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LA POCHEZZA DELLA TV GENERALISTA CHE ANTONIO RICCI HA VOLUTO RICORDARCI A TUTTI I COSTI. 

Dopo il fantomatico scoop della trasmissione Mediaset ‘Striscia la Notizia’ ai danni di ‘Masterchef Italia’ in onda su Sky Uno, abbiamo fatto qualche riflessione su una certa televisione. E siccome qui ci occupiamo anche di cultura, in questo momento per noi cultura è sconsigliarvi caldamente alcuni programmi. Qualunque trasmissione di Antonio Ricci, per esempio, nuoce gravemente al vostro bagaglio culturale e alla vostra capacità di critica. Analizziamo questa notizia di cronaca e vediamo come e perché vi danneggia. 



Striscia svela l’inganno. Quale poi non si capisce: il programma è registrato e lo sanno tutti. Se lo scoop, poi, era sulla professione del secondo classificato, un controllo in più prima di spoilerare eviterebbe le querele. Ma tant’è. Diversamente non sarebbe Striscia. Diversamente si potrebbe fare spazio a programmazioni più fresche. Ma a decidere non siamo noi. Noi al massimo possiamo scegliere di non guardare certe trasmissioni. E infatti…Solo che certe trasmissioni (quando sono alla frutta) fanno di tutto per far parlare di sé. Un po’ come la mosca che ti si avvicina all’orecchio e che non riesci ad uccidere. Arriva però il giorno che la chiudi fuori dalla finestra e magari è già autunno inoltrato e la mosca morirà da sola.



La domanda, quindi, non è perché l’ha fatto né che ci guadagna? È chiaro che Ricci ci guadagna in termini di pubblicità, perché la puntata di ieri porterà nelle prossime ore un po’ di notorietà a un programma vecchio e stantio ormai ridotto a parlare dei programmi Sky, pur di destare interesse. Anche perché quelli Mediaset fanno gracidare le rane solo per gli alzabandiera di Rocco Siffredi e le beghe familiari di Mara Venier e Simona Ventura. La domanda magari è fino a quando riuscirà ancora a guadagnarci? Un’altra domanda poi è questa: siamo sicuri che Sky sia stata realmente danneggiata? Quanti di noi vedranno comunque la finale? Io credo quasi tutti e anche i non aficionados. Striscia, infatti, ha fatto un regalone a quelli di Sky Uno – la stagione di Masterchef che sta per concludersi è stata un po’ moscia (io l’ho vista) e questo scoop era proprio ciò che ci voleva per tenersi buoni gli sponsor. Solo che probabilmente non era questo l’effetto sperato.



Striscia si dimostra ancora una volta trasmissione d’elezione dell’italiota meschino e poco titolato che spara a zero contro chi è migliore di lui, senza tuttavia fare nulla per cercare di elevarsi dal suo stato primordiale. E nello strillare contro il competitor, gli ha fatto il più grande regalo che potesse confezionare. Il punto drammatico è che nel caso di Ricci lo stato primordiale è una televisione da tubo catodico che ride ancora degli scivoloni altrui, lancia tormentoni stagionali, crea l’immaginario erotico dell’uomo medio con donne maggioratissime, smutandate e quasi sempre fidanzate a un calciatore di serie A che conduce una vita da sogno. Solo che l’uomo medio che si eccita con il calendario della Canalis è in via di estinzione. Non perché si sia evoluto, ma perché si è evoluto il mondo intorno a lui. Può creare il suo immaginario erotico direttamente col porno gratuito offerto da Youporn, ridere delle papere uploadate su YouTube (utilizzate anche da Paperissima Sprint) ed appassionarsi perfino a tormentoni asiatici al ritmo di Gangnam Style. 



Tuttavia, in prima battuta non sono rimasti tutti contenti. A conti fatti, in questa truffa mediatica c’è un grande sconfitto, che in queste ore, grazie ai social network, sta esternando il proprio disprezzo per Striscia e lo scontento dovuto alle informazioni che la trasmissione ha voluto a tutti i costi diffondere. A perdere, infatti, è il pubblico di Sky che paga un abbonamento mensile. E non certo per seguire la puntata nella speranza di una smentita che non arriverà, ma per il gusto di sapere se il cuoco per cui tifa ce la farà o meno. Se non è sacro il divieto di spoilerare una serie TV, sono sacri, invece, i soldi degli abbonati Sky spesi per seguire quella serie in anteprima. Senza che una triste trasmissione intervenga a rovinare il loro divertimento di telespettatori appagati. Ricci non è un genio che sfata il mito e svela ciò che non dovrebbe svelarsi, come fa ogni anno da 20 anni per Sanremo, tanto che ormai è una tradizione noiosa quanto il festival, ma uno che ieri sera, nemmeno troppo tra le righe, ha trattato i clienti Sky come scimmie paganti, come dei perfetti imbecilli da poter beffare in virtù di uno pseudo scoop. Come ha sempre fatto. Attaccando le prede facili (mettendole alla gogna) e facendo ‘giornalismo’ da parrucchiera commentato dai peggiori avventori del bar dello sport. Il tutto farcito con una velina che fa la spaccata, un’altra che si china e mostra mezzo seno, un tenerissimo cagnolino quando c’è la Hunziker e un Gabibbo più insulso del Tenerone e meno intelligente di As Fidanken. A conti fatti, tuttavia, a perderci è anche il pubblico di Canale 5, aizzato come fanno i capipopolo con le masse. E trattato come un organismo privo di raziocinio. 



Ecco perché, nonostante i costi (e la crisi) i clienti Sky continuano a crescere. Ecco perché uno passa a Sky e su certi canali non ci finisce più neppure per sbaglio. Per disperazione! Per non assistere oltre alla quotidiana mediocrità della TV generalista offerta da Mediaset e anche dalla Rai oltreché da tutti gli altri tristi canali free del digitale terrestre. E – si spera – per scordarsi di Antonio Ricci una volta su tutte e ignorare a vita i suoi programmi fatti di tette, culi, gaffe, tapiri e sfottò. E dei fuori onda che propone dagli anni ’90 e dei suoi soliti scoop degni dell’astuta asta del Drive In. Ma soprattutto delle denunce degli inviati di Striscia, connotate tutte da una coerenza di fibra scilipotiana e razziana persistenza nel puntare il dito facendosi i cazzi degli altri fintantoché ciò sia funzionale a farsi i propri. Cioè quelli del padrone. Nessuno si chiede com’è che sulla graticola di Striscia in quasi 30 anni di J’accuse, Berlusconi (condannato con sentenza passata in giudicato) non c’è mai finito? E se per salvare le forme ogni tanto c’è stata la rubrica del Cavaliere Mascarato, perché l’ex cavaliere non è stato mai veramente affidato alla gogna mediatica, vale a dire al pubblico ludibrio riservato a tutti gli altri? Com’è?

A.S. – BlogNomos 

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LE RECENSIONI DI BLOGNOMOS: “SOTTOMISSIONE” DI MICHEL HOUELLEBECQ.

Marchio: Bompiani
Collana: LETTERATURA STRANIERA
Prezzo: 17.50 €
Pagine: 256
EAN: 9788845278709
Formato libro: 21 x 15
Tipologia: BROSSURA

“Sottomissione” di Michel Houellebecq è un libro molto particolare e destinato a far discutere di sé. Uscito in Francia il 7 gennaio, cioè il giorno del massacro alla redazione del giornale satirico Charlie Hebdo e nel supermercato casher da parte di estremistri islamici, il romanzo che prefigura un processo di islamizzazione della Francia ha destato un’enorme impressione. E l’autore per timore di rappresaglie si è sottratto alla presentazione della sua opera in un pubblico dibattito televisivo previsto per quello stesso giorno.

“Sottomissione”, complice una ben orchestrata campagna pubblicitaria, rischia, così, di essere giudicato, per motivi più attinenti alla cronaca recente, piuttosto che per il suo specifico letterario.

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Nel romanzo si ipotizza l’affermazione del partito della Fratellanza Musulmana nelle elezioni presidenziali del 2022 in Francia, dopo il secondo disastroso mandato di Hollande. Siamo in un Paese spaventato dalle spinte xenofobe del Fronte Nationale di Marine Le Pen e sfiduciato dalla pochezza dei partiti tradizionali. Il partito filo islamico è capeggiato da Mohammed Ben Allas, brillante e accorto uomo politico che ha avuto la capacità di convincere, con la sua proposta di islamizzazione della società francese, anche una sinistra sfiduciata che però non può riconoscersi nell’estremismo lepeniano e le forze moderate che non sanno come uscire da una crisi politica così devastante. Ma la crisi che attraversa tutti i vecchi partiti della Francia è anche la crisi della società francese e di tutta l’Europa che vede sbiadire i vecchi valori dell’Illuminismo e non si riconosce più in un cattolicesimo sempre più stanco.

Il racconto di questo mutamento epocale è affidato a protagonista del romanzo: François, un quarantenne in crisi fisica e morale, docente universitario, studioso del decadente Huysmans (e nel corso del romanzo avremo modo di apprezzare i suoi pensieri originali sull’autore tardo ottocentesco e soprattutto sul suo romanzo più noto “ Controcorrente”), che perderà la cattedra, ma a seguito della sua conversione all’Islam, tornerà ad insegnare.

Come appare evidente da queste note siamo in presenza di tre filoni nel romanzo: il processo di islamizzazione della società francese che assume l’aspetto di un pamphlet fantapolitico, la crisi di valori di François e la sua spietata analisi di una società senza amore e senza Dio in cui contano solo il denaro e il sesso sfrenato a cui pure il professore si abbandona ma sempre con più stanchezza e disagio, con la convinzione ormai che non ritroverà il proprio equilibrio attraverso il piacere del corpo. E, infine le acute analisi dedicate alla figura di Huysmans e che forse rappresentano la parte più viva ed originale del romanzo.

Il processo di islamizzazione della Francia serve a Houellebecq per descrivere alcuni aspetti della società contemporanea. La decadenza, l’amoralità, l’aridità e la spinta compulsiva a soddisfare i propri desideri. L’Occidente di Houellebecq è un mondo senza nessuna pietà in cui l’unica legge è quella del mercato. La crisi dei valori fondanti della società occidentale porta lo scrittore alla convinzione che solo l’Islam potrà salvare questa parte di mondo. Né la destra con la sua ideologia debole, né la sinistra con il suo lassismo, né il cristianesimo le cui idee gli appaiono troppo secolarizzate possono essere una valida risposta al bisogno di sicurezza e trascendenza dell’uomo contemporaneo. Se il percorso di Huysmans, deluso da tutto, sarà dal decadentismo al cristianesimo, quello di Houellebecq muove dal nichilismo per approdare a un Islam moderato i cui valori possono convivere con quelli fondanti della società occidentale. Un percorso che ci lascia perplessi perché in altre sue opere, e soprattutto in “Territorio” Houellebecq aveva sempre scritto parole non proprio benevoli contro il fondamentalismo islamico. Ma lo scrittore giustifica questo suo cambiamento di rotta dicendo che la lettura del Corano gli ha mostrato con grande evidenza come quei valori che prima gli sembravano così distanti da lui ora gli sembrano conciliabili con la nostra società e in grado di rivivificarla. Insomma l’Europa non ha più bisogno di un cattolicesimo troppo secolarizzato, né di un laicismo troppo relativista, ma di una religione come quella dell’Islam che offre ancora una dimensione politica di cui ha bisogno per sopravvivere. Una visione totalizzante e totalitaria della religione da cui l’Occidente si è emancipato attraverso l’affermazione della coscienza individuale di Lutero, “l’io penso” di Cartesio e tutte le acquisizioni della separazione fra religione e politica operate dall’Illuminismo e che, a fatica e dopo secoli di contrasti e resistenza, finalmente il cattolicesimo ha fatto suo. Quella che nell’opinione corrente rappresenta la svolta positiva della Chiesa cattolica cioè la sua pacifica convivenza col laicismo, per lo scrittore francese ne segna il limite e l’arretratezza culturale. E’ una posizione veramente difficile da comprendere. Allora ci appare più percorribile la proposta di Camus, un autore che Houellebecq tiene sempre presente nella sua opera e con cui interloquisce anche per contrasto, che di fronte all’assurdità dell’esistenza individua nella solidarietà tra gli uomini uno sbocco positivo. Ma questo punto potremmo citare tanti scrittori e intellettuali, da Thomas Mann a Marcuse ad Adorno, per fare solo qualche nome, che di fronte alla crisi della società contemporanea cercano soluzioni, seppure non sempre convincenti, ma comunque sempre dentro l’alveo di un pensiero come quello occidentale profondamente segnato dalla cultura greco-latina, dall’Illuminismo e dalla religione cattolica.

A conclusione di questa breve analisi di “Sottomissione” ci sentiamo di dire che il brillante e caustico scrittore francese ancora una volta attraverso una sapiente e ben orchestrata scrittura ha dato vita a un’opera che nel suo proposito è destinata fare scandalo, ma che in realtà appare non all’altezza delle sue precedenti prove migliori. Innanzi tutto le tre parti: quella fantapolitica, quella più propriamente esistenziale del protagonista e quella dedicata alla critica dell’opera di Huysmans non sempre sono ben amalgamate tra loro, sebbene l’autore è molto abile nel ricucire, con la ben nota sua capacità di scrittura fluida e urticante le cesure da un filone all’altro. Inoltre c’è da dire che il pamphet fantapolitico è francamente improbabile in una realtà così complessa e articolata come l”Europa. Invece, il resoconto esistenziale del protagonista, un intellettuale in crisi d’identità che trova nel sesso, praticato sempre più stancamente con le proprie allieve, il modo per sopravvivere, è un tema già ampiamente illustrato da Philip Roth nei suoi romanzi e quindi non è una novità e le acute osservazioni su “Controcorrente” sebbene ricco di spunti originali, poteva, come giustamente dice Baricco, nella sua recensione del 20 gennaio 2015 su Repubblica, dare vita a un saggio critico a sè stante. Ma da un po’ di tempo c’è questo vezzo tra gli scrittori contemporanei di mischiare saggio storico, saggio letterario, critica sociale e realtà romanzesca in opere che non rispettano più i confine del genere e che rendono anche difficile capire quanto è attribuibile direttamente al pensiero dell’autore e quanto invece è solo funzionale alla definizione del protagonista del romanzo e dell’ambiente rappresentato.

Stefano De Sanctis
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LE RECENSIONI DI BLOGNOMOS: “IL DOLORE, LE OMBRE, LA MAGIA” DI BANANA YOSHIMOTO.

Titolo: “Il dolore, le ombre, la magia: Il Regno 2”
Autore: Banana Yoshimoto
Editore: Feltrinelli
Collana: I Narratori
Pagine: 105
Data uscita: 15/10/2014
EAN: 9788807031106
Prezzo: Amazon, LaFeltrinelli, inMondadori in versione brossura a €9,35; in versione ebook a €7,99

Felicità ed apatia. Solitudine ed armonia col mondo. Cosa influenza la nostra percezione dell’altro? E di ciò che ci circonda? Sono solo alcune delle domande esistenziali che Banana Yoshimoto da sempre si pone nei suoi romanzi e racconti. E su questi interrogativi, in particolare, torna a riflettere nel suo ultimo lavoro appena pubblicato in Italia per i tipi di Feltrinelli: ‘Il dolore, le ombre, la magia: Il Regno 2’.

Il volume è il secondo della tetralogia iniziata in Giappone nel 2002 e conclusasi lo scorso anno. Nel nostro Paese il nuovo libro della Yoshimoto segue ‘Andromeda Heights: Il Regno 1’, dove l’Autrice esplorava grandi temi come l’abbandono, la perdita, il dolore, la malattia e la guarigione e scopriva come si potesse trovare la felicità anche nelle famiglie più anticonformiste. ‘Andromeda Heights’, era un piccolo romanzo di formazione, dove la giovane protagonista, Shizukuishi, attraversava esperienze di solitudine e separazione, affrontando, nel contempo, il soprannaturale, ma esplorando anche tematiche più concrete come l’omosessualità, ad esempio, e quello che è ormai una sorta di leitmotiv nei testi della Yoshimoto, vale a dire il rapporto con l’ambiente e l’importanza della tutela del paesaggio naturale.
E il tenore del romanzo di formazione resta anche in questo secondo volume, in cui viene descritto un ulteriore percorso di vita.

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La storia prende inizio dalla partenza per l’Italia di Kaede, amico sensitivo, gay ed ipovedente nonché datore di lavoro della protagonista, che, rimasta sola in città, riaffronterà la sua solitudine, ma con una nuova forza interiore, integrandosi nel quartiere, scorgendo ogni giorno piccole gemme di felicità ed imparando a leggere nel cuore delle persone, a svelarne l’anima fragile oltre la maschera di durezza che la gente indossa nella propria quotidianità. Il filo conduttore del romanzo è, quindi, la ricerca di una città diversa, in cui vivere ogni giorno l’incantesimo dell’amicizia e dell’amore, in particolare nel rapporto della protagonista con Shin’ichiro¯.

Quanto allo stile, sebbene la narrazione conservi la tipica impronta ‘shōjo manga’, che costituisce la peculiarità più intrigante di tutti i romanzi di Banana Yoshimoto dando ai suoi racconti la profondità di un haiku, alle prime pagine di questo nuovo libro il testo potrebbe apparire fin troppo semplice, quasi banale. Forse per la semplicità e l’immediatezza del linguaggio rispetto alle problematiche trattate. O per l’approccio che ad esse riserva la protagonista. Tuttavia ‘Il dolore, le ombre, la magia’ non pecca affatto di banalità. In realtà, quest’impressione iniziale è piuttosto dovuta ai tempi narrativi molto lenti. Non c’è azione, non c’è mai tensione letteraria nemmeno nel dolore, il pathos è solo mentale. Eppure ciò non arriva a costituire un difetto.

La verità è che i personaggi di questo libro sembrano quasi dei fiori al loro dischiudersi. Quello che viene raccontato è sempre un dramma già vissuto, il cui alone si dissolve nel racconto dello stesso, come se fosse solo un’ombra, un’idea o una immagine del sé. Shizukuishi, anzi Yoshie, si muove a brevi passi tra passato e futuro nutrendosi di osservazioni minime, piccole esperienze, luci e penombre. Il lettore che vuole apprezzare l’opera deve, dunque, armarsi di una pazienza orientale e scordarsi del tipico plot di stampo occidentale. La pazienza, infatti, si rivela la virtù necessaria per il riadattamento e la scoperta, anche nel rapporto profondo con gli oggetti, come già accadeva nel ‘Regno 1’. La pazienza è la grazia fondamentale anche nel coltivare i nuovi affetti: ci vogliono rispetto, comprensione e generosità. Anche questo, in fondo, è un romanzo di formazione e la protagonista scoprirà che risparmiarsi per paura di soffrire è sbagliato: la vita immune dal dolore è solo un’illusione.

Michele De Sanctis
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LE RECENSIONI DI BLOGNOMOS: ’14 DI JEAN ECHENOZ.

JEAN ECHENOZ, ’14
Letteratura francese
Traduzione italiana di Giorgio Pinotti
Edizioni Adelphi – Collana Fabula
2014, pp. 110
isbn: 9788845929267
€ 14,00

Tra i tanti testi usciti in occasione del centenario della prima guerra mondiale, vorrei segnalare un romanzo apparso un poco in sordina, senza tanti clamori sulla stampa e interviste televisive, ma di grande interesse. Sto parlando di “14” di Jean Echenoz, pubblicato in Francia nel 2012 e in Italia alla fine del 2014 da Adelphi, ( traduzione di Giorgio Pinotti). L’ultima fatica di Echenoz è la conferma della bravura e dell’originalità di uno scrittore che già nelle precedenti prove dedicate alla vita di Maurice Ravel, Emil Zatopek e Nikola Tesla ( Ravel, 2007; Correre, 2009; Lampi,2012) ha ottenuto un notevole successo di pubblico e di critica.

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Il breve, ma denso romanzo appena uscito in Italia, ci riporta, come “ Niente di nuovo sul fronte occidentale” di E.M. Remarque, in quel territorio delle Ardenne che fu teatro di guerra e che vide morire migliaia di giovani soldati francesi in difesa della patria.
E’ il primo agosto del 1914, un sabato mattina luminoso e caldo e il contabile Anthime Sèze che ha il suo giorno libero esce in bicicletta per farsi una passeggiata e per cercare di scacciare dalla sua mente il pensiero della bella Blanche, figlia del proprietario della fabbrica di scarpe presso cui lavora sia lui che suo fratello Charles. La giovane donna, però, ad Anthime preferisce Charles, anche se con lui intrattiene una affettuosa amicizia.
Anthime è arrivato al sommo della collina dalla quale lascia vagare il suo sguardo sull’ameno paesaggio sottostante, allorché viene sorpreso da uno strano fenomeno, del tutto nuovo per lui, una specie di gibigianna che si rimanda da un campanile all’altro dei vari paesi disseminati nella pianura. Passata la prima reazione di meraviglia e sorpresa, si accorge che sono le campane che oscillando mandano lampi di luce: “ Erano in verità le campane, che si erano appena messe in movimento dall’alto delle torri e suonavano all’unisono in un disordine grave, minaccioso, schiacciante, nel quale, benché ne avesse scarsa esperienza – era troppo giovane per aver sino allora partecipato a molti funerali – Anthime ha riconosciuto d’istinto il timbro delle campane a martello, che azionano di rado e di cui gli era appena giunta l’immagine prima del suono. Visto come stava andando il mondo, le campane a martello non potevano che significare mobilitazione.”
E’ l’inizio della Grande Guerra. Nel giro di pochi giorni Anthime, prima che si potesse rendere conto di quale tragedia gli fosse capitata, si ritrova con i suoi amici di bar e di pesca Padioleau, Bossis e Ascenel, oltre a suo fratello Charles, vestito da soldato e in marcia verso il fronte di guerra. Ancora frastornato lo troviamo al suo battesimo di fuoco, tra assalti all’arma bianca, scoppi di granata, fucilate e morti che si accatastano lungo i campi in cui avanzano. Altri scontri seguiranno nei giorni e nei mesi successivi e ripiegamenti e marce forzate e soste dentro trincee maleodoranti e infestate da topi.
Per Anthime la guerra resta un evento oscuro e indecifrabile anche quando con una certa goffaggine si scaglia contro il nemico con la baionetta del fucile che penetra l’aria gelida. Anche la morte del fratello Charles, abbattuto insieme al pilota del Farman F37, mentre effettuavano un volo di ricognizione, rientra nell’assurdità della vita. Come pure gli sembra incomprensibile la morte dell’amico Bossis inchiodato a un puntello della galleria, mentre solo un attimo prima stava parlando con lui. Non meno incredibile è la sorte dell’altro suo amico Ascenel, perché, considerato, suo malgrado, un disertore, finirà i suoi giorni davanti a un plotone d’esecuzione. Padioleau, invece, resterà cieco per colpa di un gas dal profumo di geranio. Anche ad Anthime toccherà la sua dose di insensata sofferenza. Sarà colpito da una scheggia di granata, simile a una levigata ascia neolitica, che, come per regolare una questione privata con lui, va dritta contro la sua persona e gli recide di netto il braccio destro. A questo punto la guerra di Anthime durata cinquecento giorni ha fine ed egli torna al paese e al suo lavoro dentro la fabbrica. E in fabbrica ritrova Blanche che nel frattempo ha avuto una bambina, frutto della sua relazione con Charles. La capacità d’adattamento ad ogni nuova situazione che ha salvato Anthime nei giorni di guerra gli tornerà utile anche una volta dismessi i panni del soldato. Ma non voglio svelare il seguito della storia per non togliere al lettore il gusto della scoperta.
Echenoz, come si evince da queste brevi considerazioni, ha la capacità di mostrarci la tragedia della prima guerra mondiale tenendosi sempre stretto all’orizzonte visivo del suo protagonista e lasciandosi guidare dal suo candore e dalla sua innocenza. Il racconto scorre veloce, essenziale e l’autore non ha bisogno di grandi proclami, di scenari epici e grandiosi, né di retorica per farci entrare nel vivo di una tragedia immane come fu quella guerra che per la prima volta registrò l’uso di armi e tecnologia mai viste prima d’allora.
La scrittura di Echenoz è quella che potremmo chiamare minimalista e per farci entrare nel vivo della guerra gli basta descrivere nei minimi particolari il contenuto dello zaino di Anthime o l’incontro con gli animali che animano quel tragico scenario: maiali, cavalli, buoi e galline che permettono ai soldati di variare una dieta ben grama e altri animaletti che vivono addosso ai soldati e si nutrono del loro sangue e della loro sporcizia.
Insomma siamo in presenza di un bel romanzo che si legge tutto d’un fiato. Utilizzando le pagine di un diario appartenuto a un suo parente e ritrovato fortunosamente, l’autore senza clamori o enfasi ci restituisce in maniera magistrale il clima del conflitto mondiale. Il suo è un modo di raccontare ben lontano dalle testimonianze scritte in presa diretta, come possono essere quelle di Blaise Cendrars o Junker, ancora troppo coinvolte nei fatti narrati. Non ritroviamo nella sua scrittura il coinvolgimento emotivo che avvertiamo leggendo il racconto “La paura” di Federico De Roberto, o la rabbia impotente di fronte alle sofferenze dei soldati e insieme la denuncia della incapacità e del pressapochismo dei generali dell’esercito italiano, così come sono registrati nelle pagine drammatiche di “Un anno sull’altopiano” di Emilio Lussu o ancora l’umanità e il dolore che sprigionano gli episodi raccontati in “Con me e con gli alpini” di Jahier. Bisogna tener conto che sono passati cento anni da quell’evento tragico e l’approccio di Echenoz non poteva ripercorrere le vie già sperimentate da quella letteratura di guerra senza apparire falsa e di maniera. Da questa distanza e da uno sguardo così diverso e spiazzante scaturisce la forza e l’originalità del nuovo romanzo dell’autore francese.

Stefano De Sanctis
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NON POSSIAMO PERDERE LA SPERANZA

di Germano De Sanctis

In seguito all’attentato terroristico avvenuto l’11 settembre 2001, il mondo occidentale ha inizialmente risposto alla minaccia del terrorismo dichiarando guerra alle Nazioni ritenute complici degli attentatori, non risolvendo minimamente il problema e non assicurando ai suoi cittadini alcuna sicurezza.

Infatti, quattordici anni dopo e all’indomani del un nuovo attacco terroristico alla redazione del settimanale parigino Charlie Hebdo, si è reso evidente come il c.d. terrorismo islamico non solo non è stato debellato, ma anzi non è stato minimamente scalfito da anni di politiche di contrasto, attuate anche, come detto, ricorrendo agli strumenti offerti dalla guerra convenzionale.
Inoltre, la nostra libera, pacifica e democratica società europea si è scoperta totalmente incapace di prevenire l’accadimento di eventi di tale portata.

Lo sgomento è amplificato dal fatto che questi attacchi terroristici hanno sempre colpito sempre un simbolo della democrazia occidentale. Infatti, l’attentato alla redazione del settimanale Charlie Hebdo ha come obiettivo simbolico la libertà di stampa. In precedenza, altri simboli del nostro sistema democratico sono stati chirurgicamente colpiti: la scuola a Tolosa (la libertà d’struzione), il museo ebraico di Bruxelles (il divieto di discriminazione), il coffee shop di Sidney (il diritto di riunione) ed il Parlamento del Canada a Ottawa (il diritto di rappresentanza).

In altri termini, emerge una chiara strategia di destrutturare la società civile occidentale, mirando ai suoi luoghi che più rappresentano simbolicamente le libertà conquistate da secoli di lotte democratiche.

La violenza del fanatismo religioso ha provocato un improvviso risveglio delle nostre coscienze che vedono inaspettatamente in pericolo il nostro sistema di valori, cresciuto godendo di un lungo periodo di reciproca e pacifica convivenza e rinnegando i germi malefici che hanno portato allo scoppio della seconda guerra mondiale.

Pertanto, è naturale percepire l’istinto di difendere la nostra democrazia da questo attacco morale e politico, magari opponendoci emotivamente ed irrazionalmente al totalitarismo fanatico, con ogni mezzo possibile, purché rispettoso dei nostri principi etici e di legalità.

Invece, tutti questi eventi impongono una analisi serena e razionale, per comprendere cosa stia realmente accadendo in Europa e nel mondo, senza farsi condizionare dalla vendetta, dall’odio e dall’intolleranza.

Così ragionando, appare necessario rinforzare subito la nostra cultura democratica e tollerante, avendo fiducia e speranza sulle sue potenzialità, nonché abbandonando i sempre più diffusi atteggiamenti critici e disfattisti. Soltanto l’assunzione di un simile atteggiamento può rendere possibile la difesa della nostra democrazia, per trasmetterla intatta alla prossima generazione.

Infatti, promuovere lezioni d’intolleranza razziale e/o religiosa è un’operazione pericolosa, in quanto la diffusione di un simile messaggio può influenzare ampi settori della società, insinuandosi anche nelle sue fasce di età più giovane. Gli atteggiamenti di odio e di discriminazione sono soltanto capaci di risvegliare gli istinti più biechi, rendendo ammissibile ogni misfatto.
In momenti storici di tale delicatezza deve prevalere un atteggiamento responsabile e capace di ripensare completamente il nostro sistema di convivenza civile. Infatti, gli accadimenti che si stanno succedendo dal 2001 hanno delineato un nuovo scenario internazionale, che sta finendo per cambiare irrimediabilmente il mondo ed il modo di pensare di noi occidentali, essendo costretti a rimettere in discussione l’intero nostro sistema di relazioni tra culturale e religioni diverse. Si tratta di un’occasione unica da affrontare con speranza, poiché rappresenta l’unico modo per costruire un futuro migliore, rispetto a quello che l’odio e la xenofobia possono assicurarci.

Pertanto, la guerra e gli atteggiamenti xenofobi non sono la soluzione, in quanto la vendetta non è uno strumento di giustizia, ma soltanto uno strumento per generare altra e maggiore violenza.

Bisogna evitare di finire in una spirale di odio e violenza, per ricercare la pace del mondo attraverso una complessa, ancorché fragile, interconnessione tra le varie ideologie, culture e religioni.
Sin dagli albori della cultura occidentale, la politica, intesa nella sua accezione più nobile, si è distinta per essere il superamento di ogni violenza, nella consapevolezza della sua inutilità a raggiungere qualsiasi scopo.

Dobbiamo interessarci degli aspiranti kamikaze e guerriglieri islamici non per combatterli aprioristicamente, ma per capire quali siano le ragioni più profonde che li rendano disposti ad accettare l’idea della propria morte mediante l’innaturale atto del suicidio. Soltanto in tal modo, sarà possibile fermare costoro e la spirale di violenza che essi sovente generano. Infatti, la storia umana insegna che molto raramente sussiste una correlazione diretta e precisa tra un evento e l’altro, in quanto un numero indefinito di concause producono gli eventi della nostra vita.

Non è, quindi, possibile dividere in modo manicheo quelli che stanno con noi occidentali e quelli contro di noi, in quanto in questo scenario mondiale fluido ed orfano delle ideologie del XX Secolo non vi sono più certezze. Anzi, diventa necessario porre il dubbio alla base dello sviluppo futuro della nostra cultura. Soltanto il dubbio (supportato dalla curiosità) può generare la necessità di conoscere e comprendere le culture diverse dalla nostra.

In altri termini, la ricerca della conoscenza non deve pretendere di ottenere soluzioni univoche, chiare e precise ai problemi del mondo, ma deve ritenere utile porre (anche a se stessi) delle domande oneste, per, poi, ascoltare le risposte altrui.
Un simile atteggiamento culturale ci permetterà di uscire da consunti e banali stereotipi sul terrorismo, in quanto esso, inteso come modo di usare la violenza, può esprimersi in molteplici forme, a volte anche economiche, al punto che è impossibile arrivare ad una individuazione univoca del nemico da debellare.

In passato, i governi occidentali hanno preteso di sapere esattamente chi fossero i terroristi e come andassero combattuti. Invece, come hanno dimostrato i fatti di Parigi, anche questo stereotipo è destinato a dissolversi in un attimo. Soltanto quando la politica si ricongiungerà con l’etica, sarà possibile porre le basi per vivere in un mondo migliore.

Tutto dipenderà da come la politica reagirà a questi ultimi attentati. Come ha giustamente detto Francois Hollande, i terroristi hanno colpito al cuore la libertà e la laicità della società europea, ma non la sua ragione. Di conseguenza, bisognerà impedire che trionfino i rigurgiti anti-islamici, che tenderanno, nel breve periodo, a radicalizzarsi ed a stigmatizzare tutte le popolazioni musulmane. Sarà necessario reagire alla paura crescente di chi si sentirà minacciato, per impedire un pericoloso processo di disgregazione.

La scelta operata dai terroristi islamici di trasformare l’Europa nel loro terreno di scontro d’elezione impone a quest’ultima di muoversi unitariamente, non soltanto sotto gli assetti economici, ma anche e soprattutto politicamente. Occorre, quindi, una politica unitaria dell’immigrazione nell’Eurozona, per non pericolosamente ghettizzare le sempre più numerose minoranze stanziate negli Stati Membri dell’Unione Europea, dove tra l’altro, vivono, già due o tre generazioni di immigrati, che necessitano del rispetto della loro diversità, nell’ambito di uno spazio comune di valori condivisi e dove tutti devono convivere pacificamente.

Se non si ragiona in tal modo, queste minoranze rischiano di diventare oggetto dell’attività di proselitismo dei terroristi. Invece, la loro integrazione, comporterà la loro educazione alla democrazia, al lavoro, ai diritti e ai doveri della civile convivenza. In altri termini, essi possono diventare pienamente cittadini europei, nel rispetto delle loro singole diversità culturali e religiose.
Si tratta di una necessità di equità sociale sempre più cogente, visto l’imponente flusso migratorio proveniente dalla sponda africana del Mediterraneo. Di conseguenza, deve prevalere un intervento politico che contrasti visioni localistiche e protezionistiche, ormai pericolosamente fuori dal tempo. Soltanto se la società europea saprà condannare questi fermenti di odio e di violenza, sarà possibile contrastare e debellare il terrore.

La condanna al messaggio di odio dei terroristi deve passare anche attraverso i medesimi strumenti di propaganda finora usati dagli jihadisti. Quindi, bisognerà ricorrere a forme di mobilitazione di massa che dovranno attraversare trasversalmente proprio quei social network che hanno svolto da cassa di risonanza dei messaggi di odio e distruzione.

In questi giorni, si è riscontrato che la rete internet, attraverso Facebook, Twitter e gli altri principali social network, ha prodotto rapidamente una immediata risposta al messaggio di odio e terrore lanciato dai terroristi. Si tratta di una novità importante. Infatti, nel 2001, ai tempi dell’attentato alle Torri Gemelle, una simile reazione era impossibile a causa, sia dell’assenza delle attuali reti sociali, sia dell’assenza di consapevolezza collettiva del terrore globale.

In altri termini, la rete ha reso possibile una risposta immediata ed internazionale all’orrore, rendendo evidente come la diretta conseguenza della globalizzazione del terrorismo è stata la globalizzazione della sua condanna.

Si tratta di un atteggiamento condiviso importante ed incoraggiante, poiché la nostra società è ormai dominata dalle immagini e dalla comunicazione. E le immagini di morte che hanno visto come protagonisti i terroristi nei pressi della redazione di Chalie Hebdo sono state sopraffatte dalle coinvolgenti immagini ritraenti migliaia di persone scese spontaneamente in piazza a comunicare la loro alterità da tutto questo odio e da tutta questa violenza, indipendentemente dalle proprie rispettive opinioni politiche e religiose.

Siamo di fronte ad immagini che comunicano l’unione e la solidarietà su cui radicare un messaggio di speranza per uno sviluppo civile e tollerante dell’intera comunità mondiale.

Tale ultima affermazione trova anche riscontro nel fatto che nelle piazze vi erano molti cittadini musulmani, che sono le prime vittime morali di simili attentati. Le autorità islamiche francesi hanno avuto il coraggio di dichiarare senza ambiguità la loro condanna alla violenza, intesa anche come violenza interna alla loro religione. Soltanto in tal modo, è possibile non far ricadere su tutti i musulmani che vivono nei Paesi occidentali il sospetto di una loro possibile connivenza e probabile condivisione dei valori di odio e terrore trasmessi dagli jihadisti.

Nella medesima maniera, dovrebbe agire la politica, liberandosi da ogni atteggiamento ipocrita, come quello che permette di tollerare il fondamentalismo religioso (anche islamico) di certi paesi totalitari, soltanto in nome degli interessi economici.

In estrema sintesi, credo che stiamo vivendo un momento storico cruciale per la storia contemporanea, in quanto il mondo occidentale si trova di fronte ad un bivio. Da un lato, l’Occidente può manifestare i primi segnali di una positiva reazione collettiva all’odio ed al terrore, dall’altro, invece, può abbracciare un pensiero totalitariamente xenofobo, abbandonando il proprio destino agli istinti più bassi e segregazionisti e rinnegando tutto il retaggio della cultura della tolleranza che l’Illuminismo ci ha lasciato. Ricordo a tutti che Voltaire, nel suo celebre “Trattato sulla tolleranza”, ha rinvenuto nell’unione tra l’intolleranza e la tirannia la causa del regresso della società civile.

Dobbiamo ricordare, però, che la nostra ferma risposta a coloro che rappresentano il fanatismo deve agire nel rigoroso rispetto del principio di legalità, che è tanto importante, quanto la tutela delle libertà faticosamente conquistate nei secoli passati.

Uno dei rischi più gravi di questo attacco terroristico è che esso stimoli ulteriormente la xenofobia nei partiti estremisti europei (e non), i quali rappresentano un pericolo per la democrazia, alla stessa stregua dei fanatici islamisti.

Questa strage non deve far guadagnare aderenti alle organizzazioni ed ai gruppi che vorrebbero distruggere l’Europa e farla tornare all’epoca dei nazionalismi intolleranti e xenofobi dell’inizio del XX Secolo. L’Europa potrà fermare questa barbarie soltanto se i suoi cittadini saranno uniti in quest’ora difficile, comunicando un messaggio di tolleranza e rispetto reciproco.

Per il momento, le reazioni dell’opinione pubblica e del mondo politico ci consentono di sperare in un processo positivo. Ovviamente, tale spirito unitario e solidale deve essere quotidianamente coltivato, affinché prevalga anche in futuro.

Possiamo cominciare noi stessi, individuando insieme l’elenco di valori comuni che costituiscono il minimo comune denominatore della nostra società democratica e stigmatizzando tutti gli atti ed i fatti violenti che non possiamo subire. In seguito, bisognerà trasmettere tale humus culturale ed ideologico alle generazioni future, abituandole, sin dai primi anni del loro percorso di istruzione e formazione, alla convivenza ed alla tolleranza tra culture e religioni diverse.

Se il mondo occidentale riuscisse a perseguire tale risultato, il terrorismo scomparirebbe da solo, perché non troverebbe più alcun “terreno fertile” su cui attecchire.

Pertanto, è necessario promuovere con ogni mezzo una cultura di pace e di speranza capace di vincere la paura e di costruire ponti tra gli uomini. Infatti, l’unico bene fondamentale è la convivenza pacifica tra le persone ed i popoli, superando ogni differenza di civiltà, di cultura e di religione.

Personalmente, credo che tutto questo sia ancora possibile. Basta avere la speranza in un mondo migliore e privo di odio e diffidenza verso chi è diverso da noi.

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NO, L’OMOFOBIA NON È UN’OPINIONE.

di Andrea Serpieri

Nei giorni scorsi in diverse piazze italiane sono tornate le sentinelle in piedi. Queste figure altro non sono che riedizioni stantie di un Savonarola che la stessa storia ha già condannato, donne che vivono la propria confessione come se fossero replicanti di una Giovanna d’Arco postmoderna, neo-crociati della fede che si battono contro la diffusione delle teorie di genere – strumenti occulti del demonio, con cui il male tenta di farsi strada nell’umanità. Sono, quindi, i paladini del bene, laddove il male è rappresentato da quell’amore che, come cantava Dante, ‘puote errar per male obiecto’. Il male del 2000, infatti, sono i gay. Ed ecco, allora le sentinelle farsi difensori del diritto all’omofobia. Il diritto di dire no all’altrui libertà, se questa libertà fa dispiacere a Gesù, e di recriminare, nel contempo, un razzismo inverso ai propri danni: quello di chi isola gli omofobi come tali. Quando, invece, la loro è solo difesa strenua e santa (e dunque benedetta) della famiglia naturale. Dell’amore puro tra un uomo e una donna (biologici), di quell’amore, che Dante celebrava come ‘lo naturale’, quello che pertanto ‘è sempre senza errore’.

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Lungi da me la condanna del Sommo Poeta, a cui ricorro soltanto per dimostrare la più totale inattualità delle parole con cui le sentinelle difendono le proprie opinioni. Opinioni che, piuttosto, sarebbero state adatte ai tempi dello stesso Alighieri. Meglio ancora: le sentinelle avrebbero trovato il più opportuno spazio alle proprie idee all’epoca della Santa Inquisizione, quando, in un virtuale confronto, perfino gli abitanti dell’Atene del V secolo a.c. sarebbero parsi di mentalità più aperta.

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Sorto all’indomani dell’approvazione del DL Scalfarotto dello scorso anno, questo movimento ha finora manifestato contro i diritti – ad oggi, tuttavia, solo rivendicati, ma nient’affatto riconosciuti – delle popolo LGBTQIA. Sebbene si siano sempre dichiarati aconfessionali e apartitici, le sentinelle manifestano le proprie idee con il sostegno esplicito e per nulla ininfluente delle destre e dei centristi, oltreché della stampa cattolica e delle più alte eminenze ecclesiastiche.

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Se la tesi di fondo delle sentinelle è quella di poter liberamente manifestare il proprio pensiero, BlogNomos che si è sempre occupato, per sua stessa vocazione, di diritti umani e civili e che dell’educazione alla legalità ha fatto il proprio principio ispiratore, propone a voi tutti (e a questi soggetti) una riflessione costituzionalmente orientata su tale affermazione. Invocare l’art. 21 Cost. per manifestare liberamente e legittimamente il proprio pensiero, infatti, non basta. Le norme giuridiche, a partire da quelle alla base del nostro ordinamento, costituiscono un sistema e sistematicamente, quindi, devono essere intese. L’art. 21, per esempio, è annoverato nel Titolo I della Carta, quello dedicato ai Rapporti Civili, che, sebbene contemplati dalla stessa Costituzione, devono, comunque, attendere ai cd. Principi Fondamentali, contenuti nei primi dodici articoli. Questi ultimi individuano le caratteristiche generali, i valori fondamentali, e, potrebbe dirsi, la fisionomia stessa della Repubblica Italiana. Per tale ragione, i principi fondamentali devono essere utilizzati obbligatoriamente per interpretare tutte le altre norme costituzionali, art. 21 compreso. Oltretutto, i principi fondamentali, proprio perché individuano i valori fondamentali di questo Stato, non sono modificabili, salvo l’ipotesi remota di un colpo di Stato. La Corte Costituzionale può arrivare anche ad abrogare leggi ed atti aventi valore di legge, qualora fossero in contrasto con i principi fondamentali. E la giurisprudenza costituzionale, fin da quando il Palazzo della Consulta è stato operativo, ha offerto innumerevoli sentenze, che le sentinelle farebbero forse bene a visionare. Cambiare i principi fondamentali significherebbe, quindi, cambiare il tipo di Stato. I Principi Fondamentali della Costituzione hanno, pertanto, il compito di impegnare i futuri governanti a realizzare norme che traducano in pratica quanto in esse contenuto. Per questo motivo hanno valore di ‘norme programmatiche’. Ora, all’art. 3, la Costituzione della Repubblica Italiana pone questo principio fondamentale:

“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

Dalla lettera del diritto discende che se l’art.3 è un principio fondamentale (e lo è), significa non solo che lo Stato italiano ha l’obbligo di tutelare anche i diritti degli omosessuali, ma che l’istigazione all’odio, così come perpetrata dalle sentinelle, non può essere libertà d’espressione.

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Fatto questo breve quadro sinottico sul diritto costituzionale vigente, sento il dovere (più intellettuale che morale) di contestare alle sentinelle in piedi anche la pretesa (infondata) di spacciare per scientifica e legittima la paura e l’odio che nutrono verso gay, lesbiche e transgender. Dal Rapporto Kinsey in poi, la scienza ha, peraltro, dimostrato che l’omoaffettività non è una patologia e dal 17 maggio 1990 l’omosessualità è stata depennata dal manuale diagnostico e statistico delle malattie mentali e le ricerche più recenti dimostrano come le famiglie omogenitoriali non rappresentino un rischio né per il bambino né per la società civile. Mi chiedo se i libri che le sentinelle portano in piazza rechino queste notizie o se preferiscano la più rassicurante censura…

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In verità, nonostante le sentinelle in piedi si professino pacifiche, ciò che rivendicano è il diritto di discriminare ed opprimere, invocando la negazione delle libertà per tante donne e tanti uomini che considerano ‘diversi’ solo perché assolutizzano un modello di ‘normalità’ che sentono di incarnare e che la società propone come tale. (Chi è patologico?) La loro opinione altro non è che un insulto ai diritti umani. Protestare contro l’introduzione del reato di omofobia e ridurre in questo modo a mera opinione ciò che ha condotto e conduce a tanti episodi di violenza, a tanti casi di suicidio, alle quotidiane aggressioni, agli episodi di bullismo ai danni di fragili ragazzi gay, fino alla violenza psicologica e verbale che in Italia si manifesta anche nelle dichiarazioni pubbliche di ministri come Alfano e in eurodeputati come Buonanno, significa disprezzare il valore assoluto che ogni essere umano, unico ed irripetibile, porta con sé. Significa non avere alcun rispetto proprio della ‘vita’.

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E se i nostri rappresentanti in Parlamento non saranno in grado di tutelare i propri cittadini, sarà compito dell’Unione Europea offrire una tutela all’Italia LGBT. L’Europa non ci chiede solo il pareggio di bilancio.

“Il Parlamento europeo […] ribadisce il suo invito a tutti gli Stati membri a proporre leggi che superino le discriminazioni subite da coppie dello stesso sesso e chiede alla Commissione di presentare proposte per garantire che il principio del riconoscimento reciproco sia applicato anche in questo settore al fine di garantire la libertà di circolazione per tutte le persone nell’Unione europea senza discriminazioni.”
(Risoluzione del Parlamento europeo del 26 aprile 2007 sull’omofobia in Europa, art 8).

“Il Parlamento europeo […] condanna i commenti discriminatori formulati da dirigenti politici e religiosi nei confronti degli omosessuali, in quanto alimentano l’odio e la violenza, anche se ritirati in un secondo tempo, e chiede alle gerarchie delle rispettive organizzazioni di condannarli.”
(Risoluzione del Parlamento europeo del 26 aprile 2007 sull’omofobia in Europa, art 10).

O sarà, forse, la Comunità Internazionale ad imporre all’Italia un comportamento civile? L’Articolo 2 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, ratificata dall’Italia con L. n. 848/55, contiene, infatti, due indicazioni relative alla non discriminazione in genere:

“Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del Paese o del territorio cui una persona appartiene, sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi limitazione di sovranità.”

Il successivo articolo 7 proibisce, poi, ogni forma di discriminazione:

“Tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad una eguale tutela da parte della legge. Tutti hanno diritto ad una eguale tutela contro ogni discriminazione che violi la presente Dichiarazione come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione.”

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No, decisamente l’omofobia non è una di quelle opinioni che le sentinelle possano liberamente manifestare.

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AGOSTO

Agosto è bello starsene a casa con la città vuota nessun rompiballe in giro, magari arrivi che senti la tua solitudine farsi pesante ma è un gioco diverso ed essere soli fa molto più male in mezzo alla gente, allora sì che è doloroso e pungono le ossa e il respiro è davvero brutto, come vivere un trip scannato e troppo lungo.
Da Viaggio in Altri Libertini di Pier Vittorio Tondelli

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ESTATE 2014: VIAGGIARE CON UN LIBRO.

Arriva l’estate e con lei arrivano anche le nostre proposte editoriali per partire equipaggiati. O per volare lontano senza neppure uscire di casa…

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di Michele De Sanctis

Agostino d’Ippona diceva ‘Il mondo è un libro e chi non viaggia ne legge soltanto una pagina’. Che sia vera o presunta l’attribuzione di questa citazione a Sant’Agostino è, tuttavia, importante il concetto che da secoli ci trasmette: il viaggio è il primo strumento per conoscere il mondo. Ma il viaggio non è solo fare le valigie e partire alla scoperta di esotici Paesi. Lo si può fare anche al di là delle ferie, con il libro giusto, per esempio. La lettura è, infatti, un viaggio che, una volta intrapreso, ci conduce nei posti più lontani, offrendo una conoscenza delle mete reali e, cosa che nessun volo di linea potrà mai offrire, del mondo della fantasia. È solo grazie a un libro che, aprendo un armadio, potrete avventurarvi nel magico mondo di Narnia, o attraversare lo specchio per arrivare nel Paese delle Meraviglie, o fare il viaggio di ritorno in mongolfiera con il grande e potente Oz. E le meraviglie in libreria sono infinite. E non solo in libreria: Kobo e Amazon, solo per citarne i più noti, offrono un catalogo infinito di e-book. Viaggiare leggendo, quindi, anche sotto l’ombrellone, ai monti, ai laghi o in città. Leggere per accompagnare un viaggio, o muoversi stando fermi scorrendo le pagine di una storia. Viaggiare, in ogni caso.

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Iniziamo con i consigli di Andrea. Ricordi di un’estate lontana, frammenti di un discorso amoroso durato il tempo di una vacanza, ma mai realmente interrotto. Mentre il racconto ironico della gita sul fiume di tre amici è la sua seconda proposta.

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Titolo: Chiamami col tuo nome
Autore: André Aciman
Editore: Guanda
ISBN: 9788860880673

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Chiamami col tuo nome è il racconto dell’attrazione improvvisa e travolgente che sboccia tra due ragazzi, il diciassettenne Elio – figlio di un professore universitario, in vacanza con la famiglia nella loro villa in Riviera – e un giovane ospite, invitato per l’estate, il ventiquattrenne Oliver, che sta lavorando alla sua tesi di postdottorato. Quell’estate della metà degli anni Ottanta viene rievocata, a distanza di vent’anni, dal più giovane dei protagonisti. Sconvolti e totalmente impreparati di fronte allo scoppiare di questa passione, i due inizialmente tentano di simulare indifferenza, ma con l’avanzare dei giorni vengono travolti da un’inesorabile corrente di ossessione e paura, seduzione e desiderio. Quello che Elio e Oliver proveranno in quei giorni estivi e sospesi in Riviera e durante un’afosa notte romana sarà qualcosa che loro stessi sanno non si ripeterà mai più: un’intimità totale, assoluta, un’esperienza che li segnerà per tutta la vita.

Titolo: Tre uomini in barca
Autore: Jerome K. Jerome
Editore: Bur
ISBN: 9788817060561

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In genere lo si classifica come un libro per ragazzi, ma vale la pena di (ri)leggerlo, perché il divertimento è sempre assicurato. Divenuto ormai un classico della letteratura inglese, questo romanzo racconta le avventure di Jerome, Harris e George: tre amici, una barca e il fiume, perchè nulla è più adatto di una gita per rilassare un po’ i nervi… se non fosse che l’organizzazione fa acqua da tutte le parti. E solo il cane Montmorency sembra godersi questa buffa avventura, ricca di imprevisti, incomprensioni e divertimento.

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Il sole rovente e il caldo torrido fanno da sfondo ai due titoli che vi propongo io. E vi consiglio di attendere le alte temperature per calarvi completamente nella storia.

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Titolo: Io non ho paura
Autore: Niccolò Ammaniti
Editore: Einaudi
ISBN: 9788806207694

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Acque Traverse è un piccolo paesino della Puglia. Il sole è implacabile. Siamo nel 1978 e Michele Amitrano, nove anni, è in giro sulla sua inseparabile bicicletta. Costeggia i campi di grano fino a quella casa disabitata, dove sembra accadere qualcosa di strano. La casa nasconde un segreto cosi grande e terribile da non poterlo nemmeno raccontare. E per affrontarlo Michele dovrà trovare la forza proprio nelle sue fantasie di bambino.

Titolo: Requiem
Autore: Antonio Tabucchi
Editore: Feltrinelli
ISBN: 9788807812828

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In uno stato a metà tra coscienza ed incoscienza, esperienza del reale e percezione del sogno, questo è il racconto dell’ultima domenica di luglio di un uomo che, senza sapersi spiegare come, si ritrova a mezzogiorno in una Lisbona torrida e deserta. Sa di avere delle azioni da compiere, soprattutto sa di dover incontrare un personaggio illustre e scomparso, ma non ha idea di come fare. Si affida così al flusso del caso e, seguendo le libere associazioni dell’inconscio, segue un percorso che lo porterà a ricordarsi (o meglio a vivere il ricordo nell’attualità di quella giornata) di alcune tappe fondamentali della propria vita, spingendolo a cercare di sciogliere i nodi irrisolti all’origine del suo stato allucinatorio.

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Intanto perché non iniziare la stagione con il romanzo cult della riviera romagnola? Ve lo consigliamo entrambi proprio per inaugurare la stagione estiva, quella che ha sempre visto un genere letterario imporsi su tutti gli altri: il giallo. Siamo certi che l’inchiesta estiva di Marco Bauer e le altre storie che si intrecciano a quella del protagonista, fino a diventare romanzo nel romanzo, vi offriranno il miglior weekend (postmoderno) che possiate desiderare.

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Titolo: Rimini
Autore: Pier Vittorio Tonedelli
Editore: Bompiani
ISBN: tel:9788845248399

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Un giornalista milanese scende in riviera per il suo primo incarico importante e viene travolto da una girandola ossessiva di fatti e personaggi. Nella infuocata estate riminese, dominata dal gusto frenetico del divertimento (e magari di perversi piaceri), le storie di un suonatore di sax, di uno scrittore in crisi, di un gruppo di travestiti giocosi e molte altre ancora si intrecciano con la vita quotidiana di chi popola i locali, i caffé, le spiagge, le discoteche.

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Non resta che augurarvi buona lettura, anzi, buon viaggio…

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Don Milani, il sacerdote che difese la vera politica.

Don Lorenzo oggi avrebbe novant’anni, sarebbe uno di quei nostri vecchi (quanti ce ne sono ormai) svegli e curiosi. E invece se n’è andato senza aver raggiunto neppure i quarantacinque, senza arrivare neanche a quel 1968 che le sue parole e i suoi gesti avevano così anticipato e influenzato.

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di Walter Veltroni, da l’Unità del 27 maggio 2014

Don Lorenzo Milani se lo portò via un tumore, ma gli ultimi mesi volle passarli con i suoi ragazzi lì nella canonica di Barbiana, dove insieme avevano scritto quella «Lettera a una professoressa» diventata quasi un libro di scuola, di un’altra scuola.

Barbiana è una frazioncina di Vicchio nel Mugello, tra Firenze e le montagne. Quando don Lorenzo ci finì a fare il prete aveva sì e no duecento abitanti. Un paesetto microscopico e appartato nell’Italia del boom, nell’Italia che aveva smesso di essere rurale e agricola per diventare urbana e industriale. Da quest’angolo quasi sperduto Don Lorenzo Milani seppe guardare avanti e determinare un pezzo del futuro. Del nostro, perché lui non fece neppure in tempo a vederlo.

Oggi, mentre festeggiamo i novant’anni dalla sua nascita e misuriamo la distanza che ci separa dalla sua morte qualcuno si chiederà se la sua storia ha ancora qualcosa da insegnarci, qualcuno penserà che è venuto il momento di lasciarcelo alle spalle. Io penso il contrario. Penso che questo fiorentino colto e irruento, quest’uomo di cui qualcuno ricorda la bontà e qualcun altro il cattivo carattere, è uno di quei padri fondatori di cui l’Italia ha ancora tanto bisogno. Io, quando mi è capitato di partire per una esperienza nuova (che fosse alla fine degli anni Novanta o nel più vicino 2007) son sempre ripartito da Barbiana. Fuori dalla canonica c’è ancora il cartello con su scritto «I care». Che ha a che fare un motto in inglese per quella scuola di ragazzini poverissimi? Tutto: «I care» (difficile tradurlo in italiano, me ne curo, ne prendo cura) è – lo diceva don Lorenzo – il contrario esatto del «me ne frego» dei fascisti, è il segno di una attenzione, di una empatia, di una comunità. Non era il maestro don Milani ad «aver cura» dei ragazzi (quel motto sarebbe stato in questo caso un segno di autoaffermazione), è ognuno di noi a doversi far carico di tutti e di ciascuno.

Dicono che don Lorenzo Milani fosse un maestro esigente, lo era certamente: proprio perché partiva dagli ultimi voleva che questi fossero i primi. Benché il Sessantotto avesse letto e riletto la «Lettera ad un professoressa» (un atto di accusa implacabile alla scuola di classe, che respingeva i poveri, che selezionava a vantaggio dei più ricchi, che escludeva gli ultimi allontanandoli da ogni sapere, e quindi da ogni potere) mi viene il dubbio che l’avesse capita. Il sei politico, il livellamento in basso, il successo facile erano lontani mille miglia dal clima che si respirava nelle aule della canonica o sotto al pergolato in cui si faceva lezione nei mesi di sole. La scuola di Barbiana era insieme dura ed esigente ma era anche collaborativa e amica. Per Don Milani diritto allo studio e affermazione delle pari opportunità, realizzazione del singolo individuo come cittadino e impegno per la pace non furono principi astratti. Erano idee da tradurre nella realtà, parlando al cuore delle persone, con tutte le forze disponibili e (se serviva) pagando in prima persona la coerenza delle proprie posizioni.

Pagina 3 di 3 Don Milani, il sacerdote
che difese la vera politica Di Walter Veltroni 27 maggio 2013 A – A
A novant’anni dalla nascita parole come partecipazione e responsabilità, valori per lui fondamentali, sono anche oggi i cardini di una comunità che vuol essere aperta e inclusiva. Così altrettanto attuale è l’idea della centralità della cultura, e della «politica» intesa nel suo senso più alto, per l’emancipazione degli uomini e per lo sviluppo delle comunità.

Certo, credo che l’Italia di oggi viva problemi (sociali, civili, di tenuta della democrazia) apparentemente molto lontani da quelli dell’Italia dei primi anni sessanta in cui la miseria e l’analfabetismo segnavano ancora tanta parte del Paese. Ma credo anche che le questioni dell’oggi non siano meno gravi, anzi forse esse rischiano di essere più drammatiche perché la spinta alla trasformazione di allora appare attenuata, quasi spenta. Abbiamo bisogno di ricominciare e per farlo le parole sono sempre le stesse, quelle indicate a Barbiana da questo sacerdote scomodo e difficile: partecipazione, responsabilità, voglia di cambiare, pari opportunità, comunità. Declinata certo con i modi e le parole di oggi, ma dalla lezione di un maestro esigente e generoso come don Milani non si scappa se non ci si vuole tradire.

Fonte: l’Unità

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I 10 FILM PIÙ BELLI DI SEMPRE.

“Star Wars: L’Impero colpisce ancora” è ufficialmente il miglior film di tutti i tempi. Beh, almeno secondo i lettori della rivista Empire Magazine e stando all’ormai consueto sondaggio che il magazine propone ai suoi fan ogni anno.

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di Andrea Serpieri

Con la classifica “Greatest Movies”, fin dal primo sondaggio nel 2008, la rivista ha conquistato oltre 250.000 cinefili, che di anno in anno in scelgono le 301 pellicole più grandi di sempre.

La classifica 2014 vede il primo sequel di “Star Wars” detronizzare “Il Padrino” di Francis Ford Coppola, che adesso occupa la posizione numero due.

Questa la top ten 2014 dei film belli di sempre:

1. “Star Wars: L’Impero colpisce ancora”

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2. “Il Padrino”

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3. “Il Cavaliere Oscuro”

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4. “Le ali della libertà”

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5. “Pulp Fiction”

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6. “Star Wars: Episodio IV – Una nuova speranza”

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7. “Il Signore Degli Anelli: La Compagnia dell’Anello”

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8. “Lo Squalo”

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9. “I predatori dell’arca perduta”

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10. “Inception”

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Per vedere l’intera classifica, clicca qui.

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