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VIETATO SPIARE LA MOGLIE! E SE SCOPRI CHE È INFEDELE, MEGLIO NON RACCONTARLO IN GIRO.

La moglie fedifraga, sorpresa dal marito mediante l’uso di un apparecchio di videoregistrazione, può invocare l’applicazione dell’art. 615 bis c.p., che punisce chiunque, mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, si procura indebitamente notizie o immagini relative alla vita privata altrui nella sua dimora. È, pertanto, illecita l’acquisizione delle prove dell’avvenuto adulterio con tali modalità. Né è consentito rivelare ad altri le informazioni apprese. Scoprire con tali mezzi un tradimento e raccontarlo non vi risparmierà, quindi, da un’accusa per diffamazione.
A scanso di equivoci, però, chiariamo subito che lo stesso vale se è il marito infedele ad essere spiato dalla moglie…

di Michele De Sanctis

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Con sentenza n. 35681/2014, la Suprema Corte di Cassazione ha confermato la decisione del Giudice di Pace di Senorbì del 10 maggio 2013, che aveva condannato per diffamazione (art. 595 c.p.) un marito, poiché, parlando con una coppia di conoscenti, aveva insinuato il tradimento della sua ex moglie. Il ricorso dinanzi al giudice di legittimità era incentrato su una presunta mancata considerazione da parte del G.d.P. dello stato d’ira dell’imputato, che aveva appena scoperto il tradimento della moglie per mezzo di un dispositivo di registrazione da lui installato in cucina. Il capo d’accusa non era, del resto, la registrazione in sé, bensì, la diffamazione che era seguita alla visione delle immagini catturate dal marito tradito.

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Nel nostro ordinamento giuridico, a differenza di altri Paesi di Civil Law, perché possa escludersi il reato di diffamazione, non è necessario che quanto asserito non sia falso. Il delitto in parola, da noi, si consuma al ricorrere di questi tre elementi essenziali: l’offesa all’onore o al decoro di qualcuno, la comunicazione con più persone e l’assenza della persona offesa. Tuttavia sono previste delle cause di giustificazione, tra le quali è contemplato anche lo stato d’ira. Proprio per questo, la circostanza che quanto dichiarato dal marito non fosse falso, nel ricorso da questi presentato, rilevava non quale causa di esclusione del reato di diffamazione, ma quale presupposto dello stato di collera ingeneratosi nello stesso. O meglio, a provocarlo era stata la visione del filmato, che, in quanto tale, non poteva non corrispondere alla realtà. Veniva, pertanto, impugnata una presunta violazione di legge in sede di merito e il vizio di motivazione con riguardo all’esclusione della causa di non punibilità di cui all’art. 599, comma 2 c.p. Secondo il ricorrente, infatti, l’istruttoria espletata in sede di giudizio di merito aveva dimostrato come l’uomo avesse agito in stato d’ira determinato dalla scoperta, per mezzo delle videoregistrazioni, del tradimento della moglie. Per tale motivo, illegittima da parte del Giudice di Pace era stata l’esclusione di tale esimente e inadeguata la spiegazione fornita, secondo cui, poiché la prova del tradimento era stata illegittimamente acquisita (pur essendo stata fatta dal marito all’interno nell’abitazione coniugale), non era declamabile, cioè spendibile, in sede giudiziaria.

IMG_3698.JPGLa locandina del film ‘Io so che tu sai che io so’ con Alberto Sordi e Monica Vitti, in cui un marito scopre il tradimento della moglie per caso, guardando le riprese fatte alla donna a causa di un errore commesso da un investigatore privato.

I giudici di Piazza Cavour, però, hanno rigettato il ricorso dell’uomo e ravvisato la correttezza del giudizio di merito, richiamando proprio il principio dell’inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione di divieti di legge (ex art. 191 c.p.c.) e, soprattutto, quello dell’inviolabilità del diritto alla riservatezza del coniuge o del familiare convivente, confermando, peraltro, il proprio pacifico orientamento su questioni analoghe (cfr. Cass. Sent. n. 12698/2003). Infatti, la sanzione prevista dall’art. 615 bis c.p., che censura le interferenze illecite nell’altrui vita privata, non consente l’ammissione delle immagini registrate (illecitamente) dal marito, quale prova dello stato psicologico in cui versava. Sarebbe come rendersi colpevole di qualcosa e poi invocare quale esimente lo stato psicologico conseguente alla commissione di un altro reato. Perché la registrazione della moglie, a sua insaputa, è un reato. Quanto poi al principio di inviolabilità del diritto alla riservatezza del coniuge, la Corte ha più volte ribadito che i doveri di solidarietà derivanti dal matrimonio non sono incompatibili con il diritto alla riservatezza di ciascuno, ma ne presuppongono, anzi, l’esistenza, poiché la solidarietà si realizza solo tra persone che si riconoscono piena e pari dignità. Ciò vale anche nel caso di infedeltà del coniuge, poiché la violazione dei doveri di solidarietà coniugale non è sanzionata dalla perdita del diritto alla riservatezza. (cfr. Cass Sez. V 23 maggio 1994 n. 198994).

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Pertanto, il marito non solo non può lamentare il mancato riconoscimento dello stato d’ira, quale scriminante nei delitti contro l’onore, ma deve, altresì, ritenersi fortunato, perché condannato solo per diffamazione, visto che la sua attività ‘investigativa’ lo rendebbe addirittura passibile di querela per il reato di interferenze illecite nella vita privata ai sensi dell’art. 615 bis del codice penale. E di questo deve ringraziare proprio la moglie infedele, poiché il delitto in questione – se commesso da un privato cittadino, come nel caso di specie – è punibile solo a querela della persona offesa. Ma, a quanto pare, la signora ha avuto la ‘bontà’ di limitarsi alla sola diffamazione.

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Leggi anche: L’OFFESA A TERZI VIA SMS NON È DIFFAMAZIONE: LO DICE LA CASSAZIONE.

È, quindi, evidente che non c’è scusa che tenga: spiare il proprio partner è un reato. Evitatelo, perché rischiate dai sei mesi ai quattro anni. Che riusciate a farla franca o meno, non sentitevi migliori di chi ha tradito la vostra fiducia. Violare l’intimità del partner non è poi tanto diverso, a parte il fatto che l’infedeltà non costituisce reato e le interferenze illecite nella vita privata, invece, sì.

Cass. Sent. n. 35681/2014

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L’OFFESA A TERZI VIA SMS NON È DIFFAMAZIONE: LO DICE LA CASSAZIONE.

Se l’insulto su Facebook è diffamazione, lo stesso non può dirsi per chi ricorre ai messaggini sul cellulare per offendere qualcuno. È, infatti, escluso il reato di diffamazione, se l’offesa, diretta a terzi, è inviata tramite sms. A stabilirlo è stata la Suprema Corte di Cassazione, sez. V Penale, Sent. n. 22853 del 30 maggio 2014.

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di Michele De Sanctis

Questi i fatti. Con sentenza del 24/10/2012, il Tribunale di Catania confermava la sentenza del Giudice di Pace del 17/02/2011 del capoluogo etneo, che aveva dichiarato la convenuta in giudizio responsabile del reato di diffamazione in danno della querelante mediante sms inviato alla figlia di quest’ultima.
L’imputata, tuttavia, ricorrendo dinanzi Suprema Corte avverso la decisione dell’appello, eccepiva la violazione di legge in relazione all’art. 595 c.p., dal momento che, in mancanza di una prova che l’sms avesse destinazione di propalazione alla persona offesa o a terzi, ovvero di una prova della sua volontà in tal senso (non potendo ravvisarsi l’elemento probatorio di tale volontà nella mera circostanza che l’invio del messaggio fosse stato effettuato nel weekend, in un momento in cui la famiglia della donna offesa era riunita per il pranzo). Deduceva, d’altro canto, il legale della ricorrente che la comunicazione agli altri membri della famiglia era stata frutto dell’esclusiva iniziativa della diretta destinataria del messaggio.

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Ebbene, i Giudici di Piazza Cavour hanno ritenuto il ricorso fondato.
Secondo costante orientamento della giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. 36602/2010), infatti, in tema di delitti contro l’onore, per integrare il reato di diffamazione occorre non solo l’elemento psicologico consistente nella consapevolezza di pronunciare (o scrivere) frasi lesive della reputazione altrui, ma, altresì, la volontà che le offese denigratorie siano conosciute da più persone. Ai fini della commissione del reato di diffamazione, pertanto, è necessario che l’autore comunichi, ad una o più persone, il contenuto lesivo della reputazione altrui, con modalità tali che la notizia venga sicuramente a conoscenza di altri, evento che egli deve rappresentarsi e volere. Condotta, questa, che, per esempio, si sarebbe configurata se l’sms fosse stato inviato in una chat di gruppo, ovvero pubblicato su un social network, ecc. Invece, l’invio di un sms privato, pur contenendo un messaggio diffamatorio, non concretizza la fattispecie prevista per il reato in parola, poiché, invero, evidenzia la volontà dell’agente di non diffondere o comunicare a terzi il contenuto offensivo espresso nei confronti di un altro soggetto. Nel caso impugnato, però, il Tribunale, pur richiamando i principi giurisprudenziali di cui sopra, non ne ha poi tratto le debite conseguenze.

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Di qui la ragione che ha portato il giudizio d’appello ad ad essere cassato da Piazza Cavour. Infatti, essendo pacifico che l’sms era stato inviato ad un’unica persona (la figlia della donna offesa), il Tribunale, nel confermare la decisione del GdP, ha ritenuto “del tutto evidente”, senza, peraltro, indicarne le ragioni, il “chiaro intento” dell’imputata che il destinatario delle offese e “le altre persone presenti” ne fossero messi a conoscenza, come di fatto era avvenuto. Oltretutto, neppure il concetto di “persone presenti” risulta esplicitato nella pronuncia oggetto del ricorso, poiché non collegato alla testimonianza della figlia, evocata in sentenza solo nella parte relativa alla sintesi della vicenda processuale, ma non anche utilizzata al fine della conferma dell’affermazione di responsabilità, secondo cui il messaggio era pervenuto di sabato o domenica, nell’orario in cui tutta la famiglia era riunita per il pranzo, affinché fosse portato a conoscenza della terza persona che si intendeva offendere, la madre della destinataria del messaggio.
Diversamente, sempre per la Cassazione, l’sms denigratorio, inviato direttamente al soggetto destinatario dell’offesa, avrebbe configurato il diverso reato di ingiuria.

Per questi motivi, la sentenza pronunciata al termine del gravame è meritevole di annullamento con rinvio per nuovo esame al giudice a quo (il Tribunale di Catania) in diversa composizione.

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L’INSULTO SU FACEBOOK È DIFFAMAZIONE, ANCHE SE LA VITTIMA RESTA ANONIMA. LO DICE LA CASSAZIONE.

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di Michele De Sanctis

La diffamazione vale anche per i commenti su Facebook? Secondo una recente pronuncia della Cassazione, sì. Occhio, quindi, a ciò che scrivete.

Con Sent. n. 16712/2014, i giudici di Piazza Cavour sono tornati ad occuparsi del reato di cui all’articolo 595 c.p., la diffamazione.

L’interesse suscitato a livello mediatico da questa pronuncia sta nel fatto che il caso esaminato dalla Suprema Corte riguarda l’offesa all’altrui reputazione avvenuta attraverso Facebook e senza fare nomi.

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La Corte stabilisce che chi scrive su Facebook commenti infamanti su una persona, anche senza farne esplicitamente il nome, configura il reato di diffamazione ed è quindi punibile a norma di legge. Con questa decisione la Cassazione ha condannato un maresciallo della Guardia di Finanza della provincia di Pisa per questo status su Facebook dal tenore offensivo nei confronti di un collega:

“Attualmente defenestrato a causa dell’arrivo di un collega raccomandato e leccaculo…ma me ne fotto…” Minacciando, peraltro, vendette e ritorsioni sulla moglie dello stesso.

Il post diffamatorio inoltre era stato letto da una ristretta cerchia di iscritti. Ma sta di fatto che, pur non essendo stata fatta menzione di alcun nome, venivano forniti particolari sufficienti per identificare la persona diffamata.

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Alla condanna di primo grado aveva fatto seguito in appello l’assoluzione per insussistenza del fatto. La Corte d’Appello aveva motivato l’assoluzione facendo notare che l’identificazione dell’offeso poteva essere operata solo da una ristretta cerchia di utenti, posto che l’imputato non aveva indicato il nome del collega.

Tuttavia, la prima sezione penale della Cassazione ha ribaltato tale verdetto argomentando che la frase offensiva fosse ampiamente accessibile dagli iscritti al social network e che la persona offesa, pur non nominata, avrebbe potuto essere facilmente individuata. “Il reato di diffamazione – dice il giudice di ultima istanza, nel cassare la decisione di secondo grado – richiede il dolo specifico, essendo sufficiente ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo della fattispecie la consapevolezza di pronunciare una frase lesiva dell’altrui reputazione e la volontà che la frase venga a conoscenza di più persone, anche soltanto due”.

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Secondo i giudici di Piazza Cavour, quindi, il vizio de legittimità risiede nel fatto che la corte d’appello non avrebbe adeguatamente motivato l’iter logico-giuridico che conduce ad affermare che il novero limitato di persone in grado di identificare il soggetto passivo comporti “l’esclusione della prova della volontà dell’imputato di comunicare con più persone in grado di individuare il soggetto” in questione.

Insomma, d’ora in avanti ci sarà da stare particolarmente attenti ad esprimere le proprie opinioni su conoscenti, colleghi e personaggi pubblici anche sui social network: la mancata citazione del nome così come il fatto che si tratti “solo” di un commento su Facebook non difendono dall’accusa di diffamazione.

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