessuno dei 17 casi di condanna, le imputate avevano volontariamente interrotto la gravidanza e che, comunque, in nessuno dei 17 casi sono state addotte prove dirette. A rendere ancora più grave la situazione, infine, è bene evidenziare che le condanne, sin da subito, sono state rese definitive senza appello. Pertanto non c’è possibilità alcuna di appellarsi alla sentenza. Un cartello di organizzazioni femministe del territorio si sta impegnando in prima linea per ottenere un indulto presidenziale, che rappresenta l’unica via giuridica per restituire libertà e dignità alle donne processate. Al contempo, si sta lavorando a pieno ritmo per intercedere presso le autorità, affinché le donne che attualmente stanno affrontando il medesimo processo abbiano la possibilità di evitare pene a lungo termine.

 

 

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Il futuro del pianeta…

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Il futuro del pianeta dipende dalla possibilità di dare a tutte le donne l’accesso all’istruzione e alla leadership. È alle donne, infatti, che spetta il compito più arduo, ma più costruttivo, di inventare e gestire la pace.

Rita Levi Montalcini

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Le ragioni della nostra battaglia.

da Il Manifesto del 10/5/2014

Alcuni brani dall’introduzione di Luciana Castellina a “Famiglia e società capitalistica” (Il Manifesto, Quaderno n.1, Alfani Editore, 1974).

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Alla battaglia per il referendum arriviamo stretti da tempi ridottissimi e in una situazione politica che tende a tal punto a precipitare in degenerazione istituzionale da sommergere il problema spec- ifico — quello dell’abrogazione del divorzio — entro una problematica enormemente più vasta, quella che risulta da una crisi economica profonda e da una acutizzazione dello scontro sociale in assenza di uno schieramento di opposizione già in grado di offrire un’alternativa compiuta. Ma sarebbe un errore ritenere che di fronte a questa situazione sia necessario eludere la battaglia sul problema che il divorzio propone, quasi essa rappresentasse una dannosa distrazione rispetto alle urgenze della lotta di classe. Proprio la diserzione della sinistra da questo terreno di confronto, oltre a farla oggi trovare «scoperta» rispetto all’attacco reazionario, ha contribuito a mantenere praticamente intatto un sistema di valori, di consuetudini, di strutture sociali, che costituiscono una radicata remota con- servatrice, che pesa inevitabilmente sulla dinamica del processo rivoluzionario. E’ un dato, questo, che se la pigrizia non prevalesse nell’analisi di come in concreto si sviluppa lo scontro di classe, fino a farci semplificare i protagonisti del conflitto entro lo schema di un proletario e di un capitale asso- lutamente astratti, sarebbe naturale riconoscere. E che invece tendiamo a non riconoscere, con la conseguenza di un pericoloso restringimento della nostra azione d’intervento.
Proprio l’ampiezza della crisi, di sistema e non congiunturale, in cui ci troviamo ad operare, dovrebbe farci rendere conto — se siamo convinti che dalla degenerazione del capitalismo non nasce automaticamente il comunismo, ma può derivarne anche caos e regresso per un lungo periodo sto- rico — di quanto vitale sia per la sinistra rivoluzionaria incidere sull’insieme dei rapporti sociali di produzione per avviare, nel corso stesso della crisi, la costruzione di un movimento di lotta capace di affrontare in positivo lo scontro che una drammatica frase di transizione ci prepara. E quando si dice insieme dei rapporti sociali di produzione non si può non intendere che quello specifico rapporto sociale che si esprime nella famiglia ne è parte certamente non secondaria.
Del resto, come non vedere quale riflesso moderato e conservatore hanno le paure prodotte dagli sconvolgimenti sociali che incidono anche sull’assetto familiare, sui modi in cui si organizzano i rap- porti umani, ove la sinistra non sia in grado, come non è stata finora, di proporre anche su questo terreno un’alternativa rivoluzionaria? Impedire il 1984, per usare la metafora di Gunder Frank
e Samir Amin, vuol dire, anche, combattere sul fronte, certo più difficilmente definibile, della ristrut- turazione che il capitalismo tenta al più generale livello dell’organizzazione sociale dell’ideologia;
e sarebbe puerile pensare di preparare la rivoluzione lasciando intatta una crosta ideologica che non è stata praticamente scalfita.
Se è vero, come ha detto Marx, che dal rapporto uomo-donna si misura il livello raggiunto da una civiltà, vuol dire che attorno a tale rapporto si annodano tutti gli altri e che è impossibile pensare di estromettere proprio questo epicentro dalla lotta rivoluzionaria, non vedere come esso di connette
e interseca con gli altri, non misurarvisi. Giudicare questa tematica di per sé interclassista, vuol dire negare in radice la capacità della classe operaia di affermarsi come classe egemone, cioè portatrice di una superiore e universale concezione del mondo. Qualcosa di simile, ma ancora più grave, di quel marxismo volgare e impoverito che alcuni decenni fa negava rilevanza di classe alle lotte di liber- azione nazionale.
Né vale a dire, che una battaglia specifica su questo terreno non ha senso, in quanto proprio perché l’assetto della famiglia dipende dal capitalismo, basta impegnarsi a scalzarne le fondamenta attra- verso la lotta economica di classe. L’esperienza della mancata rivoluzione in occidente e quella delle rivoluzioni che si sono fatte, dimostra quanto sia difficile, anzi impossibile, superare i rapporti capit- alistici di produzione solo movendo da una modifica della forma della proprietà o utilizzando la pian- ificazione dell’economia; come cioè sia parte integrante del superamento dei rapporti di produzione capitalisti la critica globale e positiva di tutte le dimensioni e gli aspetti dell’organizzazione della vita sociale.
Se è vero che non si può cambiare la famiglia senza cambiare la società è altrettanto illusorio pen- sare di potere cambiare la società senza aggredire alla loro radice tutti i nodi che si intrecciano nell’istituto familiare.
Alla lunga, lo sappiamo, è la trasformazione sociale quella che conta, e non uno spostamento di equi- libri puramente politici, sempre precario dove non affondi una reale modificazione dei rapporti di forza. Per questo non condivido prudenze e tatticismi, ma ritengo che alla battaglia del referendum dobbiamo andare a viso aperto, portandovi tutta la ricchezza della proposta comunista, consapevoli che in questi mesi non potremo fare molto, ma se non altro gettare dei semi, aprire interrogativi, far maturare contraddizioni, imporre una riflessione collettiva su una tematica su cui è il nostro avvers- ario a volere mantenere il silenzio (…)

La concorrenza a chi meglio difende le meschine virtù della famiglia-tana

Ma c’è anche un altro ordine di rischi in cui affrontando la battaglia del divorzio in modo riduttivo e minimizzante si incorre, col pericolo di una sconfitta nel referendum. Il divorzio, è vero, di per sé non incrina la saldezza della famiglia, si limita a ratificare le separazioni di fatto che già esistono
a migliaia, casomai a tutelare giuridicamente chi è rimasto colpito dalle loro conseguenze. Ma per quanto il fronte divorzista ripeterà questa verità — lo vediamo già ora nella diffidenza diffusa che troviamo fra gli stessi elettori di sinistra — non sarà facile imporla contro le mistificatorie denunce dell’avversario(…).
Da cosa nasce, infatti, questa diffidenza? Dal fatto che la famiglia viene oggi avvertita, paradoss- almente assai più che in passato, come una zattera assolutamente necessaria alla sopravvivenza e a mitigare il terrore di una accentuata solitudine. Il capitalismo nel suo procedere, proprio mentre tende a socializzare la produzione, tende nel contempo disgregare ogni comunità sociale e a creare una società atomizzata dove l’individuo si sente sempre più isolato rispetto ai suoi simili (…)
Proprio per impedire che questa atomizzazione proceda fino alle sue estreme conseguenze, per impedire che si giunga alla disgregazione sociale e dunque a una sorta di anarchia che minerebbe il sistema stesso che l’ha generata, lo stato borghese ha bisogno, ai fini della sua stessa conservazione, di ricostituire un minimo di valori comunitari che forniscono isole di aggregazione e con ciò un ter- reno per perpetuare l’ordine stesso. E’ per questo che il capitalismo, mentre per effetto delle sue stesse leggi di sviluppo disgrega l’antica compagine familiare svuotandola di gran parte di quelle funzioni produttive che ne costituivano la ragion d’essere, e immettendo le donne nella produzione, sente nel contempo il bisogno di ricostituirla, esaltandone un ruolo mistificato. Di fronte alla giungla della società, essa si presenta come il solo possibile rifugio contro la società nemica, la sola zona franca per la legge dell’uomo contro quella della merce, fino a divenire grumo struggente di nostal- gia, spezzone di memoria di un mondo in cui le cose avevano ancora un valore d’uso, affondato nell’oceano della competizione e del profitto. La sola isola, in definitiva, di solidarietà.
Ma — e qui sta la contraddizione insuperabile entro cui il sistema si dibatte — questo tentativo di recupero rimane totalmente astratto e riesce in qualche modo a compiersi solo su basi negative, gra- zie alla esasperata contrapposizione fra collettività e famiglia, intesa questa come tana, come rifugio, un sistema di fortezze chiuse dove la solidarietà dei consanguinei è l’altra faccia dell’egoismo bru- tale verso l’esterno, del ripiegamento sul proprio angusto particolare. L’educazione dei figli diventa in questo quadro l’allevamento dei cuccioli di belva da addestrare alla sfida della giungla (vera radice, questa sì, della corruzione) e il risarcimento delle frustrazioni degli adulti che su di loro scar- icano, distorcendo le potenzialità umane dei bambini, i rancori accumulati.

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Il tessuto morale della convivenza diventa solo quello gretto dell’egoismo di gruppo, la donna viene indotta ad una castrazione sociale, ad una regressione verso l’animalità che le consenta di rappres- entare nella commedia il ruolo di mediatrice fra progresso e natura, la compensazione dalle tensioni indotte dal mondo industrializzato. Tanto più è estranea alla vita sociale tanto più può sembrare che essa conservi un rapporto con la natura che i cittadini del capitalismo hanno perduto (tutta l’erotologia, peraltro, collabora validamente a questo fine). In lei si fa rivivere il mito del «buon sel- vaggio felice» che, improponibile al maschio addetto ai moderni mezzi di produzione si affida alla donna, nel tentavo di fare ritrovare all’uomo una innaturale naturalità fuori dalla storia. Stuoli di pediatri, psicologi, psicanalisti sono ingaggiati a questo fine, col risultato non solo di perpetuare la subordinazione della donna, ma di distorcere il significato umano dei rapporti, di impoverirne la ricchezza.(…)

© 2014 IL NUOVO MANIFESTO SOCIETÀ COOP. EDITRICE

Fonte: Il Manifesto

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Donna stuprata mentre rincasa dal lavoro: l’Inail le riconosce l’infortunio in itinere

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Stava tornando dalla palestra dove era addetta alle pulizie. Dall’Istituto un indennizzo di 10mila euro per il danno biologico subìto. L’avvocato generale La Peccerella: “I rischi tutelati dalla legge attengono a tutte le condizioni di percorrenza del tragitto, e non solo a quelle legate alla circolazione stradale”

MILANO – L’Inail ha riconosciuto l’infortunio in itinere a una donna straniera, poco meno che quarantenne, violentata a Milano mentre usciva dalla palestra dove lavorava come addetta alle pulizie. La vittima stava rincasando quando, nel tragitto, venne aggredita e stuprata da uno sconosciuto: un’esperienza terribile che si è tradotta, successivamente, nella manifestazione di ripetute crisi di panico e di uno stato crescente di depressione tali da rendere necessario il ricorso alla psicoterapia. L’Istituto – oltre all’indennizzo delle giornate di assenza giustificata dal luogo di lavoro – ha versato alla donna 10mila euro a seguito del danno biologico subìto: non solo quello all’integrità fisica, ma anche per le gravi conseguenze di carattere psico-emotivo.

Il caso è una declinazione del principio generale disciplinato dal dlgs n. 38/2000. “Non si tratta del primo caso di infortunio in itinere riconosciuto dall’Inail in relazione a una donna lavoratrice vittima di stupro, un episodio analogo è stato indennizzato di recente dalla Sede di Brescia – afferma l’avvocato generale dell’Istituto, Luigi La Peccerella – Da un punto di vista strettamente giuridico tale riconoscimento rappresenta una declinazione del principio generale relativo agli infortuni in itinere disciplinato dall’articolo 12 del 38/2000, che tutela il lavoratore contro, che tutela il lavoratore contro tutti i rischi legati alla strada, durante il percorso dal luogo di abitazione a quello di lavoro e viceversa”.

Escluse dalle tutele solo le situazioni riconducibili a ipotesi di ‘rischio elettivo’. Secondo quanto disposto dal legislatore, si definisce ‘infortunio in itinere’ l’infortunio occorso “durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro”. In tale accezione sono ricomprese nella tutela tutte le modalità di spostamento (a piedi, su mezzi pubblici, su mezzo privato “necessitato”, su percorsi misti), se il tragitto è collegato ad esigenze e finalità lavorative. Vengono escluse, invece, solo le situazioni che possono essere ricondotte a ipotesi di ‘rischio elettivo’: per esempio, l’uso non necessitato del mezzo privato, le interruzioni o le deviazioni del normale percorso anch’esse non necessitate, oppure condotte colpevoli quali l’abuso di alcolici, ecc.

Già riconosciuto come infortunio in itinere un caso di rapina. “Di solito si tende a considerare gli infortuni in itinere solo in relazione ai rischi connessi alla circolazione dei veicoli, ma in realtà tale categoria è ovviamente assai più estesa e riguarda tutto ciò che attiene le condizioni di percorrenza del tragitto – aggiunge La Peccerella – Pertanto, rientrano nelle tutele previste dalla legge anche il pericolo di subire un’aggressione o una violenza nel caso una persona, nel tragitto per tornare a casa dal proprio luogo di lavoro, debba necessariamente percorrere una strada isolata. Proprio in virtù di questo stesso principio è stato, recentemente, riconosciuto come infortunio in itinere anche un episodio di rapina di cui è stato vittima un lavoratore”.

Fonte: INAIL

“Vi racconto il mio laboratorio artigiano e come ho detto basta alla disoccupazione”

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Fonte: La Repubblica Next – La Repubblica degli innovatori del 26 marzo 2014

Dalla mancanza del lavoro ad un lavoro costruito su misura. Silvia Berra ha puntato sulla sua impresa artigiana basata sul riciclo creativo. “Vivo del principio delle 3r: riduci, riusa, ricicla. Così stimoliamo la creatività, recuperiamo la tradizione artigiana e portiamo innovazione nelle nostre case”
di GIAMPAOLO COLLETTI
@gpcolletti

Cerchioni di bicicletta e coltelli diventano lampadari da tavola, assi di legno e vasetti degli omogeneizzati si trasformano in mensole portaspezie. Il laboratorio di Silvia è un mondo affascinante, un luogo colorato, unico. E poi gli oggetti che realizza da zero sono all’insegna della competa sostenibilità ambientale, tutti frutto di un processo di riciclo e riuso.

Il suo è un laboratorio creativo con sede a Busto Garolfo, nella provincia milanese. Ha deciso di puntarci tutto dopo un periodo di disoccupazione. “Non sono capace di stare ad attendere gli eventi, mi piace crearli, far si che le cose accadano. E questa convinzione è stata il punto di partenza”. Per Silvia un vecchio oggetto può essere reinterpretato, può avere un nuovo utilizzo, può essere reinventato, invece che semplicemente buttato.
Il concetto di recupero è alla base del lavoro di Silvia. Si potrebbe dire che è parte stessa delle scelte di vita di Silvia, che ha deciso di non arrendersi e di darsi da fare. “Mesi e mesi a cercare un’occupazione, ma le risposte erano sempre vicino allo zero. Ma non mi sono fatta demoralizzare dalle situazioni, anzi ho preso il toro per le corna e ho pensato a come occupare le mie giornate”. Anche Silvia sarà protagonista al Next, la Repubblica degli Innovatori sabato 29 marzo al Teatro Piccolo di Milano.

Silvia, come sono le giornate alla ricerca del lavoro?
“Cercare un lavoro è un lavoro. Sempre connessa ad Internet per cercare nuove inserzioni, personalizzare il curriculum vitae per mettere in risalto competenze in linea con la figura ricercata, il passaparola tra amici e conoscenti. Ma è un “lavoro” che non da alcuna soddisfazione. Dalle aziende non arrivano risposte, e non esiste neanche più il classico le faccio sapere. È frustrante”.

Di cosa hai avuto più paura nel periodo di disoccupazione?
“La fiducia in se stessi è la prima conquista da maturare. Credere nelle proprie capacità è fondamentale. Poi è molto importante pianificare l’obiettivo, renderlo raggiungibile. Essere creativi anche nelle strategie per perseguirlo. Le competenze maturate come psicologa del lavoro mi hanno aiutato molto in questo percorso. Non ho avuto paura, perché mi piacciono le sfide e sono una persona determinata”.

Quanto hanno contato gli amici o la famiglia, il nuovo welfare sostitutivo anche legato agli affetti?
“Amici e famiglia mi sono stati utili per un confronto, sono ottime fonti di informazione sui nostri interessi, sul puntualizzare le nostre peculiarità e punti di miglioramento, ed infatti mi hanno aiutato a vedere da altri punti di vista le tappe da percorrere, a cogliere idee o critiche e ristrutturarle in linea all’obiettivo, alla propria mission”.

Quali sono gli oggetti che meriterebbero di essere acquistati nel tuo laboratorio?
“Tutti, perché ogni oggetto ha una sua storia, ha un suo passato e ha ritrovato un suo futuro grazie alla creatività, alla manualità ed all’artigianalità di ciascuno di noi. In questo periodo stanno andando tanto le bomboniere create per ogni occasione, rigorosamente con il principio delle 3r: riduci, riusa, ricicla”.

Cosa ti rende davvero soddisfatta?
“Certamente il fatto che anche la creatività anche dei nostri clienti viene stimolata. Ci portano vecchi oggetti, accatastati a prendere polvere in qualche soffitta, e ci chiedono di darne un nuovo utilizzo. Per esempio in questi giorni sto lavorando su un vecchio bidet in latta che diventerà un piccolo giardino zen. O ancora una struttura in ferro tutta arrugginita delle vecchie toilette che diventerà una fioriera. Di oggetti ce ne sono davvero tanti nel mio laboratorio. E io cerco di accontentare tutti i gusti e tutte le esigenze: il riciclo creativo è un piacere, stimola la creatività, recupera la tradizione artigiana, porta innovazione nelle nostre case”.

Oggi nel tuo laboratorio ospiti tanti giovani. Perché?
“Credo tantissimo nelle collaborazioni, nel team, nel gruppo. Fare network porta all’impresa un set di conoscenze, di esperienze, di interessi molto diversi. E questo diventa il valore aggiunto di Laboratorio Creativo: ospita tante creazioni diverse, da spazio alla creatività in ogni sua forma, fa conoscere il piacere del riciclo e del riuso, esalta l’artigianalità, il made in Italy”.

Un consiglio ai giovanissimi per diventare davvero “nexter”, ovvero innovatori del proprio tempo?
“Consiglio di essere sempre curiosi ed intraprendenti, di coltivare la propria passione con coerenza, di fare le cose che si hanno in mente, di puntare sulle idee nelle quali si crede. Essere coerenti è un’ottima “arma di persuasione” verso se stessi: aiuta a credere in ciò che vogliamo ottenere, accresce la nostra autostima, rende concreti i piccoli passi che ci portano verso la meta che ci siamo prefissati”.

340 euro al mese? No, grazie.

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Questa è la storia di Giorgia. Le offrono 340 euro al mese, ma dice no. E in una lettera aperta pubblicata su La nuvola del lavoro esorta tutti a fare lo stesso. Abbiate il coraggio, dice, fatelo anche voi. Basta compromessi con i datori di lavoro furbetti.
Giorgia ha 26 anni, è marchigiana ed è laureata in Lettere. Il suo sogno è quello di fare la giornalista. Una storia come tante, penserete. Invece non è solo una storia di tristezza e difficoltà. È anche una storia di coraggio e di speranza nell’Italia di oggi. Questa ragazza lancia un messaggio importante, chiaro e forte. Di messaggi così ne vorremmo di più. Vorremo che la forti parole di Giorgia potessero raggiungere il più ampio numero di giovani, perché finché ci sarà qualcuno disposto a cedere a certi compromessi l’Italia non cambierà.

MIchele De Sanctis per BlogNomos

5 giorni su 7 a 340 euro
di Giorgia D.

Dobbiamo imparare, a volte, a dire no. Dire no a quel datore di lavoro furbetto che ti offre due spiccioli per un impiego che meriti e per il quale hai studiato.

Io ho detto di no ma, finché ci saranno ragazzi che accetteranno qualsivoglia compromesso, la situazione in Italia non cambierà.

Ho 26 anni e sono una giornalista praticante. Vivo nelle Marche ma sto cercando lavoro dove si dice che ancora qualcosina ci sia: Milano. Ho mandato il curriculum a un’agenzia di comunicazione che, dopo un primo colloquio, ha deciso di assumermi. Bello vero?

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Sì, peccato che mi offrivano 500 euro con partita Iva. Chiamo immediatamente il mio commercialista che mi spiega come funziona. Ecco la sintesi. Per gli under 35 la partita Iva è agevolata al 5 per cento quindi significa che ai 500 euro iniziali avrei dovuto togliere 25 euro. Totale stipendio mensile: 475 euro. Ma non finisce qui. A questa somma va sottratto il 27% della Gestione Separata dell’Inps.

Ho studiato Lettere ma due calcoli riesco a farli. Al mese il guadagno sarebbe stato di 340 euro. Con questa cifra sarebbe stato impossibile prendere una stanza in affitto e sopravvivere, così ho detto subito di no. Arrivederci, senza grazie.

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Un altro ragazzo invece ha accettato l’offerta. Lui è di Milano e ha deciso di svegliarsi cinque giorni su sette per prendere 340 euro. Chi finora ha accettato questi compromessi, si deve ritenere colpevole della crisi economica e della disoccupazione giovanile.

Basta a dire “fa curriculum”, “fa esperienza”. Abbiate il coraggio di dire che vi meritate di più.

Fonte: La nuvola del Lavoro. Corriere della Sera

Lavoro, la beffa delle 30enni laureate: più preparate e meno pagate

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A cinque anni dalla laurea le ragazze che hanno trovato un impiego hanno in media uno stipendio di 1.333 euro. Ai loro coetanei vanno invece 300 euro in più. Un divario, anche nella precarietà, più elevato anche rispetto alle più giovani. E la nascita di un figlio diventa sempre di più un elemento condizionante. Indagine Almalaurea sul profilo di 210mila laureate.

di FEDERICO PACE La Repubblica 8/3/2014

Alcune di loro le trovi nei posti di comando delle imprese, altre stanno sedute di fronte ai luminosi monitor dove si decidono le sorti dei capitali mondiali e qualcuna anche sta sullo scranno di ministro di governo. Eppure, la gran parte delle 30enni italiane sono altrove. Le trovi negli uffici e negli spazi di piccole e grandi imprese, impegnate al loro meglio e costrette a dover accettare condizioni di lavoro svantaggiate rispetto a quelle dei loro colleghi maschi. Dall’editoria alla grande distribuzione. Quasi ovunque, un divario persistente, sia in termini di paga mensile sia di precarietà, a un’età così cruciale per lo sviluppo del proprio destino e per la crescita di un nuovo nucleo familiare.

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A cinque anni dalla laurea, le ragazze che sono riuscite a trovare un impiego, ricevono dalle imprese, in busta paga, solo 1.333 euro. I loro colleghi riescono invece a portare a casa una cifra che le supera del 22 per cento (1.626 euro). Quel che accade alle 30enni italiane ha l’aspetto di una beffa ancor maggiore, perché a un anno dalla laurea, la scarto che separa i due generi è di gran lunga inferiore e pari al 14 per cento (1.098 euro per le donne e 1.254 per gli uomini). Con il passare del tempo, di fatto, invece di smussarsi, le ineguaglianze e le disparità si inaspriscono e si acuiscono. Con il passare del tempo, alle ragazze, troppo spesso, non viene data la possibilità di accrescere il proprio valore e impiegare al meglio le risorse di cui sono in possesso.

Il dato italiano è quello elaborato dall’ultima indagine di AlmaLaurea che ha studiato il profilo di quasi 210 mila laureate. Il consorzio interuniversitario ha “fotografato” le immagini delle ragazze nei successivi passi della loro crescita e maturazione: a un anno dal conseguimento del titolo di studio, a tre anni e a cinque anni. I dati, come visto, non sono confortevoli. Il professore Andrea Cammelli, direttore, fondatore del consorzio e da sempre attento studioso dei fenomeni legati ai giovani in rapporto all’istruzione e all’occupazione, ha voluto precisare come questi dati siano il “segnale di un forte arretramento culturale e civile del Paese rispetto all’obiettivo di realizzare una partecipazione paritaria delle donne al mercato del lavoro” e ha sottolineato come di fatto “tale arretramento contribuisca a svalutare gli investimenti nell’istruzione universitaria femminile”.

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E’ vero che i differenziali retributivi possono essere influenzati da molti fattori. Dal tipo di studi intrapresi, dall’età media alla laurea, dal voto di laurea, dalla formazione post-laurea, così come dalla tipologia dell’attività lavorativa, dall’area di lavoro e dal diverso peso del tempo pieno e del part-time tra i due diversi generi. Gli esperti di AlmaLaurea però, in una ricerca ad hoc, hanno anche neutralizzato tali effetti e hanno mostrato come a parità di condizioni, i trentenni continuino a guadagnare in media 172 euro mensili in più delle loro coetanee.

In questo scenario si innesta poi l’elemento della precarietà che aggredisce il segmento femminile in misura maggiore di quanto non faccia con quello maschile. A un anno dalla laurea riescono a trovare un posto stabile solo il 31 per cento delle ragazze, mentre i ragazzi arrivano al 39 per cento. Con l’andare del tempo, se è vero che pare attenuarsi la precarietà dei ragazzi, che arrivano a un contratto stabile nel 79 per cento dei casi, lo stesso non accade in ugual misura alle ragazze. Nel loro caso, a cinque anni dalla laurea, solo due terzi riescono a conquistarsi il tanto ambito rapporto di lavoro stabile.

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Queste le ineguali condizioni di chi è riuscita a trovare un impiego, più o meno stabile, più o meno remunerato. Ma a queste vanno aggiunte, le molte che purtroppo non ci riescono neppure. Trovare lavoro è difficile per tutti, è una battaglia dove nessuno dei due generi risulta davvero vincente, entrambi strozzati in un mercato asfittico e sempre più striminzito. Eppure le donne fanno ancor più difficoltà, anche lì dove è già difficile per tutti. Già a un anno dalla laurea le differenze sono significative: trovano un impiego 52 donne su 100, mentre tra gli uomini ce ne riescono 59 su cento. C’è anche un altro dato che svela come le ragazze subiscano in misura maggiore la beffa: sono loro infatti quelle che in maggiore percentuale si dichiarano alla ricerca di un impiego (35 per cento rispetto al 27 degli uomini).

C’è poi la delicata questione della maternità. Se una giovane donna ha il coraggio, l’ardire, lo slancio, la naturalezza di divenire madre, allora la disparità occupazionale cresce quasi a dismisura. Le trentenni, a cinque anni dalla laurea, che hanno almeno un figlio hanno un tasso di occupazione pari al 63,5 per cento mentre i loro coetanei con figli sono occupati per l’89 per cento.

Avere un figlio, in termini occupazionali, di fatto risulta essere un condizionamento che forse non ha pari in Europa. Lo si capisce ancora di più se si mettono a confronto i destini occupazionali delle trentenni che hanno avuto almeno un figlio, con quello delle giovani che i figli, volenti o nolenti, non li hanno fatti. Ebbene, il 76 per cento delle laureate senza figli lavora a cinque anni dalla laurea, mentre succede lo stesso solo al 63 per cento di quelle con almeno un figlio. Questi numeri chiamano in causa i decisori e non si può non dare ragione a Cammelli quando dice che sono “forti sono le responsabilità in termini di politiche a sostegno della famiglia e della madre-lavoratrice”.

Fonte: La Repubblica