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Ue, Matteo Renzi: né con Merkel, né con Schulz, terza via dinamica sulle nomine. A partire dal trionfo Pd.

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di Angela Mauro – L’Huffington Post 27/05/14

“Se vogliamo salvare l’Europa, dobbiamo cambiare l’Europa”. E’ questo il messaggio che il premier italiano Matteo Renzi ha voluto trasferire in serata ai colleghi europei che ha incontrato a Bruxelles, nella riunione informale del consiglio Ue convocata per un’analisi del voto di domenica scorsa. Per Renzi è stata l’occasione per ricevere i complimenti e le congratulazioni dagli altri capi di Stato e di governo. “Con questa forza – ha detto Renzi – vi dico che anche chi ha votato per noi ha chiesto di cambiare l’Europa».

Né con Angela Merkel, né con Martin Schulz. Anche sulle nomine ai vertici delle istituzioni europee, Matteo Renzi ha in mente una ‘terza via’. E’ questa la linea con cui si è presentato al Consiglio europeo straordinario a Bruxelles. Prima della riunione, il presidente del Consiglio ha visitato il museo ebraico della città, colpito da un attentato antisemita proprio nel giorno del voto belga per il Parlamento di Strasburgo la settimana scorsa. E lì ha avuto modo di incrociare il premier francese Francois Hollande, di ritorno dalla riunione con il Pse cui Renzi non ha potuto partecipare per problemi di tempo. Per il premier italiano muoversi sulla ‘terza via’ vuol dire adottare una linea dinamica di approccio al tema delle nomine, dalla presidenza e vice presidenze della commissione Ue, fino ai vertici del Parlamento e l’Eurogruppo. Linea dinamica ovvero oggettiva, che tenga conto della volontà espressa dagli elettori alle urne. Cosa che per l’Italia e per il Pd vuol dire moltissimo. Senza spocchia, che peraltro non ha mostrato nemmeno nella conferenza stampa italiana post-voto, senza pugno di ferro, che semmai si riserva per un secondo momento della lunga trattativa se servirà, Renzi fa capire ai capi di stato europei per dire che il suo Pd, premiato dal voto con il 40 per cento, è l’argine più forte contro i populismi che dilagano nel continente. Perché è l’unica forza europea di governo che sia stata osannata dalle urne. Una situazione nuova, un risultato così inaspettato che non permette né di tenere fede ai vecchi patti pre-voto, come suggerisce il leader Pse Schulz, né di agire come se il Parlamento Ue non esistesse e nominare il presidente della Commissione Ue con un accordo tra governi, come vorrebbe la cancelliera tedesca Merkel.

La risposta agli euroscettici “l’abbiamo data alle elezioni”, sostiene Renzi al suo arrivo a Bruxelles. E ora “affronteremo con decisione tutte le scelte della Ue” anche perchè “l’Europa deve parlare il linguaggio dei cittadini. Tutta la partita dei nomi viene dopo, rispetto alle scelte che dobbiamo fare”.

Renzi arriva in Europa convinto che al Pd, primo gruppo anche nel Pse naturalmente, spettino molte più cariche di vertice di quanto si programmasse prima del voto. L’idea è di puntare a una vicepresidenza della Commissione (Massimo D’Alema, Enrico Letta?) e anche alla presidenza dell’Eurogruppo, organismo che riunisce i ministri dell’Economia dell’Eurozona e che quindi, se i propositi del governo italiano andassero a buon fine, verrebbe presieduto dal ministro Pier Carlo Padoan. Il presidente del Consiglio ne ha parlato anche con Giorgio Napolitano, nel consueto incontro con il capo dello Stato che si tiene prima di ogni vertice europeo. Naturalmente, la chiacchierata al Colle è stata anche l’occasione per il presidente della Repubblica per congratularsi con Renzi sul risultato elettorale. La partita vera è appena al via in Europa, dove evidentemente la linea renziana cerca alleati. Il premier non esclude affatto di poterne trovare. Anzi.

Per esempio, nella sua cerchia, sono convinti di poter contare sul premier britannico David Cameron, sfilandolo dall’abbraccio della Merkel. “A Cameron converrebbe fare asse con Renzi – dice una fonte renziana – piuttosto che stringere con la Cancelliera. Guadagnerebbe magari qualche chance per risolvere il problema dell’indipendenza chiesta dalla Scozia, dove il Labour è storicamente forte e oggi è indirettamente rafforzato dalla concorrenza a destra: tra l’Ukip, premiato dal voto europeo, e i Tories, puniti dalle urne”. Ma la serata di oggi serve a Renzi anche per studiare la situazione, capire i margini di azione, come il premier di solito fa prima di passare all’azione. Insomma, è un primo approccio perché la trattativa non si risolve in una giornata, si prevedono tempi lunghi. Ma l’importante, per il presidente del Consiglio, è stabilire il principio che l’Italia è pronta ad essere “leader in Ue e non follower”, forte del risultato elettorale del Pd che pianifica riforme con tempi strettissimi per avere le carte in regola di fronte agli altri Stati.

Dunque, per Renzi, non è il caso di tener fede ad alcun accordo antico, cioè pre-elettorale e fatto dai partiti, visto che è difficile che il Ppe, con il suo candidato alla commissione Jean Claude Juncker, riesca a formare una maggioranza in Parlamento, pur avendo conquistato il maggior numero di seggi. Ma non è nemmeno il caso di agire a livello di governi, per imporre un candidato alla presidenza della Commissione Ue senza tener conto del pronunciamento degli elettori. Renzi cerca di muoversi tra gli opposti, Schulz e Merkel, convinto che sulle nomine entrambi forniscano una risposta poco convincente alle pulsioni euroscettiche confermate dalle urne, soprattutto in Francia con il successo di Marine Le Pen, oltre che in Gran Bretagna con l’Ukip. “Ogni accordo non può essere disgiunto dalla realtà del voto”, dicono i collaboratori di Renzi, mettendo nel conto che alla fine potrebbe rendersi necessaria una larga coalizione anche in Europa, tra Ppe, Pse e i liberali di Guy Verhofstadt. Per il premier però l’importante è iniziare con il piede giusto e convincere gli altri leader sul suo approccio “dinamico”. Sì, dinamico: anche sul voto e le nomine Ue. “Sono qui a rappresentare uno dei più grandi paesi dell’Ue”, dice il premier arrivando al Justus Lipsius, la sede del consiglio europeo.

Fonte: L’Huffington Post

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PERCHÉ NON POSSIAMO USCIRE DALL’EUROZONA.

Adesso che la campagna elettorale è terminata, possiamo finalmente tornare a parlare d’Europa. Con serenità. Senza timore di essere stanati dalle nostre abitazioni per aver espresso le proprie idee o sottoposti a un tribunale popolare. Al bando, dunque, populismi e fascismi: chi non è d’accordo lo faccia con modi urbani, diversamente è pregato di abbandonare luoghi come questo, dove il pensiero unilaterale non è gradito. Basta con gli slogan: adesso parliamo di sostanza, che è quello che ci riesce meglio in questo blog. Parliamo di economia.

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La campagna per il rinnovo del Parlamento Europeo ha visto la crescita esponenziale, in ogni angolo del Vecchio Continente, di movimenti euroscettici, per lo più di destra, che, in alcuni casi, come quello del Fronte Nazionale in Francia, hanno provocato un vero e proprio terremoto politico. Interno, tuttavia. La vittoria della destra in Francia altro effetto non produrrà se non quello di diluire l’influenza francese nell’Europarlamento, visto il risultato finale che, comunque, vede il PPE al primo posto, seguito dal PSE.

In Italia, poi, abbiamo assistito ad una clamorosa debacle di un Movimento, il cui programma principale era ‘mandiamoli a casa’, senza, peraltro, proporre nulla di concreto in vista dell’elezione dei nuovi eurodeputati: si concorreva per questo, perché le politiche ci sono già state l’anno scorso. E non credo che votare ogni 6-12 mesi, finché a vincere non saranno loro, sia nelle corde dell’elettorato italiano, fin troppo tendente all’astensionismo, come dimostrato anche domenica scorsa.

L’euroscetticismo, nutrito dalla crisi e cresciuto negli anni dell’austerity, è tuttavia stato il protagonista indiscusso di quest’ultimo mese. È innegabile: a prescindere dagli esiti elettorali, se n’è parlato troppo perché non se ne faccia un approfondimento. Serenamente, perché è così che ci sentiamo. Sereni. Lo eravamo anche prima, in realtà, quando la serenità ci veniva dalla nostra conoscenza, dai tomi studiati negli anni dell’università, dalla nostra capacità di raziocinio: lo siamo ancor di più adesso.

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La realtà è che allo stato attuale separarsi dall’euro sarebbe impossibile. O quasi. Sicuramente sarebbe un’operazione ad alto rischio. Soprattutto lo sarebbe se avvenisse in seguito alla decisione unilaterale di uno Stato membro, magari in netto contrasto con gli altri partner dell’Eurozona.

Ad alto rischio, in primis, perché non esistono precedenti (l’Argentina, che non se la passa granché bene attualmente, non può essere elevata a modello, perché quella dell’euro è un’esperienza unica al mondo) ed è ad alto rischio anche perché le questioni legate al debito pubblico si verrebbero a risolvere sulla base della sola forza contrattuale delle parti. Un aspetto che non giocherebbe certo a favore dei cd. PIIGS e nemmeno della Francia, sotto certi aspetti più mediterranea che mitteleuropea, qualora decidessero di andarsene per la loro strada. La forza contrattuale sarebbe il vero arbitro, perché i Trattati europei prevedono una procedura di uscita dalla UE, ma non dalla sola Unione monetaria. E in assenza di una norma, le parti si farebbero le regole da sé, un po’ come accade con i contratti innominati. Solo che in questo caso, il contraente debole sarebbe costretto a subire le condizioni dettate dagli altri, quelli che ancora avrebbero una moneta forte, l’euro. Il problema non è, tuttavia, tanto di carattere giuridico, quanto piuttosto economico e soprattutto finanziario. Se è difficile stimare le possibili ricadute in termini di svalutazione ed inflazione derivanti dall’introduzione di una nuova moneta, è, altresì, possibile individuare alcuni punti fermi con cui lo Stato, chiamiamolo pure dissenziente, sarebbe obbligato a fare i conti. Il pericolo maggiore sarebbe quello che si inneschi un effetto domino di fallimenti bancari e societari di cui si potrebbe molto rapidamente (e molto facilmente) perdere il controllo. E con una certa approssimazione alla realtà, potremmo stimare che il valore dei titoli di Stato – oltreché di gran parte delle azioni e delle obbligazioni pubbliche – diminuirebbe.

Per i più scettici, quelli del mantra disinformazione-casta-complotto, nel precisare che BlogNomos non è pagato da alcun partito, rinvio a un buon manuale di politica economica. E serve, perché questo è quanto accadrebbe con l’abbandono dell’Eurozona anche a noi italiani. Non è fantaeconomia.

Al primo annuncio di uscita di uno dei PIIGS dall’euro, infatti, con ragionevole sicurezza si assisterebbe a una massiccia quanto repentina fuga di capitali dal Paese e, nel contempo, ad una svendita di titoli di Stato. Ciò comporterebbe come primo ed immediato effetto la riduzione del valore di Bot e Btp, nel caso specifico italiano. Traduco: se un risparmiatore, subito dopo l’annuncio dell’uscita dall’euro e prima della loro scadenza, decidesse di vendere i titoli in suo possesso, andrebbe incontro a perdite sicure, perché ne otterrebbe un corrispettivo inferiore al prezzo originariamente pagato, mentre se scegliesse di portarli a scadenza, se li vedrebbe ripagati in una nuova valuta, ma più debole rispetto all’euro con cui li aveva acquistati, quindi perderebbe comunque. Non solo, una ridenominazione del debito pubblico e dei titoli di Stato che lo rappresentano in una nuova valuta costituirebbe quello che si dice un “credit event”, cioè una situazione che, a giudizio degli organismi internazionali, farebbe scattare il default sul debito del Paese. Dire che i finanzieri europei sono corrotti non impedirà il passaggio successivo: la temporanea esclusione del Paese in questione dai mercati finanziari internazionali. Né quello ancora successivo: un infinito strascico di contenziosi giudiziari.

Il default del debito e la caduta del valore dei titoli avrebbero poi un impatto immediato anche sulle (tanto odiate) banche. Quelle italiane, per esempio, hanno in portafoglio circa 400 miliardi di Bot e Btp. In più, gli ineludibili fallimenti aziendali, almeno in prima istanza, sarebbero destinati ad aumentare, caricando perciò i bilanci bancari, già in grave difficoltà come abbiamo visto, di altri crediti inesigibili. Per tenere in piedi gli istituti di credito si renderebbero allora necessari massicci interventi di ricapitalizzazione con denaro pubblico, quando non vere e proprie nazionalizzazioni. Traduco: il debito delle banche diventa nostro davvero, perché saremmo costretti a riprendercele con tutti i loro debiti. Tra l’altro, anche se su altri blog non c’è scritto, è importante sapere che le banche utilizzano spesso i titoli di stato come garanzie di prestiti a brevissima durata chiesti ad altre banche. Non è illegale. Trattasi, in realtà, di una pratica comune che serve alle banche per far fronte ad immediate esigenze di liquidità, incrociando le esigenze degli istituti che hanno bisogno di soldi e di quelli che ne hanno in eccesso. Ne potete trovare riscontro su qualunque manuale di diritto bancario e dell’intermediazione finanziaria. Compromettere queste operazioni, rendendo inutilizzabili come garanzia i titoli di Stato, sarebbe un ulteriore colpo per le banche di quel Paese e il colpo di grazia per tutti i suoi cittadini, dal momento che l’effetto sarebbe quello di un’ulteriore e significativa riduzione dei finanziamenti a imprese e famiglie.

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Gli euroscettici hanno un altro mantra, trito e ritrito come l’altro, secondo cui l’euro penalizza l’import dei PIIGS. Vero, ma solo in parte. Ci potrebbe essere, infatti, un certo recupero della competitività del Paese dissenziente, favorito da una valuta più debole. Sarebbe tuttavia maggiore questo recupero se io stessi scrivendo nel 1990, ma nel 2014 quasi tutte le produzioni sono strutturate su filiere globali. Al giorno d’oggi, una moneta debole sarebbe un vantaggio da un lato e uno svantaggio dall’altro. Perché la componentistica di un prodotto finale è quasi sempre il risultato di un assemblaggio di prodotti importati da altri mercati. Puntare sulle svalutazioni per competere sui mercati internazionali è un gioco che può fruttare qualcosa nel breve periodo, ma che diviene controproducente nel lungo. In primo luogo perché i competitor stranieri, anche quelli europei, metterebbero di certo in atto contromisure per contrastare il ‘nuovo’ Paese dalla valuta debole (come ad esempio delocalizzazioni della produzione). E lo farebbero perché è così che va il libero mercato. Nell’ipotesi di un’uscita dall’euro, per un tempo più o meno lungo le aziende si troverebbero, peraltro, ad operare con condizioni creditizie più difficili, tra banche in profonda difficoltà nel fornire finanziamenti e mercati che pretenderebbero interessi sempre più alti per concedere prestiti a fronte della sottoscrizione di nuove obbligazioni.

Non scordiamoci, poi, delle obbligazioni emesse sotto il diritto di un altro Stato (per esempio Germania, Regno Unito o USA). È una prassi consolidata tra le grandi aziende che si rivolgono ai mercati internazionali. Preciso che nemmeno questo è illegale. Se uno dei PIIGS (e ricordiamo che la seconda ‘I’ è stata introdotta per noi italiani) optasse per il ritorno alla valuta nazionale, questi titoli, in quanto regolati da un’altra giurisdizione, non potrebbero essere coinvolti nell’automatica conversione alla stessa. Rimborsi e interessi andrebbero, pertanto, regolati in ogni caso nella valuta d’origine dell’obbligazione (euro, sterlina, dollaro) a fronte di un ricavo realizzato per lo più con la nuova – e più debole – moneta. Nel nostro caso specifico ammonta a circa il 25% il valore delle obbligazioni italiane emesse sotto diritto estero, ce lo rivelava qualche tempo fa Il Sole 24 Ore. Tra le percentuali maggiori in Europa. Conseguentemente, anche per alcuni grandi industrie potrebbe rendersi indispensabile un sostegno pubblico per evitare il fallimento.

Piaccia o non piaccia, il livello di interconnessione dei mercati finanziari e creditizi dell’area euro è talmente stretto da non essere paragonabile a nessuna situazione verificatasi in precedenza, in un’era come questa, in cui i movimenti di capitale non hanno né limiti né confini e sono effettuati in tempo reale.

Ma non disperate. Non andrà male a tutti. A qualcuno converrà. Non vorrei essere troppo perfido, dicendo che chi promuove oggi l’uscita dall’euro, ne trarrà profitto domani, perché non ne ho prova e, dunque, mi astengo, ma l’uscita da Eurolandia converrà di sicuro a chi, pur risiedendo in Italia, percepisce grandi rendite da investimenti esteri e a chi già dispone di ingenti patrimoni investiti in prodotti finanziari non italiani (titoli di Stato tedesci, azioni inglesi o a stelle e strisce). Sì, loro continuerebbero a percepire rendite e interessi in euro, o altra valuta estera, contando, fra l’altro, su un cambio più favorevole. Vivendo in un Paese con moneta svalutata avrebbero sicuramente un maggior potere d’acquisto. Lo stesso non accadrà per noi che viviamo di uno stipendio che sarà pagato con la nuova moneta e che, quindi, subirà a sua volta una notevole svalutazione.

Per chi poi valuta un abbandono anche dell’UE, aggiungo solo una parola: dogana. Anche per le merci provenienti dalla vicina Francia. Il che sarebbe non solo la fine della produzione interna e del relativo import, per le ragioni sopra richiamate, ma anche per i nostri piccoli acquisti quotidiani. Addio e-commerce, per esempio.

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In conclusione, è vero, l’architettura su cui si regge l’euro presenta notevoli criticità, che, in ultima istanza, danneggiano soprattutto i Paesi più deboli. Ma il processo di integrazione si è ormai spinto troppo in là per consentire una retromarcia, di nessun tipo, come, invece, domenica sera annunciava la signora Le Pen e come più volte abbiamo sentito e letto durante quest’ultima campagna elettorale. E sebbene non possiamo scommettere sulla tenuta dell’euro, possiamo lavorare tutti insieme per farcela. Con meno austerity, probabilmente, perché ha soltanto fatto crescere il bisogno di rivalsa dei più disperati, alimentando le false soluzioni di una destra già vecchia nella propria retorica. Bisogna lavorare da subito per il bene comune, perché tra tutte le strade percorribili, questa dell’uscita dall’euro sarebbe la più pericolosa. Pericolosa per noi cittadini dell’area mediterranea, dell’Irlanda e della Francia, prima che per chiunque altro.

MDS
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Le Pen, Wilders e Alba Dorata: l’arcipelago populista va, ma a Strasburgo rischia di sciogliersi. Mentre Letta…

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da Il Sole 24 Ore del 20 aprile 2014

di Gerardo Pelosi

Un arcipelago variegato e difficile da decifrare che sta mettendo a dura prova l’efficacia del tradizionale messaggio europeista. Alla vigilia del voto europeo del 25 maggio sondaggisti e ricercatori stanno tentando di capire quali saranno gli effetti sul nuovo Europarlamento dell’alto consenso raccolto a livello nazionale dai movimenti antieuropei. Si va dai neopopulisti del Front national di Marine Le Pen o del Partito della libertà olandese di Geert Wilders agli euroscettici inglesi di Nigel Farage alle destre ultranazionaliste di Alba Dorata greca, Ataka bulgara o Jobbik ungherese. Movimenti dal Dna politico diverso e spesso in lotta tra di loro. Il Front national è antieuropeo ma rifiuta Grillo e la destra reazionaria dell’Est Europa, lotta contro l’Islam e chiede meno immigrazione ma difende i diritti di ebrei e omosessuali in nome della tradizione liberale europea.

Almeno su un punto quasi tutti sembrano d’accordo. Alla fine le complesse regole dell’Europarlamento (almeno 25 deputati eletti in 7 Paesi) disperderanno l’eventuale potenza di fuoco con il risultato che i movimenti antieuropei non riusciranno ad avere una casa comune. Dovranno necessariamente disperdersi tra Efd (Europa della libertà e democrazia) che vede Front national insieme al Pvv di Wilders e Lega Nord, i conservatori di Ecr (conservatori inglesi di Cameron e di altri 11 Paesi) e i non iscritti tra cui andranno a confluire gli euroscettici dell’Upik e i grillini. Un universo che sta facendo tremare mezza Europa ma che alle porte di Strasburgo sembra destinato a sciogliersi come neve al sole. È questa la tesi di fondo della ricerca di Guido Bolaffi e Giuseppe Terranova su “populismi e neopopulismi in Europa” pubblicato come Ebook dal gruppo Firstonline-goWare. Secondo la ricerca i neopopulisti, pur appertenendo alla stessa famiglia dei populisti storici hanno un codice genetico diverso. Hanno modificato parti consistenti del vecchio armamentario ideologico come la Le Pen che dal razzismo tout court mostra un volto accattivante pro gay femminista e amico di Israele. Secondo la ricerca si potrebbe creare uno scenario post-elettorale non dissimile da quello registrato in Germania e Italia alle ultime elezioni con la scelta obbligata di una Grosse Koalition. «Ma c’è anche il rischio – osserva Guido Bolaffi – che questi movimenti possano togliere voti al Ppe e favorire il Pse che, per la prima volta, potrebbe avere la maggioranza».

C’è da dire che negli ultimi sondaggi di due giorni fa (da prendere con beneficio di inventario perché gli incerti rappresentano sempre il 40%) il Ppe dovrebbe avere almeno dieci seggi in più a Strasburgo con un aumento in Francia e Polonia mentre diminuirebbero i socialisti in Austria, Bulgaria, Ungheria, Francia e Grecia. Insieme socialisti, popolari e liberali dovrebbero ottenere circa 510 seggi ma tra di loro c’è già un accordo che prevede che il Consiglio europeo dovrà rispettare l’esito elettorale per la scelta del presidente della Commissione. Nel caso di vittoria di popolari il candidato al posto di Barroso è il lussemburghese Jan Claude Juncker mentre per i socialisti il tedesco Martin Schulz. In caso di un risultato quasi alla pari occorrerà trovare un candidato di compromesso che già da alcuni è stato individuato nell’ex premier Enrico Letta.

Una compagine da non temere eccessivamente quella dei neopopulisti anche per Virgilio Dastoli presidente del Movimento europeo e assistente storico di Altiero Spinelli. Secondo Dastoli gli antieuropei non hanno un progetto comune e in alcuni casi convivono forze che vogliono un rafforzamento dello Stato nazionale come il Front national e Lega Nord separatista. In questo panorama anche i 15 o 20 eurodeputati grillini risulteranno inifluenti. «Il movimento cinque stelle – sottolinea Sandro Gozi, sottosegretario per le politiche europee – non ha tessuto alleanze con nessun gruppo e sarà relegato tra i non iscritti, non avrà presidenze di commissioni e non potrà incidere in alcun modo sui lavori dell’Europarlamento, mentre la delegazione del Pd potrebbe essere la più numerosa e aspirare alla presidenza del gruppo o anche alla presidenza del Parlamento».

Fonte: Il Sole 24 Ore

La probabile Caporetto della Lista Tsipras

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di Pierpaolo Farina, da Qualcosa di Sinistra, 8 aprile 2014

Forse le aspettative erano troppo grandi, perché già si pensava, un paio di mesi fa, al primo passo per qualcosa di decente da votare a Sinistra. Ma rimane il fatto che l’Altra Europa, la lista che riunisce le varie anime a sinistra del PD per cercare di superare il 4% alle Europee, rischia di trasformarsi nell’ennesimo fallimento.
C’è chi è più ottimista e fa bene ad esserlo, perché a questo mondo un po’ di sano ottimismo ci vuole, ma davvero nutro poche speranze circa la sopravvivenza della lista non solo nell’urna, ma anche dopo, qualora dovesse strappare qualche europarlamentare nella ripartizione dei seggi. Nei primi sondaggi, “la sinistra unita per Tsipras” si aggirava attorno al 7%: un risultato apprezzabile, un mezzo trionfo visti i risultati passati.
Ora invece la lista è data da tutti sotto la soglia di sbarramento. Perché? Anzitutto, per il solito snobismo radical chic di chi ha preso in mano la lista, che ha imposto quattro nomi e un simbolo da far votare a chi aveva aderito all’appello, togliendo la parola “SINISTRA” dal nome: un mezzo suicidio annunciato, visto che non si tratta di un partito con solide radici e ben rappresentato sulla scena mediatica.
Se a questo poi aggiungiamo che non c’è nessun leader carismatico forte da contrapporre ai due che si stanno fronteggiando in questa tornata (Renzi e Grillo), il gioco è fatto: infatti, Tsipras è un leader greco, per giunta comunista, che non parla italiano e che ha una copertura mediatica ridotta. E infatti questo spiega perché sia qui molto spesso: la Sinistra in Italia è il tallone d’Achille della sua candidatura.
Negli altri paesi europei ci sono partiti con una tradizione consolidata (e anche in crescita, come Melenchon in Francia, al 10%), qui siamo al casino, perché i vari azionisti della lista non solo si guardano in cagnesco, ma dopo il 25 maggio torneranno a cantarsele come e più di prima. Senza contare che molte delle candidature forti che potevano esserci (la Spinelli, Ovadia, Curzio Maltese) si son già bruciate da sole, annunciando che, in caso d’elezione, lasceranno il posto a quello dopo in lista. Una genialata che ha alienato migliaia di voti e dimostra anche una profonda ignoranza delle più basilari regole di comunicazione politica.
Deve averlo ben fiutato Sonia Alfano, a cui venne chiesto di candidarsi tramite Ingroia (a volte ritornano), ma rifiutò perché “c’erano persone incompatibili con la mia storia” (e ci credo, andava ai convegni di Forza Nuova, a suo agio con gente di sinistra non ci si poteva trovare).
Mi auguro di avere torto marcio e, per quel che mi riguarda, voterò la lista. Quel che è certo è che così, a Sinistra del PD, non si può continuare.

Fonte: Qualcosa di Sinistra

Germania, proporzionale per elezioni Ue: l’estrema destra può entrare a Strasburgo

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Di Tonino Bucci – Redazione Il Fatto Quotidiano

La Germania andrà a votare alle elezioni per il parlamento europeo con il proporzionale puro. I giudici della Corte costituzionale tedesca hanno stabilito con una sentenza di mercoledì scorso che la soglia di sbarramento del tre per cento è incostituzionale. Con la stessa motivazione, nel 2011, gli alti togati di Karlsruhe avevano abbassato dal cinque al tre per cento l’asticella per entrare nel Parlamento dell’Ue. Il meccanismo – recita in sintesi la sentenza – viola il principio “una testa, un voto” e introduce un discrimine tra gli elettori dei partiti grandi e quelli delle formazioni minori escluse dalla rappresentanza. I partiti maggioritari godrebbero di una facile rendita di posizione, in virtù del classico argomento del “voto utile”. Semplice, ma fino a un certo punto, perché gli stessi giudici di Karlsruhe finora hanno sempre difeso la soglia del cinque per cento, prevista invece dal sistema elettorale tedesco per il Bundestag e per i Landtag regionali. Due pesi, due misure, a seconda che si tratti dell’Europa o del parlamento tedesco.

Non sarebbe più logico e giusto che una democrazia matura funzioni senza imporre limiti all’esercizio del voto? In passato la Corte costituzionale di Karlsruhe si è pronunciata a favore del mantenimento della soglia del cinque per cento. L’opinione pubblica ha sempre avuto paura del proporzionale puro, ritenuto una delle cause storiche della frammentazione della Repubblica di Weimar e dell’ascesa al potere del nazismo. Il sistema elettorale attuale prevede infatti dei correttivi: una soglia di sbarramento al cinque per cento e una combinazione tra i due criteri, il proporzionale e il maggioritario. Gli elettori tedeschi ricevono due schede. Con la prima scelgono uno dei candidati in lizza nel proprio collegio e concorrono all’assegnazione di una metà dei seggi nel Bundestag. L’altra metà è ripartita in proporzione ai voti che i partiti prendono sulla seconda scheda.

Fino a oggi, sostengono i fautori dello sbarramento, questo sistema ha tenuto lontano gli incubi del passato e impedito l’ingresso di partiti estremisti nel Bundestag. La pensano così i due partiti principali, la Cdu di Angela Merkel e la Spd, alleati nel governo di grande coalizione. La Cancelliera e i socialdemocratici hanno accettato a malincuore l’abolizione della norma del tre per cento che fu votata da quasi tutti i partiti presenti nel Bundestag nella scorsa legislatura. Con la sola eccezione della Linke, la formazione della sinistra radicale tedesca, unica a gioire per la sentenza. “Ognuno ­- ha commentato il capogruppo parlamentare Gregor Gysi -­ potrà mettere una croce sulla scheda senza paura che il suo voto vada perso”.

Al ricorso hanno partecipato molte formazioni minori che sono fuori dal Bundestag. Alcune sono però rilevanti a livello regionale, come i Freie Wähler (Liberi Elettori), un partito populista che alle ultime elezioni in Baviera ha raccolto il 9% e che senza sbarramento potrebbe entrare nel parlamento europeo. Potrebbero rientrare in gioco anche i Pirati, che dopo una serie di affermazioni clamorose in alcuni Länder negli anni passati, a settembre dello scorso anno hanno fallito miseramente l’ingresso nel Bundestag. A scendere verso percentuali che si aggirano intorno all’uno per cento, sondaggi alla mano, ­ci sono gli animalisti, il Partito dei pensionati, il Partito della famiglia e le femministe del Partito della Donna. Qualcuno, con un po’ di fortuna, potrebbe guadagnarsi un seggio. Come metterla, però, con i partiti dell’estrema destra? La Npd, la principale forza della galassia neonazista, fino a oggi mai entrata nel Bundestag, potrebbe sedere nel futuro parlamento europeo in compagnia di altre formazioni sorelle come Alba Dorata.

Un argomento, anzi uno scenario, che inquieta non poco. Se si prendono i risultati delle europee del 2009, a Strasburgo oggi ­ senza la soglia del tre per cento ­ siederebbe anche Uschi Winkelsett, la candidata dei Republikaner, un’altra formazione populista di destra che vorrebbe diminuire la quota versata dalla Germania nelle casse dell’Unione Europea. Roba da Trattato di Versailles. Per chi evoca lo spettro di Weimar la soglia di sbarramento al Bundestag non si può toccare. Ma i costi per la democrazia tedesca cominciano a essere troppo alti. Alle elezioni per il Bundestag dello scorso settembre 6,9 milioni di voti sono stati cancellati, ben il 15,7 per cento degli elettori. Sono rimasti fuori i liberali della Fdp e l’Alternativa per la Germania (AfD), la formazione anti­euro nata di recente, entrambe poco al di sotto del cinque per cento. Senza di loro Angela Merkel è stata costretta a fare la grande coalizione con i socialdemocratici. I tempi, insomma, sono maturi per rivedere il sistema elettorale. Da noi, invece, Renzi ha imboccato la strada contraria. Oggi l’Italicum torna in discussione in aula. Compresa la norma sullo sbarramento dell’8 per cento per i partiti che corrono da soli. Al confronto, il sistema tedesco è uno scherzo.

Fonte: il Fatto Quotidiano

Presentate oggi le candidature per la Lista Tsipras

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Presentata oggi la Lista Tsipras per le Europee. Non senza polemiche dell’ultima ora, la sinistra alternativa ha reso pubblici poche ore fa i nomi dei candidati, collegio per collegio, alle prossime consultazioni del 25 maggio. A poche ore dall’annuncio delle candidature la Lista si è però spaccata sul nome di Luca Casarini, leader dei Disobbedienti e volto che potrebbe raccogliere i voti dei movimenti sociali e della sinistra cosiddetta radicale – sebbene nei social network una parte di questo mondo abbia già ripudiato la candidatura dell’ex no-global per Tsipras. La candidatura di Casarini era stata messa in discussione per via delle diverse inchieste giudiziarie che lo vedono protagonista, ma tutte per reati sociali, cioè relativi all’attività politica. Il suo nome è stato confermato nel collegio centro, ma apprendiamo da Il Fatto Quotidiano che ‘Il caso ha tenuto occupati i sei garanti della Lista per tutta la sera dello scorso 2 marzo fino a produrre una spaccatura: Camilleri, Flores D’Arcias e Gallino contrari alla candidatura mentre Spinelli, Revelli e Viale si sono dichiarati favorevoli’.

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Come rivela Gad Lerner, la polemica su Casarini precede quelle create dal conseguente ritiro dello scrittore Camilleri, inizialmente dato come uno dei capilista. Tuttavia, dalle pagine web di MicroMega arriva netta la smentita: la candidatura di Camilleri non c’è mai stata. Evidentemente. Ma forse, trattandosi di uno dei garanti, qualcuno se l’era aspettata e l’avrebbe gradita. Forse. A ciò si aggiunga la questione Sonia Alfano. Secondo la ricostruzione de Il Fatto Quotidiano, il nome di Sonia Alfano, europarlamentare eletta con l’Italia dei Valori nel 2009 e molto apprezzata a sinistra, ha creato problemi non indifferenti tra i garanti della Lista in ragione dei suoi incarichi di parlamentare, consigliere regionale e parlamentare europeo a partire dal 2004. A differenza di Casarini, Sonia Alfano è perciò rimasta fuori.

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Nella liste, spiccano i nomi dell’editorialista Barbara Spinelli, della capolista al centro Lorella Zanardo, autrice del documentario ‘Il corpo delle donne’, lo scrittore e giornalista Ermanno Rea, il giornalista di Repubblica Curzio Maltese, Adriano Prosperi, Ermanno Rea, la scrittrice Valeria Parrella, Maria Elena Ledda, Giuliana Sgrena, la No Tav Nicoletta Dosio e dirigenti di partito come Fabio Amato ed Eleonora Forenza (Prc), Teresa Masciopinto, responsabile Culturale Area Sud di Banca Popolare Etica, Enzo Di Salvatore, professore di diritto costituzionale presso l’Università di Teramo e l’economista Antonio Maria Perna.

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Da ultimo, si osserva quanto riportato da Repubblica nelle ultime ore, che rivela una notizia che con buona dose di probabilità porterà su queste candidature altre polemiche, poiché una parte dei candidati sarebbero stati inseriti nelle liste solo per trainare voti, ma qualora dovessero essere eletti si dimetteranno per lasciare il passo a quelli che sono i ‘veri’ candidati della lista L’Altra Europa con Tsipras.

Michele De Sanctis