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ISTAT: SALE ANCORA IL TASSO DI DISOCCUPAZIONE.

A novembre 2014 gli occupati in Italia sono stati 22 milioni 310 mila, in diminuzione dello 0,2% sia rispetto al mese precedente (-48 mila) sia su base annua (-42 mila). Il tasso di occupazione, pari al 55,5%, diminuisce ora di 0,1 punti percentuali in termini congiunturali e rimane invariato rispetto a dodici mesi prima. Il numero di disoccupati, pari a 3 milioni 457 mila, aumenta dell’1,2% rispetto al mese precedente (+40 mila) e dell’8,3% su base annua (+264 mila). Il tasso di disoccupazione è pari al 13,4%, in aumento di 0,2 punti percentuali in termini congiunturali e di 0,9 punti nei dodici mesi. È quanto afferma l’Istat, nel comunicato stampa dello scorso 7 gennaio.

Già nella precedente nota del 30 dicembre, l’Istituto aveva evidenziato che i dati più recenti delle forze di lavoro nel 2014 descrivevano un’occupazione sostanzialmente stabile dall’inizio dell’anno, ma con un nuovo peggioramento nel mese di ottobre (-0,2% rispetto al mese precedente). Il problema di fondo dell’occupazione in Italia nel 2014 restava – e resta tuttora – la stagnazione del mercato del lavoro. Peraltro, si prevede che l’assestamento del prezzo del petrolio ai bassi livelli attuali influirà moderatamente, in senso positivo, sulla crescita economica dei principali Paesi europei, Italia inclusa, per la quale si attende un arresto della fase di contrazione dell’economia, in presenza di segnali positivi per la domanda interna. Tuttavia, nonostante queste previsioni, l’Istat ritiene che le condizioni del mercato del lavoro in Italia rimarranno difficili con livelli di occupazione stagnanti e tasso di disoccupazione in crescita.

Rispetto all’ultimo trimestre del 2013, tra l’altro, nel 2014 si è verificato un incremento di cinque decimi di punto del tasso di disoccupazione. Il trend è dovuto alla crescita delle persone in cerca di occupazione (con un +5,8% dell’aumento tendenziale) e tra queste ad essere aumentata è stata soprattutto la quota di inoccupati, ossia di quei disoccupati in cerca della prima occupazione (+17,6%). Parallelamente, la crescita di persone in cerca di lavoro si è accompagnata ad un allungamento dei periodi di disoccupazione: l’incidenza dei disoccupati di lunga durata (quota di persone che cercano lavoro da oltre un anno) è salita nel 2014 dal 56,9% al 62,3%. E questa percentuale di soggetti, in genere considerati poco appetibili dalle aziende, costituisce un fattore di freno alla discesa della disoccupazione, soprattutto al sud.

Preoccupanti sono, inoltre, i dati relativi alla disoccupazione giovanile. Dall’ultima rilevazione dell’Istituto, risulta che i disoccupati tra i 15 ed i 24 anni sono 729 mila. L’incidenza di disoccupati sulla popolazione in questa fascia di età è pari al 12,2%, in aumento di 0,3 punti percentuali rispetto alla precedente rilevazione mensile ISTAT e di 1,1 punti su base annua. Il tasso di disoccupazione tra i 15 ed i 24 anni, ovvero la quota dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca, è pari al 43,9%, in aumento di 0,6 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 2,4 punti nel confronto tendenziale.

Il numero di individui inattivi, cioè di coloro che non sono in cerca di un’occupazione o che hanno smesso di cercare lavoro, tra i 15 ed i 64 anni diminuisce dello 0,1% rispetto rispetto all’ultimo rilievo mensile e del 2,2% rispetto all’anno precedente. Il tasso di inattività si assesta, dunque, al 35,7%, rimanendo invariato in termini congiunturali e diminuendo di 0,7 punti percentuali su base annua.

Da ultimo, si evidenzia come l’occupazione nelle grandi imprese a ottobre 2014, rispetto al mese precedente, abbia fatto registrare in termini destagionalizzati una diminuzione dello 0,2% sia al lordo sia al netto dei dipendenti in cassa integrazione guadagni (Cig), con retribuzioni lorde per ora lavorata in diminuzione dello 0,8% rispetto al mese precedente. Anche se, in termini tendenziali l’indice grezzo aumenta dello 0,4%. Invece, nel confronto con ottobre 2013 l’occupazione nelle grandi imprese diminuisce dello 0,9% al lordo della Cig e dello 0,8% al netto dei dipendenti in Cig.

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MDS
Redazione BlogNomos
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Il 43,3% dei giovani italiani è disoccupato

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di Germano De Sanctis

Gli ultimi dati ISTAT relativi al mercato del lavoro nei primi tre mesi del 2014 hanno suscitato un’enorme preoccupazione. Infatti, tre milioni e mezzo di italiani sono in cerca di un’occupazione, portando il tasso di disoccupazione alla cifra record del 12,6% (peraltro, invariato rispetto al mese precedente, ma in aumento dello 0,6% nei dodici mesi). Inoltre, se ci limita ad analizzare il tasso di disoccupazione tra i giovani di età compresa tra i 15 ed i 24 anni, quest’ultimo dato raggiunge la percentuale drammatica del 43,3% (tra l’altro, in aumento dello 0,4% rispetto al mese precedente e del 4,5% su base annua).

Si tratta di una sequenza di dati negativi sul mercato del lavoro che non si era più registrata fin dal lontano 1977. Tra l’altro, il dato statistico è aggravato dal fatto che esso rileva una ancor più profonda spaccatura dell’andamento del mercato del lavoro tra l’Italia Settentrionale ed il Mezzogiorno. Infatti, i primi dati disponibili (anche se non ancora non ancora depurati dai giorni di mancato lavoro) fanno emergere il fatto che, nel primo trimestre dell’anno, a fronte di un tasso medio nazionale di disoccupazione giovanile pari (come visto) al 43,3% (cioè 739.000 giovani tra 15 e 24 anni che cercano lavoro), tale dato, se riferito soltanto al Mezzogiorno, si eleva fino al 60,9%.
Bisogna anche evidenziare che dal calcolo del tasso di disoccupazione sono esclusi i giovani inattivi, cioè coloro che non sono occupati e non cercano lavoro, ad esempio, perché impegnati negli studi. Attualmente, il numero di giovani inattivi è pari a 4.405.000, in aumento dello 0,3% nel confronto congiunturale (+14.000) e dello 0,2% su base annua (+11.000).
In particolare, il tasso d’inattività dei giovani tra 15 e 24 anni risulta attestarsi alla percentuale record del 73,6%, segnando una crescita dello 0,3% nell’ultimo mese e dello 0,7% nei dodici mesi.

Inoltre, si deve anche evidenziare che, ad aprile 2014, sono risultati occupati soltanto 898.000 giovani tra i 15 e i 24 anni, evidenziando un calo dell’1,8% rispetto al mese precedente (-16.000) e del 9,2% su base annua (-91.000).
Di conseguenza, il tasso di occupazione giovanile si è attestato al 15,0%, diminuendo dello 0,3% rispetto al mese precedente e dell’1,4% nei dodici mesi.
Il numero di giovani disoccupati, pari a 685.000, è in diminuzione dello 0,2% nell’ultimo mese, ma in aumento del 6,3% rispetto a dodici mesi prima (+41.000).
L’incidenza dei giovani disoccupati tra 15 e 24 anni sul totale dei giovani della stessa classe di età è pari all’11,4%. Tale incidenza risulta invariata nell’ultimo mese ed in aumento dello 0,8% rispetto allo scorso anno.

Si tratta di cifre allarmanti, che hanno sollevato un coro di dichiarazioni preoccupate da parte di tutte le organizzazioni sindacali e datoriali, anche alla luce dei recenti dati sulla debole crescita del nostro sistema produttivo.

Tale quadro è ulteriormente aggravato da fatto che la percentuale record del 43,3% (la quale interessa l’intera platea dei giovani italiani di età compresa tra i 15 ed i 24 anni) si affianca e, soltanto in parte, racchiude al suo interno i circa 2.000.000 di scoraggiati (i quali, ormai, non cercano neanche di trovare un’occupazione) ed i circa 2.442.000 NEET (cioè, i giovani di età compresa tra i 15 ed i 29 anni che non studiano, non lavorano e non fanno formazione, il cui dato statistico è in in crescita del 4,8% cento rispetto allo scorso anno).
In altri termini, il nostro mercato del lavoro è fermo e sarà importante capire, dall’esame prossime rilevazioni statistiche, se il Jobs Act sarà in grado di produrre effetti positivi sui flussi occupazionali.

Il tasso di disoccupazione giovanile al 43,43% rimane ugualmente preoccupante anche se lo si paragona con quello analogo di altri Stati membri dell’Unione Europea che hanno problemi occupazionali analoghi. Infatti, sebbene il nostro dato sulla disoccupazione giovanile sia migliore di quello registrato in Croazia, Grecia e Spagna, al contempo, bisogna evidenziare che, in tali Paesi, la disoccupazione giovanile è in calo, mentre in Italia continua inesorabilmente a crescere.

L’Unione Europea non può ignorare questa situazione di profonda difficoltà di un’intera generazione che dovrebbe essere la culla della futura classe dirigente del Vecchio Continente ed, invece, si trova relegata ai margini del mercato del lavoro, senza poter costruire un percorso professionale, capace di garantire, da un lato, un’adeguata gratificazione individuale, ma, dall’altro, fornire un’indispensabile iniezione di idee ed energie fresche, sempre più necessarie per garantire un modello di sviluppo competitivo per l’economia europea del XXI Secolo.

Tale preoccupazione è ulteriormente rafforzata dalla considerazione che il tasso disoccupazione giovanile ha una curva disomogenea tra i vari Stati membri. Infatti, bisogna riscontrare che, a fronte dei Paesi dell’area mediterranea (ad esempio, Italia, Spagna, Croazia e Grecia), ove la disoccupazione giovanile è particolarmente forte, vi sono territori dell’Europa continentale, dove il fenomeno è molto più circoscritto (ad esempio, Germania ed Austria), se non, addirittura, completamente assente (ad esempio, la Baviera).
Siamo di fronte ad una marcata disomogeneità nelle condizioni del mercato del lavoro all’interno dei singoli Paesi europei, che sta producendo un sempre più marcato dumping sociale, il quale, se non adeguatamente contrastato, minerà irrimediabilmente la coesione territoriale all’interno dell’Unione Europea, tradendo, in tal modo, una delle direttrici su cui di fonda l’istituzione comunitaria in questione.

Pertanto, l’Unione Europea ha l’obbligo di attivare politiche capaci di omogeneizzare e favorire le condizioni di accesso al mercato del lavoro riservate ai giovani, specialmente, con particolare riferimento a quegli Stati membri, come l’Italia, che, in passato avevano una parte dei loro territori (cioè, le Regioni dell’Italia settentrionale) capace di assicurare gli stessi tassi di occupazione giovanile delle zone più evolute d’Europa e che, oggi, hanno perso ogni capacità di promozione e tutela dell’occupazione giovanile. Si tratta della decadenza di territori che, in precedenza, partecipavano fattivamente allo sviluppo dell’intera economia continentale e che attualmente si sono ridotti ad essere bacini produttivi in sofferenza e bisognosi di sussidi occupazionali sempre più ingenti, con evidenti ricadute negative sull’andamento della spesa pubblica dei singoli Stati membri.

Attualmente, l’Unione Europea ha avviato il noto programma comunitario denominato “Garanzia Giovani”. Tuttavia, la Garanzia Giovani non può essere l’unica forma d’intervento posta in essere dalle istituzioni comunitarie per contrastare questo dilagante e preoccupante fenomeno che sta, come detto, minando alle basi l’Unione Europea stessa.
In primo luogo, la Garanzia Giovani ha una dotazione finanziaria modesta, essendo stati stanziati per tutti gli Stati membri circa 6 miliardi di Euro da spendere nell’arco di un biennio.
Inoltre, la Garanzia Giovani è un fondo strutturale e, come tale, ha notevoli costi amministrativi, rispetto al valore economico dei servizi erogati ai beneficiari (cioè i giovani e le imprese) e che incidono significativamente sulla dotazione finanziaria complessiva poc’anzi indicata, riducendo sensibilmente la quota di risorse da destinare esclusivamente alle azioni dirette.
A fronte di queste considerazioni di carattere generale, bisogna anche aggiungere la considerazione che l’Italia (intesa come sistema-Paese) non si è mai distinta (salvo le dovute, ma sporadiche, eccezioni) per la sua capacità di saper spendere efficacemente le risorse dei fondi strutturali comunitari, sia non spendendo tutte le risorse finanziarie assegnatele, sia disperdendole in una moltitudine di piccoli progetti, talvolta anche privi di qualsiasi coerenza sistemica con gli obiettivi di programmazione.

Per cominciare ad contrastare seriamente la disoccupazione giovanile in Europa bisogna, innanzi tutto, avere la consapevolezza dell’inutilità di ogni politica di coesione avente una dimensione esclusivamente nazionale.
Una prima opzione d’intervento comunitaria è rinvenibile nella risoluzione del noto problema della tassazione del lavoro, la quale risulta essere fortemente disomogenea, poiché ogni Stato membro gode di una sua regolamentazione tributaria in materia. Ad esempio, l’Italia è la Nazione europea con il più al tasso di imposizione fiscale sul lavoro (circa quattro volte superiore alla media comunitaria). Un sistema di tassazione sul lavoro omogeneo per tutti gli Stati membri permetterebbe ai giovani europei di godere di un’offerta di lavoro non condizionata da carichi fiscali disomogenei e permetterebbe una immediata armonizzazione delle politiche di coesione.
Analogamente le risorse comunitarie potrebbero essere utilizzate per armonizzare e facilitare l’accesso al credito a favore di tutte le imprese, con particolare riferimento alle quelle di piccole e medie dimensioni.

In estrema sintesi, per aiutare i giovani a trovare lavoro, bisogna intervenire con politiche strutturali comunitarie, capaci di favorire la creazione di posti di lavoro, piuttosto che sostenerne la mera ricerca, poiché nessuna ricerca di lavoro può avere esito positivo se non si sostiene l’economia continentale nell’incrementare la propria capacità produttiva e la propria redditività, con conseguente esigenza, da parte dei datori di lavoro, ad assumere nuove unità di personale giovane ed adeguatamente formato ed istruito.

 

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L’UNIVERSITÀ CHE PARLA ALLE AULE VUOTE.

In Italia è crollo dei giovani laureati. Persi in un anno 34.000 neo dottori. E il trend per il futuro è in peggioramento.

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di Michele De Sanctis

Crolla il numero dei laureati: il bilancio vede quasi 18mila laureati triennali in meno – il 10 % – e circa 34mila laureati complessivi in meno, cioè l’11,5 % in un solo anno. A diffondere questi dati è il Cineca, il consorzio di università italiane che offre supporto alle attività della comunità scientifica tramite il cd. supercalcolo, realizza sistemi gestionali per le amministrazioni universitarie e il MIUR e, inoltre, progetta e sviluppa sistemi informativi per imprese, sanità e P.A. .

Il calo riguarda soprattutto le donne e l’area più colpita è quella sanitaria, medicina compresa, che accusa un crollo del 16 % sulle lauree brevi e del 13 % sul totale. L’area scientifica, invece, è quella che risente in misura minore di questa flessione: meno 8 %. Oltre alla discrepanza tra settori di studio, come appena accennato, si è resa evidente anche una certa differenza di genere: quasi 12mila laureati triennali in meno sui 18mila totali sono, infatti, donne. Ciò denoterebbe una propensione maggiore da parte del sesso maschile a voler conseguire il tanto agognato titolo di studio, ma è, altresì, conseguenza delle difficoltà che le donne, soprattutto nel meridione, incontrano nel momento in cui si approcciano al mercato del lavoro. L’Italia perde continuamente terreno rispetto agli altri Paesi europei, superata perfino da Romania, Repubblica Ceca, Slovacchia e Portogallo. Con il suo 22,4 % di giovani laureati, l’Italia è in coda alla classifica delle 28 nazioni dell’Unione Europea. Ancora più allarmante allo stato attuale è, poi, il distacco con la media del vecchio continente che è al suo massimo storico dal 2002, quando ci separavano solo 10,4 punti, a fronte dei 14 del 2012/2013.

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Il nostro Paese, così, rischia di perdere terreno rispetto ai partner europei per quota di 30/34enni laureati, obiettivo principale della strategia Education and Training 2020, che mira a trasformare l’economia europea nella più competitiva e dinamica del mondo, poiché basata sulla conoscenza, e in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e, contestualmente, una maggiore coesione sociale. Come ho già scritto lo scorso 15 febbraio, ET 2020 è obiettivo irrinunciabile, vista l’emergenza rappresentata dalle attuali dinamiche del mercato del lavoro.

Se analizziamo i dati dei nostri partner, per esempio, scopriamo che in Francia la percentuale di 30/34enni in possesso della laurea è pari al 44 %, cioè oltre 20 punti in più rispetto a noi. In Germania si attestano intorno al 33,1 %, oltre un punto in più rispetto all’anno precedente. L’Italia procede, invece, a rilento: appena 0,7 punti in più in un anno. Mentre nel Regno Unito si viaggia sull’invidiabile quota del 47,1 %.

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E in futuro, visto il crollo degli immatricolati degli ultimi anni, il solco con gli altri Stati europei potrebbe diventare addirittura incolmabile. Gli studenti, ormai da tempo, chiedono di cancellare il numero chiuso in ingresso e di mettere in cantiere interventi concreti sul fronte del diritto allo studio. Il nostro Paese, infatti, è stato penalizzato dalle pessime politiche in materia di istruzione e formazione degli ultimi vent’anni, dalla famigerata scuola ‘delle tre i’ col ministro Moratti e il premier Berlusconi fino alla disastrosa riforma Gelmini, la quale, con la sua teoria sul tunnel di neutrini che partiva dal Gran Sasso per arrivare a Ginevra, ha solo rappresentato la scuola dell’unica ‘i’ possibile all’epoca del ‘bunga bunga’, quella dell’ignoranza. La crisi, poi, ha introdotto un concetto perverso, veicolato dal peggior populismo di sempre, che si fa strada tra i più disperati di noi, tra chi ha rinunciato a credere in un futuro migliore: quello che la laurea non serva a nulla perché costa soldi e non porta pane a casa. Un concetto che al nord, quando la Lega spopolava, aveva già attecchito qualche anno fa. Lavorare e guadagnare subito. Efficace, nel breve periodo, ma fondamentalmente sbagliato. Lavorare senza aver studiato, senza quindi un particolare tipo di specializzazione, ha, infatti, reso vulnerabile un’intera classe di lavoratori, manodopera non qualificata, che con l’arrivo della crisi è rimasta priva di lavoro e per lo più incapace di ‘riciclarsi’.

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A dimostrazione di quanto affermo, ci sono i dati diffusi da AlmaLaurea lo scorso 10 marzo, che evidenziano come ad essere più colpiti, in questi tempi di recessione, siano proprio i giovani sprovvisti di titoli accademici: tra il 2007 e il 2013 il differenziale tra tasso di disoccupazione dei neolaureati e neodiplomati è passato dal 2,6 % all’11,9. La laurea, quindi, anche se destinata a ‘rendere’ nel medio periodo, piuttosto che nel breve, è ancora un importante strumento nella ricerca di un lavoro.

C’è chi è convinto che con i libri non si mangia, la gente ha fame, si dice. Vero, ma non leggere e non studiare, diversamente, neppure aiuta a trovare lavoro prima. Se non Italia all’estero: sono stati circa 68.000 gli italiani che nel 2012 si sono trasferiti fuori dai confini del belpaese, in posti dove, peraltro, i lavori migliori non sono certo destinati agli individui meno qualificati.

Non si possono trascurare questi dati così preoccupanti. L’istruzione d’ogni ordine e grado è una priorità. Sempre. E poi è anche una questione di dignità personale. Qualsiasi sacrificio vale la pena per l’istruzione. Un solo euro dedicato alla formazione vale più di un lingotto d’oro ed è l’investimento migliore che si possa fare. Vale per lo Stato come per i cittadini.

La lettura rende l’uomo completo, diceva Bacon. La capacità di ragionare con la propria testa, di avere gli strumenti per farlo non ha davvero prezzo e un Paese che rinuncia alla propria conoscenza è un Paese che ha deciso di morire.

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