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CLASSE 1980: LA GENERAZIONE PERDUTA. 

La scorsa settimana il presidente dell’INPS, Tito Boeri, rivelando al Paese ciò che Mastrapasqua, suo predecessore nella carica, ‘si vantava’ di nascondere per scongiurare una rivolta popolare, ha reso noto ai giovani le cifre delle loro future pensioni. Come era di facile previsione in un clima che Grammellini nel suo ‘Buongiorno’ del 2 dicembre ha definito catatonico, in un Paese che è sempre rimasto assopito dinanzi a tutto ciò che fosse altro da una partita di calcio, nessuna rivolta si è venuta a creare e anzi la notizia preoccupante che ha dato spunto a questo post, nell’era del tutto e subito, è già vecchia, vecchissima: per farci un’idea, su Flipboard e Google News dobbiamo scrollare parecchio prima di ritrovarla. Per farcene un’altra: si parla ancora di presepi e crocifissi in aula, visto che l’Avvento non è ancora finito, ma dei nati degli anni ’80 si è già smesso di discutere. Personalmente, trovo ingiusto protrarre il dibattito pubblico su argomenti di natura teologica, per quanto intrisi di risvolti sociali ed etnici di grande attualità, mentre io, che ho 35 anni, ho già smesso di fare notizia. Soprattutto se la notizia è che lavorerò ancora a lungo, diciamo tutta la vita, per irrorare la pensione di chi è cresciuto in un’epoca di diritti sociali e ne verrò per giunta ricompensato – sempre citando Grammellini – “con un epilogo esistenziale a base di fatica e di stenti.” La cosa, infatti, potrebbe anche darmi alquanto fastidio, specialmente perché il modello attuariale, in base al quale viene finanziato il nostro sistema previdenziale pubblico, la cosiddetta ripartizione pura, secondo cui le prestazioni attuali vengono finanziate contestualmente alla loro erogazione proprio da me che lavoro, da almeno un ventennio viene ‘simpaticamente’ chiamato dagli addetti ai lavori “metodo dell’imprevidenza” (lo trovate scritto perfino sui compendi della Simone). Eppure, poco o nulla si è fatto. Anzi, piuttosto si è infierito: ricorderete sicuramente l’amabile ex ministro Padoa Schioppa che ci definì bamboccioni e la formidabile Elsa Fornero che ci apostrofò come choosy. Vale a dire che per i grandi (in Italia lo si è tipo dopo i 40-45 anni) è colpa di noi piccoli se i nostri padri e i loro padri prima di loro si sono già mangiati tutte le provviste e hanno, nel contempo, avallato un sistema basato sull’orgia edonistica degli anni ’80, quando si consumava tutto e ciò che avanzava piuttosto si buttava, senza preoccuparsi del domani. Ebbene, il domani è arrivato ed è il mio presente e non mi sento responsabile del mio vivere ancora in famiglia, sebbene anche noi giovani abbiamo le nostre colpe, lo ammetto. Vero è che questa colpa la condividiamo con i nostri padri e le nostre madri. E con lo Stato, che fa leva sul risparmio delle famiglie come ammortizzatore sociale per i giovani disoccupati o precari – risparmio per lo più detenuto da chi 30 anni non li ha più da un pezzo.  
 Il nostro peccato più grave, infatti, è la rassegnazione con cui accettiamo ogni cosa. A differenza dei nostri coetanei che hanno avuto il coraggio di andare via, noi che siamo rimasti continuiamo a percepire come normale un sistema sadico, nel quale ciò che conta è l’anzianità. Non parlo solo di pensioni. Per esempio, in Italia un trentenne oggi potrà anche farsi apprezzare in azienda, nel pubblico come nel privato, per le sue capacità e conoscenze, ma all’atto di conferire una posizione di responsabilità, anche di una semplice linea di prodotto, la scelta cadrà con maggior probabilità su un soggetto più anziano del trentenne, perché più esperto, sebbene meno curriculato. Molti di noi, ad esempio, hanno continuato a studiare, nelle more di una vita professionale, che in teoria lo Stato avrebbe dovuto garantirci, almeno stando al dettato costituzionale. Quindi è facile che un trentenne abbia qualche laurea in più rispetto ai soggetti più anziani di lui che incontrerà nel mercato del lavoro. Ma la giustificazione di solito è sempre la stessa: “Tanto hai tutta la vita davanti! Arriverà anche per te…” La anormalità sta proprio in questo, perché sto vivendo anche adesso e se ritengo di meritare alcunché è giusto che io l’ottenga. Invece di norma il trentenne risponderà “grazie”, sperando in cuor suo di non dover aspettare altri dieci anni. In fin dei conti, se lo analizziamo in maniera spiccia, col contratto a tutele crescenti a venir istituzionalizzata e generalizzata è proprio la regola dell’anzianità. I sindacati, così contrari al Jobs Act, nei luoghi di lavoro continuano tuttora a tutelare le competenze acquisite. Sapete cosa vuol dire tutelare una competenza? Fare largo ai vecchi. Per cui è normale incontrare responsabili diplomati e operatori esecutivi laureati. Non lo è, ma noi siamo quelli che accettano qualunque lavoro, pur di portare a casa qualche soldo e pur essendo dottori magistrali facciamo i camerieri, i segretari o gli operatori di call center.

  
C’è anche un altro aspetto, che tanto normale non appare, se lo confrontiamo con l’estero. Ad esempio, non è normale che i giovani in Italia non abbiano alcuna garanzia per la futura pensione, nessuna meritocrazia o nessun supporto all’acquisto della prima casa. Noi stiamo tollerando, come fosse se una situazione naturale, un’ingiustizia profonda: l’esclusione dal mondo del lavoro, dalla politica, dalla carriera nelle università (dove la cronaca ricorda che oltreché vecchio bisogna, peraltro, anche essere parente di qualcuno) e stiamo accettando senza riserve questa atroce disparità intergenerazionale. I trentenni vivono in una società che non è la loro, ma quella dei propri genitori. Sono privi di punti di contatto con un mondo reale che è loro estraneo, non hanno alcuna forza antagonista, vivono nella società come in famiglia, come il gatto di casa: a proprio agio, ma senza voce in capitolo. Ciò che manca è la dialettica tra loro e la società.  

 
Dialettica che non può esistere senza un reale ricambio generazionale. La carenza di turn over nel mercato del lavoro, peraltro, comporta un altro grande gap, oltre al fatto che lascia soli in un ambiente di 50-60enni quei pochi di noi che riescono a lavorare. Infatti, l’assenza di massa di un’intera generazione dal lavoro sta modificando la struttura del modello sociale in modo allarmante. La cultura, l’industria, l’imprenditoria mancano per questo di innovazione e i giovani non sviluppano la carica antagonista che sempre ha fatto da propellente sul costume, sulla cultura e sulla stessa politica del nostro come degli altri Paesi. Il “parricidio” e l’allontanamento dalle famiglie di origine è un passo fondamentale per la crescita di un individuo. I giovani italiani, invece, rimangono in qualche misura ancora legati alla paghetta settimanale in una società neomediovale, dove la fluidità interclassista è praticamente inesistente. 

 
Il dramma della situazione che così si viene a creare è questo circolo vizioso tra genitori e figli, da cui per ora, considerato l’immobilismo del mercato del lavoro, non conviene uscire, ma che lascerà un’intera generazione sul baratro, quando mamma e papà non ci saranno più a darci una mano con le loro belle pensioni calcolate col metodo retributivo. Il nostro è un problema di asfissia culturale. I cattivi maestri (e gli pseudo maestri) ci sono sempre stati. Poi, però, si cresceva e si faceva a pugni con il sapere acquisito dai padri. Ma oggi a 30 anni non ancora si hanno gli strumenti per farlo e ci si appiattisce sulle idee dei vecchi. Gli attuali trentenni temono l’incertezza, più che in passato, sono terrorizzati dai rischi che il cambiamento porta con sé. Se l’Italia fosse un Paese forte, cosciente e solidale si occuperebbe di loro e, di conseguenza, del suo stesso futuro. Ma se continuiamo con questo non far nulla, la generazione dei nati negli anni ottanta sarà come se non fosse mai esistita. L’Italia avrà, allora, perso un’intera generazione e il danno in termini di capitale umano sul progresso materiale del Paese sarà inestimabile. Sarà irrecuperabile, sempre che non lo sia già.

MDS – BlogNomos

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STAGE: ECCO I COMPENSI MINIMI GARANTITI REGIONE PER REGIONE.

Sapevate che gli stage vanno pagati? E che il compenso varia da Regione a Regione? Scopriamo insieme in quali conviene di più frequentarne uno.

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di Michele De Sanctis

Abruzzo e Piemonte: sono queste le due Regioni, in cui gli stagisti vengono pagati meglio, con un rimborso minimo di 600 euro. Le più parsimoniose sono Friuli Venezia Giulia, Sicilia e Umbria, in cui il compenso di base per i tirocinanti è di 300 euro. Le altre hanno scelto invece importi intermedi.

La legge Fornero impone, infatti, una retribuzione minima, la cui misura viene stabilita dalle Regioni, che sono competenti a regolare nel dettaglio i tirocini formativi. Sono esclusi: gli stage che si effettuano durante la frequenza di scuole, master, corsi di specializzazione; i periodi di pratica professionale o per l’accesso alle professioni ordinistiche (praticantato); i tirocini transnazionali (es.: Lifelong Learning Program); stage per stranieri inseriti nelle quote di ingresso; tirocini estivi.

La mappa delle scelte fatte dalle Regioni è stata tracciata un anno fa da Adapt, l’associazione per gli studi internazionali e comparati sul diritto del lavoro e sulle relazioni industriali fondata da Marco Biagi e attualmente diretta da Michele Tiraboschi.

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Il monitoraggio svolto ha consegnato un quadro normativo intricato e contraddittorio, in cui l’obiettivo di definire standard minimi omogenei, come indicato dal Legislatore, ha generato, al contrario, la proliferazione di discipline regionali diverse e in concorrenza tra di loro, con il risultato di creare maggiori incertezze a tutti gli operatori del mondo del lavoro coinvolti. Inoltre, il progressivo e vigoroso snaturamento di un metodo formativo, che viene ora ricostruito a immagine e somiglianza del contratto di primo inserimento al lavoro, fa sì che la qualità del percorso di tirocinio sia misurata in relazione alla fattispecie del lavoro dipendente e non invece in ragione della qualità dei soggetti promotori, dei fabbisogni professionali espressi dal mercato del lavoro e dai relativi contenuti formativi di ogni singolo percorso di stage. È, quindi, aumentato il tasso di regolazione, ma non si è vista la costruzione di un sistema che possa garantire la collocazione del tirocinio in un reale percorso di integrazione tra scuola, università e lavoro. Come rivelato nel rapporto Adapt, a vincere sarebbero le burocrazie regionali, che sin qui hanno dato scarsa prova di saper gestire la competenza affidata loro dalla Costituzione, mentre a perdere sarebbero le imprese e quei numerosi giovani che vedono oggi nel tirocinio una imprescindibile chiave di occupabilità e di learnfare, nel senso di punto di incontro tra i fabbisogni professionali espressi dal mercato del lavoro e i progetti di vita delle singole persone. Di certo, quello su cui, forse, il Legislatore ha puntato è stata l’introduzione di un diritto alla ‘retribuzione’ negli stage. Prima mancava anche quella. Rispetto al passato la maggiore novità per chi partecipa a i tirocinio formativo è proprio la possibilità di ricevere un’indennità. Può essere visto come un passo in avanti per l’Italia, ma non bisogna focalizzarsi solo sul rimborso: si rischia, infatti, di dimenticare che uno stage è prima di tutto formazione e ingresso nel mondo del lavoro. In effetti, su questi aspetti c’è ancora da lavorare.

Nel frattempo, vediamo quali sono le cifre minime che devono percepire, a seconda della Regione, gli stagisti in Italia, secondo il rapporto Adapt 2013 (il rapporto aggiornato non è ancora stato elaborato).

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Non dimentichiamo che a livello nazionale, secondo le “Linee guida” del gennaio 2013, le imprese e gli enti che attivano tirocini non possono, comunque, scendere al di sotto dei 300 euro al mese. Inoltre, i tirocini finanzianti dal programma comunitario “Garanzia Giovani” prevedono un rimborso spese standard di € 500. Pertanto, relativamente ai tirocini finanziati dalla Garanzia Giovani, le Regioni con rimborso spese più basso devono innalzare tale somma ad € 500. Nelle altre Regioni (cioè, l’Abruzzo ed il Piemonte), si applicheranno i costi standard regionali, essendo quest’ultimi più favorevoli.

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Governo-Sindacati: dialogo tra sordi?

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di Michele De Sanctis

Il braccio di ferro tra Renzi e Susanna Camusso, che negli ultimi giorni ha esacerbato le polemiche scaturite dalla divulgazione del Jobs Act, merita alcune brevi osservazioni, nell’imminenza della presentazione ufficiale del ddl lavoro.
Sebbene i rapporti tra sinistra e CGIL siano sempre stati ispirati da un tacito principio collaborazionista, negli ultimi anni, complice la crisi e le pressanti richieste della trojka, abbiamo assistito a un decisivo cambiamento di rotta fino ad arrivare all’attuale premier che non si fa scrupolo nel dichiarare le sue intenzioni di procedere nel cammino delle riforme promesse con o senza l’approvazione delle principali sigle sindacali. Anche perché è opinione di Renzi che i sindacati, così come storicamente si sono configurati nella società italiana, siano forze più conservative che progressiste. Posizione opinabile e facilmente confutabile, a mio avviso. Eppure si tratta di un Presidente del Consiglio espressione di un partito che, nella sua duplice natura, conserva non solo la matrice d’ispirazione socialdemocratica e, quindi, di cooperazione con i sindacati, ma che, pure nella sua matrice centrista, non è comunque avulso dallo spirito associazionista dei trait d’union.

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Del resto, la cd. concertazione, siglata dagli accordi del luglio ’93 tra sindacati e politica, ha dato frutti importanti e duraturi per l’economia italiana. E’ solo con il secondo governo Berlusconi e lo scellerato Patto per l’Italia del 2002 che si assiste a un progressivo deterioramento dei rapporti tra istituzioni e parti sociali. Il tentativo dei governi di centrodestra è stato, infatti, quello di mettere fuori gioco la CGIL, pur trattandosi del sindacato maggiormente rappresentativo del Paese, al fine di creare una frattura tra questa Confederazione e le altre sigle. Di tale situazione, radicatasi nel corso dell’ultimo decennio, Confindustria e i rappresentanti delle parti datoriali sono stati i principali beneficiari. L’esautoramento della forza rappresentativa della CGIL si è protratto fino al caso Pomigliano, quando nel 2010 FIAT riuscì a tagliarla fuori del tutto dagli accordi decentrati.

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Ma l’esclusione della CGIL dai tavoli di trattativa ha portato ad accordi impopolari, quanto iniqui e, successivamente, all’indebolimento di tutto il movimento sindacale nel suo complesso. Tant’è vero che, nel governo Monti, il ministro Fornero, ignorando i suggerimenti delle parti sociali, ha varato la sua riforma del mercato del lavoro e del sistema previdenziale seguendo le sole linee governative, le raccomandazioni di Bruxelles, quelle di Berlino e, soprattutto, quelle delle principali banche d’affari, creando più di 100.000 esodati, problema a tutt’oggi irrisolto. Considerando un tale precedente ed il danno sociale che ne è stato determinato, sarebbe buona regola riprendere la prassi degli accordi concertati, anche perché un uomo solo, per quanto si proclami risolutivo, non può, in un sistema democratico, mettere mano da solo a nessun tipo di riforma, tanto più a quelle che impattano sensibilmente la società civile. Ci auspichiamo, dunque, un’immediata ripresa del dialogo, lasciando da parte atteggiamenti di sufficienza nei confronti di quelle associazioni che rappresentano i diretti destinatari della riforma che il Governo si appresta a varare.

Knowledge Economy: una via per la ripresa.

di Michele De Sanctis

Con l’avvento delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione la ‘conoscenza’ è diventata un bene economico i cui effetti non solo si ripercuotono sul benessere individuale, ma anche su quello collettivo. E forse sarebbe più giusto dire che gli effetti principali e più apprezzabili, dal punto di vista del mercato, sono proprio quegli effetti che, dopo l’impatto sul singolo, riescono ad avere un impatto collettivo, poiché è lì che, da una conoscenza iniziale, si riesce a produrre altra conoscenza per n numero di volte: è lì, quindi, che si crea il progresso. Il progresso è innovazione, è informazione tecnologica, è ricerca e sviluppo. Tutti i sistemi di new Economy sono infatti caratterizzati dalla produzione di informazione e conoscenza. È ciò che oggi sembrerebbe mancare alle nostre imprese, ciò che riaccenderebbe la nostra capacità di essere competitivi. D’altro canto, se da una prima conoscenza è stata possibile la creazione di esternalità positive, ossia di effetti sulla società, ciò è stato possibile anche grazie (e soprattutto) alla tendenza di lungo periodo all’aumento di risorse destinate alla produzione e trasformazione di conoscenza (istruzione, formazione, ricerca e sviluppo e coordinamento economico). Destinare risorse all’istruzione è quindi un investimento di lungo periodo. Analizzando le politiche economiche di quei Paesi che oggi vengono detti emergenti, infatti, assistiamo a una costante e consistente destinazione di capitale materiale a quello che invece è il cd. capitale immateriale. Alla conoscenza. Ciò interessa molto l’Italia, che da anni ‘fa economia’ lesinando sui fondi destinati all’istruzione. Gary Becker, premio nobel per l’economia nel 1992, ne ‘Il capitale umano’ analizzava come il disinvestimento su ricerca e sviluppo nelle economie in crisi accentui gli effetti della stessa crisi, causando danni che, nel lungo periodo, non sono riparabili, se non dopo diversi anni dalla distruzione di quel capitale umano. Il problema è grave. La nostra era è fondata sulla conoscenza: la Knoledge Economy è un cambiamento epocale, paragonabile solo a quello avvenuto con la nascita della grande industria, è un’economia che genera l’esigenze di nuove teorie e processi di innovazione permanente che richiedono più alti livelli di formazione, capacità di apprendimento e competenze particolari. La specializzazione è diretto corollario di questo tipo di economia. Quando si chiede al Paese di essere competitivo è a questo che ci si riferisce. La conoscenza generica porta l’impresa a creare lo stesso prodotto che a prezzi più bassi viene realizzato nei Paesi emergenti. La specializzazione crea un mercato diverso, alternativo agli altri. Ma la specializzazione si ottiene da un lato con l’investimento dei governi sulla prossima generazione e dall’altro, a livello aziendale, con la formazione specifica del personale. La crisi che viviamo da anni, da così tanti che ormai sembra difficile ricordare come fosse la vita prima, sta distruggendo inesorabilmente il capitale umano attualmente in forza e quello futuro. L’Italia deve trovare una via, diversa dall’austerity, per recuperare il proprio gap. A prescindere da ciò che l’Europa ci chiede. Per il settore della New Economy è, infatti, pressoché impossibile parlare di una traiettoria europea. Questo perché le disparità tra Paesi sono troppo ampie in un numero importante di dimensioni, come saggiamente analizzava Dominique Foray già nel 2000. La struttura degli investimenti in conoscenza, la divisione del lavoro tra pubblico e privato e così via: sono tutti elementi di una diversità tale che è impossibile pretendere lo stesso livello per tutti. Soprattutto tra i Paesi dell’Eurozona e quelli dell’Europa orientale con moneta nazionale e tra quest’ultimi e i cd. PIIGS, svantaggiati rispetto agli altri nelle esportazioni dal cambio con l’Euro. L’alternativa alla roadmap fissata dalla Troika deve necessariamente passare dall’economia dalla conoscenza e dall’abbandono delle politiche di austerity che, finora, hanno soltanto distrutto in nostro bene più prezioso: il capitale umano. In altre parole, il nostro futuro.

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