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La natura italiana dell’impresa non rende italiano il prodotto realizzato altrove: così il Tar Campania boccia la delocalizzazione delle imprese.

di Michele De Sanctis

A causa della crisi, di una certa stasi del mercato interno e della poca attrattività rispetto ai competitor stranieri – specie quelli al di fuori dell’Eurozona – oltreché per un eccessivo costo del lavoro a fronte di una pesante pressione fiscale, sono stati molti gli imprenditori italiani che negli ultimi tempi hanno tentato di far fronte alla congiuntura economica delocalizzando la propria azienda. Per delocalizzazione si intende il trasferimento della produzione di beni e servizi in altri Paesi, solitamente in via di sviluppo o in transizione. In senso stretto, ci si riferisce ad uno spostamento della produzione da imprese poste sul territorio di un determinato Paese ad altre localizzate all’estero. La produzione ottenuta in seguito a questo spostamento dell’attività non è venduta direttamente sul mercato, ma viene acquisita dall’impresa che opera nel Paese di origine per essere poi venduta sotto il proprio marchio. Dal punto di vista economico e sociale, questa pratica è stata – ed è tuttora – oggetto di un aspro dibattito tra chi la considera un importante strumento competitivo e chi, invece, ne evidenzia gli aspetti critici. Il timore principale di alcuni analisti è, infatti, che la delocalizzazione possa impoverire l’economia nazionale, con perdita di posti di lavoro e valore aggiunto. Sotto un profilo sociale, va, poi, considerato che l’effetto immediato della delocalizzazione di un’azienda è il dramma della disoccupazione per chi viene licenziato e dell’inoccupazione per chi nel mercato del lavoro, in assenza di siti produttivi, proprio non riesce ad entrarci.

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Da un punto di vista giuridico, rilevano diversi aspetti di notevole impatto non solo sul diritto privato e commerciale, ma con talune ripercussioni anche in riferimento al diritto pubblico e amministrativo. Si tratta di aspetti per lo più legati alla libera circolazione delle merci e alla regolazione dei mercati e della concorrenza, la cui disciplina è fortemente influenzata dal diritto comunitario. Proprio in relazione al tema della concorrenza tra imprese europee e delocalizzate, si è pronunciato di recente il Tar Campania, con la sentenza n. 4695/2014 (depositata in data 3 settembre 2014).

Questi i fatti: un’impresa italiana, delocalizzata in Cina, aveva risposto a un bando di gara avente ad oggetto “l’affidamento della fornitura di materiale acquedottistico”. L’azienda in questione, che in un primo momento risultava aggiudicatrice della gara, veniva successivamente esclusa. In seguito all’intervenuta revoca dell’aggiudicazione, ricorreva dinanzi al G.A., impugnando gli atti presupposti e consequenziali della procedura d’appalto. Da questi si evinceva che l’esclusione della ricorrente era stata disposta in virtù della dichiarazione di produrre la totalità dei materiali oggetto dell’appalto nella Repubblica Popolare Cinese, senza, peraltro, indicare né la sede di produzione né alcun sito produttivo all’interno della Comunità Europea. La norma che rileva in tale circostanza è l’art. 234, co. 2, d.lgs. 163/2006, che prescrive un limite in capo ai concorrenti provenienti da Paesi cd. terzi: parte dei prodotti originari di questi operatori non deve, infatti, superare il 50% del valore totale dei prodotti che compongono l’offerta di gara.

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Nel rigettare il ricorso, il Tar ha evidenziato come l’art. 234 del Codice degli Appalti definisca in via prioritaria il concetto di Paese terzo, quale Paese estraneo alla Comunità Europea, con cui gli Stati membri non abbiano concluso convenzioni e accordi, multilaterali o bilaterali, tali che assicurino un accesso comparabile ed effettivo delle imprese della Comunità alle gare indette da questi Paesi. La ‘ratio’ di questa previsione (che pone una disciplina speciale, circoscritta ai soli appalti di forniture), risiede nell’esigenza di garantire che l’apertura del mercato degli appalti comunitari a tali Paesi terzi avvenga nel rispetto della condizione di reciprocità, utilizzando quest’ultima come mezzo di discrimine ai fini dell’accesso al mercato unico europeo da parte di operatori esterni all’UE. L’obiettivo è quello di garantire a tutti gli operatori economici un trattamento uniforme: l’ingresso di nuovi soggetti alle commesse pubbliche viene, pertanto contemperato con l’esigenza di assicurare le condizioni minime di tutela della ‘par condicio’ per le imprese comunitarie che partecipano alle procedure di gara. Ciò spiega l’introduzione, su impulso comunitario, di una disciplina speciale che si fonda sulla stipulazione o meno tra CE e i suddetti Paesi terzi, di accordi che garantiscano un accesso comparabile ed effettivo delle imprese comunitarie agli appalti indetti anche in tali Paesi.

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A nulla è servita la tesi difensiva della ricorrente, secondo cui la Repubblica Popolare Cinese avrebbe in passato sottoscritto con l’UE determinati accordi internazionali. Il G.A., di contro, rilevava che tali accordi sono carenti del requisito della reciprocità richiesto dalla norma “Non risulta, infatti, che tale Repubblica abbia concluso un altro accordo internazionale che possa garantire agli operatori economici della CE un effettivo accesso al settore degli appalti di quel Paese con piena reciprocità e dignità giuridica”. Il Tar ha, quindi, affermato che solo con l’adesione al GPA – General Procurement Agreement (accordo pluriennale sugli appalti pubblici siglato nell’ambito dell’OMC) è consentita l’apertura del proprio mercato degli appalti pubblici con piena reciprocità e dignità giuridica nei confronti delle imprese UE, come previsto dall’art. 234 del Codice degli Appalti (cfr. T.A.R. Lazio, sez. I, 2.07.2007, n. 5896).

Nella stessa pronuncia, oltreché chiarire la definizione di Paese terzo, rilevante sotto il profilo soggettivo, il Tribunale Amministrativo campano, si è poi concentrato sul profilo oggettivo dei prodotti. Fondamentale, infatti, è valutare l’origine delle produzioni che compongono l’offerta. L’accertamento in parola si basa sul Codice Doganale (Regolamento CEE n. 2913/92 del 12 ottobre 1992), il quale, all’art. 23, stabilisce che “sono originarie di un Paese le merci interamente ottenute in tale Paese” e, ancora, all’art. 24, dispone che “una merce alla cui produzione hanno contribuito due o più Paesi è originaria del Paese in cui è avvenuta l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, economicamente giustificata ed effettuata in un’impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo od abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione”.

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Il G.A. ha, infine, affermato che con l’art. 234 d.lgs 163/2006 ss.mm.ii (che, peraltro, recepisce il contenuto delle Direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), il Legislatore ha istituito un sistema di preferenza comunitario basato non tanto sulla nazionalità degli offerenti, determinata dal luogo in cui è ubicata la sede legale e amministrativa (nel caso di specie, italiana ma con delocalizzazione integrale della produzione), quanto piuttosto sull’origine dei prodotti. Pertanto, al fine di determinare il campo di applicazione della norma, ciò che rileva è il luogo di produzione del bene e, di conseguenza, la sede dello stabilimento in cui esso viene realizzato, che, di per sé, può non coincidere con il luogo in cui è ubicata la sede legale o amministrativa dell’impresa (cfr. Tar Campania, Napoli, sez. IV, 27.03.2014, n. 1848/2014; Tar Friuli Venezia Giulia, Trieste, sez. I, 15.02.2010, n. 131).

Al di là del caso in esame, si evidenzia che l’art. 234 del Codice degli Appalti non solo prevede al comma 2 la possibilità per le stazioni appaltanti di respingere un’offerta contenente, per oltre la metà del proprio valore, prodotti originari di Paesi terzi. La norma prevede, altresì, un vero e proprio obbligo di operare in tal senso, quando, come disposto dal successivo comma 3, la differenza di prezzo tra un’offerta con le caratteristiche sopra descritte e una che non le presenti sia inferiore al 3%. Tali criteri vengono, peraltro, ribaditi anche dall’AVCP (ora confluita nell’ANAC) nel ‘Libro verde sulla modernizzazione della politica dell’UE in materia di appalti pubblici’, nella sezione dedicata all’accesso dei Paesi terzi al mercato UE.

In definitiva, la natura italiana dell’impresa non rende italiano il prodotto realizzato altrove, anche se la produzione viene effettuata in proprio da soggetto italiano, essendo necessario scindere il profilo soggettivo del produttore da quello oggettivo dell’origine del prodotto, cui fa riferimento l’art. 234 del d.lgs. 163/2006.

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LA RACCOMANDAZIONE NON È SEMPRE REATO: LO DICE LA CASSAZIONE.

Con questo post esamineremo una recente sentenza con cui la Cassazione ha escluso la rilevanza sotto il profilo penale di uno specifico caso di raccomandazione. Tuttavia, prima di procedere, è necessario premettere che quello della Cassazione è un giudizio di legittimità: i giudici di piazza Cavour, cioè, non possono entrare nel merito del contenzioso, il loro non è un terzo grado di giudizio. Per cui né la Corte ha inteso fornire una giustificazione a certe pratiche clientelari né io con questo post intendo promuoverne l’esistenza.
Personalmente, anzi, sulla base delle mie esperienze concorsuali, considero il raccomandato un ladro della peggior specie, che ogni mese non solo ruba denaro pubblico non meritato, ma che, soprattutto, sottrae indebitamente la vita a chi, invece, ne avrebbe avuto diritto, se solo questo fosse stato un Paese onesto.

di Michele De Sanctis

Con Sentenza n. 32035 ud. 16/05/2014 – deposito del 21/07/2014, la Quinta sezione della Suprema Corte di Cassazione ha affermato che non ricorre alcun abuso d’ufficio ex art. 323 c.p. di un pubblico ufficiale in concorso con altri coimputati, in quanto per il concorso morale nel reato di abuso d’ufficio non basta la mera ‘raccomandazione’ o ‘segnalazione’, ma occorrono ulteriori comportamenti positivi o coattivi che abbiano un’efficacia determinante sulla condotta del soggetto qualificato. In particolare, poi, la raccomandazione, benché effettuata da un pubblico ufficiale o da un parlamentare, non integra il reato di abuso d’ufficio qualora avvenga al di fuori delle proprie funzioni.

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Nel caso di specie, ricorrente era un Comandante di una Stazione dei Carabinieri di un Comune in cui era stato bandito un concorso per il quale aveva raccomandato ad un assessore comunale la figlia perché venisse
‘utilmente’ collocata nella graduatoria finale di merito. In favore del Comandante era, però, sopraggiunta pronuncia di non doversi procedere per intervenuta prescrizione. Tuttavia è stato proprio avverso tale pronuncia che l’Ufficiale ha proposto il ricorso, che la Cassazione ha ora accolto, in quanto, si legge in motivazione, “in presenza di una causa estintiva del reato, il proscioglimento nel merito deve essere privilegiato quando dagli atti risulti, come nel caso in esame, la prova positiva dell’innocenza dell’imputato”. I giudici del Palazzaccio, hanno, quindi, ritenuto ininfluenti le intercettazioni telefoniche che dapprima avevano inchiodato il Comandante, inquisito nell’ambito delle medesime indagini che avevano visti coinvolti e successivamente imputati per abuso d’ufficio e falsità in atti il Presidente, i Componenti della commissione, il segretario del concorso ‘incriminato’ e l’assessore comunale.
Il punto della sentenza, infatti, è questo: la mera raccomandazione lascia, comunque, libero il soggetto attivo di aderire o meno alla segnalazione, secondo il suo libero convincimento e per tale motivo non ha efficacia causativa sul comportamento del soggetto attivo.

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La formula assolutoria deve, pertanto, prevalere sulla declaratoria di estinzione del reato per prescrizione anche nel caso in cui si volesse prendere in considerazione, sotto il profilo soggettivo, la raccomandazione effettuata dall’imputato in qualità di Comandante della Stazione dei Carabinieri del Comune in cui il concorso era stato bandito.
Infatti, ache in tal caso, per la Corte, il delitto di abuso d’ufficio sarebbe insussistente perché, come, peraltro, già chiarito dalla Suprema Corte di Cassazione a proposito di raccomandazioni provenienti da un parlamentare (sent. del 09/01/2013, n. 5895) l’abuso ex art. 323 c.p. “deve realizzarsi attraverso l’esercizio del potere per scopi diversi da quelli imposti dalla natura della funzione attribuita”. Dunque, in carenza dell’esercizio del potere (come nella fattispecie in esame, nella quale la richiesta di raccomandazione esula dalle funzioni tipiche connesse al ruolo di graduato dell’Arma dei Carabinieri, rivestito dall’imputato) non è possibile inquadrare la segnalazione di un candidato nel reato di abuso d’ufficio.

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Il reato, in verità, oggi potrebbe esserci, ma all’epoca dei fatti il nostro Codice Penale non lo contemplava. E siccome non c’è reato senza una norma sanzionatoria, comandante e parlamentare devono oggi essere assolti con formula piena. La Cassazione, infatti, non può far altro che decidere sulla base delle norme vigenti a quel tempo, per il principio di non retroattività della legge penale. E perché – lo si è già detto – il suo è un giudizio di legittimità. Il reato in questione si chiama ‘traffico di influenze illecite’. Una figura introdotta nel nostro ordinamento soltanto due anni fa, durante il Governo Monti, dall’art. 1, comma 75, L. 06/11/2012, n. 190 (cd. Legge Anticorruzione) con decorrenza dal 28/11/2012 ed attualmente contenuta dall’art. 346 bis c.p.

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Quindi, parafrasando, fino al 2012 l’Italia era quel Paese dei balocchi, in cui non ci sarebbe stato reato se il comandante della stazione dei carabinieri X avesse chiesto l’assunzione di sua figlia nel comune dell’assessore Y. E lo stesso valeva per Tizio, parlamentare della Repubblica Italiana che tanto caldeggiava la causa di Sempronio, amico degli amici. Sempreché l’azione fosse avvenuta al di fuori delle funzioni esercitate dai signori sponsor. In fondo cosa c’era di male – direbbero loro? Ho solo segnalato un giovane bravo e preparato, sul cui livello di preparazione, tuttavia, noialtri esclusi dovremmo ‘fare a fidarci’ visto che manca del tutto una valutazione oggettiva. In fondo chi è che è rimasto danneggiato? Solo una manciata di aspiranti a quel posto comunale, che, ormai, saranno riusciti a farsene una ragione e avranno continuato a tentare in altri Enti, magari confidando ancora nella correttezza delle istituzioni, e – chissà – fiduciosi di poter riuscire a lavorare un giorno in quel comune avranno forse accettato posti lontano da casa e ancora pazientano per potervi ritornare. O, peggio, una parte di quegli esclusi (che non credo sia riuscita a farsene davvero una ragione) ancora attende un lavoro onesto e meritato. Fiduciosi, tutti quanti, a ogni selezione. Anche se è davvero difficile non perdere questa fiducia, concorso dopo concorso, ingiustizia dopo ingiustizia. Nonostante la Legge Anticorruzione, resta infatti il dubbio che fatta una nuova legge, il leguleio di turno ne abbia già trovato l’inganno. Perché, in fondo, questa è l’Italia.

Clicca QUI per leggere l’intera Sentenza n. 32035/2014.

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RIVOLUZIONE PA: MADIA DISPOSTA A CONFRONTO CON I SINDACATI.

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Forse sarà davvero una rivoluzione, viste le premesse: consultazione dei lavoratori pubblici fino al 30 maggio tramite l’indirizzo di posta elettronica rivoluzione@governo.it, che ha consentito l’integrazione della prossima riforma con suggerimenti e proposte da parte dei diretti interessati. E l’auspicio è che più che una rivoluzione questa sia un vero e proprio terremoto e una ricostruzione, orientata alla semplificazione e alla tecnologia, ma anche e soprattutto alla valorizzazione delle risorse umane: ce n’è bisogno dopo la spending review del governo Monti, che per limitare la spese ha, tuttavia, aggravato un quadro già negativo a causa delle improvvide riforme dell’ex ministro Brunetta e della sua crociata contro la funzione pubblica. Stavolta non ce lo chiede l’Europa, ma l’Italia: la seconda tangentopoli ha dimostrato quanto la carenza di semplificazione nel rapporto con la P.A. e l’eccesso di burocrazia possano facilitare condotte illecite, di cui francamente preferiremmo fare a meno. Nelle sue intenzioni lo stesso premier sembra aver adottato questa linea, almeno stando alle sue dichiarazioni in seguito all’affare Mose.

Rivoluzione, però, lo sarà questa riforma anche (e finalmente) per un ritorno al confronto con le parti sociali. Dopo un decennio di esecutivi trincerati ed ostili al metodo delle concertazioni (con l’unica eccezione dei due anni di governo Prodi), ora l’annuncio di un incontro tra il ministro della Pubblica Amministrazione, Marianna Madia, e tutti i sindacati sulla riforma della P.A. alla vigilia del Consiglio dei Ministri che esaminerà il provvedimento in questione, il prossimo 13 giugno. Il Ministro ha, infatti, convocato le sigle dei lavoratori per la mattinata di giovedì mattina 12, a Palazzo Vidoni, per una riunione in vista degli interventi. E ai 44 punti indicati con il premier Matteo Renzi, a fine aprile, su cui c’è stata la consultazione, ha aggiunto il punto numero 45 sull’agognato rinnovo del contratto del pubblico impiego, attualmente fermo al 2009 (e fino a tutto il 2014). Punto questo, che, nell’ambito della consultazione del Governo, era stato vivamente sollecitato dai sindacati di categoria.

Ritenendo che il blocco della contrattazione abbia “prodotto un danno ingiusto” ai lavoratori pubblici e ricordando l’intervento degli 80 euro in più in busta paga, nel documento che il ministero ha inviato alle organizzazioni sindacali in vista della riunione, la Madia ha affermato che “il tema del rinnovo della parte economica del contratto merita di essere affrontato a partire dal prossimo anno”.

L’incontro con i sindacati, che, comunque, lo stesso Ministro aveva assicurato ci sarebbe stato prima del CdM, sarà a sua volta preceduto dall’appuntamento messo in calendario dalle principali sigle del pubblico impiego, Fp-CGIL, CISL-Fp e UIL-Pa, mercoledì mattina per illustrare le proprie proposte, unitarie, di riforma, che partono dallo riorganizzazione partecipata della P.A. fino allo sblocco del turnover e della contrattazione, senza cui non è neppure possibile parlare di una “vera” riforma.

Sul tavolo del Governo diversi sono i provvedimenti all’ordine del giorno del prossimo 13 giugno: modifica della mobilità volontaria (finora proclamata da ogni Governo, ma di fatto rimasta una sorta di ‘En attendant Godot’) e obbligatoria (anche senza l’assenso del lavoratore, ma con il mantenimento in tale ipotesi dello stesso trattamento economico e precisi limiti geografici); abrogazione del trattenimento in servizio (raggiunta l’età di pensione) che libererebbe oltre 10.000 posti nella PA a costo zero per i giovani (molti dei quali vincitori di concorsi pubblici, imprigionati in graduatorie mai esaurite) e consentirebbe quella staffetta generazionale per un rinnovo efficace ed efficiente dell’Amministrazione; part-time incentivato, considerato un altro strumento utile per creare spazio a nuove assunzioni e favorire conciliazione dei tempi di vita e lavoro e benessere organizzativo; e poi c’è anche la cosiddetta ‘opzione donna’ per le lavoratrici (se scelgono il regime contributivo per andare in pensione con i requisiti ante Fornero). Per coloro vicini alla pensione era anche emersa l’ipotesi di reintrodurre l’esonero dal servizio (con il 65% dello stipendio), ipotesi che, tuttavia, è stata esclusa: nel documento inviato dal ministero ai sindacati, infatti, si ritiene “non opportuno” proporla perché avrebbe un “ritorno marginale oltre che il rischio” di determinare “nuove distorsioni”.

Quanto al turnover, l’obiettivo è di una “urgente” semplificazione, per assicurare maggiori ingressi ma anche consentire a ciascuna Amministrazione più discrezionalità nella programmazione, fermo restando il rispetto dell’equilibrio finanziario: questo anche “ad esempio eliminando il vincolo del computo delle teste”.

C’è poi la questione precariato, una “patologia” con numeri “vergognosi”, come definita nelle settimane scorse dalla stessa Madia, che va superata. Un tema che “chiederemo, nell’incontro di giovedì” che “entri a far parte della riforma”, dice il responsabile dei Settori pubblici della CGIL, Michele Gentile. Un altro di quegli effetti perversi della spending review che, in mancanza di un ricambio generazionale, ha costretto la P.A. ad un eccessivo ricorso all’uso distorto dell’istituto della somministrazione, dei co.co.co. e del t.d., acutizzando un fenomeno, quello del precariato nella Pubblica Amministrazione, la cui soluzione non può attendere oltre.

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REDAZIONE
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Lavoro somministrato nella Pubblica Amministrazione. Quer pasticciaccio brutto della spending review.

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Il decreto 276 del 2003 e successive modifiche, con particolare riguardo a quelle introdotte dal decreto legislativo del 2 marzo 2012, n. 24, sostituendo il lavoro interinale con quello somministrato, ha disciplinato, tra l’altro, la materia del contratto di somministrazione di lavoro applicabile, entro determinati limiti e vincoli, anche alle Pubbliche Amministrazioni. Sebbene, infatti, l’art. 1, comma 2 del decreto in parola escluda espressamente le Pubbliche Amministrazioni e il relativo personale dalla sua applicazione, il successivo articolo 86, comma 9 prevede espressamente che la somministrazione di lavoro trovi applicazione anche alla P.A. limitatamente ai contratti di somministrazione di lavoro a tempo determinato. Si tratta di una norma di raccordo che consente quindi l’applicazione dell’istituto previsto dalla cd. Legge Biagi anche alla Pubblica Amministrazione.

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Più di recente l’Unione Europea è poi intervenuta sul tema con la direttiva 2008/104/CE, pubblicata in G.U.R.I. n. 69 del 22/03/2012, dedicata, per l’appunto, al lavoro tramite agenzia interinale e finalizzata all’armonizzazione dei diversi ordinamenti degli Stati membri così da promuovere il completamento del mercato interno attraverso un miglioramento della vita e delle condizioni dei lavoratori nella Comunità europea. Nel considerando 2 della direttiva si legge che ciò avverrà mediante il ravvicinamento dei diversi ordinamenti soprattutto per quanto riguarda forme di lavoro come quello a tempo determinato, a tempo parziale, il contratto mediante agenzia di lavoro interinale e il lavoro stagionale. Secondo l’Unione, il lavoro tramite agenzia interinale risponde non solo ad esigenze di flessibilità delle imprese, ma anche al bisogno dei dipendenti di conciliare vita professionale e vita privata e può validamente contribuire alla creazione di posti di lavoro e alla partecipazione e integrazione nel mercato del lavoro (v. considerando 11 della direttiva). Difficile in tempi di crisi capire come per l’Unione un lavoro precario e privo di aspettative di carriera (ma anche di stabilità) possa conciliarsi con la vita privata del lavoratore: vita che è naturalmente fatta di progetti, che dinanzi all’instabilità del rapporto lavorativo difficilmente possono essere realizzati. Dal mutuo per la casa ai risparmi per gli studi dei figli. Ai figli stessi: difficile metterne in cantiere uno, a queste condizioni, diciamo anche rischioso.

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Il rapporto somministrato, poi, si complica ulteriormente (ai danni del solo lavoratore, ovviamente) se il lavoro lo si presta in favore di una P.A.: l’art. 97 Cost. regola l’accesso nella stessa e stabilisce la via del concorso pubblico come modalità principale, salvo poi riservare ad alcune categorie protette l’accesso tramite liste di collocamento. Tuttavia, le politiche di contenimento della spesa per il personale nella P.A. previste dalle ultime leggi finanziarie ma anche dai recenti interventi in tema di spending review e anche dalla legge di stabilità, hanno determinato la riduzione delle assunzioni a tempo indeterminato e in alcuni casi introdotto il cd. blocco del turn over, determinando il ricorso all’utilizzo sempre più frequente dei contratti di somministrazione di lavoro temporaneo o di altre forme flessibili di reclutamento, anche in considerazione del favore dimostrato dal legislatore verso tali tipologie contrattuali, soprattutto in seguito alle diverse modifiche apportate all’articolo 36 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e nonostante i vari interventi legislativi sui limiti di spesa.
In termini di opportunità amministrativa, quando non anche politica, è necessaria un’analisi dei costi per valutare la convenienza dello strumento flessibile (ed atipico, lato sensu) che il nuovo mercato del lavoro propone.

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S’è detto che la P.A., soggetto utilizzatore, stipula un contratto di tipo commerciale col somministratore, questo perché la somministrazione prevede tre tipi di rapporti derivanti da due distinti accordi: un rapporto commerciale discendente dal contratto stipulato tra utilizzatore e somministratore, un rapporto lavorativo tra questi e il dipendente che firma un contratto di lavoro con l’agenzia e, infine, un rapporto funzionale tra il lavoratore e l’utilizzatore che si avvale delle sue prestazioni. Per una Pubblica Amministrazione, sottoposta a spending review, ricorrere alla somministrazione significa spendere per un singolo lavoratore più di quanto non farebbe se quell’unità fosse stata selezionata tramite concorso ed assunta a tempo indeterminato, ovvero determinato.
Se in origine il presupposto per ricorrere a tale contratto, ai sensi dell’articolo 20, comma 4, del d.lgs. n. 276/2003, era individuato “nelle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo anche se riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore”, evoluzione/involuzione rispetto alle sole esigenze di carattere temporaneo previste per il lavoro interinale dalla l. 196/97, ora l’articolo 4, comma 1 lettera c), del d.lgs. n. 24/2012, nell’aggiungere all’articolo 20 il comma 5-quater, ha previsto una deroga alle suindicate ragioni di utilizzo del contratto di somministrazione a tempo determinato nelle ulteriori ipotesi individuate dai contratti collettivi nazionali, territoriali e aziendali stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative dei lavoratori e dei datori di lavoro. I CCNL, nei diversi comparti del pubblico impiego, possono, infatti, disciplinare tutti i casi in cui la somministrazione può essere utilizzata per fronteggiare specifici fabbisogni temporanei riguardanti determinate professionalità. L’articolo 2 del CCNL del 14/9/2000, ad esempio, relativo al personale appartenente al Comparto delle Regioni e delle Autonomie Locali prevede che i contratti di fornitura di lavoro temporaneo possano essere stipulati dalle Regioni e dagli enti locali per consentire la temporanea utilizzazione di professionalità non previste nell’ordinamento dell’amministrazione ovvero in presenza di eventi eccezionali e motivati non considerati in sede di programmazione dei fabbisogni o per la temporanea copertura di posti vacanti, per un periodo massimo di 60 giorni e a condizione che siano state avviate le procedure per la loro copertura; ovvero per l’acquisizione di profili professionali non facilmente reperibili o comunque necessari a garantire standard definiti di prestazioni, in particolare nell’ambito dei servizi assistenziali.

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Nel comparto degli EPNE, invece, l’articolo 35 del CCNL stipulato in data 14/2/2001 ammette il ricorso alla somministrazione per particolari fabbisogni professionali connessi all’attivazione ed all’aggiornamento di sistemi di controllo di gestione e di elaborazione di manuali di qualità e carte dei servizi nonché per soddisfare specifiche esigenze di supporto tecnico nel campo della prevenzione e sicurezza degli ambienti di lavoro, purché l’autonomia professionale e le relative competenze siano acquisite dal personale in servizio entro e non oltre quattro mesi.
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Nel comparto degli enti di ricerca, poi, troviamo l’articolo 22 del CCNL stipulato in dato 21/2/2001 (normativo 1998 – 2001 economico 1998 – 1999) il quale stabilisce che il ricorso al lavoro temporaneo deve essere fatto nel rispetto dei divieti posti dalla vigente disciplina legislativa, per soddisfare esigenze a carattere non continuativo e/o a cadenza periodica, o collegate a situazioni di urgenza non fronteggiabili con il personale in servizio o attraverso le modalità di reclutamento ordinario, previste dal D. Lgs. 165/2001 e deve essere improntato all’esigenza di contemperare l’efficienza operativa e l’economicità di gestione.
L’attuale fase di congiuntura economica, la spending review, il piano di rientro relativo all’amministrazione sanitaria di diverse regioni italiane, giustificano sicuramente il ricorso a tale forma di lavoro, stante il blocco delle assunzioni per lo meno relativamente al personale amministrativo. Il Legislatore, da Brunetta in poi, ha preteso dal pubblico impiego standard quali-quantitativi sempre più elevati. La richiesta di efficienza rivolta a lavoratori stipendiati con denaro pubblico è certamente una scelta giusta, giuridicamente ineccepibile, in linea di principio. Tuttavia tale richiesta sembra travalicare i limiti dell’umanamente possibile, se d’altro canto le Amministrazioni non possono procedere al cd. ricambio generazionale se non in percentuali minime nei prossimi anni, quando addirittura le assunzioni di nuovo personale non risultino del tutto bloccate dai criteri introdotti nell’ordinamento italiano dal Decreto Milleproroghe in poi. E se le Amministrazioni Pubbliche sono deputate all’erogazione di servizi, sarà anche necessario che ci sia qualcuno che ‘materialmente’ quei servizi li dispensi. Come far fronte alla carenza di personale se non con la somministrazione? Ed ecco che si profila un circolo vizioso, difficile da spezzare a legislazione invariata (o per lo meno – e per ora – fino al 2017, quando il turnover dovrebbe essere ripristinato). Circolo vizioso perché un Ente costretto al risparmio, di fatto spende per il personale somministrato cifre improponibili in un momento storico come questo.

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Per essere più chiaro userò, a titolo esemplificativo, dei termini impropri, ma di sicuro più efficaci. Io, Amministrazione costretta a limitare le spese anche per il personale, mi ritrovo con quattro impiegati, ma per raggiungere gli obiettivi che la Direzione mi ha imposto, in ragione delle stesse leggi che mi sottopongono a tale regime di austerità, avrei bisogno di almeno dieci dipendenti, così ne affitto altri quattro pagandoli quasi il doppio di quanto pagherei per quattro impiegati neoassunti con una posizione economica di primo livello. Quindi mi ritrovo con otto persone, quando me ne servirebbero invece dieci, e spendo di più di quanto non farei con dieci unità direttamente assunte da me, ma non posso fare diversamente. Non posso perché da un lato c’è il blocco delle assunzioni e dall’altro il mancato raggiungimento degli obiettivi per quest’anno comporterà, per esempio, una minor afflusso di fondi dall’Amministrazione Centrale o dal Ministero nel corso dell’anno venturo.
La domanda è allora quali sono i costi che un’Amministrazione affronta per un lavoratore somministrato? Il costo del lavoro per un lavoratore somministrato deve essere calcolato considerando le seguenti voci derivanti dall’applicazione del CCNL, dal CCNL integrativo e dalla normativa che disciplina il medesimo contratto di somministrazione:
1. retribuzione oraria, tredicesima mensilità, ratei tredicesima, ex festività, permessi retribuiti, ferie, ratei trattamento fine rapporto, oneri assicurativi contributivi. Gli oneri contributivi sono calcolati sulla base del CCNL applicato all’agenzia per il lavoro;
2. trattamento economico accessorio, la produttività, il servizio sostitutivo di mensa mediante buoni pasto e altre voci derivanti dall’applicazione di contratti decentrati integrativi;
3. oneri di costo aggiuntivi previsti dalla normativa che disciplina il contratto di somministrazione. Ad esempio, quelli previsti dall’articolo 12, commi 1 e 2 del d.lgs. n. 276,
sono i cd. fondi per la formazione e l’integrazione del reddito, che i soggetti autorizzati alla somministrazione di lavoro sono tenuti a versare in misura pari al 4 per cento della retribuzione corrisposta ai lavoratori assunti con contratto a tempo determinato per l’esercizio di attività di somministrazione e destinati ad interventi a favore dei lavoratori assunti con contratto a tempo determinato intesi, in particolare, a promuovere percorsi di qualificazione e riqualificazione anche in funzione di continuità di occasioni di impiego e a prevedere specifiche misure di carattere previdenziale (comma 1), e destinati, inoltre, (comma 2) a:
a) iniziative comuni finalizzate a garantire l’integrazione del reddito dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato in caso di fine lavori;
b) iniziative comuni finalizzate a verificare l’utilizzo della somministrazione di lavoro e la sua efficacia anche in termini di promozione della emersione del lavoro non regolare e di contrasto agli appalti illeciti;
c) iniziative per l’inserimento o il reinserimento nel mercato del lavoro di lavoratori svantaggiati anche in regime di accreditamento con le regioni;
d) per la promozione di percorsi di qualificazione e riqualificazione professionale;
4. da ultimo, ma più rilevante di tutti, il ‘prezzo’ di un lavoratore somministrato è dato da possibili scostamenti del costo dovuti a rinnovi contrattuali.

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Limitatamente al punto 4), il valore dell’offerta alla medesima Agenzia dovrà essere aggiornato prevedendo nel contratto una clausola di revisione dei prezzi in ragione dell’aumento del costo del lavoro legato ad aumenti contrattuali. Al riguardo, l’articolo 115, comma 1, del d.lgs. n. 163/2006 prevede che: “Tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa relativi a servizi o forniture debbono recare una clausola di revisione periodica del prezzo. La revisione viene operata sulla base di un’istruttoria condotta dai dirigenti responsabili dell’acquisizione di beni e servizi”.
Alla luce di queste voci di costo, rivolgo a voi la domanda: è opportuno il ricorso alla somministrazione da parte di una P.A. sottoposta a spending review? Anzi, poiché è di soldi pubblici che parliamo, è opportuno il ricorso alla somministrazione, a prescindere dalla fase economica che stiamo attraversando?
È opportuno che la politica consenta questo? E non solo…

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Negli ultimi anni, infatti, la nostra classe dirigente ha introdotto nel mercato del lavoro (evidentemente anche in quello pubblico) la nozione di flessibilità. A parte i maggiori oneri sostenuti dalle Amministrazioni, è possibile ravvisare una convenienza nell’immissione di queste atipiche tipologie di lavoratori anche nel settore pubblico. E in caso affermativo, a chi conviene? La stessa domanda può essere posta da un altro punto di vista: chi seleziona il personale somministrato? Nel Paese del clientelismo è naturale che sorga il dubbio e, come recita un vecchio adagio, a pensar male si fa peccato, ma si sbaglia raramente. Già, perché oltre ai maggiori oneri a carico dell’Amministrazione utilizzatrice, il lavoro somministrato si caratterizza per un’altra preoccupante peculiarità: la totale elusione dell’art. 97 della Costituzione. La ratio della norma costituzionale, benché svuotata del suo contenuto dopo anni di clientelismo, è quella di dotare gli Uffici Pubblici del miglior personale possibile, appunto mediante selezione concorsuale. Di fatto, nei sessant’anni di vita della Costituzione, il clientelismo italiota ha reso il disposto dell’art. 97 operativo solo in alcuni casi in cui è poco probabile che tutti i vincitori siano parenti e amici di chi conta: sono quei maxi concorsi da 300, 400, 500 anche fino a 1000 posti, che ora come ora la Corte dei Conti non potrebbe più autorizzare, salve le eccezioni del personale militare,di polizia e di quello ispettivo in Ministeri ed Agenzie. Chi sceglie, quindi, il lavoratore somministrato? O meglio chi lo segnala? Potremmo argomentare analogicamente partendo dallo svolgimento dei concorsi in certi Enti Locali, in cui si concorre in 700 per un posto solo. Ma lascio a voi le debite conclusioni. Vero è che eccezioni ve ne sono, nei concorsi per un posto solo come anche nel lavoro somministrato. Non tutti hanno la fortuna di conoscere la gente giusta. E mi rifiuto di pensare che il malcostume sia divenuto la sola regola imperante. Capita, infatti, di essere somministrati inizialmente per la sostituzione di una lunga malattia o di una maternità e poi di rimanere a fare quel lavoro anche dopo, magari per una serie di circostanze fortuite, ad esempio perché, nel frattempo, chi sostituivi ha trovato di meglio. C’è poi anche chi è arrivato dall’agenzia senza alcun appoggio per svolgere mansioni talmente infime che nessun ‘amico degli amici’ avrebbe mai accettato. Oggi forse sarebbe diverso, ma fino a sei, sette anni fa, assolutamente no.

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Per esempio, nella mia vita lavorativa ho conosciuto un imbustatore inizialmente assunto a chiamata e poi somministrato: un ragazzo che per poche centinaia di euro imbustava lettere per sei ore ogni due o tre giorni, in un primo periodo, e poi anche tutti i giorni: piegato su una scrivania fantozziana da cui, tra altissime pile di buste, sbucava fuori la sua testa. Io, nel frattempo, ho cambiato lavoro, città e regione, ma so che lui è riuscito a mostrare di saper fare ‘qualcosa’ di più che incollare buste e la dirigenza del suo Ufficio lo ha ‘promosso’ a impiegato. Nel frattempo è stata acquistata un’imbustatrice meccanica e questo giovane senza sponsor si è via via reso indispensabile e prezioso per il suo Ufficio. Di eccezioni ce ne sono, quindi. Ma queste rappresentano la terza ‘croce’ del lavoro somministrato nella P.A.: le competenze che nel tempo vengono acquisite dai lavoratori che fine fanno? Un lavoratore non può essere somministrato a vita in un’Amministrazione Pubblica, pur cambiando agenzia, vi sono dei limiti che impone la Legge, in primis quelli previsti dal D.Lgs 165/2001 per il t.d., e se, nonostante le riserve previste dal decreto D’Alia, la P.A. non indice alcun concorso, l’Ufficio si dovrà privare di un valido elemento per cedere il posto a un altro inesperto somministrato?

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Quanto agli stessi lavoratori vi è, infine, da considerare un quarto ed ultimo problema. Queste persone lavorano con l’ansia perenne del contratto in scadenza, prorogato anche di soli tre mesi in tre mesi, senza alcuna prospettiva futura, senza la possibilità di acquistare neppure un monolocale, anzi nemmeno un TV a rate, perché nessuna finanziaria ne accetterà mai la richiesta. Queste persone, che da contratto osservano l’orario di 36 ore settimanali, di fatto ne fanno molte di più. Per conservare il proprio precarissimo posto farebbero di tutto, di questi tempi. E quel di più non è certo retribuito. Talora è svolto in remoto da casa: fogli Excel, lettere, documenti elaborati la sera tardi affinché siano fruibili e pronti per la firma del Capo Struttura domattina alle otto. Il tutto con la sudditanza psicologica del precario dinanzi al classico impiegato pubblico in attesa della pensione: magari quello entrato con la 285 e che si aggira nei corridoi col bicchierino da caffè in mano e si lamenta ogni giorno della Riforma Fornero che lo obbliga a stare ancora lì, che rivendica pretese sindacali ad ogni ordine superiore e che a sua volta ‘scarica’ le proprie responsabilità sul precario non incardinato.

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A questo punto rinnovo la domanda. Ma a chi conviene tenere ancora certi carichi sul libro paga? Che vantaggio c’è nell’impedire l’accesso nella P.A. a giovani ben più svegli preparati e bisognosi di lavorare. Non c’è spending che giustifichi i costi della somministrazione. Come ho dimostrato, il blocco del turnover è un paradosso contabile. Lasciamo quindi che chi pesa sul bilancio della P.A. senza apportare alcun contributo vada in pensione e lasciamo una volta per tutte la flessibilità fuori dagli Uffici Pubblici, che necessitano di continuità nell’erogazione dei servizi. E infine miglioriamo qualità ed efficienza. Come? Per esempio applicando l’art. 97 della Costituzione.

Michele De Sanctis

A rischio 25mila posti in tutta Italia. Addetti alle pulizie nelle scuole in stato di agitazione.

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I 25mila lavoratori che si occupano delle pulizie nelle scuole italiane, e che rischiano in questi giorni il posto di lavoro, non sono e non devono essere un problema di ordine pubblico. Sono un problema sociale a cui la politica deve dare risposte credibili e convincenti.
Leggete qui cos’è successo a Pomezia:

http://ilmanifesto.it/pomezia-la-polizia-sgombera-con-molta-forza-le-addette-alle-pulizie-di-una-scuola/

Una brutta vicenda che poteva e doveva essere evitata.

MDS