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È stato firmato il più grande patto commerciale del pianeta. Si chiama RCEP e coinvolgerà 15 paesi dell’Asia e del Pacifico.

di Germano De Sanctis

Durante un importante vertice dell’ASEAN tenutosi on line , quindici economie dell’area Asia-Pacifico hanno sottoscritto il più grande patto di libero scambio del mondo. Si tratta di un accordo sostenuto dalla Cina e che esclude gli Stati Uniti d’America.

Il suo nome è “Regional Comprehensive Economic Partnership” (RCEP) ied è un ulteriore colpo al “Trans-Pacific Partnership” (TPP), l’accordo promosso, a suo tempo, dall’ex presidente americano Barack Obama e dal quale il suo successore Donald Trump è uscito sin dal 2017.

Secondo molti analisti, il RCEP rafforzerà la posizione della Cina come partner economico di tutto il Sudest asiatico, il Giappone e la Corea del Sud, garantendo, al contempo, alla seconda economia mondiale una migliore posizione per dettare le regole commerciali in questa regione.

Gli Stati Uniti d’America sono assenti, sia dal RCEP, sia dal successore del Trans-Pacific Partnership (TPP), il quale fu fortemente voluto da Barack Obama. Ne consegue che l’economia più grande del pianeta è fuori dalle due intese commerciali che interessano la regione in più rapida crescita di tutto il mondo.

Inoltre, il RCEP potrebbe favorire la Cina nel suo tentativo di ridurre la sua dipendenza dal mercato e dalla tecnologia statunitense. Si tratta di un’esigenza molto sentita in Cina, a seguito della nota e sempre più profonda frattura con gli Stati Uniti d’America.

All’interno del RCEP, si è trovata la possibilità di intersecare mediante un patto multilaterale esteso, da una parte, gli accordi dei dieci membri dell’Associazione delle nazioni del Sudest asiatico (ASEAN) – cioè il Brunei, Cambogia, Indonesia, Laos, Malaysia, Myanmar, Filippine, Singapore, Thailandia e Vietnam – d’altra parte, la partecipazione in forma unitaria di Australia, Cina, Giappone, Nuova Zelanda e Corea del Sud.
L’India non ha sottoscritto l’accordo in questione, a causa dei suoi timori relativamente all’aumento del suo deficit commerciale con la Cina, ma non si esclude affatto una sua adesione in un secondo momento.

Il nuovo accordo commerciale interesserà circa un terzo della popolazione e dell’economia mondiale, in quanto coinvolgerà 2,2, miliardi persone ed un volume di affari pari a circa 26 mila e 200 miliardi di dollari.
Inoltre, secondo le stime di alcuni economisti riportate dal Financial Times, il RCEP potrebbe potenzialmente aggiungere 186 miliardi di dollari all’economia globale, incrementando il PIL dei Paesi sottoscrittori dello 0,2%.

Nello specifico, il patto prevede l’eliminazione immediata di una serie di tariffe, mentre altre saranno abolite nel corso dei prossimi dieci anni. Non sono ancora noti i dettagli su quali prodotti e quali Paesi sottoscrittori beneficerebbero della riduzione immediata dei dazi.
La maggior parte degli esperti ha giudicato il RCEP come un trattato abbastanza superficiale, caratterizzato da una serie di canonici capitoli che interessano principalmente:
• il commercio di beni;
• i servizi;
• gli investimenti;
• il commercio elettronico;
• la proprietà intellettuale;
• gli appalti pubblici;
• i dazi;
• la gestione delle dogane;
• le misure di sicurezza sanitarie.
Gli analisti hanno subito evidenziato che il RCEP si connota per alcune lacune regolamentari rispetto al TPP. Infatti, ad esempio, vi è una minore incisività sulla eliminazione dei dazi (il 90% contro il 100% del TPP) ed, inoltre, sussiste una evidente assenza di aperture su un settore cruciale come l’agricoltura, mentre i servizi regolamentati non coprono tutti i settori delle economie dei Paesi sottoscrittori ed anche sull’e-commerce si denota la mancanza di decisioni veramente importanti.

Il RCEP entrerà ufficialmente in vigore, non appena tutti i Paesi firmatari lo avranno ratificato.
A quel punto, il RCEP sarà il più grande accordo commerciale multilaterale per l’area asiatica, facendo anche concorerenza a quello globale e progressivo per la partnership transpacifica (CPTPP), il quale non è altro che la versione con solo undici Paesi aderenti del TPP, a seguito dell’uscita degli Stati Uniti d’America. Si evidenzia che sette Paesi aderenti al CPTPP risultano essere anche sottoscrittori del RCEP.

Si tratta di un accordo commerciale che produrrà anche diverse conseguenze socio-politiche che esuleranno dagli aspetti squisitamente commerciali. Infatti, è la prima volta che le storiche potenze rivali dell’Asia orientale – cioè, la Cina, il Giappone e la Corea del Sud – decidono di sottoscrivere un accordo di libero scambio ed appare evidente che difficilmente lo avrebbero siglato muovendosi da sole.
È molto probabile che il RCEP potrebbe divenire, nel corso della ripresa post Covid-19, un valido strumento a favore della conquista da parte dei Paesi della regione dell’Asia-Pacifico della leadership economica globale, riducendo, in tal modo, l’egemonia che gli Stati Uniti d’America hanno in quest’area geografica.
A questo punto, sarà interessante esaminare come l’entrata in vigore del RCEP muterà le dinamiche politico-economiche tra i Paesi asiatici e gli Stati Uniti d’America, i quali, dopo aver perso agli occhi dei Paesi di quest’area il ruolo di potenza economica alternativa alla Cina a seguito dell’uscita avvenuta nel 2017 dal TPP, dovranno, con la nuova amministrazione Biden, fornire una risposta adeguata per recuperare parte della leadership perduta.

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La presunta sospensione della dematerializzazione dei documenti delle Pubbliche Amministrazioni

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di Germano De Sanctis

È opinione diffusa che il legislatore abbia disposto una sospensione a favore delle Pubbliche Amministrazioni delle regole tecniche sulla formazione dei documenti informatici. In realtà, l’attenta lettura del dato normativo delinea un quadro fattuale molto diverso.

Lo scorso 13 settembre 2016 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il D.Lgs. 26 agosto 2016, n. 179 che ha apportato alcune modifiche al D.Lgs. n. 82/20005, meglio noto come Codice dell’Amministrazione Digitale (C.A.D.).

In particolare, tale novella legislativa prevede la sospensione dell’efficacia del D.P.C.M. 13 novembre 2014 per un tempo congruo all’emanazione di nuove regole tecniche in materia di formazione, trasmissione, copia, duplicazione, riproduzione e validazione temporale dei documenti informatici pienamente conformi alle disposizioni del Codice. In altri termini, si è in presenza di una parziale sospensione a breve termine di parte delle regole tecniche e solo a favore delle Pubbliche Amministrazioni che decidano di avvalersene. Fatta questa debita premessa, passiamo ad esaminare nel dettaglio il dato normativo.

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In primo luogo, chiariamo la situazione. L’obbligo di dematerializzare i documenti delle Pubbliche Amministrazioni risale a ben undici ani fa, quando entrò in vigore il D.Lgs. n. 82/2005. Tuttavia, le Pubbliche Amministrazioni sono state messe nelle condizioni di rispettare tale obbligo solo a seguito dell’approvazione del D.P.C.M. 13 novembre 2014, contenente le Regole Tecniche del Codice dell’Amministrazione Digitale. Nello specifico, l’art. 17, comma 2, D.P.C.M. 13 novembre 2014 prevede che le Pubbliche Amministrazioni devono formare gli originali dei propri documenti con mezzi informatici secondo le disposizioni contenute nel D.Lgs. n. 82/2005, con particolare riferimento alle regole tecniche di cui all’art. 71 D.Lgs. n. 82/2005. In altri termini, tali riferimenti normativi contengono le caratteristiche fondamentali per considerare legale un documento informatico redatto da una Pubblica Amministrazione, o da consegnare ad una Pubblica Amministrazione.

In attuazione dell’art. 17, comma 2, D.P.C.M. 13 novembre 2014, a far data dal 12 agosto 2016, le Pubbliche Amministrazioni devono procedere alla dematerializzazione dei loro documenti amministrativi. Come vedremo, non esiste alcuna certezza circa la tempistica della presunta sospensione di tale obbligo, né, tanto meno, che esso sia stato oggetto di rinvio.

Infatti, l’art. 61, comma 1, D.Lgs. n. 179/2016 dispone che, con decreto del Ministro della Semplificazione e la Pubblica Amministrazione da adottare entro quattro mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto (avvenuta 14 settembre 2016), sono aggiornate e coordinate le regole tecniche previste dall’art. 71 D.Lgs. n. 82/2015. Le regole tecniche vigenti nelle materie del D.Lgs. n. 82/2005 restano efficaci fino all’adozione del decreto in questione.

Inoltre, sempre fino all’adozione del suddetto decreto ministeriale, l’obbligo per le Pubbliche Amministrazioni di adeguare i propri sistemi di gestione informatica dei documenti, di cui all’art. 17 D.P.C.M. 13 novembre 2014, è sospeso, salva la facoltà per le Pubbliche Amministrazioni medesime di adeguarsi anteriormente.

Ne consegue che tutte le regole tecniche attualmente in vigore devono essere aggiornate entro quattro mesi decorrenti dal 14 settembre 2016. Tuttavia, si deve precisare che tale termine sembrerebbe avere natura meramente ordinatoria, sia perché non sono previste conseguenze per il suo mancato rispetto, sia anche perché appare molto difficile regolamentare una normativa così complessa in un lasso di tempo veramente ridotto.

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Pertanto, nell’attesa che venga emanato il decreto in questione contenente tutte le regole tecniche previste dall’art. 71 D.Lgs. n. 82/2005, restano efficaci e vincolanti per le Pubbliche Amministrazioni le regole preesistenti, nel rispetto delle quali si devono formare, gestire e conservare i documenti amministrativi in modalità esclusivamente digitale.

Per quanto concerne i contenuti della citata modalità digitale, l’art. 23-ter D.Lgs. n. 82/2005 ha chiarito che gli atti formati dalle Pubbliche Amministrazioni con strumenti informatici, nonché i dati e i documenti informatici detenuti dalle stesse, costituiscono informazione primaria ed originale da cui è possibile effettuare, su diversi tipi di supporto, duplicazioni e copie per gli usi consentiti dalla legge. Inoltre, l’art. 41 D.Lgs. n. 82/2005 ha previsto che le Pubbliche Amministrazioni debbano:

  • formare, senza alcuna eccezione, gli originali dei propri documenti e registri con mezzi informatici secondo le disposizioni del D.Lgs. n. 82/2005 e delle regole tecniche in vigore;

  • gestire i procedimenti amministrativi utilizzando le tecnologie dell’informazione e della comunicazione.

Anche la lettura degli artt. 3, 3-bis e 5-bis, D.Lgs. n. 82/2005 conferma l’immediata vigenza dell’obbligo di dematerializzare i propri documenti da parte delle Pubbliche Amministrazioni. Infatti, tali norme prevedono che, sia i cittadini, che le imprese devono hanno il diritto di comunicare in modalità digitale con le Pubbliche Amministrazioni e che, di conseguenza, le Pubbliche Amministrazioni hanno il preciso obbligo di accettare la presentazione di istanze e dichiarazioni in modalità digitale, nonché di formare i propri documenti come originali esclusivamente informatici.

Orbene, tornando all’esame dell’art. 61, D.Lgs. n. 179/2016, esso specifica che fino all’adozione del citato emanando decreto ministeriale contenente le regole tecniche, l’obbligo in capo alle Pubbliche Amministrazioni di adeguare i propri sistemi di gestione informatica dei documenti, ex art. 17 D.P.C.M. 13 novembre 2014, è sospeso, fatta salva la facoltà in capo alle Pubbliche Amministrazioni medesime di adeguarsi anteriormente.

Ricordiamo che l’art. 17 D.P.C.M. 13 novembre 2014 prevede che la sua entrata in vigore decorsi trenta giorni decorrenti dalla data della sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana. Le Pubbliche Amministrazioni devono adeguare i propri sistemi di gestione informatica dei documenti entro diciotto mesi dalla sua entrata in vigore, cioè entro il 12 agosto 2016 e che, fino al completamento di siffatto processo, si possono applicare le previgenti regole tecniche (anche se, in precedenza, non sono mai state rilasciate altre regole tecniche formazione dei documenti informatici). Fatta questa premessa, l’art. 17 D.P.C.M. 13 novembre 2014 prevede che, decorso tale termine, si applicano le attuali regole tecniche.

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Giunti a questo punto, viene da chiedersi come si sia generata la convinzione diffusa che sia entrata in vigore una sospensione. Infatti, esaminando il dato letterale dell’art. 61, comma 1, D.Lgs. n. 179/2016 emergerebbe la sospensione soltanto dei sistemi di gestione documentale delle Pubbliche Amministrazioni e non anche della fase della formazione dei documenti.

Tale conclusione appare logica se si tiene conto che, ragionando “a contrario”, non troverebbero più applicazione tutti gli altri principi contenuti nel D.Lgs. n. 82/2005 e nel D.P.C.M. 13 novembre 2014, concernenti la fase attuativa della dematerializzazione dei documenti amministrativi (cioè, l’avvio delle istanze on line, la gestione documentale, l’archiviazione, la conservazione etc.), con la conseguenza che risulterebbero inattuabili tutte le regole sulla formazione dei documenti informatici, i quali costituiscono il presupposto dell’attività amministrativa informatica.

Si potrebbe ritenere che la sospensione riguardi soltanto gli obblighi di fascicolazione informatica da parte delle Pubbliche Amministrazioni. Tuttavia, anche questa interpretazione non è esente da critiche, poiché la sospensione delle regole tecniche di cui al D.P.C.M. 13 novembre 2013 contrasterebbe con l’art. 43, comma 1-bis, D.Lgs. n. 82/2005, secondo il quale se il documento informatico è conservato per legge dalle Pubbliche Amministrazioni ex art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 165/2001 (cfr., art. 2, comma 2, D.Lgs. n. 82/2005) cessa l’obbligo di conservazione a carico dei cittadini e delle imprese che possono, in ogni momento, richiedere l’accesso al documento stesso. Infatti, sembrerebbe assurdo prevedere una norma che impone alle Pubbliche Amministrazioni di conservare i documenti informatici, garantendo il diritto di accesso ai cittadini e alle imprese ed, al contempo, sospendere gli obblighi di fascicolazione informatica di tali documenti. Infatti, se la Pubblica Amministrazione non crea e conserva il fascicolo informatico relativo ad un procedimento, il cittadino è impossibilitato ad effettuare un accesso digitale ai documenti che gli interessano.

In estrema sintesi, non è intervenuta alcuna una reale sospensione delle regole tecniche, anche se si è diffusa questa opinione.

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CLASSE 1980: LA GENERAZIONE PERDUTA. 

La scorsa settimana il presidente dell’INPS, Tito Boeri, rivelando al Paese ciò che Mastrapasqua, suo predecessore nella carica, ‘si vantava’ di nascondere per scongiurare una rivolta popolare, ha reso noto ai giovani le cifre delle loro future pensioni. Come era di facile previsione in un clima che Grammellini nel suo ‘Buongiorno’ del 2 dicembre ha definito catatonico, in un Paese che è sempre rimasto assopito dinanzi a tutto ciò che fosse altro da una partita di calcio, nessuna rivolta si è venuta a creare e anzi la notizia preoccupante che ha dato spunto a questo post, nell’era del tutto e subito, è già vecchia, vecchissima: per farci un’idea, su Flipboard e Google News dobbiamo scrollare parecchio prima di ritrovarla. Per farcene un’altra: si parla ancora di presepi e crocifissi in aula, visto che l’Avvento non è ancora finito, ma dei nati degli anni ’80 si è già smesso di discutere. Personalmente, trovo ingiusto protrarre il dibattito pubblico su argomenti di natura teologica, per quanto intrisi di risvolti sociali ed etnici di grande attualità, mentre io, che ho 35 anni, ho già smesso di fare notizia. Soprattutto se la notizia è che lavorerò ancora a lungo, diciamo tutta la vita, per irrorare la pensione di chi è cresciuto in un’epoca di diritti sociali e ne verrò per giunta ricompensato – sempre citando Grammellini – “con un epilogo esistenziale a base di fatica e di stenti.” La cosa, infatti, potrebbe anche darmi alquanto fastidio, specialmente perché il modello attuariale, in base al quale viene finanziato il nostro sistema previdenziale pubblico, la cosiddetta ripartizione pura, secondo cui le prestazioni attuali vengono finanziate contestualmente alla loro erogazione proprio da me che lavoro, da almeno un ventennio viene ‘simpaticamente’ chiamato dagli addetti ai lavori “metodo dell’imprevidenza” (lo trovate scritto perfino sui compendi della Simone). Eppure, poco o nulla si è fatto. Anzi, piuttosto si è infierito: ricorderete sicuramente l’amabile ex ministro Padoa Schioppa che ci definì bamboccioni e la formidabile Elsa Fornero che ci apostrofò come choosy. Vale a dire che per i grandi (in Italia lo si è tipo dopo i 40-45 anni) è colpa di noi piccoli se i nostri padri e i loro padri prima di loro si sono già mangiati tutte le provviste e hanno, nel contempo, avallato un sistema basato sull’orgia edonistica degli anni ’80, quando si consumava tutto e ciò che avanzava piuttosto si buttava, senza preoccuparsi del domani. Ebbene, il domani è arrivato ed è il mio presente e non mi sento responsabile del mio vivere ancora in famiglia, sebbene anche noi giovani abbiamo le nostre colpe, lo ammetto. Vero è che questa colpa la condividiamo con i nostri padri e le nostre madri. E con lo Stato, che fa leva sul risparmio delle famiglie come ammortizzatore sociale per i giovani disoccupati o precari – risparmio per lo più detenuto da chi 30 anni non li ha più da un pezzo.  
 Il nostro peccato più grave, infatti, è la rassegnazione con cui accettiamo ogni cosa. A differenza dei nostri coetanei che hanno avuto il coraggio di andare via, noi che siamo rimasti continuiamo a percepire come normale un sistema sadico, nel quale ciò che conta è l’anzianità. Non parlo solo di pensioni. Per esempio, in Italia un trentenne oggi potrà anche farsi apprezzare in azienda, nel pubblico come nel privato, per le sue capacità e conoscenze, ma all’atto di conferire una posizione di responsabilità, anche di una semplice linea di prodotto, la scelta cadrà con maggior probabilità su un soggetto più anziano del trentenne, perché più esperto, sebbene meno curriculato. Molti di noi, ad esempio, hanno continuato a studiare, nelle more di una vita professionale, che in teoria lo Stato avrebbe dovuto garantirci, almeno stando al dettato costituzionale. Quindi è facile che un trentenne abbia qualche laurea in più rispetto ai soggetti più anziani di lui che incontrerà nel mercato del lavoro. Ma la giustificazione di solito è sempre la stessa: “Tanto hai tutta la vita davanti! Arriverà anche per te…” La anormalità sta proprio in questo, perché sto vivendo anche adesso e se ritengo di meritare alcunché è giusto che io l’ottenga. Invece di norma il trentenne risponderà “grazie”, sperando in cuor suo di non dover aspettare altri dieci anni. In fin dei conti, se lo analizziamo in maniera spiccia, col contratto a tutele crescenti a venir istituzionalizzata e generalizzata è proprio la regola dell’anzianità. I sindacati, così contrari al Jobs Act, nei luoghi di lavoro continuano tuttora a tutelare le competenze acquisite. Sapete cosa vuol dire tutelare una competenza? Fare largo ai vecchi. Per cui è normale incontrare responsabili diplomati e operatori esecutivi laureati. Non lo è, ma noi siamo quelli che accettano qualunque lavoro, pur di portare a casa qualche soldo e pur essendo dottori magistrali facciamo i camerieri, i segretari o gli operatori di call center.

  
C’è anche un altro aspetto, che tanto normale non appare, se lo confrontiamo con l’estero. Ad esempio, non è normale che i giovani in Italia non abbiano alcuna garanzia per la futura pensione, nessuna meritocrazia o nessun supporto all’acquisto della prima casa. Noi stiamo tollerando, come fosse se una situazione naturale, un’ingiustizia profonda: l’esclusione dal mondo del lavoro, dalla politica, dalla carriera nelle università (dove la cronaca ricorda che oltreché vecchio bisogna, peraltro, anche essere parente di qualcuno) e stiamo accettando senza riserve questa atroce disparità intergenerazionale. I trentenni vivono in una società che non è la loro, ma quella dei propri genitori. Sono privi di punti di contatto con un mondo reale che è loro estraneo, non hanno alcuna forza antagonista, vivono nella società come in famiglia, come il gatto di casa: a proprio agio, ma senza voce in capitolo. Ciò che manca è la dialettica tra loro e la società.  

 
Dialettica che non può esistere senza un reale ricambio generazionale. La carenza di turn over nel mercato del lavoro, peraltro, comporta un altro grande gap, oltre al fatto che lascia soli in un ambiente di 50-60enni quei pochi di noi che riescono a lavorare. Infatti, l’assenza di massa di un’intera generazione dal lavoro sta modificando la struttura del modello sociale in modo allarmante. La cultura, l’industria, l’imprenditoria mancano per questo di innovazione e i giovani non sviluppano la carica antagonista che sempre ha fatto da propellente sul costume, sulla cultura e sulla stessa politica del nostro come degli altri Paesi. Il “parricidio” e l’allontanamento dalle famiglie di origine è un passo fondamentale per la crescita di un individuo. I giovani italiani, invece, rimangono in qualche misura ancora legati alla paghetta settimanale in una società neomediovale, dove la fluidità interclassista è praticamente inesistente. 

 
Il dramma della situazione che così si viene a creare è questo circolo vizioso tra genitori e figli, da cui per ora, considerato l’immobilismo del mercato del lavoro, non conviene uscire, ma che lascerà un’intera generazione sul baratro, quando mamma e papà non ci saranno più a darci una mano con le loro belle pensioni calcolate col metodo retributivo. Il nostro è un problema di asfissia culturale. I cattivi maestri (e gli pseudo maestri) ci sono sempre stati. Poi, però, si cresceva e si faceva a pugni con il sapere acquisito dai padri. Ma oggi a 30 anni non ancora si hanno gli strumenti per farlo e ci si appiattisce sulle idee dei vecchi. Gli attuali trentenni temono l’incertezza, più che in passato, sono terrorizzati dai rischi che il cambiamento porta con sé. Se l’Italia fosse un Paese forte, cosciente e solidale si occuperebbe di loro e, di conseguenza, del suo stesso futuro. Ma se continuiamo con questo non far nulla, la generazione dei nati negli anni ottanta sarà come se non fosse mai esistita. L’Italia avrà, allora, perso un’intera generazione e il danno in termini di capitale umano sul progresso materiale del Paese sarà inestimabile. Sarà irrecuperabile, sempre che non lo sia già.

MDS – BlogNomos

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L’attuazione del D.P.C.M. 06.03.2015 relativo alle procedure concorsuali riservate per l’assunzione del personale precario del comparto sanità

di Germano De Sanctis

1. Premessa

Il recente D.P.C.M. 06.03.2015 ha consentito la stabilizzazione dei precari del Servizio Sanitario Nazionale (S.S.N.), dando, così, attuazione alle specifiche previsioni in materia contenute nell’art. 4, commi 6, 7, 8, 9 e 10, D.L. n. 101/2013 convertito dalla Legge n. 125/2013.

Lo scopo del D.P.C.M.- 06.03.2015 consiste nel contribuire alla generale azione di razionalizzazione della spesa pubblica, prevedendo la possibilità di indire procedure concorsuali riservate al personale precario del servizio sanitario.

Con la sua emanazione, è sorta in capo alle Regioni la necessità di fare chiarezza sulle procedure e sui limiti concorsuali per il personale precario, nonché sui requisiti di ammissione alle selezioni del personale medico precario in servizio presso i servizi di emergenza e urgenza. Tale esigenza chiarificatrice si è concretizzata nell’approvazione, in data 30.07.2015, delle linee guida per l’attuazione del D.P.C.M. 06.03.2015. In particolare, le linee guida in questione si soffermano su alcune specifiche disposizioni del D.P.C.M. 06.03.2015:

  • l’articolo 2 (procedure concorsuali riservate);

  • l’articolo 3 (limiti per l’attuazione delle procedure concorsuali);

  • l’articolo 6, comma 4 (requisiti di ammissione del personale medico precario nei servizi di emergenza e urgenza).

Fatta questa premessa, passiamo all’esame delle modalità attuative del D.P.C.M. 06.03.2015, alla luce delle citate linee guida.

2. L’ambito di applicazione (art. 1 D.P.C.M. 06.03.2015)

L’individuazione delle procedure concorsuali oggetto del D.P.C.M. 06.03.2015. Nello specifico, il D.P.C.M. 06.03.2015:

  • disciplina le procedure concorsuali riservate per l’assunzione presso gli Enti del S.S.N.;

  • prevede specifiche disposizioni per il personale dedicato alla ricerca.

Le procedure in questione sono riservate esclusivamente al:

  • personale del comparto sanità;

  • personale appartenente all’area della dirigenza medica e del ruolo sanitario.

3. Le procedure concorsuali riservate (art. 2 D.P.C.M. 6 marzo 2015)

Il termine per bandire le procedure concorsuali riservate. Entro la data del 31.12.2018, gli Enti del S.S.N. possono bandire procedure concorsuali, per titoli ed esami, per assunzioni a tempo indeterminato del personale del comparto sanità e di quello appartenente all’area della dirigenza medica e del ruolo sanitario (cfr. art. 2, comma 1, D.P.C.M. 06.03.2015)).

La non applicabilità delle norme in materia di mobilità. Stante la natura speciale delle procedure di stabilizzazione ed il fatto che viene garantito un adeguato accesso dall’esterno, le stesse procedure non devono conformarsi alle norme in materia di mobilità di cui all’art. 30, comma 2-bis, D.Lgs. n. 165/2001.

I vincoli di riserva previsti. Ai sensi dell’art. 2, comma 2, D.P.C.M. 06.03.2015 e nel rispetto del principio dell’adeguato accesso dall’esterno, tali procedure concorsuali sono bandite, previo esperimento delle procedure di cui all’art. 34bis n. 165/2001 e sono riservate al:

  • personale in possesso dei requisiti ex art. 1, commi 519 e 558, Legge n. 296/2006 e art. 3, comma 90, Legge n. 244/2007;

  • personale che, alla data del 30.10.2013, abbia maturato negli ultimi cinque anni, almeno tre anni di servizio, anche non continuativo, con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato, anche presso enti diversi da quello che indice la procedura, purché afferenti all’ambito territoriale della Regione interessata dalla procedura concorsuale.

Esaminiamo queste due categorie nel dettaglio.

Segue. Il personale in possesso dei requisiti di accesso cui all’art. 1, commi 519 e 558, Legge n. 296/2006 e di cui all’art. 3, comma 90, Legge n. 244/2007. Lart. 2, comma 2, D.P.C.M. 06.03.2015 fa riferimento alle previsioni contenute nell’art. 1, commi 519 e 558, Legge n. 296/2006 e nell’art. 3, comma 90, Legge n. 244/2007. Tale rinvio deve essere interpretato letteralmente. Di conseguenza, non è consentito alle P.A. interessate ammettere alle selezioni personale in possesso di requisiti diversi, ancorché fossero previsti da diverse discipline in materia di stabilizzazione eventualmente approvate dalla Regione in attuazione delle predette disposizioni legislative statali, le quali, secondo quanto stabilito dall’art. 1, comma 565, lett. c), Legge n. 296/2006, (peraltro, non più richiamato, né dal D.P.C.M. 06.03.2015, né dal D.L. n. 101/2013), stante la loro natura di meri principi di riferimento.

Le procedure di stabilizzazione previste dall’art. 1, commi 519 e 558, Legge n. 296/2006 e dall’art. 3, comma 90, Legge n. 244/2007 non riguardano la dirigenza medica e sanitaria, in quanto tali norme consentivano la stabilizzazione del solo personale non dirigenziale. Pertanto, il personale della dirigenza medica e sanitaria stabilizzabile è solo quello che, alla data del 30.10.2013, ha maturato almeno tre anni di servizio anche non continuativo negli ultimi cinque anni.

Le procedure di stabilizzazione riservate si applicano anche nei confronti del personale che, pur essendo in possesso dei requisiti ex art. 1, commi 519 e 558, Legge n. 296/2006 e art. 3, comma 90, Legge n. 244/2007, non èa stato stabilizzato nell’ambito delle relative procedure. Di conseguenza, le procedure di stabilizzazione devono essere avviate dalle Aziende del S.S.N. nei confronti del:

  • personale che aveva ritenuto di non partecipare alle selezioni riservate previste dalle predette norme;

  • personale che, pur partecipando alle selezioni riservate previste dalle predette norme, non aveva conseguito l’idoneità.

Tale personale deve comunque aver maturato l’anzianità di servizio con rapporto di lavoro subordinato presso enti del S.S.N. ubicati nell’ambito territoriale in cui ha sede l’ente che bandisce la selezione.

Segue. Il requisito dell’anzianità di servizio minima per l’accesso alle procedure concorsuali oggetto del D.P.C.M. 06.03.2015. Come detto, la stabilizzazione riguarda il personale del comparto Sanità e quello appartenente all’area della dirigenza medica e sanitaria. Di conseguenza, non costituiscono servizi utili per la stabilizzazione quelli resi presso enti di diverso comparto, né, tanto meno, sono configurabili stabilizzazioni di dirigenti dei ruoli professionale, tecnico e amministrativo.

Come detto, ai sensi dell’art. 2, comma 2, D.P.C.M. 06.03.2015, tale personale, alla data del 30.10.2013, deve aver maturato negli ultimi cinque anni, almeno tre anni di servizio, anche non continuativo, con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato, anche presso enti diversi da quello che indice la procedura, purché ricompresi nell’ambito della Regione Abruzzo.

Pertanto, non costituisce titolo di accesso alle selezioni:

  • il rapporto di lavoro maturato con contratto di lavoro diverso dalla dipendenza;

  • il servizio, ancorché prestato con rapporto di lavoro subordinato, maturato in Regioni diverse da quella in cui viene espletata la procedura di selezione.

I soggetti in possesso dei requisiti di stabilizzazione possono partecipare a tutte le selezioni indette dagli enti del S.S.N. della Regione.

L’anzianità di servizio deve essere maturata integralmente nel profilo messo a selezione, atteso che la stabilizzazione presuppone il necessario possesso di un’esperienza professionale nello svolgimento delle funzioni proprie del profilo di inquadramento. Invece, per le selezioni per la dirigenza medica, veterinaria e sanitaria, dovrà essere conteggiato anche il servizio maturato in disciplina equipollente/affine a quella oggetto di selezione.

Il D.P.C.M. 06.03.2015 non ha compreso tra i requisiti di ammissione alla selezione l’essere in servizio ad una determinata data, ma solo in particolari periodi, anche non continuativi. Di conseguenza, sono ammissibili alle selezioni tutti i candidati in possesso dei requisiti previsti dalle norme di legge e dal D.P.C.M. 06.03.2015 anche se non in servizio presso enti del S.S.R. alla data di indizione del bando o in altra data.

L’anzianità di servizio a tempo determinato maturata in regime di part-time deve essere valutata per intero.

Il rinvio alle disposizioni previste dall’ordinamento per ciascuna delle procedure concorsuali riservate. Ai sensi dell’art. 2, comma 3, D.P.C.M. 06.03.2015, alle procedure concorsuali in esame, si applicano, per ciascuna categoria di personale, le disposizioni rispettivamente previste dall’ordinamento.

3. I limiti per l’attuazione delle procedure concorsuali (art. 3 D.P.C.M. 06.03.2015)

L’individuazione dei limiti. Le procedure concorsuali in esame sono avviate (nel rispetto del contenimento della spesa complessiva di personale previsti dalla normativa nazionale vigente), a valere sulle risorse finanziarie assunzionali relative agli anni intercorrenti dal 2015 al 2018 (anche complessivamente considerate), nel rispetto della programmazione del fabbisogno, nonché (a garanzia dell’adeguato accesso dall’esterno) nel limite massimo complessivo del 50%, in alternativa a quelle di cui all’art. 35, comma 3bis, D.Lgs. n. 165/2001 o, in maniera complementare, purché nel limite della predetta percentuale (cfr., art. 3, comma 1, D.P.C.M. 06.03.2015).

Le disposizioni specifiche correlate all’esistenza del piano di rientro. L’avvio delle procedure concorsuali tiene anche conto di quanto previsto dall’art. 1, comma 174, Legge n. 311/2004, in materia di blocco automatico del turn over, nonché, per le Regioni soggette ai piani di rientro, dei differenti regimi e vincoli assunzionali previsti dai piani medesimi.

Al riguardo, si precisa che tale limite del 50% delle risorse finanziarie assunzionali destinate alle stabilizzazioni non è riferito ad una singola procedura concorsuale, ma all’intero ambito di tali stabilizzazioni. Il rispetto del limite del 50% delle risorse finanziarie disponibili per le assunzioni costituisce attuazione del principio della garanzia di adeguato accesso dall’esterno, in alternativa alle altre misure disposte dalla normativa vigente, ed, in particolare, dall’art. 35, D.Lgs. n. 165/2001, le quali, di conseguenza, non trovano applicazione.

Le Regioni soggette ai piani di rientro dal deficit sanitario dall’art. 1, comma 180, Legge n. 311/2014 quantificano il predetto limite in rapporto alle risorse finanziarie assunzionali previste dai medesimi piani di rientro (cfr., art. 3, comma 1, D.P.C.M. 06.03.2015). Inoltre, per tali Regioni, sussiste la previsione contenuta nell’art. 4bis, D.L. n. 158/2012 (convertito con modificazioni dalla Legge n. 189/2013), secondo la quale, ove sia scattato per l’anno 2012 il blocco automatico del turn over ex art. 1, comma 174, Legge n. 311/2004 (ovvero sia comunque previsto per il medesimo anno il blocco del turn over in attuazione del piano di rientro o dei programmi operativi di prosecuzione del piano), tale blocco può essere disapplicato, nel limite del 15% e in correlazione alla necessità di garantire l’erogazione dei livelli essenziali di assistenza, qualora il competente tavolo tecnico di verifica dell’attuazione del piano di rientro abbiano accertato il raggiungimento, anche parziale, degli obiettivi previsti nel piano medesimo (cfr., art. 3, comma 2, D.P.C.M. 06.03.2015).

Il limite temporale massimo di utilizzo delle graduatorie. Le graduatorie definite in esito alle procedure in questione sono utilizzabili, nell’ambito delle singole Regioni, per le assunzioni che avverranno nel corso del quadriennio 20152018 a valere sulle predette risorse (cfr., art. 3, comma 3, D.P.C.M. 06.03.2015).

4. La proroga dei contratti a tempo determinato (art. 4 D.P.C.M. 06.03.2015)

Le condizioni di legittimità delle proroghe dei contratti a tempo determinato. Gli Enti del S.S.N. possono prorogare i contratti di lavoro a tempo determinato del personale del comparto sanità e di quello appartenente all’area della dirigenza medica e del ruolo sanitario, in relazione a:

  • il proprio effettivo fabbisogno;

  • le risorse finanziarie disponibili;

  • i posti in dotazione organica vacanti indicati nella programmazione triennale.

Tale proroga può essere effettuata fino all’espletamento delle procedure concorsuali e comunque non oltre il 31.12.2018, nel rispetto delle disposizioni contenute nell’art. 9, comma 28, D.L. n. 78/2010 (convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 122/2010), che costituiscono principi generali ai fini del coordinamento della finanza pubblica, ai quali ogni singola Regione e gli enti del S.S.N. si devono adeguare, fermi restando, per le Regioni sottoposte al piano di rientro, il rispetto degli specifici vincoli previsti dal predetto piano.

5. Lavori socialmente utili e di pubblica utilità (art. 5 D.P.C.M. 06.03.2015)

L’assunzione a tempo indeterminato dei lavoratori socialmente utili e di pubblica utilità. Ai sensi dell’art. 5, comma 1, D.P.C.M. 06.03.2015, per meglio realizzare le finalità di superamento del precariato e al fine di favorire il reclutamento a tempo indeterminato dei lavoratori socialmente utili di cui all’art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 81/2000 e dei lavoratori di pubblica utilità di cui all’art. 3, comma 1, D.Lgs. n. 280/1997, nonché nel rispetto delle norme regionali di riferimento, le Aziende e gli enti del S.S.N. che hanno vuoti in organico relativamente alle qualifiche per le quali non è richiesto il titolo di studio superiore a quello della scuola dell’obbligo, nel rispetto dei vincoli previsti dall’art. 3 D.P.C.M. 06.03.2015, procedono all’assunzione a tempo indeterminato – anche con contratti di lavoro part time (cfr., art. 5, comma 1, D.P.C.M. 06.03.2015), attingendo i nominativi dagli elenchi predisposti ai sensi dell’art. 4, comma 8, Legge n. 125/2013 (di conversione del D.L. n. 101/2013).

6. La stabilizzazione del personale dedicato alla ricerca e del personale medico in servizio presso i servizi di emergenza e urgenza delle Aziende Sanitarie (art. 5 D.P.C.M. 06.03.2015)

La stabilizzazione del personale dedicato alla ricerca. Ai sensi dell’art. 6, comma 1, D.P.C.M. 06.03.2015, è ammesso a partecipare alle procedure concorsuali riservate il personale dedicato alla ricerca in sanità, in possesso dei requisiti previsti dall’ordinamento vigente, con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato.

I titoli equipollenti di accesso alla procedure concorsuali riservate al personale dedicato alla ricerca. L’art. 6, comma 2, D.P.C.M. 06.03.2015 evidenzia che, nei limiti indicati dai DD.II. 28.06.2011, 11.11.2011 e 15.01.2013, costituiscono titolo di accesso alla procedure concorsuali in esame anche le seguenti lauree:

  • laurea specialistica o magistrale in biotecnologie mediche, farmaceutiche e veterinarie (classe 9/S e LM9);

  • laurea in biotecnologie agrarie (classe 7/S e LM7);

  • laurea in biotecnologie industriali (classe 8/S e LM8).

Inoltre, il dottorato di ricerca costituisce titolo di accesso alternativo al diploma di specializzazione.

Le proroghe ammissibili dei contratti a tempo determinato del personale dedicato alla ricerca nelle more del completamento delle procedure concorsuali. Ai sensi dell’art. 6, comma 3, D.P.C.M. 06.03.2015, sono prorogati fino al completamento delle procedure concorsuali, e comunque entro e non oltre la data del 31.12.2018, i contratti di lavoro subordinato a tempo determinato del personale:

  • dedicato alla ricerca nel S.S.N., alla data di pubblicazione (cioè, il 30.10.2013) della Legge n. 125/2013 (di conversione del D.L. n. 101/2013);

  • che, ai sensi dell’art. 35, comma 3bis, lett. a), D.Lgs. n. 165/2001, o ai sensi dell’art. 4, comma 6, D.L. n. 101/2013 (convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 125/2013), ha maturato presso l’ente che intende effettuare le procedure concorsuali (ovvero presso altri enti del S.S.R.), almeno tre anni di servizio.

La stabilizzazione del personale medico in servizio presso i servizi di emergenza e urgenza. Ai sensi dell’art. 6, comma 4 D.P.C.M. 06.03.2015, è consentita la stabilizzazione del personale medico dei servizi di emergenza e urgenza non in possesso del diploma di specializzazione in medicina e chirurga d’accettazione e d’urgenza con almeno cinque anni di “prestazione continuativa” antecedenti alla scadenza del bando presso i servizi di emergenza e urgenza degli Enti del S.S.N., fatti salvi i periodi di interruzione previsti dall’art. 19, comma 2 e dall’art. 21, comma 2, D.Lgs. n. 81/2015.

Le procedure di stabilizzazione del personale medico in servizio presso i servizi di emergenza e urgenza. I soggetti ammissibili alle procedure di stabilizzazione del personale medico in servizio presso i servizi di emergenza e urgenza, in coerenza con le disposizioni della Legge n. 125/2013 (di conversione del D.L. n. 101/2013), nonché alla luce dei richiami contenuti nel D.Lgs. n. 81/2015, sono solo coloro che hanno maturato cinque anni di servizio con rapporto di lavoro subordinato. Il personale interessato deve comunque essere in possesso di una specializzazione, anche se non equipollente o affine a medicina e chirurgia d’accettazione e d’urgenza. Il personale interessato deve comunque essere in possesso di una specializzazione, anche se non equipollente o affine a medicina e chirurgia d’accettazione e d’urgenza.

Il termine per bandire la procedura concorsuale, in coerenza con e altre selezioni previste dal D.P.C.M. 06.03.2015, è il 31.12.2018.

Il personale precario eventualmente in scadenza può essere prorogato alle stesse condizioni e con gli stessi limiti stabiliti dall’art. 4 D.P.C.M. 06.03.2015 per il personale in possesso dei requisiti di cui all’art. 2 D.P.C.M. 06.03.2015.

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Perché utilizzo un vecchio computer con Linux installato

di Germano De Sanctis

Spesso mi ritrovo a partecipare a riunioni di lavoro, circondato da svariate persone in giacca e cravatta, quasi tutti con il Mac sul tavolo, accanto allo smartphone e, a volte, pure al tablet. Anzi, al dire il vero, nel corso di questi incontri, mi capita sempre più spesso ad essere uno dei pochi partecipanti che lavora ancora con un computer e, per di più, con Linux installato.
Immaginatevi lo stupore degli astanti che mi vedono poggiare in modalità silenziosa il mio smartphone al solo scopo di ricevere una telefonata (come se fosse un cellulare Nokia di vent’anni fa!) e comincio a dipanare il filo dell’obsoleto alimentatore del mio computer, per, poi, attaccarlo alla presa, incurante che i cavi che si aggroviglino sotto la sedia. Lo ammetto, non sono affatto “cool”.

Devo riconoscere che, a livello estetico, il mio antiquato (sebbene costantemente potenziato e aggiornato) netbook Asus non può competere con un Macbook, né il mio amatissimo (e sconosciutissimo) Ubuntu Phone può suscitare la medesima attenzione generata dalla vista dell’ultimo modello di un iPhone o di un Galaxy.
Tale situazione è la diretta conseguenza del fatto che, ormai, molti consumatori, acquistando un dispositivo informatico, non comprano una tecnologia, bensì vogliono comprare uno stile di vita. Proprio partendo da questa constatazione, posso dire che ha a me piace molto Linux. E mi piace nella consapevolezza dell’esistenza di tutti i problemi che comporta usare un sistema operativo libero e gratuito, che non gode del supporto incondizionato delle società produttrici di hardware e che periodicamente ha problemi di incompatibilità (a volte il wifi non funziona, altre volte manca un driver per la scheda audio, oppure il risparmio energetico non è ottimizzato etc.). A dirla tutta, l’aspetto di Linux che mi piace più in assoluto consiste nel fatto che, vista l’esiguità dei computer in vendita (peraltro, quasi solo on line) con Linux già preinstallato, per poterlo utilizzare devo scaricarmi l’immagine ISO di una sua distribuzione e la devo installare da solo, con la conseguenza che posso “cucirmi” su misura la configurazione che più si adatta alle mie esigenze contingenti.
A fronte di tali difficoltà, peraltro, superabili grazie al prezioso lavoro di supporto ai neoifiti svolto dai volontari appartenenti ai vari gruppi LUG (Linux Users Group) sparsi in tutto il mondo, Linux rende l’utente libero da ogni condizionamento, poiché non richiede l’accettazione di licenze d’uso ed installabile su qualsiasi macchina, grazie all’esistenza di decine e decine di distribuzioni prodotte da una “comunità” di sviluppatori sempre più prolifica (forse anche troppo, data l’eccessiva frammentazione che caratterizza il panorama dei sistemi operativo del pinguino).

Attualmente, Linux è il sistema operativo installato su tutti i supercomputer del mondo (nonché sulla maggioranza dei server). Inoltre, il kernel di Linux è il cuore pulsante di Android. In altri termini, il fatto che il sistema operativo del pinguino risulti essere così poco conosciuto dall’opinione pubblica non ne sminuisce affatto l’importanza, dato che esso ha ormai assunto un ruolo di assoluto rilievo nella gestione delle varie attività e dei singoli servizi della nostra vita quotidiana. Infatti, le infrastrutture informatiche (come, ad es., quelle per l’erogazione dell’elettricità, quelle fognarie, o quelle stradali), quando funzionano bene, sono date per scontate (anzi, sono invisibili), ma non per questo motivo sono meno importanti.

A ben vedere, le difficoltà di utilizzo di Linux sono un elemento irrinunciabile della sua bellezza, anzi, ne sono un aspetto fondamentale. Certamente, la sua installazione e la gestione degli eventuali problemi connessi al suo corretto funzionamento non sono una passeggiata per qualsiasi utente, ma sono proprio questi aspetti che costringono chi lo voglia usare ad apprendere gli elementi basilari della programmazione di un sistema operativo, nonché a conoscere le componenti hardware sui cui è installato.
Infatti, al contrario di Apple e Windows, Linux costringe l’utente ad abbandonare la quella dimensione di tranquillità e comodità in cui il computer decide aprioristicamente quali operazioni e/o scelte di programmazione possono essere svolte. Invece, Linux responsabilizza l’utente nell’utilizzo del suo computer, costringendolo a saperlo usare consapevolmente, anche correndo qualche rischio di “crash”. È noto che ogni grande potere genera grandi responsabilità e la gestione di “root” è indubbiamente un grande potere.
A me affascina il fatto che questa responsabilità mi costringe ad imparare sempre nuovi aspetti del linguaggio informatico. Ovviamente, sono consapevole che la riduzione della complessità del linguaggio macchina rappresenta uno dei motori dell’innovazione informatica degli ultimi decenni, poiché ha reso possibile a sempre più persone l’utilizzo di dispositivi complessi e potenti. D’altronde, proprio questo aspetto rappresenta il cuore della rivoluzione compiuta, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, da Windows e Apple, le quali hanno reso semplice l’uso di un computer, al punto da permetterne l’utilizzo a milioni di persone prive di specifiche competenze informatiche.

Tuttavia, bisogna tenere sempre a mente che questa facilità d’uso comporta un pericoloso costo intellettuale. Infatti, la eliminazione della complessità impedisce di capire come funziona il proprio computer ed, in generale, i dispositivi informatici. Oggigiorno, pochi utenti hanno la consapevolezza di come funziona il loro computer, tablet, o smartphone, o, peggio ancora, pochissimi di loro sono in grado si svolgere operazioni di riparazione.
Si tratta della negazione della cultura degli hacker, secondo la quale, invece, l’accesso ai codici sorgenti (cioè, l’ “apertura” del sistema) e la curiosità di chi usa un computer possono esplicarsi pienamente solo convivendo con la scomodità e le difficoltà di utilizzo insite in un sistema operativo dove l’utente deve “amministrare” ogni singola operazione.
Infatti, Linux, depurato dalle sue moderne e sempre più “friendly” interfacce grafiche (i c.d. desktop environment), è un sistema operativo complicato, ma, al contempo aperto e trasparente. Inoltre, esso è un sistema operativo “abilitante”, in quanto il suo utilizzo comporta un immediato aumento del proprio livello di consapevolezza da parte di ogni singolo utente. Infatti, solo grazie allo studio della riga di comando ho imparato ad usare un computer in modo consapevole, in quanto ho imparato a capirlo, smettendo di essere un utente ignaro di quello che accadeva all’interno del dispositivo che stavo utilizzando.

Pertanto, ho deciso che, per quanto mi riguarda, preferisco convivere con un minimo di scomodità, anche perché questa condizione mi permette di non irrigidirmi ed impantanarmi nella gestione di routine informatiche predefinite da altri. In altri termini, trovo ragionevole “litigare” con il mio sistema operativo, pur di non perdere l’opportunità di continuare ad apprendere sempre qualcosa di nuovo sulla sua gestione.

Bisogna ricordare che questo modo di ragionare è uno dei concetti fondamentale sui cui si è sviluppata negli anni la filosofia dell’open source, la quale prevede che l’innovazione nasce dalla felice commistione di un pizzico di sana anarchia, tanta libertà e altrettanto giustificata ambizione.
In altri termini, il modo dell’informatica non si sarebbe affatto sviluppato nel modo a cui abbiamo assistito se le innovazioni fossero state affidate solo ad un gruppo startupper esclusivamente intenzionati a fatturare milioni di dollari. D’altronde, gli stessi Mac e Windows hanno rispettivamente rinvenuto la loro base di sviluppo in un sistema sistema libero come Unix e nelle interfacce a finestre inventate (ma mai brevettate) negli straordinari laboratori dello Xeroc Park.

In conclusione, nonostante il passare degli anni e il continuo diffondersi di software sempre più “automatizzati” e chiusi, cerco ancora di rispettare lo spirito della cultura hacker, la quale è alla base della migliore tecnologia contemporanea, cioè, quella aperta, accessibile, anche se, a volte, un po’ scomoda.

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Il nuovo regolamento sugli standard dell’assistenza ospedaliera

di Germano De Sanctis

Premessa

Lo scorso 19 giugno è entrato in vigore il Decreto del Ministero della Salute 2 aprile 2015 n. 70 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 127 del 4 giugno 2015), il quale è stato emanato in attuazione dell’art. 1, comma 69, Legge 30 dicembre 2004, n. 311 e dell’art. 15, comma 13, lett. c). D.L. 6 luglio 2012, n. 95 (convertito, con modificazioni, dalla Legge 7 agosto 2012, n. 135).

Il D.M. n. 70/2015 è un complesso documento di programmazione sanitaria che introduce, mediante le disposizioni contenute nel suo allegato tecnico, una serie di importanti novità per la sanità italiana, a cui le Regioni e le strutture sanitarie dovranno adeguarsi entro il 2016.

Nello specifico, il decreto ministeriale in questione è un regolamento recante la definizione degli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza ospedaliera.

In altri termini, il D.M. n. 70/2015 ridisegna, sia la mappa, che l’organizzazione dell‘intera rete ospedaliera italiana. Infatti, il regolamento in tende garantire, nell’erogazione delle prestazioni sanitarie, dei livelli qualitativi appropriati e sicuri, favorendo, al contempo, una significativa riduzione dei costi, nel rispetto dei Livelli Essenziali di Assistenza (c.d. LEA). Infatti, si è in presenza di un complesso documento tecnico, che si caratterizza per l’enorme numero di previsioni finalizzate ad assicurare, su tutto il territorio nazionale, un’uniforme definizione degli standard delle strutture sanitarie dedicate all’assistenza ospedaliera.

Anzi, si può tranquillamente affermare che l’adozione del D.M. n. 70/2015 segna l’avvio della fase applicativa del processo di quel riassetto strutturale e di qualificazione della rete assistenziale ospedaliera, che rappresenta, ormai da diversi anni, una fondamentale linea programmatica del Servizio Sanitario Nazionale. In particolare, tale riassetto dovrà fornire risposte effettive alle nuove esigenze del mutato quadro di riferimento sanitario, così come delineato dalle tre principali transizioni degli ultimi decenni: l’epidemiologica, la demografica e la sociale.

Infatti, la definizione degli standard dimensionali, l’analisi dei volumi di attività e l’individuazione delle soglie minime di esito rappresentano gli strumenti essenziali per rendere effettiva la valutazione della qualità delle prestazioni, garantendo al contempo, un recupero sostanziale di risorse. Quest’ultima considerazione trova ulteriore conforto nel recente accordo raggiunto in seno alla Conferenza Stato Regioni circa un’ulteriore riduzione della dotazione finanziaria del Fondo Sanitario Nazionale e che impone, di conseguenza, una revisione sostanziale degli standard ospedalieri, al fine di garantire il contenimento della spesa e la sostenibilità del sistema sanitario.

Appare evidente che il conseguimento di simili ambiziosi obiettivi necessita della costruzione di un sistema capace di integrare rete ospedaliera con la rete dei servizi territoriali. In altri termini, il regolamento in esame intende rafforzare la missione assistenziale affidata agli ospedali, al fine di rendere possibile a ciascuna componente del Servizio Sanitario Nazionale lo svolgimento del proprio specifico ruolo di presa in carico delle persone, assicurando, al contempo, i dovuti livelli di qualità degli interventi.

Fatta questa premessa passiamo all’esame del regolamento in questione, dedicando preliminarmente qualche riga all’evoluzione storica dell’argomento in questione, al fine di meglio comprendere le novità introdotte.

Cenni storici

Sin dall’introduzione del Servizio sanitario nazionale (SSN) con la Legge 23 dicembre 1978 n. 833, il legislatore nazionale ha cercato di individuare le forme più idonee per la sua gestione, al fine di migliorare le prestazioni fornite al cittadino, nel rispetto del principio di ottimizzazione delle risorse disponibili.

Tale intento è rinvenibile anche nel successivo D.Lgs. n. 502/1992, il quale, nel riordinare la disciplina sanitaria, dedica un intero Titolo alle prestazioni in ambito sanitario.

Tuttavia, nel tempo, l’attenzione del legislatore non si è esclusivamente soffermata sulle sole strutture di erogazione dei servizi, bensì anche sulla struttura centrale ministeriale. Infatti, il D.Lgs. 30 giugno 1993 n. 266 ha riorganizzato Ministero, assegnandoli (per espressa previsione dell’articolo 1) le funzioni di programmazione sanitaria ed individuando i livelli delle prestazioni da assicurare uniformemente sul territorio nazionale, nonché il coordinamento del sistema informativo e la verifica comparativa dei costi e dei risultati conseguiti dalle singole Regioni. Infine, l’art. 5 D.Lgs. n. 266/1993 ha istituito l’Agenzia per i Servizi Sanitari Regionali (Agenas), con funzione di supporto delle attività regionali, di valutazione comparativa dei costi e dei rendimenti dei servizi resi ai cittadini e di segnalazione di disfunzioni e sprechi nella gestione delle risorse personali e materiali e nelle forniture.

In seguito, il D.P.R. 14 gennaio 1997 ha individuato i criteri per l’erogazione dei servizi sanitari da parte delle varie strutture presenti sul territorio nazionale. Nello specifico, sono dettagliatamente indicati i requisiti specifici per le strutture che erogano prestazioni all’interno del SSN, suddividendoli in tre macro aree:

  1. l’assistenza specialistica in regime ambulatoriale, da erogarsi in strutture, intra o extraospedaliere, preposte all’erogazione di prestazioni sanitarie di prevenzione, diagnosi;

  2. la terapia e la riabilitazione, da svolgersi in situazioni che non richiedono ricovero neanche a ciclo diurno;

  3. il ricovero ospedaliero, a ciclo continuo e/o diurno per acuti.

Infine, merita una specifica segnalazione il D.P.C.M. del 29 novembre 2001 (in vigore dal 23 febbraio 2002), il quale ha definito i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), cioè le prestazioni e i servizi che il SSN deve fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di una quota di partecipazione (il c.d. ticket). A tal proposito, si ricorda che le principali fonti normative sui LEA il D.Lgs. n. 502/1992 ss.mm.ii. e la Legge n. 405/2001.

I LEA sono organizzati in tre grandi aree:

  1. l’assistenza sanitaria collettiva in ambiente di vita e di lavoro: essa ricomprende tutte le attività di prevenzione rivolte alle collettività ed ai singoli. Nello specifico, sono ascrivibili a tale area:

    • la tutela dagli effetti dell’inquinamento;

    • la tutela dai rischi infortunistici negli ambienti di lavoro;

    • la sanità veterinaria;

    • la tutela degli alimenti;

    • la profilassi delle malattie infettive;

    • le vaccinazioni e i programmi di diagnosi precoce;

    • la medicina legale;

  2. l’assistenza distrettuale: essa ricomprende tutte le attività ed i servizi sanitari e sociosanitari diffusi capillarmente sul territorio. Nello specifico, sono ascrivibili a tale area:

    • la medicina di base;

    • l’assistenza farmaceutica;

    • la specialistica e diagnostica ambulatoriale;

    • la fornitura di protesi ai disabili;

    • i servizi domiciliari agli anziani e ai malati gravi;

    • i servizi territoriali consultoriali (consultori familiari, Sert, servizi per la salute mentale, servizi di riabilitazione per i disabili, etc.);

    • le strutture semiresidenziali e residenziali (residenze per gli anziani e i disabili, centri diurni, case famiglia e comunità terapeutiche);

  3. l’assistenza ospedaliera: essa ricomprende le seguenti attività:

    • pronto soccorso;

    • ricovero ordinario;

    • day hospital e day surgery, in strutture per la lungodegenza e la riabilitazione.

Nonostante gli sforzi operati dai singoli Governi che si sono succeduti nel tempo, per assicurare ai cittadini un’erogazione delle prestazioni sanitarie efficaci, efficienti e omogenee su tutto il territorio nazionale, i Servizi Sanitari Regionali (intesi nel loro complesso) non sono mai riusciti finora a garantire un corrispondente assetto organizzativo, al punto da giustificare la produzione da parte del legislatore nazionale di norme sulla formazione del bilancio finalizzate al contenimento delle spese ed al miglioramento delle prestazioni.

Un norma esemplificativa di tale situazione è rinvenibile nella Legge 30 dicembre 2004 n. 311 che fissa criteri e limiti per le assunzioni del personale (tuttora sostanzialmente vigente: cfr., art. 1, comma 584, Legge 23 dicembre 2014 n. 190), nonché il rispetto degli obblighi di programmazione a livello regionale, razionalizzando le reti strutturali della domanda e dell’offerta ospedaliera e garantendo l’equilibrio economico-finanziario dei singoli sistemi sanitari regionali (cfr., l’art. 1, comma 98 e comma 173, lettera d), Legge 30 dicembre 2004 n. 311).

Le novità contenute nel D.M. n. 70/2015 in materia di standard ospedalieri

Gli obiettivi.

In primo luogo, necessita evidenziare che il punto 1 dell’Allegato I individua gli obiettivi e gli ambiti di azione, sottolineando la necessità di ridurre il tasso di occupazione dei posti letto, la durata della degenza media, nonché il tasso di ospedalizzazione, che consente un aumento della produttività ed un conseguente miglioramento delle performance del SSN.

La classificazione degli ospedali.

Ai sensi del punto 2 dell’Allegato I, gli obiettivi del D.M. n. 70/2015 sono fondati sull’integrazione dei servizi offerti dalle reti dell’emergenza-urgenza, dell’ospedale e del territorio. In particolare, il punto 2 dell’Allegato I classifica gli ospedali vengono classificati in tre livelli:

  1. ospedali di base con un bacino di utenza compreso tra 80.000 e 150.000 abitanti (cfr., punto 2.2 dell’Allegato I);

  2. ospedali di I livello con un bacino di utenza compreso tra 150.000 e 300.000 abitanti (cfr., punto 2.3 dell’Allegato I);

  3. ospedali di II livello con un bacino di utenza compreso tra 3.000.000 e 1.200.000 abitanti (cfr., punto 2.4 dell’Allegato I).

Inoltre, si prevede espressamente che i singoli ospedali devono disporre, in relazione al livello di appartenenza, di unità operative di complessità e specialità crescente.

Il dimensionamento delle strutture in funzione del bacino di utenza rappresenta un aspetto molto positivo del D.M. n. 70/2015, in quanto di vincola l’individuazione della struttura sanitaria più appropriata ad un parametro oggettivo, scevro da ogni forma di discrezionalità. In tal modo, sarà possibile evitare inutili duplicazioni delle strutture, con evidenti benefici in termini di efficienza nell’utilizzo delle risorse a disposizione del Servizio Sanitario Nazionale. Al contempo, il dimensionamento delle strutture per bacino di utenza renderà oggettivamente necessaria l’attivazione di servizi e/o strutture in aree geografiche che attualmente ne risultano sguarnite.

Il rapporto posti letto per abitante.

In tale contesto organizzativo, il regolamento in esame dispone che la programmazione regionale deve attribuire le funzioni di lungodegenza e di riabilitazione entro il limite di 0,7 posti letto per mille abitanti, di cui almeno 0,2 per la lungodegenza (cfr., punto 2.6 dell’Allegato I al D.M. n. 70/2015). A tal proposito, si evidenzia che le funzioni di riabilitazione sono quelle indicate nel piano di indirizzo per la riabilitazione allegato all’Accordo Stato-Regioni del 10 febbraio 2011.

I rapporti con gli erogatori privati.

Il punto 2.5. dell’Allegato I al D.M. n. 70/2015 si sofferma sui rapporti con gli erogatori privati. Tale punto adotta un criterio vincolante di programmazione ospedaliera ed indica alle Regioni un parametro da rispettare nel conferire la dotazione dei posti letto ospedalieri accreditati ed effettivamente a carico del Servizio Sanitario Regionale.

In primo luogo, si evidenzia che il regolamento dispone che le strutture ospedaliere private devono essere accreditate, mediante la sottoscrizione di appositi accordi contrattuali annuali e in base alla programmazione regionale. Tale ultima precisazione presuppone che gli erogatori privati svolgano compiti coerenti ed integrati all’interno della rete ospedaliera.

Inoltre, sin da quest’anno, la soglia di accreditabilità non può essere inferiore a 60 posti letto per acuti ed a 40 posti letto per singole strutture facenti parte di un unico gruppo, con la sola espressa esclusione delle strutture monospecialistiche. In altri termini, siamo alla vigilia di un complesso processo di riconversione e/o fusione, finalizzato al raggiungimento di una dotazione di posti letto adeguata, con l’avvertenza che, dal 1° gennaio 2017, non sarà più possibile sottoscrivere contratti con strutture accreditate con posti letto compresi tra i 40 ed i 60 posti letto per acuti e che non siano state oggetto delle predette aggregazioni.

Gli standard minimi e massimi di strutture per singola disciplina.

Il punto 3.1 dell’Allegato I al D.M. n. 70/2015 individua le strutture di degenza e dei servizi relativi ai posti letto, nonché il tasso di ospedalizzazione. Inoltre, si precisa che l’indice di occupazione dei posti letto deve attestarsi su valori del 90% tendenziale e che la durata media della degenza per i ricoveri ordinari non deve essere superiore a 7 giorni.

Conseguentemente il regolamento in esame ha anche individuato il tasso di ospedalizzazione atteso di ricoveri appropriati, fissandolo nella misura di 160 posti letto per 1000 abitanti (di cui circa un quarto per day hospital).

Si tratta di una riduzione del fabbisogno di posti letto resasi necessaria anche in virtù del percorso che prevede, sia la conversione dei ricoveri ordinari in day hospital, che la conversione dei ricoveri in day hospital in prestazioni territoriali.

In virtù di tali parametri, il regolamento afferma, altresì, che il numero di 17,5 posti letto per struttura complessa ospedaliera risulta essere perfettamente compatibile con quanto previsto dal Comitato LEA.

I volumi e gli esiti.

Per quanto concerne i volumi e gli esiti, il punto 4 dell’Allegato I al D.M. n. 70/2015 introduce una novità normativa che ha un solo precedente rinvenibile nelle disposizioni in materia di dimensionamento dei punti nascita contenute nell’Accordo della Conferenza Stato-Regioni in sede di Conferenza Unificata del 16 dicembre 2010. Infatti, il punto 4.2. dell’Allegato I al D.M. n. 70/2015 introduce le soglie minime di volume di attività e le individua attraverso una specifica tabella.

Per di più, viene specificato che tali soglie, entro sei mesi dall’emanazione del D.M. n. 70/2015, debbano essere monitorate, ridefinite ed eventualmente implementate per volumi di attività specifici, correlati agli esiti migliori.

Questa introduzione di un rapporto tra volume di prestazioni, esiti delle cure e numerosità delle strutture risulta essere molto importante. Infatti, l’introduzione della regola seconda la quale una struttura può continuare a svolgere le sue funzioni in base al volume e agli esiti rappresenta un elemento di sicura novità, nonché di garanzia della qualità e sicurezza delle cure erogate ai cittadini su tutto il territorio nazionale.

Gli standard generali di qualità

Innanzi tutto, preme ricordare che, relativamente agli standard generali di qualità ed ai requisiti di autorizzazione e accreditamento è intervenuta la recente approvazione da parte della Conferenza Stato-Regioni dell’Intesa in materia di adempimenti relativi all’accreditamento delle strutture sanitarie (cfr., n. 32/CSR del 19 febbraio 2015).

Invece, in tema di standard organizzativi, strutturali e tecnologici, il punto 6.2 dell’Allegato I al D.M. n. 70/2015 stabilisce che il rapporto percentuale tra il numero del personale del ruolo amministrativo ed il numero totale del personale impegnato nei Presidi ospedalieri che non può superare il limite del 7%.

Le reti ospedaliere.

Il punto 8 dell’Allegato I al D.M. n. 70/2015 dedica la sua attenzione all’articolazione anche delle reti ospedaliere, istituendo le seguenti 10 reti focalizzate per patologie che integrano l’attività ospedaliera:

  1. rete infarto;

  2. rete ictus;

  3. rete traumatologica;

  4. rete neonatologica e punti nascita;

  5. rete medicine specialistiche;

  6. rete oncologica;

  7. rete pediatrica;

  8. rete trapiantologica;

  9. rete terapia del dolore;

  10. rete malattie rare.

Inoltre, nell’ambito di tali reti vengono evidenziate le reti infarto, ictus e traumatologica come le tre reti in riferimento alle quali la dimensione “tempo” assume un ruolo determinate.

La rete dell’emergenza-urgenza.

Il punto 9 dell’Allegato I al D.M. n. 70/2015 dedica la sua attenzione all’articolazione delle reti di assistenza del Servizio sanitario nazionale ed, in particolare, alla rete dell’emergenza-urgenza.

A tal proposito, il regolamento prevede che la rete ospedaliera dell’emergenza sia costituita da strutture di diversa complessità assistenziale, le quali si devono relazionare secondo il modello hub and spoke integrato con una serie di strutture articolare su quattro livelli di operatività. Tali strutture devono essere in grado di rispondere alle necessità d’intervento secondo livelli di capacità crescenti in base alla loro complessità, alle competenze del personale, nonché alle risorse disponibili.

La continuità ospedale-territorio.

Merita una particolare attenzione la lettura del punto 10 dell’Allegato I del D.M. n. 70/2015, il quale è dedicato alla continuità tra le reti dell’assistenza ospedaliera e quella del territorio. Infatti, tale punto afferma espressamente che la riorganizzazione della rete ospedaliera sarà insufficiente se, in una logica di continuità assistenziale, non verrà affrontato il tema del potenziamento delle strutture territoriali, la cui carenza, o mancata organizzazione in rete, produce forti ed immediate ripercussioni sull’utilizzo appropriato dell’ospedale.

L’ospedale di comunità.

In virtù di questa importante affermazione di principio, il punto 10.1 dell’Allegato I del D.M. n. 70/2015 qualifica il c.d. ospedale di comunità, come la struttura che può fungere da elemento d’unione tra la rete ospedaliera e quella del territorio, coerentemente con quanto espressamente previsto, sia dalla Conferenza Stato-Regioni con l’Accordo n. 36 del 13 febbraio 2013 (contenente le linee di indirizzo per la riorganizzazione del sistema di emergenza-urgenza in rapporto alla continuità assistenziale), sia dall’art. 5 del Patto per la Salute 2014-2016 (avente ad oggetto l’assistenza territoriale).

Nello specifico gli ospedali di comunità devono essere strutture capaci di erogare una serie di cure che, pur non richiedendo il ricovero nelle strutture ospedaliere ordinarie, necessitano di un livello assistenziale superiore a quello domiciliare.

Esse devono avere 15-20 posti letto, devono fare riferimento ai distretti sanitari e devono essere gestite esclusivamente da personale infermieristico.

L’assistenza medica al loro interno deve essere assicurata da medici di medicina generale, pediatri o altri medici, secondo criteri da definirsi al livello regionale.

Le modalità di attuazione del D.M. n. 70/2015

Il D.M. n. 70/2015 prevede ben dodici suoi provvedimenti attuativi, fatta eccezione delle ulteriori indicazioni attuative contenute nella sua Appendice 2.

Inoltre, la tempistica di tre provvedimenti attuativi è già oggetto di mancato rispetto.

In particolare, si evidenzia il provvedimento attuativo previsto dall’art. 1, comma 2, del D.M. n. 70/2015. Tale norme dispone che, entro il 31 dicembre 2014, le Regioni devono adottare il provvedimento generale di programmazione di riduzione della dotazione dei posti letto ospedalieri accreditati ed effettivamente a carico del Servizio Sanitario Regionale, a un livello non superiore a 3,7 posti letto per mille abitanti, comprensivi di 0,7 posti letto per la riabilitazione e la lungodegenza postacuzie, nonché i relativi provvedimenti attuativi, assicurando, al contempo, il progressivo adeguamento agli standard definiti all’interno dello stesso D.M. n. 70/2015 nel corso del triennio 2014-2016. Tuttavia, come detto in premessa, il D.M. n. 70/2015 è entrato in vigore il 19 giugno 2015 e, di conseguenza, al momento della sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, la tempistica in esame era già scaduta da quasi sei mesi.

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L’incoerenza della Francia (nucleare) che vuol salvare il pianeta boicottando la Nutella. 

  

Con i suoi 58 reattori nucleari, la Francia possiede il secondo parco al mondo di impianti energetici di questo tipo (preceduta solo dagli USA), mentre la sua quota di energia nucleare sulla produzione totale di energia elettrica corrisponde a quasi il 79%, ponendola come leader indiscusso a livello mondiale. Come noto, a differenza dei nostri cugini francesi, noi italiani abbiamo scelto fonti di energia più sostenibil. Ma per il ministro dell’Ambiente francese Ségolène Royal, il principale problema della Terra non sono gli impianti nucleari del suo Paese. Per il ministro francese, piuttosto, bisogna smettere di mangiare la Nutella per salvare il pianeta. 

  
En passant, Greenpeace ha subito precisato che la Ferrero, azienda italiana produttrice della famosa Nutella, è una delle principali aziende al mondo a sostenere il progetto del Palm Oil Innovation Group, oltre ad essere uno dei primi gruppi che è riuscito a sostituire l’olio di palma utilizzato nella sua filiera con quello certificato dalla Roundtable on Sustainable Palm Oil. Cioè per fare la Nutella nessun albero viene abbattuto per creare spazio e piantare una coltivazione intensiva di palme.

  

Diversamente, Greenpeace da anni si batte per la chiusura delle centrali nucleari d’Oltralpe. Il 18 marzo 2014, per esempio, la stessa organizzazione ecologista riuscì ad esporre su uno dei reattori dell’impianto della centrale nucleare di Fessenheim situata nell’est della Francia un enorme striscione che recitava “Stop risking Europe” (Basta mettere a rischio l’Europa). L’iniziativa era tesa a denunciare le debolezze del sistema di sicurezza degli impianti atomici. Secondo quanto riportato da TMNews, l’impianto nucleare di Fessenheim, che sorge sulle rive del Reno, ai confini con Svizzera e Germania, è considerato uno dei più vulnerabili alle attività sismiche e alle inondazioni. Un anno prima, ben 29 attivisti erano stati arrestati dalla polizia francese dopo aver fatto irruzione nella centrale nucleare francese di Tricastin, per esporre due striscioni con la scritta: “Tricastin: incidente nucleare” e “Francois Hollande: presidente della catastrofe?”. In particolare, le proteste sono mirate soprattutto alla chiusura delle centrali più antiche, non solo in Francia, ma in tutta Europa, che, considerata l’usura e l’obsolescenza dei propri impianti, sono anche le più a rischio di disastro ambientale.

  
Nonostante le promesse del presidente Hollande sulla chiusura di alcuni impianti, il parco nucleare francese è ben lontano da una sua dismissione, sia pure parziale. E nonostante il rischio ambientale rappresentato dai reattori nucleari del proprio Paese, il ministro dell’Ambiente francese si occupa, invece, degli alberi che verrebbero abbattuti da una sola azienda italiana per produrre la sua nota crema gianduia, senza, peraltro, informarsi o meno se tale azienda sia effettivamente responsabile della deforestazione mondiale, di cui – in ogni caso – sarebbero responsabili molte altre industrie (non solo alimentari), visto l’uso intensivo che dell’olio di palma viene fatto nelle catene produttive di tutto il pianeta. E salvo, poi, chiedere scusa su Twitter. In ogni caso, notiamo con disappunto che ha chiesto solo scusa, il ministro, non ha detto che si è sbagliata. Insomma, non è che abbia anche ritrattato.

  
Questo brutto episodio di politica 2.0 della peggior specie, ci lascia però supporre che il tema dell’ecologia sia stato solo strumentale a sabotare una delle poche aziende italiane più competitive a livello globale. L’economia europea in questi anni di crisi ha dimostrato come la politica dei singoli Paesi si stia facendo via via più aggressiva nei confronti dei propri partner UE: questa specie di campagna diffamatoria stroncata sul nascere non è che un piccolo esempio. E oltretutto non è che un episodio marginale tra altri ben più macroscopici. 

  
Se, infatti, per salvare il mondo dobbiamo smettere di mangiare Nutella come suggerisce la ministra francese, dobbiamo allora pensare che lasciare i profughi del Nord Africa sugli scogli, o respingerli entro i confini italiani, come fa il governo a cui lei appartiene, contribuisce a migliorarlo? E se la Nutella contribuisse davvero a distruggere il pianeta, per chi dovremmo salvarlo? Per una manica di razzisti con la ‘spocchia’ di chi si sente migliore di chi non ha avuto la fortuna di nascere nella civile ed evoluta Europa? Così civile da aver prodotto due guerre mondiali in meno di cinquant’anni? Vale davvero la pena salvare il pianeta per chi lo sta rendendo un posto peggiore?

MDS – BlogNomos

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FISCO: ARRIVA LA CERTIFICAZIONE UNICA CHE SOSTITUIRÀ IL CUD PER DIPENDENTI E PENSIONATI.

Partirà oggi, 2 marzo 2015, la nuova certificazione unica, che dipendenti, altri lavoratori assimilati e pensionati riceveranno al posto del Cud. Scade, infatti, il 2 marzo il termine entro cui i datori di lavoro e gli enti previdenziali in qualità di sostituti d’imposta (es.: INAIL per il periodo in cui il lavoratore è stato in infortunio) devono predisporre il nuovo modello di certificazione. Non si tratta, in verità, di un termine ordinatorio (alla scadenza, se i nuovi modelli non saranno ancora messi a disposizione dei lavoratori, non verranno irrogate sanzioni). Pertanto, se non oggi, la nuova certificazione unica potrebbe arrivare anche nei prossimi giorni e, comunque, entro lunedì prossimo, almeno per i lavoratori dipendenti. 

Le novità rispetto al Cud degli anni scorsi sono tre. La prima è costituita dal fatto che la certificazione unica non interesserà più soltanto dipendenti, assimilati e pensionati ma altresì i lavoratori autonomi o coloro i quali abbiano percepito redditi diversi e provvigioni. Ciò spiega perché non si chiami più Cud (certificazione unica dipendenti) ma solo certificazione unica (Cu).

Nella nuova certificazione unica, inoltre, verrà fornito un maggior numero di informazioni rispetto al vecchio Cud. Infatti, nei propri dati fiscali i contribuenti troveranno anche un prospetto con notizie relative ai familiari a carico, funzionale all’attribuzione delle relative detrazioni, in cui devono essere indicate tutte le informazioni che implichino l’eventuale riconoscimento di particolari benefici: come la presenza di un figlio disabile, per esempio, o il primo figlio che sostituisce il coniuge mancante, oppure la vivenza a carico di figli minori di tre anni. Per ogni persona verranno indicati codice fiscale, numero dei mesi a carico, percentuale di detrazione ed eventuale detrazione al 100% in caso di affidamento dei figli. Nell’ultimo rigo del prospetto c’è, infine, una casella relativa alle famiglie numerose, che riporterà la quota di detrazione spettante. Per quanto riguarda i lavoratori dipendenti con redditi fino a 26mila euro, cioè quelli che hanno diritto al bonus DL 66/2014, questi ultimi si ritroveranno nella certificazione unica anche un’apposita sezione relativa al bonus di 80 euro in busta paga.



Terza novità è che entro lunedì 9 marzo (la scadenza del 7 marzo cade, infatti, di sabato) i sostituti d’imposta dovranno inviare la certificazione unica anche all’Agenzia delle Entrate. La nuova certificazione unica, infatti, costituirà la base dati del 730 precompilato che da quest’anno sarà messo a disposizione di 20 milioni di italiani circa. Vero è che i termini per l’invio all’AE varieranno a seconda del tipo di reddito. Solo le certificazioni che interessano il 730 dovranno rispettare la scadenza del 9 marzo, mentre quelle con redditi non dichiarabili con il modello 730 oppure esenti potranno essere inviate anche dopo il termine senza peraltro incorrere in eventuali sanzioni. Ciò vuol dire che i sostituti d’imposta per i lavoratori autonomi soggetti a partita Iva potranno non rispettare la scadenza del 9 marzo per l’invio telematico della certificazione unica, senza vedersi applicare alcuna sanzione. 

Da ultimo ricordiamo che ammonta a 100 euro l’importo della sanzione a carico dei sostituti d’imposta per ogni certificazione omessa o errata.

MDS – BlogNomos

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INCIDENTI STRADALI: ECCO L’APP PER LA CONSTATAZIONE AMICHEVOLE.

La società si evolve sempre più velocemente, il web 2.0 non è più il futuro, ma una realtà con cui ci misuriamo ogni giorno. Perfino adesso, mentre leggete questo post condiviso su un social network dalla piattaforma di WordPress, avete la possibilità di interagire con altri lettori o con lo stesso autore dell’articolo. Siamo talmente dentro questa rete che ci avvolge da risultare tutti – chi più chi meno – interconnessi, anche chi ne farebbe volentieri a meno: la dimensione social non riguarda solo il diario di Facebook o il profilo Twitter, né le foto condivise su Instagram o i video uploadati su YouTube. Il web 2.0 è penetrato un po’ dappertutto: condividiamo informazioni di ogni genere e in ogni modo, interagendo con altri internauti a volte quasi inconsapevolmente, con una semplice pressione del dito sul display del nostro smartphone. Così come accade, ad esempio, quando utilizziamo un’app per la navigazione, come (ne cito una tra le principali, perché è quella che personalmente uso più spesso) può essere Waze, che non solo consente l’accesso dal nostro profilo Facebook, ma, soprattutto, permette la condivisione di notizie con gli altri utenti. Prima fra tutte la segnalazione degli autovelox.

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Ecco, pensiamo alle implicazioni che il web offre in un luogo ‘aperto’ e ‘reale’ come la strada. Se, infatti, la strada, con le app per la guida assistita, è già approdata nel web 2.0, perché non sfruttare tutte le altre possibilità che la tecnologia offre agli automobilisti? Perché limitarsi solo alla navigazione, quando lo smartphone potrebbe essere impiegato nei modi più diversi? E non mi riferisco solo al pagamento del pedaggio in autostrada. Quante volte vi è capitato di rimanere coinvolti in un sinistro stradale o di assistervi e di utilizzare la fotocamera del telefono per immortalare i danni sui veicoli e la posizione degli stessi al momento dello stesso? E quante volte avreste voluto compilare il CID, ma né voi né la controparte avevate un modulo disponibile a bordo del veicolo? O, pur avendolo, non sapevate come compilarlo? Ebbene, quello della constatazione amichevole di incidente non è più un problema. Lo resta, è vero, il sinistro e sarebbe bello che qualcuno inventasse un’app per evitarne, ma visto che non è ancora possibile, vediamo come, per il momento, il nostro prezioso smartphone può esserci d’aiuto in simili circostanze.

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Per esempio, grazie ad un’applicazione di nuova generazione possiamo, già da adesso, evitare i classici moduli cartacei in copia carbone, inviare comodamente al nostro assicuratore le immagini della dinamica del sinistro ed avere, peraltro, una guida costante per conoscere i cosiddetti ‘punti neri’, ossia quelle zone più pericolose lungo il tratto di strada che stiamo percorrendo. L’app in questione si chiama Sa Free ed è disponibile per il download gratuito sia in AppStore che su Google Play. Una volta terminata la compilazione dei dati e della dinamica dell’incidente, l’app consente di spedirli con un semplice clic alla propria compagnia assicurativa, tra l’altro risparmiando agli operatori degli uffici sinistri quell’attività di decifrazione/interpretazione dei nostri geroglifici, cui per necessità sono abituati da sempre, o meglio rassegnati. Sa Free è stata realizzata da ‘Sicurezza e Ambiente’, una delle maggiori aziende in Italia specializzate nel servizio di ripristino ed è offerta gratuitamente proprio per raggiungere il più ampio numero di automobilisti.

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Addio, dunque, ai vecchi fogli gialli e azzurri e, grazie alla fotocamera dello smartphone, addio, forse, anche a quella vecchia pratica di italico conio, che, in frode alle assicurazioni, mirava, talora con la complicità del carrozziere, a gonfiare i danni del veicolo. Già, perché, come si accennava poc’anzi, con Sa Free, attraverso la compilazione del modulo ‘Ispezione veicolo’, si potranno fornire alla compagnia assicurativa le foto e le condizioni del veicolo, usufruendo, peraltro, in vista del rinnovo della polizza, di uno sconto sul premio. I dati immessi nell’app saranno immediatamente visualizzabili e fruibili nella sezione dedicata del portale di ‘Sicurezza e Ambiente’, garantendo, così, la certificazione del mittente e il momento della compilazione.

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Sempre per tale fine, la stessa azienda ‘Sicurezza e Ambiente’ lancerà a breve sul mercato un nuovo tipo di scatola nera, che verrà chiamata ‘Memory Box plus’: una sorta di cervellone elettronico operativo anche in assenza di segnale Gps, grazie ad una semplice Sim card, che potrà ricostruire ogni movimento del veicolo, senza lasciare dubbi sulla traiettoria dell’incidente, contribuendo a ridurre la piaga della frode assicurativa, il cui costo sociale, è bene ribadirlo, è sostenuto dalle persone oneste, a fronte dell’innalzamento dei costi delle assicurazioni per RCA.

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Si spera che la novità possa avere un’ampia diffusione, in un Paese come il nostro dall’elevato numero di sinistri. Solo nel 2013 sono stati 182.700 gli incidenti con lesioni a persone. Il numero dei morti è stato di 3.400, mentre i feriti sono stati 259.500. Il tutto con costi a carico della collettività elevatissimi.

MDS
Redazione
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NON POSSIAMO PERDERE LA SPERANZA

di Germano De Sanctis

In seguito all’attentato terroristico avvenuto l’11 settembre 2001, il mondo occidentale ha inizialmente risposto alla minaccia del terrorismo dichiarando guerra alle Nazioni ritenute complici degli attentatori, non risolvendo minimamente il problema e non assicurando ai suoi cittadini alcuna sicurezza.

Infatti, quattordici anni dopo e all’indomani del un nuovo attacco terroristico alla redazione del settimanale parigino Charlie Hebdo, si è reso evidente come il c.d. terrorismo islamico non solo non è stato debellato, ma anzi non è stato minimamente scalfito da anni di politiche di contrasto, attuate anche, come detto, ricorrendo agli strumenti offerti dalla guerra convenzionale.
Inoltre, la nostra libera, pacifica e democratica società europea si è scoperta totalmente incapace di prevenire l’accadimento di eventi di tale portata.

Lo sgomento è amplificato dal fatto che questi attacchi terroristici hanno sempre colpito sempre un simbolo della democrazia occidentale. Infatti, l’attentato alla redazione del settimanale Charlie Hebdo ha come obiettivo simbolico la libertà di stampa. In precedenza, altri simboli del nostro sistema democratico sono stati chirurgicamente colpiti: la scuola a Tolosa (la libertà d’struzione), il museo ebraico di Bruxelles (il divieto di discriminazione), il coffee shop di Sidney (il diritto di riunione) ed il Parlamento del Canada a Ottawa (il diritto di rappresentanza).

In altri termini, emerge una chiara strategia di destrutturare la società civile occidentale, mirando ai suoi luoghi che più rappresentano simbolicamente le libertà conquistate da secoli di lotte democratiche.

La violenza del fanatismo religioso ha provocato un improvviso risveglio delle nostre coscienze che vedono inaspettatamente in pericolo il nostro sistema di valori, cresciuto godendo di un lungo periodo di reciproca e pacifica convivenza e rinnegando i germi malefici che hanno portato allo scoppio della seconda guerra mondiale.

Pertanto, è naturale percepire l’istinto di difendere la nostra democrazia da questo attacco morale e politico, magari opponendoci emotivamente ed irrazionalmente al totalitarismo fanatico, con ogni mezzo possibile, purché rispettoso dei nostri principi etici e di legalità.

Invece, tutti questi eventi impongono una analisi serena e razionale, per comprendere cosa stia realmente accadendo in Europa e nel mondo, senza farsi condizionare dalla vendetta, dall’odio e dall’intolleranza.

Così ragionando, appare necessario rinforzare subito la nostra cultura democratica e tollerante, avendo fiducia e speranza sulle sue potenzialità, nonché abbandonando i sempre più diffusi atteggiamenti critici e disfattisti. Soltanto l’assunzione di un simile atteggiamento può rendere possibile la difesa della nostra democrazia, per trasmetterla intatta alla prossima generazione.

Infatti, promuovere lezioni d’intolleranza razziale e/o religiosa è un’operazione pericolosa, in quanto la diffusione di un simile messaggio può influenzare ampi settori della società, insinuandosi anche nelle sue fasce di età più giovane. Gli atteggiamenti di odio e di discriminazione sono soltanto capaci di risvegliare gli istinti più biechi, rendendo ammissibile ogni misfatto.
In momenti storici di tale delicatezza deve prevalere un atteggiamento responsabile e capace di ripensare completamente il nostro sistema di convivenza civile. Infatti, gli accadimenti che si stanno succedendo dal 2001 hanno delineato un nuovo scenario internazionale, che sta finendo per cambiare irrimediabilmente il mondo ed il modo di pensare di noi occidentali, essendo costretti a rimettere in discussione l’intero nostro sistema di relazioni tra culturale e religioni diverse. Si tratta di un’occasione unica da affrontare con speranza, poiché rappresenta l’unico modo per costruire un futuro migliore, rispetto a quello che l’odio e la xenofobia possono assicurarci.

Pertanto, la guerra e gli atteggiamenti xenofobi non sono la soluzione, in quanto la vendetta non è uno strumento di giustizia, ma soltanto uno strumento per generare altra e maggiore violenza.

Bisogna evitare di finire in una spirale di odio e violenza, per ricercare la pace del mondo attraverso una complessa, ancorché fragile, interconnessione tra le varie ideologie, culture e religioni.
Sin dagli albori della cultura occidentale, la politica, intesa nella sua accezione più nobile, si è distinta per essere il superamento di ogni violenza, nella consapevolezza della sua inutilità a raggiungere qualsiasi scopo.

Dobbiamo interessarci degli aspiranti kamikaze e guerriglieri islamici non per combatterli aprioristicamente, ma per capire quali siano le ragioni più profonde che li rendano disposti ad accettare l’idea della propria morte mediante l’innaturale atto del suicidio. Soltanto in tal modo, sarà possibile fermare costoro e la spirale di violenza che essi sovente generano. Infatti, la storia umana insegna che molto raramente sussiste una correlazione diretta e precisa tra un evento e l’altro, in quanto un numero indefinito di concause producono gli eventi della nostra vita.

Non è, quindi, possibile dividere in modo manicheo quelli che stanno con noi occidentali e quelli contro di noi, in quanto in questo scenario mondiale fluido ed orfano delle ideologie del XX Secolo non vi sono più certezze. Anzi, diventa necessario porre il dubbio alla base dello sviluppo futuro della nostra cultura. Soltanto il dubbio (supportato dalla curiosità) può generare la necessità di conoscere e comprendere le culture diverse dalla nostra.

In altri termini, la ricerca della conoscenza non deve pretendere di ottenere soluzioni univoche, chiare e precise ai problemi del mondo, ma deve ritenere utile porre (anche a se stessi) delle domande oneste, per, poi, ascoltare le risposte altrui.
Un simile atteggiamento culturale ci permetterà di uscire da consunti e banali stereotipi sul terrorismo, in quanto esso, inteso come modo di usare la violenza, può esprimersi in molteplici forme, a volte anche economiche, al punto che è impossibile arrivare ad una individuazione univoca del nemico da debellare.

In passato, i governi occidentali hanno preteso di sapere esattamente chi fossero i terroristi e come andassero combattuti. Invece, come hanno dimostrato i fatti di Parigi, anche questo stereotipo è destinato a dissolversi in un attimo. Soltanto quando la politica si ricongiungerà con l’etica, sarà possibile porre le basi per vivere in un mondo migliore.

Tutto dipenderà da come la politica reagirà a questi ultimi attentati. Come ha giustamente detto Francois Hollande, i terroristi hanno colpito al cuore la libertà e la laicità della società europea, ma non la sua ragione. Di conseguenza, bisognerà impedire che trionfino i rigurgiti anti-islamici, che tenderanno, nel breve periodo, a radicalizzarsi ed a stigmatizzare tutte le popolazioni musulmane. Sarà necessario reagire alla paura crescente di chi si sentirà minacciato, per impedire un pericoloso processo di disgregazione.

La scelta operata dai terroristi islamici di trasformare l’Europa nel loro terreno di scontro d’elezione impone a quest’ultima di muoversi unitariamente, non soltanto sotto gli assetti economici, ma anche e soprattutto politicamente. Occorre, quindi, una politica unitaria dell’immigrazione nell’Eurozona, per non pericolosamente ghettizzare le sempre più numerose minoranze stanziate negli Stati Membri dell’Unione Europea, dove tra l’altro, vivono, già due o tre generazioni di immigrati, che necessitano del rispetto della loro diversità, nell’ambito di uno spazio comune di valori condivisi e dove tutti devono convivere pacificamente.

Se non si ragiona in tal modo, queste minoranze rischiano di diventare oggetto dell’attività di proselitismo dei terroristi. Invece, la loro integrazione, comporterà la loro educazione alla democrazia, al lavoro, ai diritti e ai doveri della civile convivenza. In altri termini, essi possono diventare pienamente cittadini europei, nel rispetto delle loro singole diversità culturali e religiose.
Si tratta di una necessità di equità sociale sempre più cogente, visto l’imponente flusso migratorio proveniente dalla sponda africana del Mediterraneo. Di conseguenza, deve prevalere un intervento politico che contrasti visioni localistiche e protezionistiche, ormai pericolosamente fuori dal tempo. Soltanto se la società europea saprà condannare questi fermenti di odio e di violenza, sarà possibile contrastare e debellare il terrore.

La condanna al messaggio di odio dei terroristi deve passare anche attraverso i medesimi strumenti di propaganda finora usati dagli jihadisti. Quindi, bisognerà ricorrere a forme di mobilitazione di massa che dovranno attraversare trasversalmente proprio quei social network che hanno svolto da cassa di risonanza dei messaggi di odio e distruzione.

In questi giorni, si è riscontrato che la rete internet, attraverso Facebook, Twitter e gli altri principali social network, ha prodotto rapidamente una immediata risposta al messaggio di odio e terrore lanciato dai terroristi. Si tratta di una novità importante. Infatti, nel 2001, ai tempi dell’attentato alle Torri Gemelle, una simile reazione era impossibile a causa, sia dell’assenza delle attuali reti sociali, sia dell’assenza di consapevolezza collettiva del terrore globale.

In altri termini, la rete ha reso possibile una risposta immediata ed internazionale all’orrore, rendendo evidente come la diretta conseguenza della globalizzazione del terrorismo è stata la globalizzazione della sua condanna.

Si tratta di un atteggiamento condiviso importante ed incoraggiante, poiché la nostra società è ormai dominata dalle immagini e dalla comunicazione. E le immagini di morte che hanno visto come protagonisti i terroristi nei pressi della redazione di Chalie Hebdo sono state sopraffatte dalle coinvolgenti immagini ritraenti migliaia di persone scese spontaneamente in piazza a comunicare la loro alterità da tutto questo odio e da tutta questa violenza, indipendentemente dalle proprie rispettive opinioni politiche e religiose.

Siamo di fronte ad immagini che comunicano l’unione e la solidarietà su cui radicare un messaggio di speranza per uno sviluppo civile e tollerante dell’intera comunità mondiale.

Tale ultima affermazione trova anche riscontro nel fatto che nelle piazze vi erano molti cittadini musulmani, che sono le prime vittime morali di simili attentati. Le autorità islamiche francesi hanno avuto il coraggio di dichiarare senza ambiguità la loro condanna alla violenza, intesa anche come violenza interna alla loro religione. Soltanto in tal modo, è possibile non far ricadere su tutti i musulmani che vivono nei Paesi occidentali il sospetto di una loro possibile connivenza e probabile condivisione dei valori di odio e terrore trasmessi dagli jihadisti.

Nella medesima maniera, dovrebbe agire la politica, liberandosi da ogni atteggiamento ipocrita, come quello che permette di tollerare il fondamentalismo religioso (anche islamico) di certi paesi totalitari, soltanto in nome degli interessi economici.

In estrema sintesi, credo che stiamo vivendo un momento storico cruciale per la storia contemporanea, in quanto il mondo occidentale si trova di fronte ad un bivio. Da un lato, l’Occidente può manifestare i primi segnali di una positiva reazione collettiva all’odio ed al terrore, dall’altro, invece, può abbracciare un pensiero totalitariamente xenofobo, abbandonando il proprio destino agli istinti più bassi e segregazionisti e rinnegando tutto il retaggio della cultura della tolleranza che l’Illuminismo ci ha lasciato. Ricordo a tutti che Voltaire, nel suo celebre “Trattato sulla tolleranza”, ha rinvenuto nell’unione tra l’intolleranza e la tirannia la causa del regresso della società civile.

Dobbiamo ricordare, però, che la nostra ferma risposta a coloro che rappresentano il fanatismo deve agire nel rigoroso rispetto del principio di legalità, che è tanto importante, quanto la tutela delle libertà faticosamente conquistate nei secoli passati.

Uno dei rischi più gravi di questo attacco terroristico è che esso stimoli ulteriormente la xenofobia nei partiti estremisti europei (e non), i quali rappresentano un pericolo per la democrazia, alla stessa stregua dei fanatici islamisti.

Questa strage non deve far guadagnare aderenti alle organizzazioni ed ai gruppi che vorrebbero distruggere l’Europa e farla tornare all’epoca dei nazionalismi intolleranti e xenofobi dell’inizio del XX Secolo. L’Europa potrà fermare questa barbarie soltanto se i suoi cittadini saranno uniti in quest’ora difficile, comunicando un messaggio di tolleranza e rispetto reciproco.

Per il momento, le reazioni dell’opinione pubblica e del mondo politico ci consentono di sperare in un processo positivo. Ovviamente, tale spirito unitario e solidale deve essere quotidianamente coltivato, affinché prevalga anche in futuro.

Possiamo cominciare noi stessi, individuando insieme l’elenco di valori comuni che costituiscono il minimo comune denominatore della nostra società democratica e stigmatizzando tutti gli atti ed i fatti violenti che non possiamo subire. In seguito, bisognerà trasmettere tale humus culturale ed ideologico alle generazioni future, abituandole, sin dai primi anni del loro percorso di istruzione e formazione, alla convivenza ed alla tolleranza tra culture e religioni diverse.

Se il mondo occidentale riuscisse a perseguire tale risultato, il terrorismo scomparirebbe da solo, perché non troverebbe più alcun “terreno fertile” su cui attecchire.

Pertanto, è necessario promuovere con ogni mezzo una cultura di pace e di speranza capace di vincere la paura e di costruire ponti tra gli uomini. Infatti, l’unico bene fondamentale è la convivenza pacifica tra le persone ed i popoli, superando ogni differenza di civiltà, di cultura e di religione.

Personalmente, credo che tutto questo sia ancora possibile. Basta avere la speranza in un mondo migliore e privo di odio e diffidenza verso chi è diverso da noi.

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