Il volontariato d’impresa si diffonde in Italia

 

 

di Germano De Sanctis

 

Il volontariato d’impresa si sta affermando tra gli imprenditori italiani. Infatti, i dati statistici indicano come sia in aumento il ricorso a questa particolare strategia di responsabilità sociale d’impresa (cioè, la sfera che tocca scelte e implicazioni etiche nella visione complessiva di un’azienda) da parte del sistema imprenditoriale italiano.

Il volontariato d’impresa consiste nella possibilità concessa dai datori di lavoro ai propri dipendenti di dedicare una o più giornate al mese (di norma, tre) a favore delle associazioni “no profit”, considerandole come normali giornate di lavoro retribuito.

Si tratta di numeri che appaiono non particolarmente rilevanti, se osservati soltanto in termini assoluti, ma estremamente significativi se considerati sotto l’aspetto della loro crescita esponenziale. Infatti, si è in presenza di un dato che emerge chiaramente dalle risultanze dell’ultimo rapporto dedicato a questo settore e redatto dall’Osservatorio Socialis (http://www.osservatoriosocialis.it/) di Errepì comunicazione insieme all’istituto Ixè (http://www.istitutoixe.it/).

Infatti, nel 2011, le imprese che dichiaravano di impegnarsi nella responsabilità sociale d’impresa erano il 64% del campione. Quest’anno, tale dato statistico è salito al 73% delle imprese italiane con più di 80 dipendenti.

Ovviamente, il volontariato d’impresa si esplica in forme decisamente eterogenee, diverse l’une dalle altre. Tuttavia, analizzando bene il fenomeno, è possibile individuare alcuni minimi comuni denominatori.

In primo luogo, tali iniziative si connotano sostanzialmente per le seguenti due modalità d’intervento:

  1. l’impresa interessata promuove azioni di volontariato nelle quali coinvolgere i propri dipendenti, fuori dalla realtà aziendale;

  2. l’impresa interessata organizza azioni di volontariato per i propri lavoratori anche in orario lavorativo.

In secondo luogo, la gran parte delle iniziative di volontariato d’impresa (circa il 42% del totale) si caratterizza per il rapporto instaurato dalle imprese interessate con il proprio territorio di riferimento, ricorrendo sovente al volontariato sociale ivi presente.

Appare interessante notare come l’analisi statistica del fenomeno abbia rilevato il fatto che la maggior parte imprese coinvolte (il 47%) ricorra a tale forma di responsabilità sociale per migliorare la propria reputazione, attraverso un utile riposizionamento dell’immagine ’aziendale. Di conseguenza, gli imprenditori puntano su iniziative ad alta visibilità mediatica (40%), oppure strettamente connesse al tessuto sociale locale (31%). Si deve anche rilevare che un nutrito numero di imprenditori (il 28%) sceglie il volontariato d’impresa per attrarre nuovi clienti e/o migliorare le relazioni aziendali interne (il 27%). Infine, sono rinvenibili anche motivazioni di ordine etico e/o connesse allo sviluppo sostenibile.

Un aspetto molto interessante di tale fenomeno è rappresentato dalla sua capacità d’implementare le conoscenze professionali dei lavoratori coinvolti, al punto da passare, in breve tempo, da esperienze di mero volontariato ad attività produttive certificate. Un simile risultato è reso possibile dal fatto che il volontariato d’impresa è capace di rafforzare le capacità trasversali, attraverso la realizzazione di percorsi di apprendimento non-formali, informali e certificabili.

In altri termini, il volontariato d’impresa è in grado di sviluppare le “soft skills”, ossia le competenze comportamentali (o manageriali, per chi ricopre ruoli di coordinamento). Esse sono quelle competenze emotive e sociali (non tecniche, ma comunque essenziali) ritenute necessarie per poter ambire ad un riconoscimento professionale per chi ha già un lavoro e che sono destinate ad assumere sempre più importanza nel curriculum professionale di ogni lavoratore.

Pertanto, il volontariato d’impresa si trasforma in un volontariato di competenza, in quanto siffatta forma d’intervento da parte delle imprese si traduce in autentica innovazione sociale.

Ovviamente, tale forma di volontariato non si limita a migliorare un curriculum, ma, ovviamente, dona a chi vive una simile esperienza un arricchimento del proprio bagaglio emotivo più intimo.

Affinché questa tendenza si radichi e si diffonda sempre di più, è necessario creare relazioni stabili e radicate tra il sistema imprenditoriale ed il mondo degli operatori no profit. Infatti, a fronte della frammentaria e talvolta episodica attività di fondazioni e di enti intermedi che mettono in contatto imprese e terzo settore, l’attuale legislazione statale di riferimento non prevede alcun sistema incentivante dell’impegno sociale delle imprese, attraverso, ad esempio, incentivi, sgravi fiscali o premialità capaci di strutturare permanentemente il fenomeno in questione.

Infatti, dalle rilevazioni statistiche emerge il fatto che la spinta ad intervenire in tale settore arrivi principalmente dall’opinione pubblica (il 16% del campione vede in essa il sostenitore più convinto della responsabilità sociale), dall’impresa (il 18%), dal terzo settore (il 15%). Invece, le Pubbliche Amministrazioni e le Università sono considerate meno interessate (solo il 5% del campione), a fronte di un 75% del campione che ritiene fondamentale un intervento pubblico in tale settore.

In altri termini, le imprese sono indotte ad adottare forme di volontariato d’impresa soltanto sotto la spinta dell’opinione pubblica o del terzo settore. Si tratta di un sostegno necessario, ma chiaramente non sufficiente e che necessita di un ormai deciso e non più prorogabile intervento da parte della Pubblica Amministrazione.

 

 

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Pillole di globalizzazione. Il poco noto negoziato per un accordo di libero scambio tra UE ed USA

 

di Germano De Sanctis

 

Riprendiamo con questo post, il nostro “viaggio” nell’economia globalizzata, volgendo la nostra attenzione verso uno dei possibili scenari economici del Ventunesimo Secolo.

 

 

Nella quasi indifferenza dell’opinione pubblica occidentale, l’Unione Europea e gli Stati Uniti d’America hanno avviato un importante negoziato sul libero scambio. Tale negoziato è individuato attraverso la sigla TTIP, la quale è l’acronimo di Transatlantic Trade and Investment Partnership (in italiano, Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti).

Come accennato, si tratta di un progetto di accordo di libero scambio tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti d’America, tuttora in fase di fase di negoziato. Tale progetto di accordo, oltre a prevedere una riduzione delle tariffe in tutti i settori, ha anche l’obiettivo di abbattere le barriere non tariffarie. Con il termine barriere non tariffarie, s’intende indicare sinteticamente l’insieme delle differenze nei regolamenti tecnici, nelle norme e nelle procedure di omologazione. Inoltre, il negoziato sul TTIP vuole anche perseguire l’apertura di entrambi i mercati ai servizi, agli investimenti ed agli appalti pubblici.

Le opinioni sul TTIP sono discordanti. Infatti, da un lato vi sono i suoi sostenitori, i quali sono convinti che tale accordo favorirà la crescita economica degli Stati partecipanti. Dall’altra, vi sono i suoi i critici, che sostengono che esso aumenterà il potere delle multinazionali e renderà più difficile ai Governi nazionali il controllo dei mercati per massimizzare il benessere collettivo.

A seguito della divulgazione di una prima bozza del TTIP nel mese di marzo 2014, la Commissione Europea ha avviato una serie di consultazioni pubbliche, limitando, però, l’oggetto di esse ad un numero limitato di clausole contenute nell’accordo in questione.

La bozza del TTIP contiene limitazioni sulle leggi che i Governi partecipanti potrebbero adottare per regolamentare diversi settori economici, con particolare riferimento alle banche, alle assicurazioni, alle telecomunicazioni ed ai servizi postali.

Inoltre, è previsto che qualsiasi entità economica privata, se espropriata dei suoi attuali investimenti, avrebbe diritto a compensazioni a valore di mercato, aumentate di interesse composto. Coerentemente, le entità economiche private potrebbero promuovere azioni legali contro i Governi in presenza di violazione dei loro diritti.

Infine, verrebbe ammessa anche la libera circolazione dei lavoratori in tutti gli Stati firmatari dell’accordo in questione, creando, di conseguenza, il più grande mercato del lavoro del mondo, sottoposto ai medesimi diritti e doveri . Si tratterebbe di un’innovazione le cui conseguenze giuridiche, economiche e sociali segnerebbe le future dinamiche relazionali di una fetta rilevante della popolazione mondiale.

In altri termini, il TTIP è molto più di un semplice trattato commerciale tra Unione Europea e Stati Uniti d’America, in quanto potrebbe influenzare la vita di milioni di consumatori. Tuttavia, nonostante la sua rilevanza strategica per il commercio globale, senza un convinto sostegno da parte dei Governi interessati, la sua definitiva stipulazione non potrà avvenire in tempi brevi.

Infatti, il TTIP rappresenta il più ambizioso tentativo di accordo di libero scambio nella storia. Basti pensare che esso riguarderebbe il 45% del PIL mondiale, ma, ancor di più, il TTIP costituirebbe un valido strumento per abbattere le barriere non squisitamente tariffarie, vale a dire le normative che ostacolano la libera circolazione delle merci. Appare evidente come un simile accordo potrebbe condizionare significativamente l’evoluzione degli scambi commerciali del Ventunesimo Secolo.

Come detto, poc’anzi, sono evidenti i potenziali benefici di una tale liberalizzazione del commercio transatlantico. Ad esempio, uno studio realizzato nel mese di marzo 2013 dal Centre for Economic Policy Research ha ipotizzato che, qualora il TTIP riuscisse a produrre gli auspicati benefici macroeconomici, una famiglia media europea composta di quattro persone potrebbe aumentare il proprio reddito netto di circa € 545 all’anno entro il 2027, in virtù della riduzione dei prezzi e dell’aumento della produttività.

 

 

Tuttavia, attualmente, non vi è alcuna certezza circa la sicurezza di un esito così positivo del TTIP, in quanto le difficoltà da superare sono veramente ancora tante.

In primo luogo, vi è incertezza sulla natura stessa dell’accordo che si andrà a stipulare. Ad oggi, non si sa ancora se il TTIP sarà un accordo globale capace di garantire un’autentica liberalizzazione delle barriere non tariffarie, oppure sarà un accordo “leggero”, limitato al semplice taglio dei dazi doganali

Inoltre, appare evidente, sin d’ora, che il TTIP non influenzerebbe in maniera omogena i vari settori produttivi. Se da un lato, l’industria manifatturiera (ed, in particolare, quella automobilistica) e quella chimica (in particolare, quella farmaceutica) avrebbero molto da guadagnare dalla stipula dell’accordo in questione, il settore agrolimentare (specialmente quello operante nei Paesi mediterranei dell’Unione Europea) potrebbero soffrire dall’abbattimento delle barriere tariffarie (e non) e della diffusione dei prodotti alimentari OGM di origine statunitense, perdendo il valore aggiunto della sua filiera ecocompatibile (che, però, comporta costi aggiuntivi non concorrenziali). Ovviamente, vi è assoluta incertezza anche su come i singoli Governi intendano mitigare questi effetti negativi.

Inoltre, ad incrementare il senso d’incertezza concorre anche la totale assenza di un dibattito pubblico sul TTIP, la cui comunicazione è stata finora affidata alla sola Commissione Europea, mentre i Governi interessati dovrebbero impegnarsi maggiormente per spiegare il progetto di accordo alla propria opinione pubblica.

Oltre alle sue incertezze, il negoziato sul TTIP si sta caratterizzando anche per il serrato e dialettico confronto che sta producendo il tentativo di armonizzare i regolamenti e di rimuovere le barriere non tariffarie. Tale confronto si sta dimostrando un terreno di scontro molto più accidentato di quello concernente i meri dazi doganali.

A tal proposito, si possono fare molteplici esempi. In primo luogo, si può pensare alla regolamentazione sulla sicurezza degli autoveicoli normata diversamente nel mercato statunitense ed europeo, costringendo i costruttori impegnati in entrambi i mercati a rispettare prescrizioni normative molto differenti. Orbene, premettendo che non è possibile statuire se sia più sicura un automobile europea rispetto ad una statunitense e viceversa, la unificazione delle norme in materia di sicurezza degli autoveicoli diminuirebbe significativamente i costi di produzione e, di conseguenza, il prezzo di vendita del prodotto in questione ai consumatori.

Venendo al tema della sicurezza agroalimentare, bisogna subito evidenziare come le indicazioni geografiche protette finora riconosciute solo dall’Unione Europea (come, ad esempio, “prosciutto di Parma”, o “parmigiano reggiano”) sarebbero finalmente legalmente valide anche negli Stati Uniti d’America, sconfiggendo definitivamente le contraffazioni (come, ad esempio, il “parmesan”) e favorendo il riconoscimento di un valore aggiunto alle esportazioni europee afferenti tale settore produttivo.

Pertanto, il maggiore fattore d’incertezza circa l’effettiva realizzazione del TTIP riguarda il fatto che esso intende abbattere tali barriere non tariffarie, le quali sono un ostacolo molto più difficile da superare rispetto ai dazi doganali, ma che, al contempo, sono percepite dalle imprese come elemento d’intralcio all’effettivo esercizio del libero scambio di beni e servizi.

Tuttavia, a fronte di queste difficoltà ed incertezze, i pochi esempi finora riportati evidenziano

 

 

anche il vero valore aggiunto del TTIP, in quanto esso non è un accordo di commercio internazionale avente ad oggetto la mera vendita dei prodotti dei singoli Stati aderenti, bensì è un accordo che verte sulle modalità di produrre beni e servizi in forma omogenea e condivisa, a partire dalla regolamentazione sottesa ad ogni ciclo produttivo.

In estrema sintesi, il TTIP rappresenta un progetto politico finalizzato alla promozione di nuovi e più intensi rapporti tra Unione Europea e Stati Uniti d’America. Infatti, una volta approvato, il TTIP costituirebbe la base fondativa delle nuove regole del commercio del Ventunesimo Secolo, generando una visione dinamica delle stesse, attraverso un futuro dialogo permanente tra Stati in cui tali regole verranno discusse e attuate.

Anzi, alla luce della dirompente crescita delle economie dei Paesi emergenti, il TTIP potrebbe rappresentare l’ultima occasione per i singoli Stati membri dell’Unione Europea per conservare una propria capacità d’influenza nella definizione delle norme di commercio globale.

Personalmente, ritengo che il fallimento del progetto in questione condannerebbe l’Europa all’irrilevanza economica e politica, accentuando il declino già avviato nel corso del Secolo scorso con la fine dell’eurocentrismo.

Proprio al fine di evitare questa potenziale marginalità del Vecchio Continente, il TTIP non dovrà essere pensato come un accordo chiuso e con finalità protezionistiche, ma, anzi, dovrà essere costruito come una forma di cooperazione commerciale internazionale aperta a tutti i Paesi terzi che eventualmente volessero parteciparvi in futuro, ovviamente, nel rispetto delle modalità appropriate di adesione.

Tale ultima affermazione, trova ancor più fondamento se si considera il fatto che gli Stati Uniti d’America stanno contemporaneamente negoziando anche un altro accordo, Si tratta del Trans-Pacific Partnership (TPP), il quale garantirebbe un partenariato commerciale transpacifico che interesserebbe dodici paesi (Stati Uniti, Canada, Giappone, Australia, Nuova Zelanda, Singapore, Malaysia, Brunei, Vietnam, Cile, Messico, Perù). Si tratta di un accordo commerciale politicamente più difficile da concludere, in quanto coinvolgerebbe Stati connotati da salari più bassi di quello statunitense e dall’assenza di norme di tutela ambientala e di sicurezza sui luoghi di lavoro.

Tuttavia, tali ultime considerazioni devono fare i conti con il fatto che il negoziato sul TTIP coincide temporalmente con una fase di ripensamento critico del fenomeno della globalizzazione, a seguito dei sempre più emergenti riflussi nazionalisti, che hanno prodotto una diffidenza dell’opinione pubblica del Vecchio Continente nei confronti della tecnocrazia dell’Unione Europea. Le ultime elezioni per il Parlamento Europeo hanno fotografato chiaramente questa situazione, segnando la forte avanzata delle correnti politiche euroscettiche e fortemente protezionistiche. Nel frattempo, gli Stati Uniti d’America si stanno avviando alle c.d. elezioni di “medio termine”, le quali concorreranno a rendere il quadro meno chiaro finché non si saranno svolte.

In questo quadro, s’inserisce, complicando il quadro generale, la volontà statunitense di utilizzare il TTIP ed il TPP anche per contenere l’espansione economica e commerciale della Cina, od almeno per spingere quest’ultima ad impegnarsi più seriamente in iniziative di commercio globale.

 

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LA BLACKLIST DEI MESTIERI MESSI A RISCHIO DALL’ABBANDONO DELLA CARTA.

Riprendiamo oggi uno studio di cui vi abbiamo già parlato in precedenza, per approfondirne alcuni aspetti. Le nuove tecnologie stanno influenzando il nostro stile di vita. E il lavoro. Il progressivo abbandono della carta, in particolare, avrà nei prossimi anni degli effetti fino a ieri inimmaginabili.

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di Michele De Sanctis

La dematerializzazione dei documenti cartacei inizia a produrre i suoi effetti. Le conseguenze, se da un lato hanno un impatto ambientale minimo, in ordine a uno sviluppo sostenibile ed ecologicamente orientato, grazie soprattutto al supporto che la tecnologia è in grado di offrirci, dall’altro hanno un impatto pesante e sicuramente più preoccupante da un punto di vista sociale e, in particolar modo, lavorativo. Secondo il rapporto 2014 di Careercast, infatti, tutti i mestieri collegati alla carta saranno destinati ad estinguersi entro dieci anni. Postini, tipografi, taglialegna e giornalisti: sono tutti lavori che subiranno una certa influenza dalla rivoluzione in atto.

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Lo studio di Careercast ha preso in considerazione 200 tra mestieri e professioni legati al cartaceo utilizzando i dati del Bureau of Labor Statistics. In fondo alla classifica troviamo il portalettere, la cui quotidiana funzione, con l’uso sempre più diffuso delle email verrà progressivamente a venir meno. Resterà la consegna dei pacchi a domicilio, mentre per la raccomandate esistono già protocolli informatici che sostituiscono la valenza giuridica della ricevuta di ritorno, nel caso italiano la posta elettronica certificata. Ricordiamo, peraltro, che già da un anno, per l’esattezza dal primo luglio 2013, da noi vige l’obbligo per le comunicazioni tra PA e tra PA e aziende di utilizzare la PEC e che dallo scorso 6 giugno, sempre per le PA, è stato introdotto anche l’obbligo di fatturazione elettronica, altro documento che non sarà più necessario spedire, potendo essere, invece, inserito in un’apposita piattaforma, a seconda dell’Amministrazione competente.

Secondo Careercast, invece, se la caveranno bene tutte le professioni che hanno a che fare con numeri e statistiche. È evidente che alcuni tra i lavori peggiori di oggi sono gli stessi destinati all’estinzione, appunto perché l’offerta di quel tipo di impieghi inizia a scendere, parimenti alle relative condizioni economiche e – spiace dirlo – lavorative, a fronte di una diminuita domanda del mercato di quel tipo di prodotti.

Bene, secondo Careercast, anche i professori universitari, che insieme ai matematici, agli statistici e agli attuariali vengono considerati come i più “resistenti” al processo di dematerializzazione.

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Contestualmente si stima, tuttavia, un calo del 13% nelle assunzioni di reporter nei giornali entro il 2022 – il che non dovrebbe stupire nessuno, visto il profondo stato di crisi in cui versa tutto il settore della carta stampata da che è nato il concetto di “giornale online” e si sono diffusi blog di attualità. La reazione a catena include calo degli abbonamenti, contrazione dei ricavi da pubblicità e quindi redazioni al minimo. Il caso de L’Unità qui in Italia è solo un esempio tra molti sulla scena internazionale. Indipendentemente dalla connotazione politica che vuol darsi a questa vicenda, in tale discorso, purtroppo, contano i numeri, la pubblicità. I soldi. Non le idee. Perché se vogliamo parlare di quelle…la mia è che la notizia di una testata che smette di diffondere la sua voce è di per sé triste. È il pluralismo congenito alla democrazia che viene a mancare: è un lutto civico.

Ma tornando alla nostra classifica, dopo il postino, tra i mestieri più a rischio si evidenziano anche i mestieri di agricoltore, lettore di centralina, agente di viaggio, assistente di volo, tipografo ed esaminatore e taglialegna. Il rapporto, tuttavia, a fronte di questi lavori in via estinzione, stima un equilibrato ricambio con nuove ed efficienti figure professionali 3.0.

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È una rivoluzione copernicana questa, che sicuramente influenzerà i nostri stili di vita e la nostra vecchia visione del mondo, la cui valutazione oggettiva (positiva o negativa) sarà, però, possibile solo quando diverrà realmente effettiva. Da cliente Amazon e Kobo, quindi da lettore di ebook, e da assiduo frequentatore di librerie, voglio, tuttavia, sostenere fin da adesso che, a mio avviso, il piacere di entrare in libreria ed acquistare un libro, la sensualità che offre l’atto di sfogliare un volume intonso, quello di toccare la carta fresca di stampa e affondare il naso tra le pagine di un libro, respirandone l’odore della carta, della colla e dell’inchiostro, sono esperienze insostituibili, a cui mi rifiuto di rinunciare. Per cui, ben vengano le nuove professioni 3.0, le mail, i tablet e gli ebook reader (sui quali è possibile leggere in formato ePub e PDF anche quelle opere che per ragioni commerciali non sono state più ristampate o quei brillanti autori emergenti che incontrano non poche difficoltà a farsi conoscere dal grande pubblico) e ben venga, soprattutto, lo sviluppo ecosostenibile, ma il mio personale auspicio è che, almeno in campo editoriale, ci venga lasciata la facoltà di scelta. L’auspicio è che quello del libraio non sia un mestiere destinato a sparire. Come faremmo senza il nostro pusher di sogni? Senza il nostro rifornitore abituale di cultura? E se ai sogni aggiungo la parola cultura è perché spero che neppure il libro scientifico debba essere costretto a trasformarsi in un codice binario. Non vorrei veder chiudere le librerie universitarie per nulla al mondo. Passare il dito su un ebook non è come evidenziare una parola e glossare un testo non sarà mai paragonabile ad una nota interattiva. In fondo, lo sviluppo di internet e delle nuove tecnologiche ha ulteriormente agevolato il calo dei lettori: oggi si vuole tutto e subito e bastano i titoli dei post nella home di Facebook per farsi un’idea del mondo. Per cui, se è vero che noi consumatori di libri siamo sempre meno (spero non destinati all’estinzione), che impatto potremmo avere sull’ambiente, se poi la carta può anche essere riciclata?

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Breve commento alla Riforma del Terzo Settore


di Germano De Sanctis

Nel corso della giornata del 10 luglio scorso, il Consiglio dei Ministri ha approvato la Riforma del Terzo settore, al termine della lunga e partecipata consultazione online avviata a metà maggio, dopo la presentazione delle linee guida degli interventi.

Nello specifico, si tratta di un disegno di legge delega per la riforma del Terzo Settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del Servizio Civile Universale. Tale disegno di legge si compone di sette articoli e prevede una serie di interventi normativi da attuare attraverso il conferimento al Governo di apposite deleghe legislative. L’intero impianto normativo persegue l’introduzione di nuove misure per la costruzione di un rinnovato sistema che favorisca la partecipazione attiva e responsabile delle persone, singolarmente od in forma associata, nonché la valorizzazione del potenziale di crescita e occupazione insito nell’economia sociale e nelle attività svolte dal Terzo Settore, anche attraverso il riordino e l’armonizzazione di incentivi e strumenti di sostegno.

Per capire la rilevanza della riforma in questione, si evidenzia che attualmente operano nel Terzo Settore circa 4,7 milioni di volontari, 681 mila dipendenti, 270 mila lavoratori esterni e 5 mila lavoratori temporanei. Sono numeri significativi che la natura strategica del ruolo svolto nella società italiana contemporanea da parte dei servizi complementari al welfare statale .
Con tale riforma, il Governo intende riorganizzare tutto il settore, promuovendo le imprese sociali, finanziandole attraverso la promozione dei social bond e la stabilizzazione dell’istituto del “5 x mille”. A corollario di quest’intento, è stato previsto il rilancio del servizio civile svolto dai giovani, con l’obiettivo di avere almeno 100 mila “civilisti” nel primo triennio della riforma in questione.
Il Governo ha anche chiarito di aver reperito le necessarie coperture finanziarie ammontanti in circa 200-250 milioni circa per il servizio civile, cui devono aggiungersi circa 60-70 milioni per il 5 x mille. Si evidenzia che tali risorse costituiscono una prima tranche di finanziamento, poiché, secondo le associazioni del Terzo Settore, l’intera riforma comporterà un impegno finanziario complessivo di circa 1,5 miliardi di euro.

Esaminiamo nel dettaglio il contenuto del provvedimento in questione.

 

Articolo 1 – L’oggetto e le finalità

Il Governo è delegato ad adottare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi contenenti una disciplina organica per il riordino e la revisione della disciplina degli enti e delle attività diretti a promuovere e realizzare finalità solidaristiche e di interesse generale, anche attraverso la produzione e lo scambio di beni e servizi di utilità sociale, in attuazione del principio di sussidiarietà, al fine di valorizzare il potenziale di crescita ed occupazione ed elevare al contempo i livelli di cittadinanza attiva, coesione e protezione sociale, favorendo la partecipazione, l’inclusione e il pieno sviluppo della persona.

Si evidenzia che la realizzazione di tale disciplina organica, potrà eventualmente avvenire anche attraverso l’adozione di un Testo Unico e/o attraverso modifiche al Libro I, Titolo II del Codice Civile.

 

Articolo 2 – La disciplina degli enti

I predetti decreti legislativi delegati devono disciplinare la costituzione, l’organizzazione, le forme di governo ed il ruolo degli enti impegnati nello svolgimento delle attività dirette a promuovere e realizzare finalità solidaristiche e di interesse generale che, con finalità ideale e senza scopo di lucro, promuovono percorsi di valorizzazione della partecipazione e della solidarietà sociale, mediante una presenza significativa o prevalente di attività di volontariato, ovvero producono beni e servizi di utilità sociale, anche attraverso forme di mutualità con fini di coesione sociale.
In particolare, tali decreti legislativi dovranno attenersi ai seguenti principi e criteri direttivi:

  1. semplificazione del procedimento per il riconoscimento della personalità giuridica;
  2. individuazione delle attività e delle finalità soggettivamente non lucrative che caratterizzano tali enti e dei vincoli di strumentalità dell’attività commerciale rispetto alla realizzazione degli scopi istituzionali;
  3. disciplina delle modalità e della misura di utilizzo dell’attività volontaria degli aderenti e dei limiti di remunerazione dell’attività dei dirigenti e degli amministratori; 
  4. previsione del divieto di distribuire utili, anche in forma indiretta, e previsione di forme di remunerazione del capitale sociale nel rispetto di limiti prefissati;
  5. rafforzamento dell’autonomia statutaria e definizione di modalità di governo e di gestione degli enti ispirate a principi di democrazia, uguaglianza, pari opportunità, partecipazione dei lavoratori e degli utenti e trasparenza, anche tenuto conto delle peculiarità della compagine e della struttura associativa; 
  6. previsione di modelli organizzativi degli enti e di responsabilità degli organi di governo differenziati in ragione della dimensione economica dell’attività svolta e dell’impiego di risorse pubbliche;
  7. individuazione di criteri e modalità per l’affidamento dei servizi agli enti improntati al rispetto di requisiti minimi di qualità ed impatto sociale del servizio, obiettività e trasparenza;
  8. revisione e riorganizzazione del sistema di registrazione degli enti e di tutti gli atti di gestione rilevanti improntate a criteri di semplificazione, attraverso la previsione di un registro unico di settore, anche al fine di favorirne la piena conoscibilità su tutto il territorio nazionale;
  9. individuazione di specifiche modalità di verifica e controllo dell’attività svolta e delle finalità perseguite;
  10. rafforzamento e valorizzazione del ruolo di tali enti, anche nella fase di programmazione degli interventi a livello territoriale;
  11. previsione di strumenti che favoriscano i processi aggregativi degli enti;
  12. mantenimento della disciplina prevista dalla legislazione speciale in materia di cooperazione allo sviluppo; 
  13. istituzione di un organismo nazionale indipendente con compiti di indirizzo, promozione, vigilanza e controllo delle attività degli enti, ai cui oneri di costituzione e funzionamento si provvede a valere sulle ordinarie risorse umane, strumentali ed economiche allo stato in dotazione alle amministrazioni coinvolte nonché nell’ambito di quanto previsto dall’art. 6, comma 1, lett. c) del disegno di legge delega in questione.

 

Articolo 3 – Le attività associative, di volontariato e di promozione sociale

L’articolo 3 si compone di una delega al Governo, al fine di procedere al riordino ed alla revisione dell’attuale disciplina in materia di attività associative, di volontariato e di promozione sociale, in particolare della legge-quadro sul volontariato (Legge 11 agosto 1991, n. 266) e della legge di disciplina delle associazioni di promozione sociale (Legge 7 dicembre 2000, n. 383), nonché, in relazione al contributo statale a favore delle associazioni nazionali di promozione sociale, la Legge 15 dicembre 1998 n. 438 e la Legge 19 novembre 1987 n. 476, nonché di diverse e ulteriori attività associative.

A tal fine, sono individuati i seguenti principi e criteri direttivi:

  1. armonizzazione delle diverse discipline vigenti in materia di attività associative, di volontariato e di promozione sociale;
  2. promozione della cultura del volontariato tra i giovani, anche attraverso apposite iniziative da svolgersi nell’ambito delle attività scolastiche;
  3. riconoscimento e valorizzazione delle reti associative di secondo livello;
  4. revisione e promozione del sistema dei Centri di servizio per il volontariato e valorizzazione e riordino delle funzioni di indirizzo e di controllo dei Comitati di gestione; 
  5. revisione e razionalizzazione delle finalità, della composizione, dei compiti e del funzionamento dell’Osservatorio nazionale per il volontariato e dell’Osservatorio nazionale dell’associazionismo sociale.

Articolo 4 – L’impresa sociale

Il disegno di legge delega ha, altresì, previsto che i decreti legislativi delegati dovranno procedere al riordino ed alla revisione dell’attuale disciplina in materia di impresa sociale, in particolare della disciplina dettata dal D.Lgs. 24 marzo 2006, n. 155.

A tal proposito, il Governo, nell’esercizio della delega, dovrà rispettare i seguenti principi e criteri direttivi:

  1. eventuale superamento dell’attuale disciplina dell’attribuzione facoltativa della qualifica di impresa sociale;
  2. ampliamento dei settori di attività e individuazione dei limiti di compatibilità con lo svolgimento di attività commerciali diverse da quelle di utilità sociale;
  3. previsione di forme di remunerazione del capitale sociale e di ripartizione di utili, nel rispetto di condizioni e limiti prefissati;
  4. possibilità di accedere a forme di raccolta di capitali di rischio tramite portali online, in analogia a quanto previsto per le start-up innovative;
  5. disciplina delle modalità di attribuzione della qualifica di impresa sociale alle cooperative sociali e ai loro consorzi;
  6. introduzione di misure fiscali volte a favorire gli investimenti di capitale nelle imprese sociali.

Articolo 5 – Il servizio civile nazionale universale

L’articolo 5 contiene una delega al Governo con la quale si possa procedere al riordino e alla revisione dell’attuale disciplina in materia di servizio civile, in particolare della disciplina dettata dal D.Lgs. 5 aprile 2002, n. 77 e della legge istitutiva del servizio civile nazionale (Legge 6 marzo 2001, n. 64), finalizzata all’istituzione di un servizio civile nazionale universale.
Tali decreti legislativi dovranno attenersi ai seguenti principi e criteri direttivi:

  1. previsione di un meccanismo di programmazione almeno triennale dei contingenti di giovani, anche stranieri, che possono essere ammessi al servizio civile nazionale universale e di procedure di selezione ed avvio dei giovani improntate a principi di semplificazione e trasparenza; 
  2. previsione di criteri e modalità di accreditamento degli enti di servizio civile universale; 
  3. previsione di un limite di durata del servizio civile nazionale universale che contemperi le finalità del servizio con le esigenze di vita e di lavoro dei giovani coinvolti e della possibilità che il servizio sia prestato, in parte, in uno dei paesi dell’Unione europea nonché, per iniziative riconducibili alla promozione della pace e alla cooperazione allo sviluppo, anche nei paesi al di fuori dell’Unione europea;
  4. riconoscimento delle competenze acquisite durante l’espletamento del servizio civile in funzione della spendita nei percorsi di istruzione e in ambito lavorativo;
  5. previsione di meccanismi e strumenti che, attraverso il coinvolgimento di soggetti pubblici e privati, possono favorire l’inserimento lavorativo dei giovani che hanno prestato il servizio civile nazionale universale.

Articolo 6 – Le misure fiscali e di sostegno economico

Il Governo ha previsto una specifica delega legislativa in materia di riordino ed armonizzazione della disciplina tributaria applicabile agli enti impegnati nello svolgimento delle attività dirette a promuovere e realizzare finalità solidaristiche e di interesse generale. Quest’ultimi saranno anche destinatari di diverse forme di fiscalità di vantaggio, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.

Questi specifici decreti legislativi dovranno rispettare i seguenti principi e criteri direttivi:

  1. introduzione di un regime di tassazione che tenga conto delle finalità solidaristiche e di utilità sociale dell’ente, del divieto di ripartizione degli utili e dell’impatto sociale delle attività svolte dall’ente; 
  2. razionalizzazione del regime di deducibilità e detraibilità delle erogazioni liberali disposte in favore degli enti impegnati nello svolgimento delle attività dirette a promuovere e realizzare finalità solidaristiche e di interesse generale, al fine di promuovere i comportamenti donativi delle persone e degli enti;
  3. razionalizzazione e stabilizzazione dell’istituto della destinazione del 5 per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche in base alle scelte espresse dai contribuenti in favore degli enti impegnati nello svolgimento delle attività dirette a promuovere e realizzare finalità solidaristiche e di interesse generale e semplificazione delle procedure per il calcolo dei contributi spettanti agli enti;
  4. introduzione di meccanismi volti alla diffusione dei titoli di solidarietà e di altre forme di finanza sociale finalizzate a obiettivi di solidarietà sociale e riduzione della spesa pubblica;
  5. individuazione di modalità per l’assegnazione agli enti impegnati nello svolgimento delle attività dirette a promuovere e realizzare finalità solidaristiche e di interesse generale degli immobili pubblici inutilizzati e dei beni immobili e mobili confiscati alla criminalità organizzata improntate a criteri di semplificazione e di celerità, anche al fine di valorizzare in modo adeguato i beni culturali e ambientali.

Articolo 7 – Disposizioni finali

Gli schemi dei predetti decreti legislativi saranno adottati nel rispetto della procedura di cui all’art. 14, Legge 23 agosto 1988, n.400, con conseguente trasmissione alle competenti Commissioni di Camera e Senato per l’espressione dei pareri, entro trenta giorni dalla data di trasmissione. Decorso tale termine, i decreti saranno emanati anche in mancanza dei predetti pareri.
Dall’attuazione delle deleghe contenute nel disegno di legge delega in questione non dovranno derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.
Infine, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore dei decreti legislativi in questione il Governo potrà adottare, attraverso medesima procedura poc’anzi descritta, eventuali disposizioni integrative e correttive dei decreti medesimi, tenuto conto delle evidenze attuative nel frattempo emerse.

 

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Breve analisi della nuova disciplina del FEG per il periodo 2014-2020

 

 

di Germano De Sanctis

Premessa

Il Regolamento (UE) n. 1309 del 17 dicembre 2013 1 disciplina il Fondo Europeo di Adeguamento alla Globalizzazione (c.d. FEG) per la durata del quadro finanziario pluriennale intercorrente dal 1° gennaio 2014 al 31 dicembre 2020.
Tale provvedimento abroga il precedente Reg. (CE) n. 1927/2006 (così come modificato dal Reg. (CE) n. 546/2009), con il quale il fondo in questione è stato istituito con finalità di reinserimento professionale in un mercato del lavoro seriamente compromesso dagli effetti della globalizzazione.
Infatti, il processo di globalizzazione dei mercati ha prodotto effetti talmente negativi in materia di occupazione, al punto da spingere le Istituzioni comunitarie a predisporre strumenti volti al recupero delle professionalità dei lavoratori ed al loro reinserimento nel mercato del lavoro.
Esaminiamo sinteticamente gli aspetti più salienti del Reg. (UE) n. 1309/2013.

L’ambito di applicazione

Il FEG intende contribuire ad una crescita economica intelligente, inclusiva e sostenibile, nonché vuole promuovere un’occupazione sostenibile in un’ottica di solidarietà e sostegno ai lavoratori collocati in esubero e ai lavoratori autonomi la cui attività sia cessata:

  • in conseguenza di trasformazioni rilevanti della struttura del commercio mondiale dovute alla globalizzazione;
  • a causa del persistere della crisi finanziaria ed economica globale;
  • a causa di una nuova crisi economica e finanziaria globale.

In particolare, l’art. 2 Reg. (UE) n. 1309/2013 individua l’ambito di applicazione del FEG, prevedendo che le domande presentate dagli Stati membri devono riguardare azioni indirizzate a:

  1. lavoratori collocati in esubero e lavoratori autonomi la cui attività sia cessata in conseguenza di trasformazioni rilevanti della struttura del commercio mondiale dovute alla globalizzazione, dimostrate in particolare da un sostanziale aumento delle importazioni nell’Unione Europea, da un cambiamento radicale del commercio di beni e servizi nell’Unione Europea, da un rapido declino della quota di mercato dell’Unione Europea in un determinato settore o da una delocalizzazione di attività verso paesi terzi, a condizione che tali esuberi abbiano un impatto negativo di rilievo sull’economia locale, regionale o nazionale;
  2. lavoratori collocati in esubero e lavoratori autonomi la cui attività sia cessata a causa della crisi finanziaria ed economica globale.

I criteri d’intervento

L’art. 4, par. 1, Reg. (UE) n. 1309/2013 circostanzia i criteri d’intervento, prevedendo che può essere concesso un contributo finanziario a valere sul FEG quando le condizioni ex art. 2 Reg. (UE) n. 1309/2013 comportano come conseguenza:

  1. il collocamento in esubero di almeno 500 lavoratori o la cessazione dell’attività di lavoratori autonomi, nell’arco di un periodo di riferimento di quattro mesi, in un’impresa di uno Stato membro, compresi i lavoratori collocati in esubero e i lavoratori autonomi la cui attività sia cessata alle imprese dei fornitori o dei produttori a valle dell’impresa in questione;
  2. il collocamento in esubero di almeno 500 lavoratori o la cessazione dell’attività di lavoratori autonomi, nell’arco di un periodo di riferimento di nove mesi, in particolare in PMI, tutte operanti nello stesso settore economico definito a livello delle divisioni della NACE revisione 2 (n.b.: si tratta della classificazione statistica comune delle attività economiche nella Comunità europea così come definita dal Reg (CE) n. 1893/2006), in una regione o due regioni contigue di livello NUTS 2 3 , oppure in più di due regioni contigue di livello NUTS 2, a condizione che il numero complessivo di lavoratori o di lavoratori autonomi in due regioni combinate sia superiore a 500 (n.b.: NUTS è l’acronimo di Nomenclatura delle Unità Territoriali Statistiche, la quale ripartisce il territorio della UE a fini statistici; in particolare, il livello NUTS 1 distingue le aree geografiche (gruppi di regioni), il livello NUTS 2 le regioni e il livello NUTS3 le province).

Appare evidente la semplificazione operata rispetto al previgente Reg. (CE) n. 1297/2006, il quale prevedeva il collocamento in esubero di almeno 1000 lavoratori.

L’art. 4, par. 2, Reg. (UE) n. 1309/2013 prevede anche un ulteriore criterio d’intervento applicabile in circostanze eccezionali, qualora i predetti criteri di cui sopra non siano completamente soddisfatti. In particolare, siffatto criterio ricorre in presenza di mercati del lavoro di dimensioni ridotte, ovvero in presenza di circostanze eccezionali debitamente giustificate dallo Stato membro, con particolare riferimento alle domande collettive che coinvolgono le PMI e sempre che gli esuberi abbiano un grave impatto sull’occupazione e sull’economia locale, regionale o nazionale. Si evidenzia che, in tale ipotesi, lo Stato membro richiedente ha l’obbligo di specificare quale dei criteri d’intervento di cui ai precedenti punti 1) e 2) non risulti essere interamente soddisfatto e che, comunque, l’importo cumulato dei contributi non può eccedere il 15 % dell’importo annuo massimo del FEG.

Il calcolo degli esuberi e delle cessazioni di attività

L’art. 5, par. 1, Reg. (UE) n. 1309/2013 definisce i criteri di calcolo degli esuberi e delle cessazioni di attività, prevedendo che ogni Stato membro richiedente deve precisare il metodo utilizzato per calcolare, ai fini dell’art. 4Reg. (UE) n. 1309/2013, il numero di lavoratori e di lavoratori autonomi di cui all’art. 3 Reg. (UE) n. 1309/2013.
Il Reg. (UE) n. 1309/2013 impone ad ogni Stato membro l’obbligo di chiarire alla Commissione Europea il metodo utilizzato per effettuare il calcolo in questione, il quale deve tenere comunque conto di una delle seguenti date, quali termini da cui far decorrere il conteggio:

  • dalla data in cui il datore di lavoro (conformemente all’art. 3, par. 1, Dir. 98/59/CE), notifica il piano di collocamento in esubero collettivo all’autorità pubblica competente per iscritto; in tal caso, lo Stato membro che ha presentato la domanda fornisce ulteriori informazioni alla Commissione sul numero reale di lavoratori collocati in esubero;
  • dalla data in cui il datore di lavoro notifica il preavviso di licenziamento o di risoluzione del contratto di lavoro;
  • dalla data della risoluzione di fatto del contratto di lavoro o della sua scadenza;
  • dalla fine dell’incarico presso l’impresa utilizzatrice;
  • per i lavoratori autonomi, dalla data di cessazione delle attività determinata conformemente alle disposizioni legislative o amministrative nazionali.

I beneficiari

L’art. 3 Reg. (UE) n. 1309/2013 chiarisce che, per beneficiario, s’intende:

  1. un lavoratore il cui contratto di lavoro si sia concluso anticipatamente per collocamento in esubero, oppure giunto a scadenza nel corso del periodo di riferimento di cui all’art. 4 Reg. (UE) n. 1309/2013 e non rinnovato;
  2. un lavoratore autonomo che abbia impiegato un massimo di dieci lavoratori che erano stati collocati in esubero nell’ambito di applicazione del Reg. (UE) n. 1309/2013 e la cui attività sia cessata, a condizione che quest’ultima dipendesse in maniera dimostrabile dall’impresa di cui all’art. 4, par. 1, lett. a), Reg. (UE) n. 1309/2013, oppure che, ai sensi dell’art. 4, par. 1, lett. b), Reg. (UE) n. 1309/2013, il lavoratore autonomo operasse nel settore economico in questione.

Ai sensi dell’art. 6, par. 1, Reg. (UE) n. 1309/2013, i beneficiari ammissibili possono essere:

  1. i lavoratori collocati in esubero e i lavoratori autonomi la cui attività sia cessata durante il periodo di riferimento previsto all’art. 4 Reg. (UE) n. 1309/2013;
  2. i lavoratori collocati in esubero e i lavoratori autonomi la cui attività sia cessata prima o dopo il periodo di riferimento di cui all’art. 4, par. 1, lett. a) Reg. (UE) n. 1309/2013 (cioè 4 mesi);
  3. i lavoratori collocati in esubero e i lavoratori autonomi la cui attività sia cessata, se una domanda presentata a norma dell’art. 4, par. 2, Reg. (UE) n. 1309/2013 non risponde ai criteri stabiliti dall’art. 4, par. 1, lett. a), Reg. (UE) n. 1309/2013.

I lavoratori e i lavoratori autonomi di cui alle precedenti punti 2) e 3) sono considerati ammissibili, a condizione che siano collocati in esubero o che la loro attività sia cessata dopo la notifica generale del progetto di licenziamento e a condizione che possa essere stabilito un chiaro nesso causale con l’evento da cui hanno avuto origine gli esuberi durante il periodo di riferimento.

L’art. 6, par. 2, Reg. (UE) n. 1309/2013 contiene un’importante deroga che consente agli Stati membri richiedenti, fino al 31 dicembre 2017, di fornire servizi personalizzati, cofinanziati dal FEG, per un determinato numero di NEET (not in Education, Employment or Training) di età inferiore ai 25 anni (o ai 30 anni, se lo Stato membro decide in tal senso), uguale al numero dei beneficiari interessati, dando la priorità ai collocati in esubero o la cui attività sia cessata. L’unica condizione richiesta per poter usufruire di tale possibilità è che almeno una parte degli esuberi sia collocata in regioni di livello NUTS 2, ritenute ammissibili nell’ambito dell’iniziativa per l’occupazione giovanile (c.d. Garanzia Giovani).

Le azioni ammissibili

Ai dell’art. 7, par. 1, Reg. (UE) n. 1309/2013, il FEG può finanziare misure attive del mercato del lavoro, nell’ambito di un pacchetto coordinato di servizi personalizzati volti a facilitare le reintegrazione nel mercato del lavoro dipendente o autonomo dei beneficiari interessati, più nello specifico, i disoccupati svantaggiati, giovani e meno giovani.
Il pacchetto coordinato di servizi personalizzati può comprendere, in particolare:

  1. la formazione e la riqualificazione su misura anche per quanto riguarda le competenze nel campo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e la certificazione dell’esperienza acquisita, l’assistenza nella ricerca di un lavoro, l’orientamento professionale, i servizi di consulenza, il tutoraggio, l’assistenza al ricollocamento, la promozione dell’imprenditorialità, l’aiuto alle attività professionali autonome, alla creazione e al rilevamento di imprese da parte dei dipendenti nonché le attività di cooperazione;
  2. misure speciali di durata limitata, quali le indennità per la ricerca di un lavoro, gli incentivi all’assunzione destinati ai datori di lavoro, le indennità di mobilità, le indennità di soggiorno o di formazione (comprese le indennità di assistenza);
  3. misure volte a incentivare in particolare i disoccupati svantaggiati, giovani e meno giovani, a rimanere o ritornare nel mercato del lavoro.

A tal proposito, il Reg. (UE) n. 1309/2013 evidenzia che la progettazione del pacchetto coordinato di servizi personalizzati dovrebbe tener conto delle prospettive future del mercato del lavoro e delle competenze richieste e che il pacchetto in parola dovrebbe essere compatibile con il passaggio a un’economia sostenibile nonché efficiente sotto il profilo delle risorse.

Invece, l’art. 7, par. 2, Reg. (UE) n. 1309/2013 dichiara non ammissibili a un contributo finanziario a valere sul FEG:

  1. le misure speciali di durata limitata di cui all’art. 7, par. 1, lett. b), Reg. (UE) n. 1309/2013, che non sono condizionali alla partecipazione attiva dei beneficiari interessati ad attività di ricerca di lavoro e di formazione;
  2. le misure che rientrano nella sfera di responsabilità delle imprese in virtù del diritto nazionale o di contratti collettivi.

Inoltre, le azioni sostenute dal FEG non possono sostituire le misure passive di protezione sociale.
È interessante evidenziare come l’art. 7, par. 3, Reg. (UE) n. 1309/2013 valorizzi il rapporto con il partenariato, in perfetta coerenza con l’intera programmazione dei fondi SIE per il periodo 2014-2020, prevedendo che il pacchetto coordinato di servizi personalizzati debba essere elaborato in consultazione con i beneficiari interessati, i loro rappresentanti o le parti sociali.

Le domande di ammissione al contributo

Ai sensi dell’art. 8, par. 1, Reg. (UE) n. 1309/2013, lo Stato membro presenta la domanda di contributo alla Commissione entro dodici settimane dalla data in cui sono soddisfatti i criteri di intervento di cui all’art. 4, par. 1 o 2, Reg. (UE) n. 1309/2013, che, per essere considerata completa, deve contenere diversi elementi indicati in dettaglio nell’art. 8, par. 5, Reg. (UE) n. 1309/2013, tra i quali meritano una particolare attenzione:

  1.  un’analisi motivata del collegamento tra gli esuberi o la cessazione dell’attività e le trasformazioni rilevanti nella struttura del commercio mondiale od il grave deterioramento della situazione economica locale, regionale e nazionale in seguito alla globalizzazione o al persistere della crisi finanziaria ed economica globale oppure a una nuova crisi finanziaria ed economica globale;
  2. la conferma che l’impresa che ha proceduto al licenziamento, qualora le sue attività siano proseguite anche in seguito a tale provvedimento, abbia adempiuto agli obblighi di legge in materia di esuberi accordando ai propri lavoratori tutte le prestazioni previste;
  3. una descrizione del pacchetto coordinato di servizi personalizzati e delle relative spese, comprese in particolare le eventuali misure a sostegno delle iniziative per l’occupazione dei beneficiari svantaggiati, giovani e meno giovani; una spiegazione in merito alla complementarità del pacchetto di misure rispetto alle azioni finanziate da altri fondi nazionali o dell’Unione, nonché informazioni sulle iniziative che rivestono un carattere obbligatorio per le imprese interessate in virtù del diritto nazionale o di contratti collettivi;
  4. una stima dei costi per ciascuna delle componenti del pacchetto coordinato di servizi personalizzati;
  5. le date di avvio, effettive o previste, dei servizi personalizzati; le procedure seguite per la consultazione dei beneficiari interessati, dei loro rappresentanti o delle parti sociali nonché delle autorità locali e regionali o eventualmente di altre organizzazioni interessate;
  6. una dichiarazione di conformità dell’assistenza FEG richiesta alle norme procedurali e sostanziali dell’Unione in materia di aiuti di Stato, nonché una dichiarazione che spieghi i motivi per cui i servizi personalizzati non si sostituiscono alle misure che rientrano nella sfera di responsabilità delle imprese in virtù del diritto nazionale o di contratti collettivi.

La complementarità, la conformità ed il coordinamento

L’art. 9, par. 1, Reg. (UE) n. 1309/2013 specifica che i contributi finanziari a valere sul FEG non sostituiscono le azioni che rientrano nella sfera di responsabilità delle imprese in virtù del diritto nazionale o di contratti collettivi.
L’assistenza a favore dei beneficiari interessati integra le azioni realizzate dagli Stati membri a livello nazionale, regionale e locale, comprese quelle cofinanziate da fondi dell’Unione (cfr., art. 9, par. 2, Reg. (UE) n. 1309/2013), nel rispetto delle norme di diritto dello Stato membro e dell’Unione Europea, anche per quanto concerne le norme in materia di aiuti di Stato (cfr., art. 9, par. 3, Reg. (UE) n. 1309/2013).
A tal proposito, lo Stato membro che ha presentato la domanda garantisce che le azioni specifiche finanziate dal FEG non ricevano assistenza anche da altri strumenti finanziari dell’Unione, con particolare riferimento al Fondo Sociale Europeo (cfr., (cfr., art. 9, par. 5, Reg. (UE) n. 1309/2013).

La determinazione del contributo finanziario

L’art. 13 Reg. (UE) n. 1309/2013 prevede che il tasso di cofinanziamento del contributo FEG non possa superare il 60% del totale dei costi sostenuti.
Si ricorda che l’art. 12 Reg. (UE) n. 1311/2013 ha previsto il fatto che, nell’ambito del quadro finanziario pluriennale per il periodo 2014-2020, gli stanziamenti del FEG non debbano superare un importo massimo annuo di 150 milioni di Euro e che debbano essere iscritti nel bilancio generale dell’Unione Europea a titolo di stanziamento accantonato.

Il pagamento e l’utilizzo del contributo finanziario

Ai sensi dell’art. 16, par. 1, Reg. (UE) n. 1309/2013, il contributo finanziario allo Stato membro interessato viene versato, da parte della Commissione, in un unico pagamento di prefinanziamento pari al 100%.
Lo Stato membro realizza le azioni ammissibili il prima possibile e comunque entro 24 mesi dalla data di presentazione della domanda. Lo Stato membro può decidere di posticipare l’avvio delle azioni ammissibili per un massimo di tre mesi dalla data di presentazione della domanda. In tal caso, le azioni ammissibili sono attuate entro 24 mesi dalla data di avvio comunicata dallo Stato membro nella domanda (cfr., art. 16, par. 4, Reg. (UE) n. 1309/2013).

 

La relazione finale e la chiusura

L’art. 18, par. 1, Reg. (UE) n. 1309/2013 prevede che entro sei mesi dalla scadenza del termine di 24 mesi, lo Stato membro debba presentare alla Commissione una relazione finale sull’attuazione del contributo, contenente le seguenti informazioni:

  1. il tipo di azione e i principali risultati ottenuti;
  2. i nomi degli organismi responsabili dell’esecuzione del pacchetto di misure nello Stato membro;
  3. le caratteristiche dei beneficiari interessati ed il loro status occupazionale;
  4. l’eventualità che l’impresa, salvo che si tratti di microimpresa e PMI, abbia beneficiato di aiuti di Stato o di precedenti finanziamenti a valere sul Fondo di coesione o dei fondi strutturali dell’Unione nei cinque anni precedenti;
  5. una dichiarazione giustificativa delle spese indicante, ove possibile, la complementarità delle azioni con quelle finanziate dal Fondo sociale europeo (FSE).

Entro sei mesi dalla ricezione delle predette informazioni, la Commissione procede alla chiusura del contributo finanziario, determinandone l’importo finale ed eventualmente il saldo dovuto allo Stato membro interessato (cfr., art. 18, par. 2, Reg. (UE) n. 1309/2013).

Infine, l’art. 21 Reg. (UE) n. 1309/2013 sancisce la responsabilità dello Stato membro relativamente alla gestione delle azioni che beneficiano del sostegno FEG, unitamente al controllo finanziario di tali azioni. A tal fine, lo Stato membro deve garantire una valida collaborazione con la Commissione anche in materia di controlli in loco, i quali possono essere effettuati da quest’ultima sulle azioni finanziate, anche mediante selezioni a campione.

 

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LA TOP TEN DEI POSTI COL CLIMA PERFETTO.

Dopo un mese di giugno piovoso e capriccioso – ma siamo sicuri che quello appena finito non fosse marzo? – finalmente il sole è tornato a splendere sull’Italia. Pare tuttavia che non durerà: il meteo già pronostica l’arrivo di un vento freddo, ribattezzato Gea, che la prossima settimana spazzerà via l’attuale corrente calda, Titano. E se l’estate appare ancora singhiozzante, possiamo però provare a immaginarci in un posto dal clima perfetto, nè troppo caldo, né troppo piovoso e nemmeno tanto umido, un posto in cui ogni nuovo giorno sembra replicare gli scatti patinati di un depliant di promozioni turistiche. Riuscite a immaginare una vita intera in un luogo del genere? No? Poco male, perché qui la fantasia non c’entra nulla: quei posti esistono davvero. Leggete la top ten di oggi: quella delle dieci località dal clima perfetto.

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La Top Ten è stata stilata dal sito ambientalista Mother Nature Network. Nella classifica figurano località poco note, come la cittadina di Kunming posta a 1.800 metri sopra al livello del mare in Cina e Durban che sorge sulla costa orientale del Sud Africa, ma compaiono anche mete più note e ‘commerciali’ come la California. Negli Stati Uniti, infatti, vengono consigliate San Diego con i suoi circa 300 giorni all’anno di sole e Santa Barbara, fondata dagli spagnoli nel 1602 (e tanto patinata da aver dato il suo nome anche ad una nota soap). Ma non poteva mancare in una simile classifica una meta hawaiana: ed è la piccola cittadina di Lihue su Kauai che si guadagna un posto tra i primi dieci, con le sue acque temperate di Kalapaki e temperatura medie per tutto l’anno intorno ai 27 gradi, che ne fanno una località ideale.

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Compare anche Sydney in questa top ten; nonostante l’Australia sia piuttosto conosciuta come la terra degli eccessi termici per i suoi picchi di calore registrati nel nord tropicale e nei deserti centrali. Ma nella città più grande e più antica del Paese le ondate di calore raramente superano i 35 gradi e la sua baia con la bellissima costa creano una cornice magica alla città.

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Nella Top Ten figurano anche località latino-americane come San Paolo del Brasile e Medellin in Colombia. La metropoli brasiliana ha uno dei climi più piacevoli di qualsiasi altra città del Paese con una temperatura media che varia poco durante l’anno, sfiorando appena i 27 gradi. Stessa situazione anche per la città colombiana che, nonostante la sua latitudine tropicale, i circa 1.500 metri sopra il livello del mare le consentono temperature quasi perfette tutto l’anno.

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Tuttavia non è necessario attraversare l’oceano o arrivare all’altro capo del mondo per godersi un clima perfetto. Nella lista compaiono anche due mete spagnole: le Canarie e Malaga. Secondo Mother Nature, l’arcipelago a ridosso della costa nordafricana occidentale ha un clima piacevole tutto l’anno con massime estive che difficilmente superano i 27 gradi e che in inverno non si abbassano troppo, avvicinandosi costantemente ai 22. La città andalusa, che ha dato i natali a Picasso, d’estate tocca i 30 gradi, ma quasi senza umidità, mentre nelle giornate invernali si assesta intorno ai 15 gradi.

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Allora, avete scelto la meta giusta per voi?

Clicca QUI per vedere la classifica al completo.

MDS
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VIVERE DA MAMMA NON TI RENDE PROPRIETARIO DI CASA.

La sentenza che vi propongo in questo nuovo post richiama situazioni familiari che al giorno d’oggi sono sempre più frequenti. La crisi ha riportato molti giovani ultratrentenni nelle case paterne, o ha impedito che potessero lasciarla al termine degli studi. C’è chi ha chiamato questi ragazzi bamboccioni, chi, vittima di influenze anglofone, li ha apostrofati come ‘choosy’, ma, a parte la completa avulsione dal Paese reale dimostrata da chi s’è lasciato andare in questi commenti semplicistici (oltreché banalizzanti), ciò che vorrei tentare è un’analisi degli effetti giuridici che il ‘ritorno a casa’ dei figli potrebbe avere nel lungo periodo. E soprattutto delle conseguenze che sarebbe meglio evitare, nel caso in cui i choosy non siano figli unici. L’argomento di oggi è l’istituto dell’usucapione.

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di Michele De Sanctis

In tema di usucapione ventennale di beni immobili, il comportamento della madre che concede alla figlia l’uso di un appartamento non costituisce requisito valido a far decorrere il tempo utile per l’acquisto originario della proprietà.
È quanto ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione con una recente sentenza (Cass. Civ. sez. II, sent. 18 febbraio – 4 giugno 2014, n. 12571 Presidente Triola – Relatore D’Ascola). Nel caso di specie, la madre, a sua volta usufruttuaria ex lege del bene e quindi titolare del diritto di godere dell’immobile, aveva concesso a una figlia, già nuda proprietaria di una quota, l’uso dell’appartamento, continuando, però, a recarsi in visita in quella casa fino al giorno della morte e, peraltro, consentendo agli altri figli il deposito di alcuni oggetti all’interno della stessa. Ebbene, secondo la Cassazione una simile situazione era priva dei requisiti necessari perché potesse configurarsi l’impossessamento del bene da parte della figlia, che l’avrebbe poi condotta ad usucapirlo, acquistando la proprietà anche delle quote degli altri fratelli. Invero, ciò che giuridicamente si è venuto a creare è una mera detenzione benevolmente concessa dall’usufruttuaria stessa.

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La giurisprudenza, in realtà, offre molti esempi di liti tra familiari in riferimento alla proprietà di un bene immobile, quando chi lo abita ne reclama l’usucapione. Questa è solo una delle più recenti delle pronunce di Piazza Cavour in merito. Ma appunto perché il motivo del contendere è così frequente, credo opportuno circoscrivere l’istituto in parola, prima di analizzare la sentenza, al fine di agevolarne la comprensione anche a chi non ha mai sostenuto un esame di diritto privato.

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L’usucapione rappresenta una modalità di acquisto a titolo originario della proprietà o dei diritti reali di godimento (eccetto le servitù non apparenti, cioè non visibili, che non possono usucapirsi ai sensi dell’art. 1061 c.c.), in ragione del possesso dei beni reclamati, purché tale possesso non sia viziato e sia continuato per un determinato periodo di tempo (variabile dai dieci ai vent’anni a seconda delle circostanze e del tipo di bene, mobile o immobile). Usucapire vuol dire, quindi, diventare proprietari (o usufruttuari o titolari di servitù) per il semplice fatto d’essersi comportati come tali per tot numero di anni, senza che nel frattempo qualcuno abbia agito giudizialmente per contestare tale condotta (interrompendo quindi la decorrenza dei termini di usucapione). In quest’ultima circostanza, in particolare, il codice civile, all’art. 1144, specifica che “gli atti compiuti con l’altrui tolleranza non possono servire di fondamento all’acquisto del possesso”. Insomma, chi agisce in un determinato modo con il benestare del proprietario, non sta possedendo un bene in modo da usucapirlo. Ed è altresì vero che non è sempre facile provare la tolleranza (l’onere della prova grava su chi la invoca), come del resto non sempre è agevole dimostrare il possesso utile ai fini dell’usucapione. Peraltro, vista la genericità del dettato normativo sul punto, i casi come quello risolto dalla Cassazione con la sentenza n. 12751 sono sempre significativi in tal senso. Soprattutto perché forniscono agli operatori del diritto un importante strumento interpretativo.

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Nella causa che ha portato gli ermellini a pronunciare la sentenza in esame, le parti litigavano in relazione alla proprietà (ed alla divisione) di un bene immobile e ne reclamava l’acquisto per usucapione, alla fine, è rimasto deluso.
Questi i fatti. Nel 1948 il padre proprietario dell’immobile decedeva lasciando il bene in proprietà dei suoi cinque figli, ancorché gravato dall’usufrutto vedovile. Successivamente, nel ’60 una delle figlie cedeva la propria quota ad una delle sorelle. Restavano, quindi, quattro nudi proprietari e la madre usufruttuaria, che veniva a mancare nel 1968. Quest’ultima, però, come già anticipato, dal ’57 aveva concesso l’utilizzo del bene ad una figlia appena sposata, che aveva nel frattempo continuato a vivere nell’immobile in questione. Nel 1986 una degli eredi, in seguito succeduta mortis causa dalla figlia, conveniva in giudizio gli altri fratelli per la divisione del compendio. Chiedeva, altresì, che la coerede che deteneva il bene, abitando ancora nella casa paterna, venisse condannata a rendere il conto. Quest’ultima resisteva e in via riconvenzionale chiedeva l’accertamento dell’intervenuta usucapione in forza di possesso ultraventennale. Questa domanda, tuttavia, veniva respinta dal tribunale di Salerno in data 5 febbraio 2003 e con sentenza definitiva del 20 dicembre 2006, il g.o. attribuiva l’appartamento, ritenuto indivisibile, alla ricorrente, previo versamento dei conguagli di circa ventimila euro in favore di ciascuno dei fratelli o dei loro aventi causa, essendo le parti originarie decedute nelle more del procedimento.

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La pronuncia di primo grado veniva integralmente confermata il 7 settembre 2010 dalla corte d’appello salernitana, che rigettava i motivi di gravame proposti dagli eredi della sorella che abitava nell’appartamento.
In particolare, la corte d’appello rilevava che i ricorrenti non avevano fornito la prova di un possesso esclusivo della cosa, in capo alla propria madre, incompatibile col permanere del compossesso altrui, negando, inoltre, la comoda divisibilità del bene.

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Successivamente, il ricorso in Cassazione si imperniava su due punti. Con il primo motivo la parte ricorrente lamentava una violazione e una falsa applicazione degli artt. 112 c.p.c. e 1142, 2697 e 1140 c.c. e per omessa o comunque insufficiente motivazione su un punto decisivo. La censura concerneva, in particolare, la pretesa usucapione dell’intero compendio immobiliare da parte della madre dei ricorrenti. Ma per i giudici di Piazza Cavour, la corte d’appello con esauriente e congrua motivazione aveva già esaminato e respinto gli argomenti che il ricorso riproponeva in Cassazione. I giudici d’appello avevano, infatti, escluso che la dante causa dei ricorrenti avesse posseduto in via esclusiva l’immobile a partire dal 1957 e hanno indicato alcuni elementi, quali le visite assidue che la usufruttuaria faceva nell’immobile e il deposito in esso di beni per desumere che non sussistesse quella vasta signoria sulla cosa che contraddistingue, invece, il possesso ad usucapionem. Per scalfire questa tesi il ricorso muoveva dal presupposto che l’usufruttuaria (ossia la nonna dei ricorrenti, cioè la vedova deceduta nel ’68) aveva dismesso il possesso del bene perché vi aveva “insediato” (questo il verbo usato) la figlia e la sua famiglia, sicché le circostanze valorizzate dalla Corte di appello costituivano invece “episodici casi di affettuosa ospitalità”. La censura, tuttavia, è manifestamente infondata.
Proprio la circostanza che ad “insediare” la figlia nell’uso dell’immobile fosse stata la madre, che continuava a recarvisi, dimostra che l’inizio della fase di uso del bene da parte della figlia non fosse espressione di impossessamento, ma di una detenzione benevolmente concessa dall’usufruttuario, titolare del diritto di godere della casa, secondo un costume familiare diffuso nel nostro Paese (si veda a tal riguardo anche Cass. S.U. n. 13603/04 in tema di comodato di casa coniugale). Per dimostrare di aver usucapito, la dante causa dei ricorrenti avrebbe dovuto, piuttosto, dimostrare ben maggiori elementi di valutazione comprovanti un possesso pieno, esclusivo e manifestamente contrastante con i diritti degli altri eredi e dell’usufruttuaria, rispetto a quelli già provati e ritenuti dai ricorrenti malvalutati (pagamento di imposte ed oneri per pratiche amministrative).

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Anche il secondo motivo addotto, nondimeno, è infondato. Esso concerneva la mancata assegnazione di una porzione dell’immobile oggetto di divisione. La parte ricorrente sosteneva che il ctu avesse ammesso la divisibilità dell’immobile in due appartamenti e che essa avesse domandato in appello l’assegnazione del più piccolo in misura tale da corrispondere, secondo la consulenza, al valore dei due quinti del compendio. Ma la corte di appello aveva rilevato che proprio perché gli altri eredi erano proprietari di un quinto, siffatta quota non giustificasse l’attribuzione di un appartamento di entità pari a due quinti del complesso. La Corte aveva poi sottolineato la non comoda divisibilità del bene anche secondo l’ipotesi “ventilata” dal consulente “in via straordinaria”, rimarcando l’alterazione invece strutturale dell’immobile, che rendeva più logica l’attribuzione totale al comunista avente la maggior quota. Questa decisione è stata ritenuta razionale ed incensurabile in sede di legittimità. Perché – è sempre bene ribadirlo – quello della Cassazione è un giudizio di legittimità, non un terzo grado di giudizio. Va, peraltro, rilevato che i due ricorrenti non erano portatori dell’intera quota del de cuius, non essendo gli unici eredi della figlia che dopo il matrimonio aveva detenuto con la sua famiglia l’appartamento di cui la madre era usufruttuaria: essi erano, in realtà, proprietari solo di un decimo dell’appartamento. Tra l’altro, dei quattro eredi e ricorrenti in appello, due avevano omesso di impugnare la decisione del gravame, facendovi acquiescenza.

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La valutazione resa dall’appello, già congrua rispetto alla titolarità di una quota del 20% di un appartamento, circostanza che di regola non giustifica la suddivisione di un immobile in due parti, quando, come nel caso di specie, l’eredità sia da dividere in quattro parti (i quattro gruppi di discendenti della comune genitrice, residuati dopo la cessione della quinta quota) e vi sia un condividente titolare di quota maggiore, appare ancor più corretta ed ineccepibile se si considera tale circostanza (la titolarità di un decimo soltanto del bene), opportunamente sottolineata in sede di controricorso. Per tutte queste ragioni, il ricorso in Cassazione è stato rigettato ed i ricorrenti condannati alla refusione delle spese di lite, liquidate in dispositivo, in relazione al valore della controversia.

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Il caso è abbastanza complesso: nuda (com)proprietà dei figli, cessione di una quota da parte di uno di questi, usufrutto della madre che dispone del suo titolo lasciando che uno dei suoi cinque figli lo detenga finché lo stesso non si estingua (cioè fino all’avvenuto decesso), successiva lite sulla divisibilità dell’immobile in regime di comunione, controdomanda della detentrice per una sua pretesa usucapione, successione mortis causa delle parti in lite ed ulteriore frammentazione delle quote proprietarie, infine passaggio in giudicato della sentenza dopo molti anni dall’inizio dell’iter. Visti i tempi – e suppongo i costi – io avrei optato per la locazione di un bilocale a Rocca Cannuccia Scalo. Perdonatemi l’ironia, ma considerate pure che nelle more del procedimento le originarie parti in causa sono venute a mancare e che la lite è stata ‘ereditata’ dai loro figli. E non è affatto un caso isolato, quanto una frequente ricorrenza nella giustizia civile italiana. Mi domando se residuasse davvero una qualche convenienza nell’agire in capo a chi era titolare solo di un decimo dell’immobile. Ma il tema del post è l’usucapione e la sua difficile dimostrazione in giudizio, non la facilità estrema con cui noi italiani facciamo ricorso al giudice, lamentando, poi, l’estrema lungaggine dei processi, come se la responsabilità fosse ascrivibile solo alla magistratura. E poiché, per quanto qui interessa, sono motivazioni personali che esulano dal ‘giuridicamente rilevante’, la mia indagine deve fermarsi qui, sperando di avervi lasciato qualche utile spunto di riflessione.

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La Riforma della Giustizia in dodici punti

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di Germano De Sanctis

 

Il Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha presentato al Consiglio dei Ministri del 30 giugno le linee guida della Riforma della Giustizia, sul cui contenuto si avvierà una fase di consultazione che si concluderà il 31 agosto 2014. Tali linee guida sono suddivise nei seguenti dodici punti che dovrebbero costituire l’ossatura della riforma:

  1. Giustizia civile: riduzione dei tempi. Un anno in primo grado
  2. Giustizia civile: dimezzamento dell’arretrato.
  3. Corsia preferenziale per le imprese e le famiglie
  4. Csm: più carriera per merito e non grazie alla ‘appartenenza’
  5. Csm: chi giudica non nomina, chi nomina non giudica;
  6. Responsabilità civile dei magistrati sul modello europeo
  7. Riforma del disciplinare delle magistrature speciali (amministrativa e contabile);
  8. Norme contro la criminalità economica (falso in bilancio, autoriciclaggio);
  9. Accelerazione del processo penale e riforma della prescrizione;
  10. Intercettazioni (diritto all’informazione e tutela della privacy)
  11. Informatizzazione integrale del sistema giudiziario
  12. Riqualificazione del personale amministrativo

Innanzi tutto, si deve evidenziare che si tratta solo di linee guida, prive di ogni valenza giuridica, ma finalizzate a sviluppare un dibattito pubblico sul’argomento. Infatti, in coerenza con le decisioni assunte in occasione della Riforma della Pubblica Amministrazione, il Governo ha avviato una fase di consultazione pubblica della durata di due mesi, che terminerà il 31 agosto. Infatti, Il premier Renzi ha voluto invitare i cittadini italiani a «discutere di giustizia in modo non ideologico», riuscendo « ad aprire per due mesi, dal 1° luglio al 31 agosto, un confronto aperto, una pubblica consultazione per discutere di giustizia», utilizzando, l’ormai noto indirizzo di posta elettronica rivoluzione@governo.it.
Al termine di tale consultazione pubblica, seguirà un nuovo passaggio in Consiglio dei Ministri per il varo del testo normativo vero e proprio.

Esaminiamo nel dettaglio, le novità più salienti contenute nelle linee guida in questione.

 

La durata massima di un anno per il processo di primo grado
Innanzi tutto, le linee guida focalizzano la loro attenzione sulla giustizia civile, la quale dovrebbe essere oggetto di una riforma capace di ridurne i tempi processuali. L’obiettivo del Governo è di far durare i procedimenti civili di primo grado un anno al massimo. A tal fine, a seguito della consultazione pubblica, sarà approvato un disegno di legge in materia (che, secondo il Presidente Renzi, dovrebbe divenire legge entro mille giorni decorrenti dal 1° settembre prossimo), il quale garantirà il raggiungimento di tale ambizioso obiettivo, in coerenza coni i tempi dei processi civili di primo grado dei Paesi maggiormente industrializzati.

 

Dimezzamento dell’arretrato civile
Un altro aspetto della riforma particolarmente rilevante è rinvenibile nel dimezzamento dell’arretrato del processo civile, oggi attestato sui 5 milioni ,di procedimenti pendenti.
A tal fine s’introdurranno diverse novità normative, come, ad esempio, la previsione che renderà non necessario l’intervento di un giudice in caso di separazione e divorzio consensuali.
In coerenza con tale obiettivo, sarà anche prevista una speciale corsia preferenziale processuale per le imprese e le famiglie.

 

Il Consiglio Superiore della Magistratura
Un altro punto delle Linee guida riguarda il Consiglio Superiore della Magistratura, il quale non subirà, nell’immediato, alcun intervento sul suo metodo di elezione, ma riceverà interventi finalizzati a garantire che la carriera dei magistrati si svolga esclusivamente su basi di merito.
Si intende anche modificare il procedimento disciplinare dei magistrati, prevedendo che coloro che saranno deputati a giudicare il loro operato per eventuali mancanze o negligenze non svolgano alcun ruolo nei procedimenti di nomina dei vertici degli uffici giudiziari, e viceversa. In altri termini, ci si avvia verso la separazione delle funzioni amministrative da quelle disciplinari». La riforma delle norme disciplinari varrà anche per la magistratura contabile e amministrativa.

 

Intercettazioni
Per quanto concerne le intercettazioni, il Governo ha comunicato che non esiste alcun testo già redatto. In particolare, è stato precisato che i magistrati devono essere sempre liberi d’intercettare. Infatti, la riforma in questione non intende bloccare la possibilità di effettuare intercettazioni, ma vuole porre solo un limite alla loro pubblicabilità, in caso di vicende personali con collegate alle indagini.

 

 

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