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Le nuove norme sulla dirigenza pubblica contenute nella riforma della Pubblica Amministrazione

 

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di Germano De Sanctis

Nel corso della giornata del 13 giugno scorso, il Consiglio dei Ministri ha varato il c.d. “Decreto Legge Semplificazioni e Crescita”, unitamente ad un altro decreto legge sull’ambiente e l’agricoltura ed ad un disegno di legge delega, denominato “Repubblica Semplice”, contenente ben otto deleghe legislative e che, una volta approvato dal Parlamento, mediante un percorso legislativo da concludersi nei prossimi sei mesi, porterà a compimento la riforma della Pubblica Amministrazione avviata con il decreto legge in questione.
Da un punto di vista di tecnica legislativa il Decreto Legge “Semplificazioni e Crescita” è un testo “omnibus”, contenente una enorme quantità di disposizioni afferenti a diverse ed eterogenee materie, ma che, al contempo, affronta questioni irrisolte da tempo.
Invece, il disegno di legge delega “Repubblica Semplice” è composto di dodici articoli, contenenti (come detto) otto deleghe legislative al Governo.
Siamo di fronte al quarto tentativo di riforma della Pubblica Amministrazione posto in essere negli ultimi vent’anni. Sicuramente, incontrerà critiche ed opposizioni, così come le incontrarono i predetti provvedimenti proposti illo tempore. Anche stavolta, il tentativo in questione nasce con le migliori intenzioni e con le più forti ambizioni. Tuttavia, dovrà affrontare un confronto serrato con la macchina burocratica statale attraverso una dialettica che si connoterà per una lunga serie di prove di forza poste a cui si contrapporranno i tentativi di preservare gli equilibri consolidati.
Ci sarà tempo per l’analisi più specifica delle singole norme e per l’esame della loro applicazione concreta. Nel frattempo, analizzeremo le novità più interessanti contenute, sia nel decreto legge, che nel disegno di legge delega, dedicando loro una serie di post suddivisi per area tematica, cominciando con la riforma della dirigenza pubblica.

 

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La riforma della dirigenza pubblica rappresenta una degli elementi più salienti dell’impianto riformatore, il quale si connota per la sua volontà d’introdurre criteri di valutazione e di responsabilità più stringenti, unitamente al ridimensionamento del numero massimo di dirigenti in rapporto al numero complessivo dei dipendenti assegnati ad ogni singola Pubblica Amministrazione.
Inoltre, il provvedimento in esame istituisce il ruolo unico dei dirigenti dello Stato, superando le due fasce attuali. Si potrà accedere al ruolo unico, mediante concorso, sia per le amministrazioni centrali, che per quelle periferiche e per le autorità indipendenti.
I dirigenti saranno distinti tra esperti (con professionalità specifiche) e responsabili di gestione.

I dirigenti avranno incarichi a termine di durata triennale. I risultati di ogni singolo dirigente saranno valutati da una Commissione, secondo una nuova e semplificata serie di criteri di valutazione (oggetto di delega), sia della performance individuale realizzata, che degli uffici diretti.
Tale sistema valutativo è direttamente collegato ad una completa ridefinizione del sistema retributivo della dirigenza pubblica, che sarà in parte ancorato all’andamento del PIL. Infatti, il 15% della retribuzione complessiva di risultato sarà agganciato all’andamento del PIL. Tale percentuale variabile sostituirà l’attuale indennità di posizione, che è attualmente definita in misura fissa dalla contrattazione collettiva.

Vi è anche la previsione della licenziabilità dei dirigenti, qualora, al termine di un contratto costoro rimangano senza l’assegnazione di un nuovo incarico per un lasso di tempo congruo, che verrà individuato in sede di approvazione del disegno di legge delega in Parlamento. Il licenziamento in questione sarà anticipato della messa in mobilità del dirigente interessato.
Verrà anche previsto il diritto all’aspettativa per i dirigenti pubblici che decideranno di vivere un’esperienza di lavoro presso datori di lavoro privati o all’estero.
Invece, vi sarà l’introduzione del divieto di assegnare nuovi incarichi ai dirigenti che avranno raggiunto l’età pensionabile (anche alle dipendenze di società partecipate).

A fronte di tali previsioni per i dirigenti di diritto pubblico (cioè assunti mediante concorso), il decreto legge stabilisce anche che, negli enti locali, la quota di dirigenti assunti per competenze specifiche ed al di fuori dal concorso pubblico passerà dal 10% al 30%.

Il Consiglio dei Ministri del 13 giugno ha anche introdotto un’altra novità consistente in una previsione speciale avente ad oggetto i vertici dirigenziali delle ASL. Infatti, è prevista l’introduzione di una graduatoria unica dei candidati direttori generali delle Aziende Sanitarie Locali, al fine di assicurare trasparenza ed evitare che vengano scelti nomi legati al mondo politico o latori di interessi di parte.
Si tratta di una enorme novità, atteso che attualmente, ogni Regione dispone di una propria lista di soggetti dichiarati idonei (secondo propri criteri) e che utilizza ogni qual volta necessiti di nominare un direttore di una ASL.
La norma in questione impone alle Regioni di nominare soltanto chi, dopo aver preso parte ad un concorso pubblico e aver frequentato un corso universitario di formazione in gestione sanitaria, è stato inserito nell’unica graduatoria nazionale, che sarà oggetto di aggiornamento a cadenza biennale.
Inoltre, al fine d’innalzare la qualità delle prestazioni dirigenziali e di creare una reale sistema di responsabilizzazione dei manager sanitari, è stato previsto che il direttore potrà essere dichiarato decaduto, qualora non raggiunga gli obiettivi di gestione o non garantisca l’equilibro di bilancio, unitamente ai livelli essenziali di assistenza nella sua legge. Analoga ipotesi di decadenza è prevista in caso di commissione di violazioni di legge e regolamento e di mancata imparzialità. Il direttore decaduto verrà cancellato dalla lista nazionale.

 

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In estrema sintesi, il ruolo unico della dirigenza, la flessibilità nell’attribuzione degli incarichi, le politiche retributive ed i percorsi di carriera correlati ai meriti ed alle competenze (unitamente alla revisione della disciplina della responsabilità) non possono che essere oggetto di plauso. Tuttavia, non si può nascondere la preoccupazione di come questo impianto riformatore, una volta approvato dal Parlamento, possa realmente sbloccare un settore che si connota per sua eccessiva rigidità e per il suo perdurante immobilismo, per valorizzare e favorire il lavoro delle persone capaci e competenti, sia già appartenenti al ruolo dei dirigenti pubblici, sia provenienti da altre esperienze lavorative.

In tale ottica, l’età media elevata della dirigenza pubblica rappresenta un’opportunità. Infatti, l’esame dei dati statistici evidenzia la possibilità di gestire senza conflitti con le parti sociali il ricambio generazionale di circa il 50% dei dirigenti attualmente in servizio, semplicemente ricorrendo al turn over fisiologico nell’arco di settennio, con l’avvertenza che, tale lasso temporale, è tempo destinato a ridursi in caso di abolizione dell’istituto del trattenimento in servizio, così come proposto dal Governo.
Tale ultima affermazione non vuole esprimere alcuna valutazione negativa sulla qualità della dirigenza pubblica attuale, la quale, al contrario, è una categoria professionale che si distingue per le tante persone di valore che la occupano. Tuttavia, è necessario prendere atto che il blocco del turn over nel Pubblico Impiego, ha provocato una evidente senescenza della Pubblica Amministrazione ed, in particolare della sua dirigenza, la quale si rende particolarmente evidente, quando si riscontra l’incoerenza dei criteri con cui in passato si selezionavano i dirigenti pubblici con le attuali e future esigenze del “Sistema Paese” .
Pertanto, il primo vero problema da affrontare sarà una radicale riforma delle modalità di selezione concorsuali. Il concorso pubblico deve abbandonare le sue modalità tradizionali di svolgimento, finalizzate alla mera verifica di una formazione teorica di base. Invece, i futuri concorsi pubblici per dirigenti dovranno essere rispettosi delle più moderne tecniche di accertamento delle competenze e delle attitudini delle persone, tenendo anche conto dei risultati professionali conseguiti, nonché dei meriti accumulati nello svolgimento del proprio lavoro.

 

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Pillole di globalizzazione. Il caso Uber e la “sharing economy”.

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di Germano De Sanctis

 

Nei giorni scorsi, è scoppiato il caso Uber. Uber è una start-up con sede a San Francisco, che offre ai propri clienti una rete di trasporto realizzata attraverso una sua app per smartphone e tablet, la quale crea un collegamento tra passeggeri e autisti, offrendo un servizio navetta per raggiungere la destinazione prescelta. La società è presente in decine di città in tutto il mondo.
Entrando nello specifico, l’app permette di prenotare le auto a noleggio con conducente, mediante l’invio di un messaggio di testo, oppure utilizzando direttamente l’applicazione mobile poc’anzi descritta. Utilizzando l’applicazione, i clienti possono tenere traccia, in tempo reale, della posizione dell’auto prenotata.

 

Come è noto, l’utilizzo sempre più diffuso di questa app, ha scatenato le proteste dei tassisti milanesi, i quali hanno contestato il fatto che Uber violi le norme nazionali che disciplinano i servizi di trasporto pubblico erogati dai tassisti “tradizionali”, a seguito di rilascio di apposita licenza.
I tassisti milanesi sono in buona compagnia, in quanto molti altri loro colleghi di altre città del mondo hanno posto in essere fenomeni di protesta del tutto simili.

 

Tuttavia, al di la dei fatti di cronaca legati alla situazione dei tassisti milanesi e di altre città del mondo, resta da affrontare il tema del complesso tema dell’intreccio tra innovazione tecnologica, globalizzazione, regole della concorrenza e privilegi corporativi.
Uber, come molte altre innovazioni tecnologiche, è il prodotto (non la causa) di una innovazione senza permesso, in quanto, anche da un punto di vista della reddittività, ogni app del genere punta solo a raccogliere, a livello globale, utenti, consensi e, quindi, a coinvolgere il numero maggiore possibile di persone, senza preoccuparsi delle singole normative nazionali di settore. Anzi, essendo presente soltanto sul web ed operando su server lontani migliaia di chilometri, si assiste alla diffusione di operazioni commerciali connotate da una indefinibile extraterritorialità.

 

Nel caso di specie, i tassisti si scagliano contro l’app in questione e protestano, accusandola di concorrenza sleale, citando le leggi nazionali che tutelano la loro categoria. Tuttavia, la loro protesta contro Uber risulta essere sterile, in quanto l’origine del loro problema non è Uber, poiché siamo di fronte ad una conseguenza inaspettata ed incontrollabile dell’innovazione senza permesso.
Infatti, l’app, diventando un operatore nell’ambito del mercato di riferimento, deve confrontarsi con esso. In altri termini, un’app come Uber si pone come intermediaria e, di conseguenza, trattiene una percentuale per la sua attività di mediazione.
Prima dell’avvento di Internet, tale forma d’intermediazione era una pratica diffusa, ma in alcun modo equiparabile per portata a un servizio professionale. Infatti, si pubblicava un annuncio sul giornale, si veniva contattati e si noleggiava un’auto con un conducente. Uber ha trasformato la classica telefonata dall’autorimessa al collega (che, ad esempio, già stava andando, per avvisarlo dell’arrivo di un nuovo cliente) in un rapporto diretto fra utenti e autisti via smartphone. In tal modo, un gruppo di Ncc od un Ncc singolo può organizzarsi per ottimizzare la giornata lavorativa ed alternare la sua attività con quella delle chiamate dirette.

 

Pertanto, la vera domanda da porsi è se una simile innovazione tecnologica è un problema, oppure un’opportunità.
Per quanto concerne la categoria dei tassisti, i loro veri problemi esulano dal singolo caso Uber, in quanto costoro devono confrontarsi quotidianamente con il car sharing, con la diffusione delle aree pedonali, i costi di manutenzione, l’imposizione fiscale etc.. A confronto Uber, è un piccolo fastidio, poiché la sua platea è decisamente ridotta, rispetto a quanti regolarmente utilizzano i tradizionali taxi. Difatti, bisogna tenere a mente che, per usare Uber, bisogna avere uno smartphone ed una carta di credito ed essere, altresì, disposti a comunicare gli estremi della propria carta di credito alla società che gestisce l’applicazione in questione. Vista la diffusione in Italia delle connessioni internet mobili e delle commercio elettronico, appare evidente che stiamo parlando di un ridotto numero di persone sottratto ai tradizionali servizi taxi.

 

Invece, la domanda iniziale circa la natura di problema o di opportunità di Uber deve essere posta in riferimento all’intero mercato globale. In linea di principio, un’app come Uber non può essere considerata immediatamente un problema, in quanto con erode, in prima istanza, fette di mercato riservate ai servizi tradizionali, perché ne offre di nuovi ed alternativi.
Questa affermazione è sicuramente veritiera nel breve e medio periodo. Invece, nel lungo periodo, i confini tra i servizi tradizionali e quelli tecnologicamente innovativi si fanno sempre più labili, poiché i settori merceologici sono gli stessi (nel caso di Uber, ad esempio, è il trasporto pubblico). Nel corso del tempo, interviene l’assuefazione da parte degli utenti ai nuovi servizi, fino a rendere non più appetibili (probabilmente anche al di là dei costi reali) i servizi tradizionali.

 

Pertanto, un’app come Uber è un opportunità per tutti, anche per coloro che erogano servizi tradizionali nel medesimo settore merceologico, a condizione che esista una classe imprenditoriale capace di studiare un servizio “glocal” economicamente profittevole, in quanto basato sulle reali esigenze locali e non strutturato su una indifferenziata proposta contrattuale su base globale.

 

Ovviamente, necessita anche un quadro normativo adeguato ed al passo dei tempi. Invece, in Italia, la questione digitale è stata finora costantemente rimandata, senza rendersi conto, né dell’urgenza di tale problema, né delle opportunità di sviluppo imprenditoriale ed occupazionale insite nelle nuove tecnologie.
Un legislatore moderno non può ignorare l’esigenza di disciplinare strumenti per cui esiste già una domanda e li deve inquadrare tempestivamente da un punto di vista normativo, garantendone, al contempo, uno sviluppo regolamentato e rispettoso dei diritti di tutti gli attori di un determinato settore macroeconomico.
Per di più, un intervento legislativo porrebbe immediatamente rimedio all’annoso problema delle c.d. “web tax”, che si pone ogni qual volta una nuova piattaforma tecnologica inizia ad erogare servizi a pagamento sul territorio nazionale, pur risiedendo in un server e facendo capo ad una società stabilmente impiantati uno Stato estero.

 

Si tratta di decisioni da assumere con la massima urgenza, in quanto la nuova globalizzazione digitale ha generato un nuovo mercato mondiale, dove i consumatori non acquistano più beni materiali con monete reali, ma fanno esclusivamente ricorso a transazioni elettroniche per accedere a servizi vari, senza mai comprarli.
Si è arrivati a pagare soltanto per condividere oggetti, capacità, tempo e spazi. Si tratta della c.d. “sharing economy”, la quale si sta sempre più affermando rubando consistenti fette di mercato al capitalismo tradizionale.
Infatti, queste piattaforme di condivisione sono capaci di incidere sul “core bussines” dei monopoli commerciali più consolidati, erodendo il potere delle lobby che dominano i mercati, in quanto gli impianti normativi a tutela degli assetti commerciali tradizionali risultano inadeguati a regolamentare i nuovi flussi commerciali dettati dalle tecnologie emergenti.

 

Si ribadisce che non si è di fronte a fenomeni isolati ed episodici. Basti pensare che in un Paese tecnologicamente arretrato come l’Italia, nel solo anno 2013, sono sorte 136 piattaforme digitali di “sharing economy”, interessando il 13% della popolazione italiana. In altri termini, l’anno scorso, almeno, sette milioni italiani hanno utilizzato almeno una volta una piattaforma digitale, condividendo con degli sconosciuti servizi a pagamento (come ad esempio, l’automobile, la baby sitter, un posto letto etc.).
Probabilmente questa dirompente diffusione è stata anche favorita dal combinato disposto degli effetti della perdurante crisi economica e della crescente diffusione dell’utilizzo degli smartphone e dei social network.

 

Inoltre, l’assenza di una chiara regolamentazione rispettosa dei diritti dei consumatori e dei doveri dei nuovi imprenditori digitali può generare fenomeni eversivi anticoncorrenziali ed antoconsumieristici, come già avvenuto in altri Paesi esteri, ove questo tipo di economia è già ben più sviluppato.
Quest’ultima considerazione appare ancor più rilevante se si considera il fatto che la “sharing economy” ed il suo connesso consumo collaborativo non stanno progressivamente decretando la fine del concetto di proprietà esclusiva, a favore di una proprietà condivisa di tipo “socialista”, bensì stanno favorendo la diffusione di una nuova forma acquisto che ha come oggetto l’acquisizione di un mero servizio, piuttosto che di un bene.
Il vantaggio per il consumatore risiede nel fatto che la spesa da affrontare è ridotta al minimo, in quanto, si paga soltanto il costo legato al consumo di un servizio (che può anche avere ad oggetto un bene: ad esempio, il noleggio di un’auto), per il solo tempo necessario.

 

Secondo alcuni siamo di fronte alla nascita di una nuova forma di capitalismo. Probabilmente, è troppo presto per dirlo. Intanto, si può rilevare che questa rivoluzione commerciale generata dalla diffusione di internet produce due immediate conseguenze. In primo luogo, incide sul sistema infrastrutturale, diffondendo le offerte e domande di consumi collaborativi in forma immateriale. In secondo luogo, favorisce la diffusione di scambi commerciali privi del famoso “intuitu personae”, in quanto la “sharing economy” ti impone di fidarti di sconosciuti, anche se nel web nessuno è realmente sconosciuto, in quanto sono facilmente rinvenibili le tracce digitali e le referenze che rilasciate da quelli che hanno già avuto a che fare con noi.

 

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Il 40,1% delle Pubbliche Amministrazioni utilizza software open source

 

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di Germano De Sanctis

Recentemente, l’ISTAT ha pubblicato i risultati del censimento delle istituzioni pubbliche italiane, secondo il quale il 40,1% delle Pubbliche Amministrazioni utilizza software open source.
Inoltre, si è riscontrato che il 96,4% delle Pubbliche Amministrazioni ha un accesso ad internet, in quanto, a fronte di un campione di rilevamento di ben 12.146 istituzioni pubbliche, soltanto il 11.715 dispongono di un proprio sito web, presso il quale i cittadini possono accedere ad informazioni su orari degli uffici, come richiedere alcune documentazioni etc.. Inoltre, soltanto il 57,5% delle istituzioni pubbliche è dotato di una propria rete Intranet.
Sempre stando all’ISTAT, i dipendenti degli enti locali (Regioni, Province, Comuni, etc.), utilizzano principalmente pc desktop (73%), mentre solo il 7% utilizza pc portatili. Il rimanente 20% dei dipendenti interessati dal censimento utilizza device mobili come smartphone e tablet.
Si evidenzia che i dati rilasciati dall’ISTAT riguardano un censimento effettuato nel corso dell’anno 2011. Pertanto, è molto probabile che la percentuale di istituzioni pubbliche che attualmente utilizza software open source sia superiore al poc’anzi indicato 40,1%.

Venendo all’esame più dettagliato dell’utilizzo del software open source presso le Pubbliche Amministrazioni italiane, risulta interessante riscontrare subito che all’interno della platea del 40,1% delle istituzioni censite e che hanno dichiarato di utilizzare software open source, vi sono tutte le Regioni e oltre il 90% delle Province e delle Università.
Inoltre, emerge che il territorio italiano più votato all’uso del software libero è la Provincia Autonoma di Bolzano, dove l’86,2% dei Comuni utilizza software liberi.
Invece, le Regioni presso le quali si registra un basso ricorso all’open source sono il Molise (30,9%), l’Abruzzo (25,9%o) ed il Piemonte (23,7%).
A seguito dell’esame dell’utilizzo del software open source presso i Comuni, l’ISTAT ha riscontrato che la sua percentuale di utilizzo si è attestata al 40,7%. Inoltre, tale utilizzo risulta crescente all’aumentare dell’ampiezza demografica, passando dal 25,9% cento per i Comuni fino a 5.000 abitanti al 79,8%o per quelli oltre 100.000 abitanti. I più virtuosi sono risultati essere (come già detto) i Comuni della Provincia Autonoma di Bolzano (86,2%), seguiti da quelli della Toscana (67,9%) e dell’Emilia Romagna (61,4%).

 

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Il censimento dell’ISTAT è l’occasione per soffermarci sul fatto che la scelta operativa dalle Pubbliche Amministrazioni di utilizzare software open source deriva da un preciso fondamento normativo, spesso disatteso, se non, addirittura, ignorato.

Infatti, il rapporto tra software libero (meglio noto come open source) e Pubblica Amministrazione italiana è sempre stato problematico. Tuttavia, in data 12 agosto 2012, è entrata in vigore una modifica dell’articolo 68 del Decreto Legislativo 7 marzo 2005, nr. 82, meglio noto come Codice dell’Amministrazione Digitale, che ha mutato il quadro di riferimento.
Tale novella legislativa ha suscitato molti entusiasmi nell’immediatezza della sua approvazione, per, poi, generare grandi delusioni per la sua difficoltosa attuazione pratica.
Infatti, in virtù della norma citata, le Pubbliche Amministrazioni devono, di regola, acquisire software libero, mentre l’acquisto di software proprietario con licenza d’uso è stato circoscritto a casi eccezionali, ammissibili soltanto in particolari circostanze.
Dunque, come dicevamo, il 12 agosto 2012, si è avuta una riscrittura dell’articolo 68 del Decreto Legislativo 7 marzo 2005, nr. 82 (c.d. “Codice dell’Amministrazione digitale”), ad opera della Legge 7 agosto 2012, n. 134. Con tale riforma, è stata anche istituita l’Agenzia per l’Italia Digitale, in sostituzione di DigitPa.
Il nuovo articolo 68 del Decreto Legislativo 7 marzo 2005, nr. 82 prevede solo tre possibili modalità di acquisizione del software:

  1. software sviluppato per conto della Pubblica Amministrazione;
  2. riutilizzo di software o parti di esso sviluppati per conto della Pubblica Amministrazione;
  3. software libero o a codice sorgente aperto, oltre alla combinazione fra queste soluzioni.

In altri termini, il software proprietario non è compreso nel range delle possibili scelte, se non, come si evince leggendo nella prosecuzione della norma in questione, come extrema ratio.
Di conseguenza, è consentita l’acquisizione di programmi informatici di tipo proprietario mediante ricorso a licenza d’uso soltanto quando la valutazione comparativa di tipo tecnico ed economico dimostri l’impossibilità di accedere a soluzioni open source o già sviluppate all’interno della Pubblica Amministrazione ad un prezzo inferiore. Pertanto, il dettato normativo è talmente chiaro che la Pubblica Amministrazione può ricorrere al software proprietario solo quando sussista “l’impossibilità” di ricorrere al software libero od a programmi commissionati ad hoc.
Si tratta di una enorme novità. Se, da un lato, è possibile il verificarsi di casi in cui una Pubblica Amministrazione necessiti di applicazioni legate a specifiche attività istituzionali che non sono disponibili sotto forma di free software, e di cui non è economicamente conveniente commissionare la realizzazione, d’altro canto, è sicuramente certo che, relativamente ad altre esigenze, come, in primo luogo, i sistemi operativi e le suite da ufficio, sia assolutamente da escludere una evidente impossibilità di ricorrere all’open source. Infatti, sostenere che è “impossibile”, sia da un punto di vista tecnico, che economico, adoperare sistemi operativi open source come Ubuntu (o Linux Mint, o Fedora, o Open Suse etc.) al posto di Windows (o di Apple OSX), appare decisamente difficile. Analogo discorso vale per le suite da ufficio, dove LibreOffice (o Apache OpenOffice) possono tranquillamente sostituire Microsoft Office (come, d’altronde, è già avvenuto in molte Amministrazioni Pubbliche).

Ovviamente, una norma di tale portata ha scatenato nelle varie Pubbliche Amministrazioni reazioni diverse, in relazione alla eventuale presenza (sovente aleatoria) nelle dotazioni organiche di impiegati competenti nell’area del software open source, ovvero in stretta connessione alla necessità di aggiornare software obsoleto, o di rinnovare le licenze proprietarie scadute.
Infatti, la casistica disponibile ha dimostrato che la presenza di tecnici abituati a interfacciare le comunità del software libero ha permesso di garantire una decisa attuazione della citata disposizione di legge in questione. Al contempo, anche la necessità di aggiornare le licenze del software proprietario in scadenza ha trasformato in opportunità una migrazione attesa da tempo, a favore dei magri bilanci delle Amministrazioni Pubbliche italiane condizionati dalle forti ristrettezze economiche e dalle nuove regole di spending review.

 

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In attuazione di quanto previsto dall’articolo 68 del D.Lgs. n. 82/2005, l’Agenzia per l’Italia Digitale ha emanato la Circolare 6 dicembre 2013 n. 63 , avente ad oggetto le Linee Guida per la valutazione comparativa prevista dal citato art. 68 del Codice dell’Amministrazione digitale. In particolare, La Circolare in questione illustra, attraverso l’esposizione di un percorso metodologico e di una serie di esempi, le modalità e i criteri per l’effettuazione della valutazione comparativa delle soluzioni prevista dall’articolo 68 del D.Lgs. n. 82/2005. Tali Linee Guida sono indirizzate alle Pubbliche Amministrazioni elencate nell’art. 2, comma 2 del D.Lgs. n. 82/2005, che devono acquisire prodotti e soluzioni software da utilizzare nell’ambito dei propri compiti istituzionali. Alcuni dei contenuti delle Linee Guida sono peraltro d’interesse anche per gli operatori del mercato ICT.

Orbene, la Circolare n. 63/2013, pur sancendo l’obbligo di preferire il software libero e ed il riuso, ha lasciato delle ombre sulla corretta applicazione dell’articolo 68 D.Lgs. n. 82/2005.
Venendo all’esame specifico del contenuto della Circolare in questione, si rileva che essa è partita dall’assunto già contenuto nell’art. 68 D.Lgs. n. 82/2005, secondo il quale le Pubbliche Amministrazioni che devono procedere ad acquisire i software necessari allo svolgimento della propria attività, hanno l’obbligo di procedere ad una valutazione comparativa di tipo tecnico ed economico tra le differenti soluzioni disponibili (software sviluppato per conto della PA, riuso, software libero, cloud computing, software proprietario), da svolgersi secondo modalità e criteri definiti dall’Agenzia per l’Italia Digitale.
Tuttavia, siffatta valutazione comparativa è apparsa priva di un un vero e proprio criterio di preferenzialità, in quanto il legislatore ha disposto che, ove dalla valutazione comparativa di tipo tecnico ed economico risulti motivatamente l’impossibilità di accedere a soluzioni già disponibili all’interno della pubblica amministrazione, o a software liberi o a codici sorgente aperto, adeguati alle esigenze da soddisfare, è consentita l’acquisizione di programmi informatici di tipo proprietario mediante ricorso a licenza d’uso.
In sede di redazione della Circolare n. 63/2013, ci si è divisi sull’interpretazione da fornire a questa norma (che, come detto in precedenza, è apparentemente chiara). Infatti, i diversi operatori seduti al tavolo tecnico costituito presso Agenzia per l’Italia Digitale si sono divisi: da un lato coloro che ritenevano l’assenza nel testo dell’art. 68 D.Lgs. n. 82/2005 di una specifica preferenza tra le diverse soluzioni, dall’altro coloro che rilevavano una inequivocabile preferenza del legislatore a favore delle soluzioni di riuso e di software libero o a sorgente aperto.
Alla fine del confronto, la Circolare n. 63/2013 ha dato ragione a questi ultimi, definendo i criteri che ciascuna Pubblica Amministrazione deve seguire per l’acquisizione di prodotti e soluzioni software da utilizzare per l’assolvimento dei propri compiti istituzionali.
Infatti, la Circolare n. 63/2013 ha chiarito definitivamente che le Amministrazioni Pubbliche che devono procedere all’approvvigionamento di software hanno l’obbligo di:

  1. definire le proprie esigenze, identificando i requisiti (funzionali e non) dei programmi da acquisire;
  2. ricercare le soluzioni disponibili;
  3. confrontare le soluzioni “eleggibili”.

Nell’ambito di tale processo, è richiesto alle Pubbliche Amministrazioni di redigere una griglia di valutazione sulla base dei criteri di valutazione definiti dal legislatore. Tali criteri sono i seguenti:

  1. il costo complessivo;
  2. il livello di utilizzo di formati di dati aperti, con particolare riferimento al livello di utilizzo delle interfacce e degli standard per l’interoperabilità e per la cooperazione applicativa;
  3. le garanzie del fornitore in materia di livelli di sicurezza;
  4. la conformità del fornitore alla normativa in materia di protezione dei dati personali;
  5. i livelli di servizio offerti dal fornitore.

Solo dopo aver assegnato, alle diverse soluzioni confrontate, un punteggio su ciascuno dei criteri di valutazione, l’Amministrazione Pubblica procedente può procedere a determinare il risultato complessivo della valutazione.
Inoltre, al punto 3.3.9 della Circolare n. 63/2013, è previsto che, nel caso in cui all’esito della valutazione comparativa, la soglia minima di accettabilità venga superata da più soluzioni alternative, di cui una o più nelle categorie “software libero o a sorgente aperto” e/o “software in riuso“, queste ultime dovranno essere preferite a soluzioni proprietarie, salvo che l’Amministrazione non ne motivi l’impossibilità.

Tuttavia, a fronte di queste chiare indicazioni a favore del software open source, la Circolare n. 63/2013 si distingue anche per essere un documento molto pesante e farraginoso, il cui rispetto risulta essere particolarmente oneroso, specialmente per gli Enti Pubblici di piccole dimensioni.
Per di più, bisogna sottolineare il rischio di un potenziale contenzioso che può facilmente essere generato da una scorretta od incompleta valutazione comparativa, la quale, così come è stata descritta dalla Circolare in questione, riserva margini ancora troppo ampi di discrezionalità. In altri termini, sussiste un elevato rischio generato dalla possibilità di poter facilmente impugnare la scelta operata dalla Pubblica Amministrazione procedente, chiedendone la declaratoria di illegittimità e, quindi, del successivo affidamento, con relativo contenzioso dinanzi al TAR e conseguente responsabilità dirigenziale.
Per fortunatamente, in presenza di dubbi interpretativi, le Pubbliche Amministrazioni procedenti possono chiedere all’Agenzia per l’Italia Digitale di esprimere un parere (seppur non vincolante) sul rispetto delle norme in materia di valutazione comparativa.
In definitiva, l’analisi comparativa delle possibili soluzioni che una Pubblica Amministrazione deve effettuare prima di acquisire programmi informatici non può prescindere dalla preventiva conoscenza, da parte delle stessa Pubblica Amministrazione, delle diverse tipologie di licenza d’uso presenti sul mercato. Inoltre, la Circolare n. 62/2013 si sottolinea che, in ogni caso, la scelta del percorso metodologico da intraprendere per l’acquisizione di programmi informatici nelle PA dovrà essere basata sulla valutazione della complessità organizzativa della Pubblica Amministrazione interessata, sulle sue competenze informatiche e sulla rilevanza strategica della specifica acquisizione di software.

In conclusione, l’analisi fin qui svolta dimostra che la Pubblica Amministrazione italiana è all’inizio di un lungo cammino che la deve portare all’effettivo e generalizzato utilizzo del software open source, non soltanto per rispettare precise indicazioni fornite dal legislatore nazionale, ma anche e specialmente per liberare importanti risorse finanziare da poter destinare ad altri servizi che, in questi tempi di ristrettezze dei bilanci delle Amministrazioni Pubbliche, rischiano seriamente di non essere garantiti in maniera adeguatamente efficace.

 

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Una nuova classe dirigente per l’era digitale

L’impetuoso avvento dell’era digitale comporta una profonda revisione delle politiche industriali e macroeconomiche, ma, ancor di più, rende necessaria l’introduzione di una nuova generazione della classe dirigente nazionale.

Infatti, per affrontare in maniera efficace le difficoltà di questo nuovo mondo, occorrono persone nuove capaci d’interpretarlo. L’attuale classe dirigente, per questioni anagrafiche, oltre che per linguaggio, contenuti e scarsa velocità di analisi, ha dimostrato i limiti della propria comprensione di questa nuova era.

 In Italia, manca una vera consapevolezza dell’inadeguatezza del sistema nazionale. Il mondo sta vivendo una delle più grandi rivoluzioni nella storia umana, in quanto l’era digitale rappresenta un nuovo Rinascimento, capace di stravolgere tutti gli schemi cognitivi finora utilizzati per prevedere le direttrici di sviluppo dei grandi paesi industrializzati e non. Purtroppo, la gran parte della nostra classe dirigente politica, industriale e burocratica non ha ben chiari i termini economici e culturali di questa rivoluzione copernicana. Si continua ad interpretare il mondo con gli stessi parametri dell’era analogica, senza rendersi conto che si è nel vivo dell’era digitale.

Questa situazione di stallo impedisce che l’Italia, intesa come comunità, sia capace di elaborare un nuovo modello condiviso di sviluppo culturale, economico e sociale.

 La diretta conseguenza di questa inadeguatezza è la probabile incapacità di approfittare dei primi segnali di nuova crescita che s’intravvedono anche in Europa continentale.

Servirebbero riforme profonde e strutturali, basate su una politica industriale di breve, medio e lungo periodo, totalmente orientata alla definitiva digitalizzazione dell’economia.

Un risultato del generale è perseguibile soltanto attraverso misure capaci di sfruttare il nuovo trend di crescita, che, se necessario, risultino anche traumatiche per il sistema produttivo, ma non per i lavoratori, i quali hanno finora pagato gran parte delle conseguenze di tale incapacità di reazione. Anzi, bisognerebbe prevedere una serie di massicci interventi sul capitale umano, al fine di renderlo adeguato nella gestione delle nuove tecnologie da utilizzare nei cicli produttivi.

L’obiettivo finale da perseguire deve consistere nella capacità di produrre prodotti competitivi, non per il loro basso prezzo di acquisto, ma per il loro elevato valore tecnologico intrinseco, al punto da rendere non strategica la quantificazione del costo della manodopera necessaria per la loro produzione.

 Ovviamente, l’avvio di un nuovo ciclo di crescita comporterebbe sicuramente un mero benessere effimero, che non sarebbe risolutivo, qualora non si sarà capaci di governare bene la cosa pubblica, tenendola al passo della presente rivoluzione digitale. Se la nuova classe dirigente burocratica perdesse questa ulteriore sfida nella sfida, basterebbe un primo segnale di crisi, per disperdere in un attimo tutte le conquiste fino a quel punto ottenuto.

La capacità delle istituzioni pubbliche e della sua dirigenza nel gestire i nuovi temi di questa nuova era digitale risulta essere fondamentale, specialmente se si tiene conto del ruolo dirimente svolto dall’impatto prodotto sulle società e sulle economie dalla velocità del progresso tecnologico, nonché dal contestuale tasso d’introduzione delle innovazioni nella vita quotidiana.

Infatti, negli ultimi anni, lo sviluppo tecnologico ha abbandonato lo schema dello sviluppo lineare, per abbracciare quello dello sviluppo esponenziale generato dalla information technology, rendendo possibile ciò che fino a poco tempo prima sembrava impossibile.

In altri termini, la soglia del concetto di impossibile si sta spostando continuamente in avanti, lasciando inevitabilmente indietro il sistema cognitivo delle passate generazioni, formate e cresciute durante tutta la loro vita lavorativa, in un’epoca nella quale non esistevano la connessione internet, gli smartphones, i tablets ed i social networks.

Tuttavia, sono proprio queste generazioni che mantengono ancora in larga misura la guida del nostro Paese. Ovviamente, non si trascura affatto l’importanza che assume la capacità di aggiornarsi, ma, nell’era digitale, la manutenzione delle proprie competenze da parte di un “nativo analogico” non potrà mai garantire le medesime freschezza ed originalità delle decisioni assunte da persone “native digitali”.

Infatti, l’era digitale si distingue per la finora sconosciuta capacità di avere relazioni, acquisire informazioni e di entrare in contatto con chiunque, in qualunque parte del mondo, sempre e rigorosamente, in tempo reale. Si tratta di un dato cognitivo che, pur essendo stato colto, non è stato ancora ben appreso.

L’era digitale ha moltiplicato all’infinito la capacita cognitiva dei singoli individui. Tuttavia, si tratta di una capacità cognitiva diversa ed, al contempo, inarrivabile per chi, invece, ha dovuto acquisirla nel corso dell’era analogica.

 Queste considerazioni comportano la necessità di realizzare, senza creare alcun conflitto generazionale, una decisa accelerazione del cambio complessivo della classe dirigente, a favore dei nativi digitali. Infatti, solo questi ultimi possono gestire efficacemente lo sviluppo esponenziale del progresso tecnologico, in quanto essi, a differenza dell’attuale classe dirigente “analogica”, non sono condizionati da una visione cognitiva della realtà di tipo esclusivamente lineare.

Questa soluzione comporterebbe un indubbio beneficio per l’intero “Sistema Paese”, ma, inoltre, libererebbe le molteplici energie inespresse di una intera generazione che, dopo aver trascorso anni di studio nel preparare il proprio avvento nella società del lavoro, è attualmente costretta ad invecchiare, restandone ai margini e senza svolgere alcun ruolo strategico.

 

Germano De Sanctis