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IDENTITÀ DI GENERE E RISPETTO DELLA PERSONA: ECCO I GIOCATTOLI UNISEX.

Questa notizia è una di quelle che normalmente passano in sordina sulle nostre bacheche Facebook. Noi italiani spesso guardiamo all’estero per rilevare ciò che non va a casa nostra. Ma quando lo facciamo stiamo ben attenti a selezionare ciò che vogliamo vedere. Così, critichiamo il nostro servizio postale, gli sportelli pubblici davanti a cui ci mettiamo in coda, fino all’incuria delle città in cui abitiamo e alla cattiva manutenzione delle strade su cui camminiamo o viaggiamo in macchina. Ma quasi mai ci rendiamo conto di quali e quanti passi avanti nel campo dei diritti civili si sono fatti altrove. Da noi, per esempio, si discute ancora su civil partnership alla tedesca, sì o no. Si pensa ancora che per avere un diritto non ci sia bisogno di riconoscerlo. Si nega il concetto di identità di genere, ritenendo che la percezione del sé non possa discostarsi da ciò che si è fuori: come dire che la terra sia piatta perché non se ne percepisce la rotondità. E via con le battute da bar dello sport, bullismo, sorrisetti e sfottò. Come se il bersaglio non fosse un essere umano e non avesse una sensibilità.

di Andrea Serpieri

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Nel nord Europa, quindi non a Sodoma e Gomorra, da qualche anno accade qualcosa di straordinario. Quando ero piccolo, all’asilo e a casa venivo richiamato se anziché giocare a pallone con gli altri maschietti, passavo troppo tempo con le femminucce, se anziché giocare alla guerra con i soldatini, guardavo la Dolcissima Creamy su Italia 1 o se giocavo con He-Man insieme alla mia vicina di casa che portava la sua Barbie Rockstar. E non vi dico che storie se lasciavo He-Man da solo con Skeletor per giocare con le cuginette e le loro bambole, sia pure per fare la parte di Ken. In realtà, io volevo solo giocare, non avevo alcun secondo fine e nella maggior parte dei casi non capivo il motivo del richiamo o della punizione. Ebbene, in Svezia e Danimarca, ormai da tempo, i bambini vengono lasciati liberi di giocare con quello che vogliono. Badate bene che nessuno istiga i maschi a giocare con Barbie e le femmine col Meccano. Per questa ragione, esistono perfino alcune catene di negozi di giocattoli che propongono cataloghi di giochi unisex, in cui i pregiudizi di genere vengono decostruiti, mostrando bambini e bambine giocare indiscriminatamente anche con giocattoli pensati per il sesso opposto.

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In Italia cataloghi di questo tipo non solo solleverebbero un mare di polemiche, ma farebbero indignare molti genitori, indecisi e probabilmente contrari all’idea di regalare una mitragliatrice giocattolo alla loro bambina, o un Cicciobello al figlio maschio. Tuttavia, visti i recenti fatti di cronaca con figli picchiati a sangue e costretti a fughe rocambolesche, in quanto vergogna della famiglia, forse sarebbe appena il caso di cominciare a mostrare alle future generazioni che non c’è niente di male ad allontanarsi da certi stereotipi. Gli uomini non sono solo quelli che non devono chiedere mai, quei rozzi scimpanzé machissimi e pieni di peli, dalla scorza dura e dal volto rude che il più delle volte hanno pure da puzzà, che guardano la partita di calcio in mutande e canottiera bevendo birra e ruttando liberamente come Fantozzi. E le donne non sono solo angeli del focolare, mini casalinghe destinate comunque ai fornelli. I giochi tradizionali che vediamo sugli scaffali dei nostri negozi sono ancora molto legati agli schemi sociali del passato: per quanto la Mattel con Barbie I can be faccia credere alle bambine che da grandi si possa diventare quel che si vuole, continua ancora a proporre il classico modello Fiori d’Arancio. E comunque esiste anche una I can be casalinga.

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Nei cataloghi di giocattoli svedesi e danesi, invece, è possibile vedere bambine che si divertono con una grande pistola giocattolo e bambini che giocano con una bambola. Se non mi credete, provate a cercare on line il catalogo dell’azienda svedese Toy Top, che distribuisce sia in Svezia che Danimarca per Toys R Us e BR: basta andare su Google, scrivere Toy Top catalogs e fare la ricerca per immagini, alcune delle quali sono anche qui in questo mio post. Ovviamente, neppure nella modernissima Svezia sono mancati accenni di polemica. Un paio d’anni fa circa, per esempio, l’azienda svedese Leklust propose un catalogo unisex dove un bambino travestito da Spiderman spingeva una carrozzina. Alle critiche ricevute il direttore della compagnia, Kaj Wiberg, replicò spiegando che arrivato alla veneranda età di 71 anni, era ormai perfettamente consapevole che, non solo le bimbe, ma anche i bambini giocassero con le bambole: allora, perché non aiutarli a non sentirsi diversi?

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Voi, che siete italiani, vi starete forse domandando come uno Stato possa permettere una simile corruzione di minori. Ebbene, lo Stato ne è addirittura promotore. In Svezia, per esempio, la questione della parità dei sessi si è evoluta contemporaneamente alla progressiva rivoluzione del concetto stesso di identità di genere. Nel 2008 il Governo svedese è arrivato a stanziare ben 110 milioni di corone per promuovere la parità di genere nelle scuole e per invitare gli insegnanti ad attivarsi fattivamente per combattere gli stereotipi di genere. Da noi, invece, nel 2014 gli insegnanti picchiano i loro allievi più gay. Sempre nello stesso anno fu anche proposto di eliminare il “lei” e il “lui” e di introdurre un nuovo pronome neutro. Adesso, l’italiota medio mi dirà, beh non è che dobbiamo copiare per forza gli orrori degli stranieri! Vero! Però sul fronte dei diritti civili c’è chi si ispira alla Russia di Putin, che, per quanto compagno di bunga bunga dell’ex premier, è pur sempre straniero. Ma allora avevo ragione quando dicevo che noi italiani guardiamo solo ciò che vogliamo guardare? Quand’è così, che aspettate? Chiudete questo ridicolo post e voltatevi pure dall’altra parte. Ma sì, avete ragione: continuiamo a far finta di niente. Ripetiamo insieme la storia dell’ape che impollina il fiore, che ai maschietti da grandi viene il vocione e cresce la barba, mentre alle bambine, dopo essersi sposate, succede di rimanere impollinate e ricordiamoci sempre che se non è così si è affetti da una malattia del cervello che, per fortuna, si può curare. Magari col Prozac e la preghiera di una sentinella in piedi.

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DAVIDE, PICCHIATO DALLA FAMIGLIA PERCHÉ GAY.

Proprio stamattina una pagina Facebook dedicata alle scienze naturali pubblicava un album fotografico, in cui si mostravano cuccioli di orso, giraffa e koala teneramente avvolti dall’abbraccio della mamma e del papà. Titolo, la famiglia: è lì che ti senti sempre al sicuro. Si trattava semplicemente di uno di quei post ‘acchiappa-like’ che ’fanno al bene al cuore’ di chi ha la pancia piena e la testa vuota, dall’animo tendenzialmente incline alla facile commozione, ma spesso irriducibile dinanzi alle devianze della società – è così che oggi (???) va di moda bollare ciò che non è conforme a mamma orsa che col marito scalda i suoi dolcissimi orsacchiotti. In effetti, la famiglia è il posto in cui dovremmo essere accettati per quello che siamo: per una legge del sangue, per l’appartenenza al nucleo, per la storia comune, per un amore che va oltre ogni comprensione. In teoria. A volte, tuttavia, i legami familiari sono deviati, malati. Talora la condanna di quella che vuole essere vista come una scelta è più forte di ogni altro sentimento. Deviato non è, però, il soggetto che a mamma orsa preferisce un daddy bear (perché, se permettete, cosa facciamo sotto le coperte sono affari nostri). Il legame familiare, in questi casi, risulta infettato dal pregiudizio, dall’odio. Soprattutto, dalla paura del diverso. Quella che leggerete tra poco è una vicenda triste, una brutta storia, una di quelle che, francamente, vorrei non accadessero più. Una vicenda, che non dovrebbe verificarsi in un Paese laico, civile e democratico. E se non ‘scalda il cuore’ di chi ha ‘voglia di tenerezze’, pazienza. Il mio intento è disturbare le coscienze altrui. Facebook, in fondo, è pieno di ‘micini coccolosi’, che non troverete mai su questa pagina, perché preferiamo perdere un like, ma conservare la dignità.

Nonostante il disgusto che ho provato nel leggerlo, quest’articolo di cronaca va, comunque, condiviso e diffuso, perché dobbiamo riflettere sugli effetti drammatici di un odio inarrestabile, che sembra diffondersi nella società italiana come un virus. E miete vittime, non solo tra gay, lesbiche e trans, ma tra tutti coloro che sono considerati diversi: tra stranieri, clochard e tossicodipendenti. En passant, voglio rivolgermi al gentile signore che sulla mia bacheca personale (parzialmente pubblica) ha commentato un link di BlogNomos con una fotina di Hitler e la scritta in maiuscolo “ALLE DOCCE”: mi sono appena lavato, se la risparmi pure, oggi; o, alla prossima, non mi limiterò a cancellare il suo ridicolo commento, ma la denuncerò per apologia e minacce, continuando a non darLe la soddisfazione di una risposta. Perché non ne è degno. Alle docce di Hitler, non ci si lavava, come io ho fatto poco fa. Si moriva. E lei è forse Dio per decidere della vita e della morte di un altro essere umano?

Tornando al tema di questo post, la storia su cui vi invito ad una profonda riflessione è quella di Davide, un ragazzo siciliano di vent’anni, picchiato e segregato in casa dalla famiglia, dopo aver confessato la sua omosessualità, affinché espiasse la vergogna arrecata a tutti quanti. La vergogna, quel sentimento nobile, che fiorisce accanto alla dignità, nella coscienza di ognuno. Ma vergognarsi dei sentimenti di un figlio fino ad infliggergli violenza fisica e psichica, non ha nulla di nobile: è ignoranza, cattiveria, cinismo e incapacità d’amare. E chi è incapace d’amare prova fastidio anche per i sentimenti altrui e non sa far altro che esprimersi con la violenza, prima arma della persona ignorante. Per il padre/carceriere di Davide sarebbe stato meglio un figlio drogato o in galera. Così il ragazzo, visto che, di fatto, in galera già c’era, lo scorso agosto, si è lanciato di notte dalla finestra, rischiando la morte, pur di fuggire via, verso la libertà. La storia, seppur triste, ha un lieto fine (lieto perché nessuno ha perso la vita). Ora, infatti, Davide vive in un’altra città, ha un lavoro e condivide un appartamento con altri ragazzi. Ogni tanto riceve un messaggio su Facebook da un’amorevole zia che gli scrive: ‘impiccati’. Secondo loro non devo esistere, racconta Davide. Tu, invece, esisti, Davide. E ne hai ogni diritto. Ricordalo sempre.

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Queste sono storie d’ordinaria follia italiana, di un piccolo mondo antico, ancora vivissimo, dove l’ipocrisia è una malattia letale e dove abbandonare le proprie radici è l’unica via di scampo. Capirete, quindi, perché, dopo che ho visto mamma orsa stamattina, ho smesso di seguire quella pagina Facebook dedicata alle scienze naturali. Davvero molto poco scientifica, direi. La fuga dalla famiglia, come quella di Davide, ancora oggi, è il solo mezzo per evitare che la tua vita diventi erba da marciapiede, calpestata da tutti. Per evitare il labirinto della loro follia, o quel tunnel a senso unico, oltre cui c’è solo il suicidio.

Vi lascio all’articolo di cronaca pubblicato da Meridionews – ed. Catania.

Andrea Serpieri

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LEGGI ANCHE ‘SE L’OMOFOBIA È PIÙ FORTE DELL’AMORE’

CRONACA – Una notte di agosto un ragazzo fugge da casa. Per tre settimane padre, fratello e zii lo hanno tenuto segregato, picchiandolo più volte. La sua colpa? Essere omosessuale. «Secondo loro non devo esistere. Non a queste condizioni»

«Avevo davanti due scelte: farmi uccidere o provare a scappare». Davide ha poco più di vent’anni e un viso pulito nel quale sembra facile leggere ogni emozione. Una notte di agosto ha scelto di fuggire dalla casa nel quale è nato e cresciuto. Una casa nella quale è rimasto rinchiuso per tre settimane senza poter avere contatti con l’esterno. Si è lasciato cadere da un balcone del secondo piano, ha dormito nei campi, ha preso un treno per lasciarsi alle spalle la sua famiglia. Padre, fratello, zii per i quali ha commesso una gravissima colpa: essere omosessuale.

Davide non vuole che il suo nome venga cambiato per raccontare la sua storia. «Io sono questo», afferma scuotendo leggermente la testa, come se l’idea di usare uno pseudonimo fosse quasi inconcepibile. La sua vita, prima di questa estate, scorre tranquilla in un paesino del Palermitano. La scuola, i lavoretti, gli amici con cui uscire il sabato in città. Qualche malalingua ogni tanto racconta alla famiglia qualche storia, insinuazioni che lui puntualmente respinge. «Era l’unica cosa che dovevo tenere nascosta».

Poi una sera, al culmine dell’ennesima lite, decide di parlare chiaramente al padre. «Mi ha chiesto: “Ti droghi? Parla con me. Qualsiasi cosa sia, io ci sono”». Ma quando finalmente le labbra articolano quel pensiero celato per anni, «lui mi ha detto che era meglio che fossi drogato. Meglio la galera, una rapina in banca». Chiama così il fratello e gli zii di Davide che lo picchiano selvaggiamente, per fare espiare quella che ai loro occhi è una colpa.

“Secondo loro non devo esistere. Non a queste condizioni”

«Per tre settimane ho vissuto rinchiuso», ricorda. Difficile per il circolo palermitano di Arcigay intervenire. Il tentativo di servirsi di un cellulare per chiedere aiuto scatena nuove violenze. Lunghe giornate passate chiuso in camera, la famiglia costretta a mentire su dove si trovasse il ragazzo e perché non rispondesse al telefono. È anche il pensiero di mettere al riparo da quelle violenze gli amici che tormenta Davide. «Dovevo proteggerli – spiega – avevo paura che facessero loro qualcosa di male».

«L’unica mia idea, una fissazione, era andare via». Una sera di agosto, raccoglie qualche vestito e i pochi risparmi messi al sicuro. Lancia il borsone dal secondo piano, poi si lascia scivolare anche lui dal balcone rischiando di farsi del male. «Non mi importava, dovevo scappare». La prima notte la passa in mezzo alle campagne. «Avevo paura che mi venissero a cercare». Una volta giunto alla stazione, gli vengono in mente alcune persone conosciute durante una festa a Catania. «Ho comprato il biglietto e sono venuto qui», afferma con semplicità.

A chi chiede aiuto non racconta quanto ha appena vissuto, anche se qualche livido spicca sulla carnagione chiara. «La prima notte che ho passato a Catania ho pensato: “Come faccio a restare?”». In tasca 80 euro e una casa che non può più chiamare tale. Quando confida quanto ha appena vissuto, trova accoglienza, calore, affetto. «Sono stato fortunato. Mi rendo conto che avrei potuto fare una brutta fine. Se ne sentono tante in giro… Avrei potuto non essere vivo».

Da quei giorni sono passati pochi mesi. Davide ha un lavoro stabile, condivide un appartamento con altri fuori sede. Ogni tanto una zia lo contatta su Facebook. «Mi scrive “impiccati” – racconta – Secondo loro non devo esistere. Non a queste condizioni». Gli insulti, quelli più coloriti, non riesce quasi a ripeterli. Una sorta di pudore, un’educazione d’altri tempi, gli impedisce di riportare quelle frasi. Dopo la sua partenza, la famiglia ha solo segnalato l’allontanamento di Davide ai carabinieri, non la scomparsa. E, dal canto suo, il giovane ha deciso di non denunciare quanto subito.

“Sono stato fortunato. Mi rendo conto che avrei potuto fare una brutta fine. Avrei potuto non essere vivo”

«Con la mia famiglia non ho più contatti, ma ci siamo visti con mio padre». L’uomo non ha mai preso parte ai pestaggi, «ma ha chiamato lui mio fratello e i miei zii per farmi picchiare», precisa indurendo lo sguardo. Anche se i chilometri li dividono, le raccomandazioni sono sempre le solite: «Non frequentare persone sbagliate». Intendendo amici omosessuali. «A me non interessa». Alza gli occhi, si blocca per qualche istante. Sembra ripercorrere tutte le sofferenze che è stato costretto ad affrontare. Poi si rilassa. «Adesso ho la mia vita da vivere».

11 novembre 2014

di Carmen Validano

MERIDIONEWS Ed. Catania

SE L’OMOFOBIA È PIÙ FORTE DELL’AMORE.

Capita a volte di leggere racconti di coming-out toccanti, storie di accettazione e di amore incondizionato. Altre volte questi racconti assumono sfumature tragiche e la storia che leggiamo parla di abbandoni e separazioni. Quello di cui mi accingo a parlarvi è il resoconto traumatico e doloroso di un rifiuto.

di Andrea Serpieri

Provare a spiegare a un eterosessuale come si senta un figlio gay prima di uscire allo scoperto con i suoi non è facile. Ancora più difficile – impossibile?- è tentare di farlo capire a quei tanti italiani che pensano che un diverso orientamento sessuale sia una scelta e che non vada quindi sbandierato, a quelli che credono che esista una cura per guarirne, a quelli per cui va bene a patto che chi è così non si faccia vedere in giro, a quelli che ritengono che l’istinto sessuale vada represso, a quelli che credono in Madre Natura e ai peggiori di tutti, quelli che confidano nel castigo eterno per chi sia dedito alla sodomia. Queste storie servono a loro, perché comprendano che un omosessuale non è un mostro, ma un essere umano. Queste storie non servono a fare propaganda in favore delle lobby gay, finanziate dai poteri forti. Supportare i diritti dei gay non è un atteggiamento da radical chic, ma da persona civile. Sui social network ho ultimamente letto le peggiori bestialità sui gay, alcune delle quali ho appena elencato. La peggiore, però, è quella per cui ci sarebbero problemi più importanti in Italia. Non è vero. La questione degli omosessuali in questo Paese è importante quanto la crisi economica. Perché se i gay pagano le tasse come gli altri cittadini, allora devono avere gli stessi diritti civili. Invece non è così, perché sono gay. Dunque, o parliamo solo delle cose importanti per le famiglie italiane e non facciamo più pagare le tasse ai gay, o il loro problema diventa un problema importante per tutta la nazione. Anche per i cattolici e i fascisti. È per questo che spero che il racconto che state per leggere raggiunga il maggior numero di persone: affinché dall’altra parte si intuisca, per lo meno, una parte della sofferenza che c’è nell’essere considerato dalla società un diverso. E nel sentirsi rifiutato per qualcosa che non si è scelto. Questa è la storia di Daniel.

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Daniel Ashley Pierce è un giovane ventenne della Georgia, che mercoledì scorso ha deciso di uscire allo scoperto con i suoi. Conoscendo la sua famiglia, temeva di subire delle violente ripercussioni a causa della sua rivelazione, così si è preventivamente organizzato per filmare di nascosto la tragedia. A quel punto sono iniziate le riprese del video che tutti voi potete visualizzare su YouTube a questo link.

In una mail inviata ad Huffington Post Usa, Daniel rivela, “Ho voluto assicurarmi che ci fossero prove nel caso in cui fosse accaduto qualcosa.”

Il video di Daniel è subito diventato virale. Nei suoi cinque minuti non si concentra mai sul volto dei suoi familiari, di cui, però, è possibile ascoltare la voce mentre lo aggrediscono dicendogli che la sessualità è una scelta.

“Io credo nella parola di Dio e Dio non crea nessuno in quel modo. È un percorso che si è scelto.” Dice una donna nella stanza, presumibilmente la nonna. E continua avvertendo il giovane che se sceglierà quel percorso la famiglia non lo supporterà più. Dovrà andarsene. Perché lei non può permettere alla gente di credere che giustifichi ciò che fa il nipote.

“Sei pieno di stronzate!”, dice la madre. Lui le chiede di lasciarlo restare a casa, lei si rifiuta. “Mi hai detto al telefono che non hai fatto questa scelta. Sai che non è iniziata così. Sai dannatamente bene che l’hai scelto.” Rincara la dose, poi, sostenendo che il padre ha fatto tutto il possibile per aiutarlo. L’uomo non ha nulla di cui rimproverarsi.

A questo punto, i due giungono alle mani. Anzi, è lei che picchia violentemente il figlio. L’obiettivo inizia a muoversi e si sente Daniel urlare alla donna di smettere di colpirlo. Allora un uomo, il padre, grida: “Sei un maledetto frocio!” e, alla fine del video, qualcuno apostrofa ulteriormente Daniel, definendolo ‘una vergogna’.

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Daniel, ormai fuori di casa, decide allora di sfogarsi su Facebook:
Che giornata…Pensavo che svegliarsi alle 9:48 ed arrivare al lavoro con 15 minuti di ritardo sarebbe stato il problema più grande di oggi. Ignoravo, invece, che il mio problema più grande sarebbe stato quello di essere rinnegato per sempre e cacciato dalla casa in cui ho vissuto per quasi vent’anni. E oltre al danno la beffa: mamma mi ha preso a pugni in faccia più volte, incitata da mia nonna. Sono ancora sotto shock e completamente incredulo.

La loro reazione, ha spiegato il ragazzo all’Huffngton, era prevedibile: sono molto credenti e conosceva la loro opinione sui gay. Dopo l’incidente, questa devota famiglia non ha contattato i media per dare la propria versione dei fatti, ma ha lasciato un messaggio vocale a Daniel, intimandogli di rimuovere il video dell’incidente da YouTube. Il ragazzo, peraltro, non ha denunciato l’aggressione alle forze dell’ordine. Ma il filmato, originariamente postato dal compagno di Daniel sulla community Reddit e subito rimbalzato sul sito LGBT del Nuovo Movimento dei Diritti Civili, non solo è ancora on line, ma ha, altresì, ottenuto più di 3.874.000 visualizzazioni ed oltre 31.000 commenti. La veridicità del video è stata confermata dallo zio del ragazzo, Teri Cooper, ad Advocate.com. È stata, altresì, lanciata, ad opera del suo ragazzo, una campagna GoFundMe per raccogliere i fondi necessari a coprire le spese di Daniel. In soli tre giorni, dal 27 agosto ad oggi, sono già stati raccolti circa 94.000 $, ma nemmeno un centesimo – temo – potrà compensare la perdita degli affetti familiari per questo ragazzo appena rimasto ‘orfano’.

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L’audio del video e l’impeto delle urla che ascoltiamo parlano da sé. Ho cercato di fornirvi un resoconto breve, ma il più possibile fedele, tralasciando la disputa tra nonna e nipote su verità scientifiche e dogmi religiosi. Guardatelo, non occorre conoscere la lingua per capire che qualcosa di sbagliato deve esserci nei familiari di Daniel. L’unica cosa contro natura che traspare è proprio l’aggressione di un figlio da parte di un genitore e solo perché questo figlio non è come lo si vorrebbe. Forse è vero che certe famiglie meritano soltanto menzogna. Perché far conoscere loro la nostra più intima verità significa munirli di una potente arma per distruggerci. E ciò che ci resta dopo la visione del filmato è solo tanta tristezza.

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IN BOCCA AL LUPO, DANIEL!

VIDEO: How not to react when your child tells you that he’s gay.

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CIVIL PARTNERSHIP ALLA TEDESCA. ANZI NO, ALL’ITALIANA.

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di Andrea Serpieri

“A settembre, dopo la riforma della legge elettorale, realizzeremo un impegno preso durante le primarie, un impegno vincolante: quello sui diritti civili“. A dirlo è stato il Presidente del Consiglio Matteo Renzi. La promessa giunge direttamente dall’Assemblea Nazionale del Partito Democratico. Renzi è tornato a parlare di diritti civili e all’assise Dem ha illustrato il suo progetto sulla civil partnership alla tedesca, già annunciata durante la campagna elettorale per le primarie, ma finora rimasta sostanzialmente fuori dall’agenda politica dell’esecutivo. Ricordiamo che a tutt’oggi la legge contro l’omofobia stagna al Senato da settembre scorso. E a un anno da quell’ultimo (debole) step, il prossimo mese di settembre sarà quello della riforma copernicana della società italiana.

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Riforma difficile, comunque: il premier sarà infatti costretto a trattare con la destra di Alfano e Giovanardi (sic!) e il centro di Monti, ma forse l’apertura di Grillo sulla legge elettorale, potrebbe portare esiti insperati anche su altri temi importanti come questo e magari i grillini si sporcheranno le mani con quelli del PD. Magari. La speranza, si sa, è l’ultima a morire, ma, come si dice, chi di speranza vive, disperato muore: il M5S è lo stesso non-partito che nel PE è alleato di un’orda di xenofobi della peggior specie e di omofobi convinti guidati da Capitan Farage.

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Non sarà, quindi, una proposta indolore, anzi. Francesco Clementi come altri dello staff di Renzi, alla fine del 2013 aveva avanzato proposte alternative, come il riconoscimento delle Coppie di fatto, ottime proposte, animate dai migliori intenti (nessuno vuol metterlo in dubbio), ma pur sempre insufficienti per un vero salto di qualità. Perché? Perché innanzitutto bisogna sgomberare il campo da strumentalizzazioni e contrapposizioni ideologiche, operando in maniera davvero laica ma pragmatica, dando dignità ‘giuridica’ all’amore che lega due persone dello stesso sesso. Il semplice riconoscimento di fatto verrebbe a creare un istituto di serie B. In pratica, ciò che verrebbe a riconoscersi sarebbe solo il valore della diversità naturale del rapporto rispetto a quello tradizionalmente matrimoniale. Ma affinché l’Italia riparta, perché sia davvero l’Italia della svolta buona, c’è bisogno di riforme profonde, non solo in campo istituzionale ed economico. Serve un terremoto come lo fu per la famiglia tradizionale quando vennero introdotti il divorzio e in seguito l’aborto.

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Ad un Paese come il nostro abituato a stanche contrapposizioni tra laici e cattolici che da trent’anni bloccano qualsiasi processo di riforma civile serve una rivoluzione, come detto prima, copernicana della società. La colpa di questo stato paludoso delle riforme, tuttavia, non è solo della Chiesa e della destra. Sul blocco delle riforme civili ci hanno lucrato in tanti, troppi forse. Anche tra coloro che si stracciavano le vesti proclamando o matrimonio o niente, nella sinistra radicale, che raccoglieva il consenso dei gay insoddisfatti, ma anche in certe associazioni gay che sostenevano quella sinistra. Di fatto fermando il cammino verso un’evoluzione del dialogo. Anzi del non-dialogo. È un Paese strano il nostro: si afferma con forza per negare, infine, ciò per cui si lotta.

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Finora solo alcuni sindaci e consigli comunali (a Grosseto, Latina, Fano e ora Napoli) si sono mossi per ordinare la trascrizione dei matrimoni conclusi all’estero da coppie gay e lesbiche italiane. Un piccolo passo, che insieme al recente convegno romano organizzato il 30 maggio scorso da Magistratura Democratica, Rete Lenford e Articolo 29 sulla discriminazione matrimoniale di gay e lesbiche, dimostra l’insofferenza della società civile e giuridica per una discriminazione sofferta quotidianamente dalle persone omosessuali, e che significativamente si muove ‘dal basso’, dalle aule di giustizia dei tribunali di periferia, dalle università e dai comuni, per rimuovere l’assordante silenzio del Parlamento.

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Ma torniamo all’attualità: all’annuncio di Renzi. Il Governo italiano sta lavorando su un disegno di legge che introduca entro la fine di quest’anno una forma di unioni civili, peraltro, già sperimentate in altre realtà come Germania e Regno Unito. Non parliamo di matrimonio, quindi. Ma di civil partnership. Vediamo di cosa si tratta. Dal punto di vista dei diritti e dei doveri acquisiti non c’è nessuna differenza tra il matrimonio civile e la civil partnership: eredità, pensione, visite in ospedale, protezione contro la violenza domestica. Nel caso delle civil partnership britanniche, inoltre, l’adozione è ammessa sia a singoli che a coppie, senza distinzione di orientamento sessuale e le responsabilità sono le medesime che per una coppia etero sposata con il rito del civil marriage. Ma le nostre unioni saranno di ispirazione teutonica: per cui tranquilli, moralisti italiani, ché in programma non c’è la corruzione di anime innocenti, la cui sorte verrà lasciata alla follia omicida dei loro stimati padri biologici, nell’intervallo di tempo tra un amplesso consumato con la moglie già uccisa al piano di sotto e una partita di calcio in TV con gli amici del bar.
Tornando al tema del post, se i diritti e i doveri della civil partnership sono gli stessi che scaturiscono dal matrimonio, dobbiamo, allora, chiederci qual è la differenza tra i due istituti. Quella principale è che la civil partnership non può avere nessuna connotazione o riferimento alla religione, mentre la parola ‘matrimonio’ nell’immaginario collettivo ha già, di per sé, una connotazione religiosa. L’altra differenza è invece di natura tecnica: una civil partnership per essere valida deve solo essere firmata dai coniugi e quindi non è obbligatoria una cerimonia. Per un matrimonio, invece, è obbligatorio che vengano scambiate alcune formule rituali prima della firma da parte dei coniugi.

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Rispetto al riconoscimento delle coppie di fatto, d’altro canto, che registrano a posteriori un rapporto già consolidato, fornendogli diritti e doveri, che dovrebbe essere disciplina aggiuntiva estesa a tutte le coppie, le civil partnership sono un contratto pubblico che fa sorgere diritti e doveri della coppia che dichiara di voler condividere un progetto di vita comune per il proprio futuro.

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Alla luce della recentissima sentenza della Corte Europea che ha equiparato il trattamento delle coppie sposate con unioni civili rispetto a quelle che hanno contratto matrimonio, il Governo è ormai investito di un’urgente richiesta di sanare quel vuoto legislativo, già denunciato dal Presidente della Corte Costituzionale Gallo, solo un anno fa, che costituisce la prima e più inaccettabile delle discriminazioni che esistono in Italia. Ha senso disporre una strategia antidiscriminazione senza affrontare la più importante tra queste? Ha senso che ancora una volta la politica se ne lavi le mani delegando quel che può alle associazioni gay oppure ad un Parlamento che non ha ancora avuto neanche la forza di far diventare legge una proposta contro l’omofobia? Oggi, dall’Europa, siamo ancora clamorosamente fuori. Fuori luogo, fuori tempo massimo, fuori tutto.

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ROMA PRIDE 2014: CI VEDIAMO FUORI!

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“Guardateci bene. Guardateci il viso. Non è quello di chi chiede qualcosa, ma di chi sa cosa ci spetta di diritto. Non il viso di chi è stanco di lottare, ma quello di chi non si fermerà finché la storia non ci avrà dato ragione. Perché lo farà, di questo siamo certi. Perché la storia noi la facciamo tutti i giorni: in famiglia, a scuola, sul lavoro, in piazza. La facciamo sfidando i pregiudizi con l’intelligenza, la gioia, il coraggio. L’amore. Così sappiamo che arriverà un giorno in cui ogni diversità non sarà tollerata, ma celebrata. Ogni genere rispettato, ogni famiglia protetta, ogni individuo tutelato. E quel giorno no, non sarà solo bello poter dire “noi c’eravamo, ci siamo sempre stati”. Sarà molto di più. Sarà giusto. E sarà un vero orgoglio: il nostro”.

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È questo l’appello che si legge sulla pagina Facebook del Roma Pride.

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Siamo alla vigilia della Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia, che si celebrerà come tutti gli anni domani 17 maggio 2014 in tutto il mondo, nel giorno in cui cade la ricorrenza della rimozione dell’omosessualità dalla lista delle malattie mentali nella classificazione internazionale delle malattie pubblicata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, avvenuta nel 1990. Soltanto 24 anni fa.

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Intanto a Roma, proprio in queste ore, è partita la campagna per la giornata dell’orgoglio LGBT, in programma il prossimo 7 giugno.
‘Ditelo con un fiore…’ recitava un vecchio slogan. Adesso, basta! Te lo dico urlando, a muso duro e senza paura. So quali sono i miei diritti e so che tu sei solo un razzista.

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CI VEDIAMO FUORI! È così che urla lo slogan ideato dai ragazzi di CondividiLove, con 100 volti appartenenti alla comunità LGBT, tutti segnati dal ‘war painting’ arcobaleno. Cento volti volti arrabbiati, fieri e coraggiosi che guardano diretti gli occhi dei loro interlocutori e li chiamano a raccolta, per un impegno concreto e un’azione comune.

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Era il giugno del 1994 quando a Roma sfilò il primo corteo italiano del Gay Pride. Il 7 giugno 2014 la comunità LGBT si ritroverà ancora una volta FUORI, per le strade di Roma, per celebrare i suoi 20 anni di storia appena trascorsi e iniziare a scrivere il prossimo futuro. Perché dopo 20 anni di Pride, la battaglia contro i pregiudizi è ancora più che attuale e stavolta la battaglia non riguarderà solo i ‘diversi’, ma tutta la società italiana. Perché non c’è il diverso, ci sono soltanto esseri umani.

Andrea Serpieri

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UNA BRUTTA STORIA DI POLITICA E TRANSFOBIA.

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di Andrea Serpieri

Fino a quando (e fino a che punto) la più becera politica italiana dovrà somministrarci altri episodi di intolleranza, di cui, francamente, faremmo volentieri a meno? Questa è la storia di Laura Matrone, una splendida quarantenne, operatrice sociale, attualmente in lizza per le elezioni a Castel Volturno, provincia di Caserta, con il candidato sindaco PD Dimitri Russo. Russo si presenta con cinque donne nella lista civica “Cento volti per la svolta” e sei donne nel PD. Ma per qualcuno le donne sono di meno, perché Laura è nata uomo e pertanto non sarebbe “donna abbastanza” da soddisfare le quote rosa. Insomma, Laura non sarebbe una “vera” donna! A rivelare questa ‘verità nascosta’ all’elettorato di Castel Volturno è stato il candidato sindaco per Forza Italia (il partito delle libertà) Cesare Diana, il quale sostiene che la candidatura di Laura violi le norme sulla parità e quindi le liste di Russo andrebbero escluse dalla competizione politica.
In realtà, non c’è alcuno scoop, perché Laura non nasconde a nessuno il suo passato e soprattutto perché giuridicamente Laura Matrone è una donna “vera”, uso questo aggettivo per farmi comprendere anche da quelle persone che proprio non riescono a vedere il mondo in modo più fluido delle definizioni che usano: gay, etero, maschio, femmina…è così importante? È importante sapere se una trans abbia subito un’operazione o meno? A parte il fatto, poi, che sarebbero affari suoi, anche quando si mette in politica, perché l’essere stata uomo incide sulla sua condotta morale solo per le menti più bigotte. E ipocrite.

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In ogni caso, la candidata del PD non c’è stata a questo linciaggio pubblico e su La Repubblica, rivolgendosi all’avversario forzista, precisa: “L’hanno informato male. Sono una donna a tutti gli effetti dal 2002”.
Nell’intervista Laura Matrone si racconta, descrive i punti del suo gruppo in vista delle prossime elezioni e, sull’episodio di transfobia di cui è stata vittima, dice: “Volevano tentare di far ricusare la lista per mancanza di quote femminili, poi si sono accorti in tempo dell’errore e hanno desistito”.
“Sono Laura, sono una persona. Non c’è bisogno di mettere continuamente un timbro dietro le spalle per dire chi ero. Sono una persona. Con una faccia, con due gambe, due braccia. Mi sono sposata e separata legalmente. Sono una donna normalissima che non ha mai avuto nessuna difficoltà di inserimento nella vita sociale. Ho insegnato arti marziali alla Nato. Sono stata due volte campionessa mondiale di taekwondo e undici volte campionessa europea. Ma dal 1990 faccio spettacolo, mi occupo di canto, teatro, televisione, di pubbliche relazioni”.
Sulla sua vicenda personale che l’ha portata ad essere la donna bellissima che è oggi, riferisce: “Sono originaria di Napoli, ma vivo a Castel Volturno da quando avevo 14 anni. Nel 2002 mi sono operata e ho cambiato i connotati all’anagrafe. Ho fatto il primo intervento per cambiare sesso a Napoli tramite l’Asl, gratuitamente. Lo consente una legge del 1984. La mia famiglia all’inizio è stata un po’ titubante. I miei genitori all’inizio non capivano. Appartengono ad un’altra generazione. Però poi i miei familiari me li sono ritrovati sempre al mio fianco, specie mia sorella, mio fratello e i miei nipoti”.

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A questo punto, io mi chiedo: ma se per esempio Laura non fosse stata operata – o avesse deciso di non farlo proprio – non sarebbe stato, comunque, etico considerarla una donna a tutti gli effetti? In fondo, lei è così che si sentiva, anche prima dell’operazione. Eppure, lo Stato italiano, che nella Costituzione riconosce i diritti e l’uguaglianza di tutti e si impegna a rimuovere gli ostacoli che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese, con la L. 164/82 ha stabilito che si possa chiedere il cambio di sesso all’anagrafe solo dopo la riassegnazione genitale. Forse sarebbe il caso di cambiare questa norma, giusto per riconoscere il terzo sesso anche qui? Che piaccia o no, esiste e non può essere semplicemente negato sulla carta, per continuare a far finta che non ci sia. Cosa che, peraltro, certi benpensanti potrebbero fare tranquillamente, se magari smettessero di interessarsi delle altrui preferenze sessuali e ci lasciassero vivere in pace. Gay, etero, uomini, donne o qualunque cosa vogliate essere. Siatelo! La nostra felicità è un diritto non scritto che per natura preesiste alle norme di diritto positivo.

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CASA SUSANNA: UNA SOCIETÀ SEGRETA IN CUI SENTIRSI NORMALI.

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di Andrea Serpieri

C’è stato un tempo in cui tra la fine degli anni ’60 ed i primi anni ’70, alcuni crossdresser avevano trovato un rifugio in cui essere se stessi in un isolato complesso di edifici, nel territorio di Hunter, New York. Si trattava di un un posto sicuro per molti che sentivano il bisogno di evadere, dai propri vestiti come dalla propria pelle, e se lo concedevano per qualche giorno a settimana, in risposta a una società che ancora non dava né comprensione né soluzioni. Felicity, Gail, Fiona, Cynthia, erano questi i nomi che avevano scelto per loro: per alcuni era un problema di presa di coscienza, per altri insoddisfazione velata. Questo posto è rimasto sconosciuto per decenni, custodito dalla sola memoria dei suoi ospiti, fino a che qualcosa lo ha reso noto, portandolo alla ribalta della più scafata, sebbene non sempre tollerante, società contemporanea.

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Un vero e proprio dossier fotografico, scene di vita privata, segreti scatti di un’esistenza alternativa, è ciò che per caso è tornato alla luce quando Robert Swope, punk-rocker e mobiliere di New York ha rinvenuto un centinaio di foto in una scatola comprata al mercatino delle pulci. Uomini travestiti da donne, ma in pose familiari e composte di donne sofisticate, nessuna volgarità. Cross-dresser borghesi che bevono tè, giocano a bridge, guardando l’obbiettivo con sincero stupore e un leggero velo di imbarazzo. Insospettabili e distinti signori della middle class: editori, vigili del fuoco, imprenditori, uno sceriffo di una piccola contea nel New Jersey. Seppure l’ambiente e la qualità delle fotografie appartengano alla fine degli anni ’60, vestiti, acconciature e ammiccamenti sono, invece, tipici del decennio precedente. Le foto ritraggono una sorta di club privato: Casa Susanna. Swope non sapeva di cosa si trattasse. Tutto ciò che aveva era quello che vedeva, ossia uomini vestiti da donne, eleganti quanto rassicuranti. Donne serene, talora gioiose. Niente di eccessivo, nessun tipo di Drag Race e nessuna Ru Paul a condurre la gara, nessuna queen dai capelli supercotonati e coperta di strass che mima parole dei brani di grande successo facendo la pazza, come Vida Boheme e Noxeema Jackson insegnavano all’inesperta Chi Chi Rodriguez, nel film ‘A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar’. Quegli scatti, mostravano, in verità, qualcosa di più simile alle foto di famiglia, una cena per un’occasione speciale, un happening dove andare vestiti bene, bacettii sulle guance, un picnic sull’erba.
A lungo Swope non volle saperne niente, finché insieme al suo compagno, Michel Hurst, decise di mettere insieme tutte queste foto e farne un libro – intitolato, appunto, Casa Susanna, edito nel 2005 da powerHouse Books– lasciando agli scatti l’arduo compito di raccontare una storia segreta che gli stessi autori cominciarono a conoscere soltanto dopo la pubblicazione del testo, quando le testimonianze dei frequentatori di Casa Susanna iniziarono a ricongiungersi alle immagini.

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Susanna, la matrona di questo gineceo alternativo, si chiamava Tito Valenti ed era un uomo che aveva scelto di spendere il resto della propria vita da donna.

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Robert Hill, ricercatore dell’Università del Michigan che una decina di anni fa si è occupato di ricucire le storie che giravano attorno alle foto di Swope, ha intervistato alcune delle amiche di Susanna, come Sandy, imprenditore divorziato. Lui racconta che Casa Susanna era un posto eccitante «perché quali che fossero le tue fantasie segrete, incontravi altre persone che ne avevano di simili e ti accorgevi di essere, sì, “diverso” ma non “pazzo”». Sandy, che oggi ha più di 70 anni e non si traveste da qualche decade, negli anni sessanta era ancora studente universitario e nei weekend frequentava Casa Susanna. «Era estremamente liberatorio. Sono cresciuto in una famiglia molto conservatrice. Volevo sposarmi, avere una casa, un’auto, un cane. Cose che alla fine sono successe. Ma allora avevo questi impulsi conflittuali e non sapevo da che parte voltarmi. Non sapevo quale fosse il mio posto nel mondo».

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Il ricordo di Casa Susanna, dei suoi weekend e delle suoi party declina fino a perdersi nella memoria dei suoi ospiti, pur seguendoli negli anni a venire, attraverso le loro scelte di vita, che poi per la maggior parte di loro si riducono a un unico enorme bivio. Continuare nella presunta normalità come Sandy o diventare donna, come Fiona che si trasferì a Sidney, dove visse come Katherine Cummings, libraia ed editrice. Lei, che alla nascita si chiamava John.

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E poi c’era Virginia Prince, farmacista e fondatrice della rivista specializzata ‘Transvestia’ e del movimento transgender. «Ho inventato i trans – rideva ancora 96enne, poco prima di morire – ma se questa gente sapesse che non mi sono mai operata mi farebbe la pelle».

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E infine c’era Susanna, a cui lasciamo concludere questa storia rubata ai ricordi di un gruppo di uomini, che, quando negli States vivere la propria diversità era ancora troppo difficile, nonostante fossero gli anni della liberazione sessuale, hanno deciso di trovare conforto alla loro condizione in un rifugio isolato, ma col reciproco sostegno di altri fratelli di condizione. Anzi, sorelle.

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«Scena: il portico di fronte all’edificio principale del nostro resort nelle Catskill Mountains. Ora: circa le quattro del mattino, il Labor Day sta per sorgere oltre l’oscurità distante. Personaggi: quattro ragazze che chiacchierano. È buio. Solo un fascio di luce illumina parte della proprietà a intervalli regolari – fa magari un po’ freddo a quasi mille metri d’altitudine. Ogni tanto una fiamma in punta di sigaretta illumina un volto femminile – un altro weekend al resort, ore in cui impariamo a conoscere noi stessi un po’ meglio osservando la nostra immagine riflessa in nuovi colori e in una nuova prospettiva attraverso le vite dei nostri amici». È forse questa la sintesi di cosa fosse Casa Susanna. A parlare, infatti, è proprio lei, Susanna, che da qualche parte nei primi anni Settanta scriveva della sua Casa sulle colonne di ‘Transvestia’.

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L’INDIA RICONOSCE IL «TERZO SESSO».

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di Andrea Serpieri

Con una sentenza rivoluzionaria, la Corte Suprema indiana ha riconosciuto lo scorso 14 aprile il diritto dei transessuali di essere considerati come «terzo sesso» e di godere degli stessi diritti degli altri cittadini sanciti dalla Costituzione.

Un ver­detto dalla por­tata sto­rica. Riconoscendo, infatti, alla comunità tran­sgen­der indiana lo sta­tus di «terzo genere ses­suale» davanti alla legge, la Corte ha effettuato una decisa presa di posi­zione desti­nata a modificare le abominevoli con­di­zioni di vita di tutti i trans del Paese, finora costretti a con­durre esi­stenze ai mar­gini della società e dell’umana dignità, vit­time di vio­lenze e discri­mi­na­zione, borderline sempre, in ogni aspetto della vita quotidiana. Quest’ostracismo era conseguenza di una legge del 1871, risalente al periodo coloniale, che li considerava come “criminali”.

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La sezione della mas­sima Corte indiana, però, ha ora sta­bi­lito che i transessuali debbano poter godere dei mede­simi diritti garan­titi dalla Costi­tu­zione al resto della popo­la­zione e saranno con­si­de­rati come una delle Other Bac­k­ward Class (Obc), ossia uno di quei gruppi sociali che godono di misure gover­na­tive ad hoc in ambito lavo­ra­tivo e sco­la­stico.
Accogliendo un ricorso collettivo presentato due anni fa, i giudici hanno affermato che «è diritto di ogni essere umano scegliere il proprio genere sessuale». I transessuali, o “Hijra” come sono chiamati in hindi, saranno, pertanto, liberi di identificarsi in una terza categoria che non è né quella di maschio né femmina. Con questo verdetto, l’India diventa uno dei pochi Paesi al mondo a prevedere il «terzo genere». A distanza di pochi giorni dall’omologo riconoscimento avvenuto anche nel sistema giuridico australiano.

Si stima che in India ci siano dai 3 ai 5 milioni di “Hijra”, un’ampia categoria che comprende dai travestiti ai castrati, brutale pratica che ancora sopravvive. Molti di loro sono costretti a prostituirsi o a vivere delle elemosine raccolte durante feste di matrimonio e varie celebrazioni, in cui sono considerati di buon auspicio.

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«Rico­no­scere ai tran­sgen­der lo sta­tus di terzo genere ses­suale non è una que­stione medica o sociale, ma ha a che fare coi diritti umani» ha dichia­rato il giu­dice KS Rad­ha­kri­sh­nan al momento del ver­detto, spe­ci­fi­cando che «anche i tran­sgen­der sono cit­ta­dini indiani ed è neces­sa­rio garan­tire loro le mede­sime oppor­tu­nità di cre­scita». Le con­se­guenze della sen­tenza, che invita il Governo cen­trale e quelli locali ad ade­guarsi alla novità, si riper­cuo­te­ranno su una serie di aspetti della vita di tutti i giorni: l’opzione «tran­sgen­der» sarà inse­rita nei moduli da com­pilare per i docu­menti d’identità, saranno creati bagni pub­blici a loro riservati e la con­di­zione di “Hijra” verrà tute­lata nelle strut­ture ospe­da­liere nazio­nali con reparti appo­siti, esclu­dendo l’obbligo di sce­gliere tra uno dei due sessi per poter acce­dere alle cure medi­che. Inol­tre, in virtù dell’appartenenza alle Obc, il governo dovrà stan­ziare un deter­mi­nato numero di posti ad hoc nei luo­ghi d’impiego sta­tali, nelle scuole pri­ma­rie e nelle uni­ver­sità, secondo il sistema delle cd. ‘reser­va­tions’, ovvero delle quote riservate dal Governo alle Obc, considerate una sorta di ‘categoria protetta’.

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La sentenza rianima la speranza della battaglia della comunità Lgbt (lesbiche, gay, bisessuali e transessuali) indiana, diretta ad ottenere l’abolizione dell’odioso vecchio ed obsoleto articolo 377 del Codice Penale che vieta il ‘sesso contro natura’ come la sodomia e la fellatio. Rovesciando, infatti, una precedente decisione di una corte inferiore del 2009, lo scorso dicembre la Corte Suprema aveva reintrodotto la disposizione in base alla quale i rapporti tra omosessuali sono illegali. A inizio mese, tuttavia, la stessa Corte ha accet­tato di con­si­de­rare una «sen­tenza ripa­ra­trice» e oggi, con questa sentenza, si spera in un prossimo passo in difesa dei diritti umani nel Paese, di un’evoluzione delle politiche di genere, in accordo con i principi di tolleranza e rispetto. La speranza è, quindi, quella di una futura conquista dei pieni diritti civili da parte della comunità indiana gay lesbo e trans.

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PAPA FRANCESCO? SOLO MARKETING, MA È SEMPRE LA VECCHIA CHIESA.

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di Andrea Serpieri

“Gli orrori della manipolazione educativa che abbiamo vissuto nelle grandi dittature genocide del secolo XX non sono spariti.” Questo è quanto ha ricordato il Papa nell’udienza ai delegati dell’Ufficio Internazionale Cattolico dell’Infanzia, voluto da Pio XII in difesa dell’infanzia, all’indomani del II conflitto mondiale.
Per chi aveva voluto vedere nella figura di Francesco un nuovo Papa buono aperto alla modernità, l’udienza della scorsa settimana si è rivelata una grande delusione. Adesso è finalmente evidente a tutti gli italiani ciò che alla popolazione omosessuale del resto del mondo non era sfuggito: ossia, che la precedente apertura ai gay era stata soltanto il frutto di un’interpretazione superficiale, quando non anche sviata appositamente per ragioni legate piuttosto al rilancio dell’oscura immagine di Santa Romana Chiesa. Un’operazione di marketing, in altre parole. Bergoglio, infatti, aveva solo teso una mano ai fratelli che si sono persi per aiutarli a ritrovarsi nel popolo di Dio. Tradotto: gli omosessuali hanno peccato, ma chi sono io per non perdonarli e riaccoglierli (se ravveduti) nella casa del Signore?

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Chi si era illuso in una nuova era del cattolicesimo dovrà definitivamente ricredersi, perché Bergoglio non solo ha tenuto a precisare con chiarezza che le coppie gay non costituiscono una famiglia, ma ha anche bocciato nettamente le iniziative contro l’omofobia nelle scuole. Peraltro, facendo sue le stesse parole tanto di moda tra alcuni gruppi omofobi di espressione cattolica. E con tanto di accusa di nazifascismo e dittatura del pensiero unico! Proprio come usano certi movimenti costituitisi contro il DDL Scalfarotto, come, per esempio, fa il movimento denominato ‘Sentinelle in Piedi’.
Il Papa dovrebbe, però, ricordare che tra le vittime delle dittature del XX secolo ci sono stati anche i gay e che l’accusa di voler imporre a tutti i costi le proprie opinioni è semplicemente ridicola. Qui si parla di diritti civili, non di opinioni. E quanto all’imposizione di un credo, farebbe meglio a ripassare il capitolo di storia sulle crociate contro gli eretici.

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Ad ogni buon conto, vi riportiamo le sue parole:
“Occorre ribadire il diritto dei bambini a crescere in una famiglia, con un papà e una mamma capaci di creare un ambiente idoneo al suo sviluppo e alla sua maturazione affettiva. Ciò comporta al tempo stesso sostenere il diritto dei genitori all’educazione morale e religiosa dei propri figli. E a questo proposito vorrei manifestare il mio rifiuto per ogni tipo di sperimentazione educativa con i bambini. Con i bambini e i giovani non si può sperimentare. Gli orrori della manipolazione educativa che abbiamo vissuto nelle grandi dittature genocide del secolo XX non sono spariti; conservano la loro attualità sotto vesti diverse e proposte che, con pretesa di modernità, spingono i bambini e i giovani a camminare sulla strada dittatoriale del pensiero unico”.
Ma l’attacco del Papa buono non si è limitato solo agli omosessuali. Bergoglio ha anche lanciato i suoi solenni strali contro la Corte Costituzionale, dopo la recente sentenza di incostituzionalità che ha investito il divieto alla fecondazione eterologa previsto dalla legge 40/04. Un’altra grave ingerenza del Vaticano negli affari di uno Stato (teoricamente) laico, l’Italia. “Ferma opposizione a ogni diretto attentato alla vita, specialmente innocente e indifesa. Il nascituro nel seno materno è l’innocente per antonomasia”, è questo quanto ha dichiarato Francesco.
Altro che libero Stato in libera Chiesa! Purtroppo i Patti Lateranensi ci hanno lasciato questa pesante eredità. E se a causa della storica complicità della politica italiana, il capo della Santa Sede si permette ancora oggi una simile ingerenza negli affari interni della nostra Repubblica, ad avere un problema qui non sono solo i gay e le lesbiche, o le coppie sterili, ma tutti i cittadini italiani.

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Nel nome del plagio, colpevole di essere diverso. Il caso Braibanti.

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Si è spento lo scorso 6 aprile, a 91 anni, Aldo Braibanti, artista, poeta e scrittore piacentino. Negli anni ’60 divenne famoso per l’accusa di plagio rivoltagli dai familiari di Giovanni Sanfratello, compagno di Braibanti che da Piacenza lo aveva seguito, quando questi si era trasferito a Roma.
Secondo il padre del ragazzo, Braibanti aveva “sottomesso” alla sua volontà il giovane figlio, plagiandolo e imponendogli il suo stile di vita. Braibanti fu quindi condannato per plagio, reato previsto dal codice Rocco, rimasto in vigore fino al 1981 quando il Giudice delle Leggi ne dichiarò l’incostituzionalità. “Il giovane Sanfratello – dichiarò il P.M. durante il processo – era un malato, e la sua malattia aveva un nome. “Aldo Braibanti! Quando appare lui tutto è buio”. Il “caso Braibanti” è stato il primo e unico di condanna per plagio. Ma il reato che si voleva, in realtà, ascrivere a carico di Braibanti era la sua omosessualità. Il caso Braibanti costituisce, ancora oggi, una delle vicende giudiziarie più oscure ed infamanti della nostra storia.

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Braibanti era diverso. Intellettuale avanguardista, così diverso dagli artisti dell’epoca. Diverso politicamente, né a sinistra, né a centro né con la destra reazionaria. Dalla rubrica “Il Caos” di una copia del 1968 del quotidiano “Il Tempo”, Pasolini rilevava come quello di Braibanti fosse un caso di intellettuale che aveva rifiutato precocemente l’autorità che gli sarebbe provenuta dall’essere uno scrittore dell’egemonia culturale comunista, ma che poi aveva altresì rifiutato l’autorità di uno scrittore creato dall’industria culturale. Nel medesimo articolo, si legge che il suo delitto fu quello di assecondare la sua debolezza. Ma questa debolezza egli se l’era scelta e voluta, rifiutando qualsiasi forma di autorità: autorità, che, come autore, in qualche modo, gli sarebbe venuta naturalmente, a patto che egli avesse accettato, anche in misura minima, una qualsiasi idea comune di intellettuale: o quella comunista o quella borghese o quella cattolica, o quella, semplicemente, letteraria. E questa debolezza era conseguenza della sua solitudine. Una debolezza scontata che egli pagò con l’accusa, pretestuale, di plagio e la successiva condanna. Vero è che dalla sua debolezza gli derivava un’altra autorità: la sua. Autorità, dunque, più pericolosa di tutte, perché indipendente, autonoma, fuori dagli schemi e da qualunque categoria.

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Sì, Braibanti era diverso. Da tutti, anche come uomo. E quella che Pasolini chiamava “debolezza” al tempo in cui scriveva, era, invece, la sua forza. La stessa forza che apparteneva a Pasolini, in fondo. Quella diversità che ti spinge oltre il comune sentire, che ti consente di percepire la realtà e raccontarla con modulazioni tanto peculiari quanto estranee alla società di massa. Che ti rende inevitabilmente solo. Sempre. Comunque. E inevitabilmente diverso, per quanti sforzi tu possa fare.
La principale condanna di Braibanti, perciò, non è stata il carcere. Ma la solitudine cui è stato relegato dopo, l’isolamento intellettuale che l’ha accompagnato fino alla morte. L’emarginazione: la condanna che gli italiani piccolo-borghesi impongono alla diversità per sentirsi tranquilli, davanti a ogni forma di scandalo, se questo scandalo ha dietro una qualsiasi forma di opinione pubblica o di potere. Così avvertiva lo stesso Pasolini, perché essi riconoscono subito, in tale scandalo, una possibilità di istituzionalizzazione, e, con questa possibilità, essi fraternizzano. Del resto, quante volte sentiamo gente dichiarare la propria tolleranza verso i gay, purché non si facciano vedere?
E allora processo sia. E processo fu. All’omosessuale, nel nome del plagio. L’obiettivo era distruggere Braibanti per dimostrare al Paese quanto sbagliato fosse accettare la propria diversa identità sessuale.

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Anche il capo d’accusa rientrava nel tipico schema attraverso cui la cattolicissima società italiana condanna da anni una parte cospicua dei suoi cittadini. Veniva, infatti, invocato l’art. 603 c.p., il plagio, per censurare, invece, la condotta tenuta dalla coppia Braibanti-Sanfratello. Tant’è che mai, in nessun’occasione, l’Italia bigotta dell’epoca riuscì a rilevare che il processo fosse un’istruttoria contro l’omosessualità. I gay vanno condannati prima di tutto col silenzio. Ancora oggi. Nel nostro Paese, dove l’omosessualità non costituisce reato, il Legislatore continua a far finta che i gay non esistano, condannandoli all’isolamento, alla solitudine e a un silenzio rumoroso che, necessariamente, conduce alla negazione dei loro diritti positivi e naturali. In primis, quello di esistere come soggetti giuridici titolari degli stessi diritti civili degli altri cittadini. A Braibanti, infatti, non venne contestata la relazione con Sanfratello, non era giuridicamente possibile né socialmente accettabile. Gli venne, invece, contestato d’essere frustrato in quanto basso e ‘stortignaccolo’, d’essere un buono a nulla perché artista e, in quanto artista, corruttore d’anime. Tra i testimoni chiamati in aula ci furono i piacentini Piergiorgio e Marco Bellocchio, e il musicista Sylvano Bussotti. A quest’ultimo che la Corte ebbe a chiedere: “Lei è omosessuale?”. La domanda fece scalpore, poiché fu uno dei rari passaggi processuali in cui si accennò all’omosessualità. In un saggio intitolato “Il Processo Braibanti”, edito nel 2003 per i tipi dell’editore Silvio Zamorani, lo studioso Gabriele Ferluga rileva, appunto, come questo tema, all’epoca, fosse cassato con imbarazzo anche dall’intellettualità di sinistra che, pure, difendeva Braibanti. Uniche eccezioni, Pasolini, Moravia, Umberto Eco e Dacia Maraini, che del caso Braibanti fece un racconto, e i radicali.

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Cattolici nel DNA, noi italiani cresciamo tutti con lo spettro del peccato e della sua espiazione, perché ci insegnano da piccoli che è sbagliato assecondare le nostre pulsioni. Ma la realtà è che peccato sarebbe sprecare un’esistenza, non amare, vivere un inferno terreno per la promessa di un paradiso oltre la vita. Peccato è l’imposizione all’altro delle proprie ragioni e del proprio credo. Peccato è condannare un amore, bollandolo come diverso, innaturale, sporco. Criminale, perciò, non fu la relazione che Braibanti ebbe con Sanfratello, ma il processo che lo condannò. Ad essere sporche erano le anime di quelli che giudicarono la storia di Aldo e Giovanni.

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Allora mi chiedo: se la società moderna ha chiesto che la Chiesa dopo secoli di storia rivedesse le posizioni assunte ai tempi della Santa Inquisizione, non sarebbe etico pretendere dalla Repubblica Italiana un’ammissione di colpa, sia pur postuma, per questo processo farsa? Con Sent. n. 96/1981, la Corte Costituzionale ha ‘cancellato’ il plagio dall’ordinamento giuridico italiano. Braibanti non ottenne neppure la revisione del processo. A 33 anni da quella sentenza di incostituzionalità, malgrado il tentativo nel 2005 di alcuni esponenti di AN di reintrodurre questo delitto, unico nel quadro giuridico europeo, è necessaria una presa di coscienza collettiva. L’Italia non è diversa dalla Russia, solo più discreta. Ieri come oggi.
Bisogna, invece, restituire dignità alla memoria di Braibanti, per l’inferno subito a causa dell’imputazione di un reato che, nell’Italia democratica, è esistito solo per lui, che per quell’ingiustizia ha ottenuto solo un parziale riconoscimento, quando, nel 2006, il governo Prodi, viste le sue condizioni economiche, gli ha concesso il vitalizio della legge Bacchelli. Una revisione almeno morale di quel giudizio è un’azione necessaria per interrompere l’iniqua e vergognosa damnatio memoriae subita da lui e dalle sue opere. Nulla ripagherà ormai Aldo del carcere scontato e dell’onta subita, durante il dibattimento, dalla magistratura e dalla stampa. Ma il suo riscatto (dopo il suo sacrificio) servirebbe oggi alla società civile che lo ha condannato, a quella parte che ancora si ostina a non vedere, a non capire. L’educazione alla legalità di un popolo è innanzitutto una lezione di rispetto. Una lezione per orientare tutti gli italiani verso quella tolleranza che ispirò i Costituenti dello stesso Stato che distrusse la vita di Aldo Braibanti.

Andrea Serpieri per

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