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L’incoerenza della Francia (nucleare) che vuol salvare il pianeta boicottando la Nutella. 

  

Con i suoi 58 reattori nucleari, la Francia possiede il secondo parco al mondo di impianti energetici di questo tipo (preceduta solo dagli USA), mentre la sua quota di energia nucleare sulla produzione totale di energia elettrica corrisponde a quasi il 79%, ponendola come leader indiscusso a livello mondiale. Come noto, a differenza dei nostri cugini francesi, noi italiani abbiamo scelto fonti di energia più sostenibil. Ma per il ministro dell’Ambiente francese Ségolène Royal, il principale problema della Terra non sono gli impianti nucleari del suo Paese. Per il ministro francese, piuttosto, bisogna smettere di mangiare la Nutella per salvare il pianeta. 

  
En passant, Greenpeace ha subito precisato che la Ferrero, azienda italiana produttrice della famosa Nutella, è una delle principali aziende al mondo a sostenere il progetto del Palm Oil Innovation Group, oltre ad essere uno dei primi gruppi che è riuscito a sostituire l’olio di palma utilizzato nella sua filiera con quello certificato dalla Roundtable on Sustainable Palm Oil. Cioè per fare la Nutella nessun albero viene abbattuto per creare spazio e piantare una coltivazione intensiva di palme.

  

Diversamente, Greenpeace da anni si batte per la chiusura delle centrali nucleari d’Oltralpe. Il 18 marzo 2014, per esempio, la stessa organizzazione ecologista riuscì ad esporre su uno dei reattori dell’impianto della centrale nucleare di Fessenheim situata nell’est della Francia un enorme striscione che recitava “Stop risking Europe” (Basta mettere a rischio l’Europa). L’iniziativa era tesa a denunciare le debolezze del sistema di sicurezza degli impianti atomici. Secondo quanto riportato da TMNews, l’impianto nucleare di Fessenheim, che sorge sulle rive del Reno, ai confini con Svizzera e Germania, è considerato uno dei più vulnerabili alle attività sismiche e alle inondazioni. Un anno prima, ben 29 attivisti erano stati arrestati dalla polizia francese dopo aver fatto irruzione nella centrale nucleare francese di Tricastin, per esporre due striscioni con la scritta: “Tricastin: incidente nucleare” e “Francois Hollande: presidente della catastrofe?”. In particolare, le proteste sono mirate soprattutto alla chiusura delle centrali più antiche, non solo in Francia, ma in tutta Europa, che, considerata l’usura e l’obsolescenza dei propri impianti, sono anche le più a rischio di disastro ambientale.

  
Nonostante le promesse del presidente Hollande sulla chiusura di alcuni impianti, il parco nucleare francese è ben lontano da una sua dismissione, sia pure parziale. E nonostante il rischio ambientale rappresentato dai reattori nucleari del proprio Paese, il ministro dell’Ambiente francese si occupa, invece, degli alberi che verrebbero abbattuti da una sola azienda italiana per produrre la sua nota crema gianduia, senza, peraltro, informarsi o meno se tale azienda sia effettivamente responsabile della deforestazione mondiale, di cui – in ogni caso – sarebbero responsabili molte altre industrie (non solo alimentari), visto l’uso intensivo che dell’olio di palma viene fatto nelle catene produttive di tutto il pianeta. E salvo, poi, chiedere scusa su Twitter. In ogni caso, notiamo con disappunto che ha chiesto solo scusa, il ministro, non ha detto che si è sbagliata. Insomma, non è che abbia anche ritrattato.

  
Questo brutto episodio di politica 2.0 della peggior specie, ci lascia però supporre che il tema dell’ecologia sia stato solo strumentale a sabotare una delle poche aziende italiane più competitive a livello globale. L’economia europea in questi anni di crisi ha dimostrato come la politica dei singoli Paesi si stia facendo via via più aggressiva nei confronti dei propri partner UE: questa specie di campagna diffamatoria stroncata sul nascere non è che un piccolo esempio. E oltretutto non è che un episodio marginale tra altri ben più macroscopici. 

  
Se, infatti, per salvare il mondo dobbiamo smettere di mangiare Nutella come suggerisce la ministra francese, dobbiamo allora pensare che lasciare i profughi del Nord Africa sugli scogli, o respingerli entro i confini italiani, come fa il governo a cui lei appartiene, contribuisce a migliorarlo? E se la Nutella contribuisse davvero a distruggere il pianeta, per chi dovremmo salvarlo? Per una manica di razzisti con la ‘spocchia’ di chi si sente migliore di chi non ha avuto la fortuna di nascere nella civile ed evoluta Europa? Così civile da aver prodotto due guerre mondiali in meno di cinquant’anni? Vale davvero la pena salvare il pianeta per chi lo sta rendendo un posto peggiore?

MDS – BlogNomos

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Stai educando i tuoi figli a essere amici dell’ambiente? Prova il test

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da Il Sole 24 Ore Rubrica Food24, del 16 aprile 2014
di Maria Teresa Manuelli

Ogni anno lo spreco domestico costa agli italiani 8,7 miliardi di euro: una cifra vertiginosa, che deriva dall’inutilizzo settimanale medio di circa 213 grammi di cibo gettato – perché considerato non più edibile – al costo di 7,06 euro settimanali a famiglia. Sono dati del Rapporto 2013 sullo spreco domestico realizzato da Knowledge for Expo, l’Osservatorio di Swg e Last Minute Market, con l’apporto dell’Osservatorio nazionale sugli sprechi Waste Watcher.
Cifre da capogiro che hanno ispirato la campagna europea di sensibilizzazione “Un anno contro lo spreco”, promossa da Last Minute Market, lo spin off dell’Università di Bologna e diretta dal fondatore e presidente, l’agroeconomista Andrea Segrè.

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La campagna è nata nel 2010 con tema portante sugli sprechi alimentari, è proseguita nel 2011 con focus su sprechi idrici e quindi nel 2012 occupandosi di sprechi energetici, per approdare all’edizione 2013 dedicata a SprecoZero. Green&Young, ovvero l’impegno contro lo spreco raccontato e spiegato ai giovani, sarà invece il leit motiv dell’edizione 2014, presentata ieri al Parlamento di Strasburgo. Con Segrè sono intervenuti i deputati europei Paolo De Castro, presidente della Commissione Agricoltura, Matthias Groote, presidente della Commissione Ambiente e Salvatore Caronna, relatore della Risoluzione “Come evitare lo spreco di alimenti: strategie per migliorare l’efficienza della catena alimentare nell’Ue” – approvata dal Parlamento Europeo il 19 gennaio 2012 -, per rilanciare con un documento-appello l’impegno dell’Europa contro lo spreco alimentare.
Green&Young sarà illustrata dalla matita di Francesco Altan e prevede l’attivazione di un concorso nazionale di sensibilizzazione sul tema spreco, che sarà proposto nell’anno scolastico 2014/2015 per gli Istituti Primari italiani. Sono inoltre in programma ulteriori iniziative in collaborazione con l’Antoniano e con la Città dello Zecchino di Bologna, che terrà a battesimo la presentazione del progetto contro lo spreco per i più giovani.
E noi, stiamo già educando i nostri figli a non sprecare le risorse alimentari? Scopriamolo con questo test, realizzato in collaborazione con Last Minute Market. Ricordando sempre che il buon esempio è il migliore dei maestri.

Vai al test

Fonte: Il Sole 24 Ore

Filoeuropeo o euroscettico? Sono i fatti che contano

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Fonte: Osservatorio Balcani e Caucaso

Per orientarsi nel mare delle informazioni e dei dati in vista delle elezioni europee di maggio, la Rete ci offre un interessante strumento di controllo della veridicità delle dichiarazioni espresse dai politici europei: FactchechEU, la prima piattaforma europea di crowd-checking.
Nato dal lavoro di un gruppo di giovani professionisti italiani che avevano già creato una piattaforma di fact-checking operativa a livello nazionale (Pagella Politica), FactcheckEU è uno strumento online con cui è possibile verificare e monitorare le dichiarazioni dei candidati in corsa alle elezioni europee e valutarne la veridicità confrontando le parole con numeri e fonti di riferimento.
La piattaforma è concepita in modo interattivo e gli utenti hanno un ruolo chiave: possono caricare dichiarazioni e verificarle insieme al team di FactcheckEU, oppure navigare alla ricerca di dati già verificati suddivisi nelle principali policy area dell’UE e corredati da grafici e tabelle.
Loggandosi sul sito, si può partecipare in quattro modi diversi: verificando direttamente una dichiarazione impugnando studi e tabelle; traducendo per rendere un’affermazione disponibile in altre lingue europee; dando un voto ad una dichiarazione in una scala graduata da “Vero” a “Panzana pazzesca”, oppure caricando un’affermazione che suona sospetta e che si vuole controllare.
Per capire meglio come funziona il Fact-checking, prendiamo l’ultimo caso riportato sulla piattaforma: l’affermazione di Jean-Claude Junker, candidato alla presidenza della Commissione dal Partito Popolare Europeo, che afferma che tra trent’anni nessun paese europeo preso singolarmente rientrerà nel club dei sette paesi più ricchi del mondo.
FactcheckEU ha verificato, fonti alla mano, ed ha concluso che la validità di questa frase dipende dall’indicatore economico a cui si fa riferimento.
La Germania e la Gran Bretagna avrebbero un posto in un ipotetico G7 nel 2050 (rispettivamente al 5° e al 6° posto in una classifica che vedrebbe la Cina, gli USA e l’India ai primi tre posti) nel caso in cui l’indicatore economico di riferimento è il valore in dollari USA delle economie considerate. Al contrario, se l’indicatore del Pil usato è corretto rispetto al costo della vita (tecnicamente, parità del potere d’acquisto) nel 2050 nessun paese europeo comparirebbe nella classifica dei primi sette al mondo, con la Germania, la più forte, al nono posto dopo Messico e Indonesia. FactCheckEU conclude: “Junker non sbaglia a denunciare il collasso relativo del peso delle singole economie europee a livello mondiale. La scelta di un indicatore piuttosto che un altro non è sbagliata, ma rende la sua dichiarazione in qualche modo incompleta”.
Il factchecking è una forma di partecipazione civica e dal basso all’informazione. Aiuta a rendere il dibattito pubblico più trasparente, e a ridare fiducia alle parole e alla possibilità dei cittadini di comprendere i fenomeni, anche i più complessi. Come si legge sul sito, “nasce dalla convinzione che con la crescente integrazione europea diventa sempre più importante avere dei watchdogs in grado di monitorare il dibattito pubblico”. Perché dopo tutto i fatti sono fatti, e le bugie hanno le gambe corte.

Innovazione: l’Italia è nel gruppo di coda, con Grecia e Ungheria. Bene solo Friuli, Piemonte ed Emilia

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Di Beda Romano. Da Il Sole 24 Ore del 4 marzo 2014

È una Italia ancora drammaticamente in ritardo quella che emerge da un rapporto della Commissione europea pubblicata oggi e tutto dedicato alla capacità dei paesi di innovare. Secondo la relazione, il paese è tra gli innovatori moderati, insieme alla Grecia e all’Ungheria. Neppure a livello regionale l’Italia riesce a fare sensibilmente meglio. Le regioni più brave in questo campo sono tutte nel Nord – il Friuli, l’Emilia Romagna e il Piemonte.

Nel rapporto annuale della Commissione, i paesi dell’Unione sono divisi in quattro gruppi: i paesi leader (tra i quali c’è la Finlandia e la Germania), i paesi che tengono il passo (fra questi l’Austria e la Francia), i paesi innovatori moderati (che vede l’Italia in compagnia di stati dell’Europa orientale o meridionale), e i paesi in ritardo (tre in tutto: Bulgaria, Romania e Lettonia). “Le differenze sul piano della resa innovativa tra gli stati sono ancora considerevoli”, avverte l’esecutivo comunitario.

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Secondo Bruxelles, l’Europa nel suo complesso sta colmando il divario con gli Stati Uniti e il Giappone nel settore dell’innovazione, ma molto lentamente. Secondo un indicatore della Commissione, la resa innovativa dell’Europa è pari a 0,630. In cima alla classifica sono la Corea del Sud (0,740) e gli USA (0,736). Il grado di capacità di un paese a innovare viene misurato sulla base di 25 indicatori che spaziano dal numero di dottorati ai successi brevettuali, agli investimenti in ricerca e sviluppo.

Ha commentato il commissario all’industria Antonio Tajani: “Maggiori investimenti da parte delle imprese, una forte domanda di soluzioni innovative europee e la riduzione degli ostacoli che si frappongono all’applicazione commerciale delle innovazioni sono la chiave della crescita. Abbiamo bisogno di imprese maggiormente innovative e di un contesto favorevole alla crescita al fine di portare efficacemente le innovazioni sui mercati”.
Ha aggiunto il commissario alla ricerca Máire Geoghegan-Quinn : “Con un bilancio di quasi 80 miliardi di euro per i prossimi sette anni, Orizzonte 2020, il nostro nuovo programma di ricerca, contribuirà a mantenere la spinta propulsiva”. L’Italia ha risultati inferiori alla media per la maggior parte degli indicatori. I punti deboli sono nella bassa presenza di dottorandi extraeuropei e nelle poche imprese innovative che collaborano con altre. I punti di forza si osservano nelle co-pubblicazioni scientifiche internazionali.

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Spiega la Commissione: “Un’analisi del periodo 2004-2010 indica che i risultati sul piano dell’innovazione sono migliorati nella maggior parte delle regioni europee (155 su 190). Per più della metà delle regioni (106) l’innovazione è progredita a un ritmo anche maggiore della media dell’UE. Nello stesso tempo la resa innovativa è peggiorata in 35 regioni ripartite in 15 paesi. Per quattro regioni la resa è addirittura calata bruscamente, superando mediamente all’anno il -10%”.
L’Italia conta tre regioni che tengono il passo (Friuli, Piemonte ed Emilia Romagna). Tutte le altre – comprese la Lombardia, il Veneto o il Lazio – innovano solo moderatamente. I motivi di questo ritardo italiano sono economici, politici e culturali. Da un lato, l’enorme debito pubblico limita certamente il margine di manovra del bilancio pubblico negli investimenti in ricerca. Dall’altro, il clientelismo frena l’innovazione, preferendo la lealtà familistica alla capacità inventiva.

Fonte: Il Sole 24 Ore

Le banche italiane sono le più esposte (dopo l’Austria) in Ucraina con oltre 5 miliardi di dollari (nel 2013)

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Di Vito Lops (Il Sole 24 Ore del 3 marzo 2014)

Le tensioni in Ucraina spaventano i mercati finanziari. Il rublo è a picco, le Borse in netto ribasso. Il G7 ha condannato l’iniziativa di Mosca che ha avuto l’ok del Parlamento ad un’operazione militare in Crimea. La Russia ha però l’appoggio della Cina.
A Piazza Affari vanno male le banche e, in particolare Unicredit che è una delle 10 più grandi banche prestatrici in Ucraina, con un’esposizione complessiva di 2,3 miliardi di euro (poco meno 3 miliardi di dollari al cambio attuale). L’istituto di Piazza Cordusio opera con la controllata Ukrsotsbank. Giù anche Intesa Sanpaolo, che però ha lasciato il Paese lo scorso gennaio con la cessione di Pravex Bank.
Secondo un’elaborazione della Banca dei regolamenti internazionali (aggiornata al terzo trimestre 2013) gli istituti italiani, tra quelli stranieri, sono i più esposti all’Ucraina dopo quelli austriaci per un totale di oltre 5 miliardi di dollari. Gli istituti austriaci superano i 7 mentre decisamente più residuale è l’esposizione degli istituti statunitensi, tedeschi e britannici (intorno, e anche meno nel caso del Regno Unito) al miliardi di dollari.
Nel complesso l’esposizione in Ucraina da parte di banche europee ammonta a 23 miliardi di dollari.

Fonte: Il Sole 24 Ore

Almost Europe

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Nei 55 scatti in bianco e nero che compongono il suo libro, Luca Nizzoli Toetti racconta le realtà in divenire dei paesi lungo le frontiere orientali dell’Europa, dall’exclave russa di Kaliningrad fino al Bosforo.Con uno sguardo poetico e delicato, l’autore (Premio Chatwin 2010) costruisce un personale “itinerario emotivo” attraverso territori dai confini labili e sfumati, che in un futuro non troppo lontano potrebbero entrare a far parte dell’Unione. Le immagini, molto curate, rivelano una grande maturità tecnica e nell’editing sono volutamente accostate in modo non cronologico né sequenziale da un punto di vista geografico. Questo lento periplo sul filo delle frontiere nate dal crollo dell’URSS ci restituisce suggestioni visive e atmosfere fatte di sguardi, piccoli gesti, momenti di vita quotidiana colti con incredibile sensibilità e un velo di ironia.
“Con il mio mestiere soddisfo un desiderio di libertà errabonda, di fuga dai vincoli territoriali, ideologici, professionali che sviluppo lontano dai veloci e superficiali meccanismi dei media e metto in atto nel più semplice dei modi: camminando e fotografando”, leggiamo nella postfazione.
Al di là della vecchia cortina, esistono luoghi ancora lontani e inaccessibili, ovattati dagli echi di una propaganda antisovietica non del tutto dissolta e, per questo, difficilmente comprensibili. Le imponenti e sperdute stazioni russe, il litorale ucraino, le brulicanti città delle repubbliche baltiche, i bar di Istanbul, le piazze di Chişinău. “Libero fruitore dell’eventualità”, senza mappe né appuntamenti prestabiliti, l’autore si perde in questi mondi inesplorati come un viaggiatore di fine ottocento, immergendosi “nella massa frettolosa con lentezza, senza far nulla ma inseguendo ogni cosa”.
L’intervista di Babelmed
Cosa l’ha spinto verso quei territori?
Volevo cercare l’Europa dove ancora non c’è e trovare qualcosa che mi parlasse del nostro passato recente, di trenta, quarant’anni fa. Mi interessava parlare di luoghi poco noti che presto, forse, faranno parte dell’Unione europea, anche se alcuni dei paesi che ho attraversato dubito che ci riusciranno. La domanda di fondo che mi ha spinto a partire è stata: “cos’è l’Europa? cosa sono gli europei?”. Ho cercato delle risposte osservando la vita quotidiana delle persone che abitano ai confini orientali di questa entità politica e geografica ma ho trovato solo molte fotografie e tanta gente che si sta chiedendo la stessa cosa…
Qual è stato il suo approccio da un punto di vista fotografico?
Ho scelto di lavorare cogliendo i particolari di quello che succede e che vedo mentre cammino. L’urbanizzazione selvaggia e la quasi totale dipendenza dalle automobili ci costringono a seguire troppo spesso percorsi obbligati e per questo raramente attraversiamo un territorio vivendolo fino in fondo. Alzare la testa e camminare diventa quindi un atto sovversivo, politico. Abbandonare per un momento gli smartphone che occupano ogni pausa delle nostre frettolose giornate, deviare dai percorsi noti, perderci in luoghi sconosciuti lasciandoci stupire dalla realtà che ci circonda. È questo che mi spinge a fotografare. Non uso mai le mappe quando sono in viaggio: le consulto prima di partire e poi provo a riorientarmi sul territorio creandomi dei nuovi punti di riferimento.
Cosa lo ha colpito di più del viaggio?
Non essendo un esperto di geopolitica, non posso esprimermi sulla situazione di quei posti ma attraversandoli, parlando con la gente, vivendone le atmosfere ho sicuramente riscontrato una forte nostalgia per un passato che è stato spazzato via in pochissimo tempo e in modo forse troppo violento. Le persone dell’Est considerano ancora il periodo comunista come un momento di grande disponibilità e umanità, di apertura e condivisione, supporto reciproco. Il nostro punto di vista su quell’epoca storica non può essere obiettivo per via della pesante propaganda anti-russa che era molto diffusa in occidente, ma lì è ancora visibile il retaggio di una grandezza che non si è persa. E anche se l’ideale socialista non c’è più, restano comunque sue tracce indelebili nell’imponente architettura sovietica, onnipresente.

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Qual è l’atteggiamento dei giovani di questi paesi rispetto all’Europa?
Alla gente non manca l’Europa, né un’economia diversa. Le persone vorrebbero magari un po’ di ricchezza in più ma alla base del loro disagio c’è la libertà di movimento negata. Per muoversi hanno bisogno del visto e molti non riescono a ottenerlo per viaggiare liberamente e scoprire il mondo, che dovrebbe essere un diritto di tutti. L’elemento più forte è, dunque, un desiderio di mobilità condiviso, soprattutto tra i giovani.
Il tuo è in qualche modo anche un lavoro sul confine, sulla frontiera. Potrebbe dire qualcosa a riguardo?
Il tema dei muri mi affascina molto, ma ciò che mi interessa approfondire va al di là dei muri fisici che vediamo nel mondo. Venticinque anni fa, quando è caduto quello di Berlino, abbiamo assistito all’abbattimento di una barriera di mattoni che per molto tempo aveva separato due mondi che finalmente potevano riavvicinarsi. Oggi ci sono altre dinamiche, altri muri, più invisibili e sofisticati che il progresso tecnologico ci ha costruito attorno: sono i nostri corpi, sempre più isolati, sono gli smartphone che usiamo di continuo e che filtrano la realtà esterna, sono il bombardamento mediatico che ci riempie di notizie nell’illusione di informarci in modo adeguato.
“Almost Europe” è stato realizzato grazie a un sistema di prevendite on line. In che modo?
Si tratta di un sistema che andava molto di moda all’inizio del secolo scorso e che ora si sta diffondendo di nuovo per far fronte alla crisi dell’editoria. Prima di ogni nuova tappa del viaggio, ho lanciato una campagna di raccolta fondi per finanziare gli spostamenti in programma specificando di volta in volta gli itinerari e offrendo ai donatori alcuni scatti realizzati grazie al loro contributo, firmati e numerati. Così, prima che l’opera fosse stampata, ne erano già state vendute 120 copie.

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Quali saranno le sue prossime tappe?
Sto già lavorando a un secondo viaggio attraverso l’Europa: dalla Scandinavia alla Sicilia in treno, grazie allo stesso metodo di finanziamento dal basso. E in futuro mi piacerebbe immaginare un itinerario da Cascais fino alle Repubbliche baltiche.

Luca Nizzoli Toetti, Almost Europe,
Postcard, Roma, Ottobre 2013
122 pagine, b/n, 25 euro.
www.almosteurope.eu

Fonte: Babelmed

La Francia con le spalle al muro davanti a uno shock deflazionistico

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L’economia esiste perché esiste lo scambio, ogni scambio presuppone l’esistenza di due parti, con interessi contrapposti: l’acquirente vuole spendere di meno, il venditore vuole guadagnare di più. Molte analisi dimenticano questo dato essenziale. Per contribuire a una lettura più equilibrata della realtà abbiamo aperto questo blog, ispirato al noto pensiero di Pippo: “è strano come una discesa vista dal basso somigli a una salita”. Una verità semplice, ma dalle applicazioni non banali…

Il presidente francese François Hollande deve ora pagare il prezzo per essersi piegato alle politiche recessive dell’eurozona. Il suo paese sta entrando in deflazione.

In gennaio i prezzi in Francia sono scesi dello 0,6% rispetto al mese precedente e sarebbero scesi anche di più se non ci fosse stato un aumento della tassazione una tantum.

I prezzi dei prodotti manifatturieri sono scesi del 3% e il vestiario è sceso del 15,4%, visto che i rivenditori hanno abbassato i prezzi per svuotare i magazzini.

In Francia i prezzi “core” (esclusi alimentari ed energia, ndt) sono in caduta da mesi, anche se l’indice core dei prezzi al Consumo calcolato su base annuale è ancora lievemente positivo, allo 0,1%.

Questa situazione è esattamente quella che un anno fa l’Observatoire Economique aveva previsto che si sarebbe verificata in seguito alle politiche restrittive dell’eurozona, ossia in presenza di una triplice stretta di austerità fiscale, politica monetaria passivamente restrittiva, e drastica contrazione dei prestiti bancari.

Sorpresa, sorpresa! L’aggregato monetario M3 dell’eurozona è in contrazione fin dallo scorso marzo.

Molti ridevano delle previsioni dell’Observatoire. Adesso nessuno ha più voglia di ridere. Come ha detto l’IMF la scorsa notte, manca solo uno shock esterno perché l’Europa sprofondi decisamente in deflazione.

“Un nuovo rischio per l’attività economica deriva da un’inflazione molto bassa nelle economie avanzate, soprattutto nell’eurozona che, se dovesse rimanere sotto il proprio obiettivo di inflazione per un periodo prolungato, potrebbe compromettere le aspettative di inflazione a lungo termine. Una bassa inflazione comporta il rischio di deflazione in caso di un grave shock negativo dell’economia. Nell’eurozona, la bassa inflazione complica anche il compito della periferia dove il peso reale del debito sia pubblico che privato aumenterebbe in seguito all’aumento dei tassi di interesse reali.”

Da dove lo shock potrebbe arrivare, non è un mistero. La Fed e la Banca centrale cinese stanno facendo politiche restrittive, provocando una tempesta nei mercati emergenti che si sta aggravando di giorno in giorno.

Una lunga lista di paesi sono obbligati ad alzare i tassi di interesse per difendere le loro valute, creando un ulteriore impulso alla contrazione. Alcuni di questi paesi stanno uscendo fuori dai binari tutti contemporaneamente.

Gli ottimisti hanno una fede commovente nella locomotiva tedesca, che secondo loro dovrebbe tirare l’eurozona fuori dalla palude, ma i dati più recenti dimostrano che i salari tedeschi sono scesi dello 0,2% nel 2013. Anche la Germania è in deflazione salariale.

Il che fa sorgere la domanda: come diavolo faranno la Francia, l’Italia, la Spagna, il Portogallo e la Grecia a recuperare la competitività del lavoro perduta nei confronti della Germania tramite delle “svalutazioni interne”, se i salari tedeschi sono in calo?

Questo costringe tali paesi ad entrare in una deflazione salariale ancor più profonda per colmare il divario, cosa che a sua volta porta le dinamiche del debito fuori controllo, poiché l’effetto denominatore peggiora la situazione.

Esiste una soluzione tecnica per questo. Si chiama Quantitative Easing. La Banca Centrale Europea può allontanare dagli scogli l’intero sistema UEM lanciando un blitz monetario per centrare il proprio target di crescita M3 del 4,5%.

Purtroppo, la Corte costituzionale tedesca ha appena sollevato l’asticella della politica sul QE a un livello così alto che la BCE dovrà attendere l’urto sugli scogli prima di reagire, e allora sarà troppo tardi.

Contrariamente a quanto si crede comunemente, nei trattati non c’è nessun divieto contro il QE. Mario Draghi ha detto esplicitamente che “non è illegale” e rimane un’opzione in extremis.

Maastricht vieta la monetizzazione del deficit ma non le operazioni di mercato aperto (QE) necessarie per mantenere la stabilità monetaria.

Il presunto vincolo è interamente politico e ideologico, e spinto dal timore che gli euroscettici tedeschi possano contrastarlo nei tribunali.

Così abbiamo una situazione di stallo. Cosa succede ora, se le polveri bagnate della ripresa dell’eurozona ancora una volta non prendono fuoco? Il destino del Giappone è dietro l’angolo.

Fonte: Goofynomics

Traduzione: Voci dall’estero

Gli invisibili dell’Europa

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Di Barbara Spinelli, pubblicato su La Repubblica 26/02/2014

Il dolore sta producendo risultati”: fa impressione, proprio ora che è divenuto ministro dell’Economia, rileggere quel che Pier Carlo Padoan disse il 29 aprile 2013 al Wall Street Journal, quando era vice segretario generale dell’Ocse.

Già allora i dati sull’economia reale smentivano una così impudente glorificazione dell’austerità – e addirittura dei patimenti sociali che infliggeva – ma l’ultimo numero di Lancet, dedicato alla sanità pubblica in Grecia dopo sei anni di Grande Depressione, va oltre la semplice smentita. Più che correggersi, il ministro farebbe bene a scusarsi di una frase atroce che irresistibilmente ricorda Pangloss, quando imperterrito rassicura Candide mentre Lisbona è inghiottita dal terremoto raccontato da Voltaire: “Queste cose sono il meglio che possa accadere. La caduta dell’uomo e la maledizione entrano necessariamente nel migliore dei mondi possibili”.

Lancet non è un giornale di parte: è tra le prime cinque riviste mediche mondiali. Il suo giudizio sulla situazione ellenica, pubblicato sabato in un ampio dossier (lo ha ripreso Andrea Tarquini sul sito di Repubblica), è funesto: la smisurata contrazione dei redditi e i tagli ai servizi pubblici hanno squassato la salute dei cittadini greci, incrementando il numero di morti specialmente tra i bambini, tra gli anziani, nelle zone rurali. Nella provincia di Acaia, il 70 per cento degli abitanti non ha soldi per comprare le medicine prescritte. Emergency denuncia la catastrofe dal giugno 2012. Numerose le famiglie che vivono senza luce e acqua: perché o mangi, o paghi le bollette. Nel cuore d’Europa e della sua cultura, s’aggira la morte e la chiamano dolore produttivo.
“Siamo di fronte a una tragedia della sanità pubblica”, constata la rivista, “ma nonostante l’evidenza dei fatti le autorità responsabili insistono nella strategia negazionista”. Qualcuno deve spiegare a chi agonizza come sia possibile che il dolore e la morte siano “efficaci”, e salvifiche per questo le riforme strutturali fin qui adottate.

Né è solo “questione di comunicazione” sbagliata, come sosteneva nell’intervista Padoan: sottolineare gli esiti promettenti del consolidamento fiscale, ammorbidendo magari qualche dettaglio tecnico, non toglie la vittoria al pungiglione della morte. Trasforma solo un’improvvida teoria economica in legge naturale, perfino divina. Moriremo, certo, ma in cambio il Paradiso ci aspetta. Soprattutto ci aspetta se non cadremo nel vizio disinvoltamente rinfacciato agli indebitati-impoveriti: la “fatica delle riforme” (reform fatigue), peccato sempre in agguato quando i governi “sono alle prese con resistenze sociali molto forti”. Quando siamo ingrati, come Atene, alle iniezioni di liquidità che l’Unione offre a chi fa bancarotta: nel caso greco, due bailout tardivi, legati a pacchetti deflazionistici monitorati dalla trojka. I contribuenti tedeschi hanno già dato troppo, dicono in Germania. Non è vero, i contribuenti non hanno pagato alcunché perché di prestiti si tratta, anche se a tassi agevolati e destinati in primis alle banche.

Difficile dar torto alle “forti resistenze sociali”, se solo guardiamo le cifre fornite su Lancet dai ricercatori delle università britanniche di Cambridge, Oxford e Londra. A causa della malnutrizione, della riduzione dei redditi, della disoccupazione, della scarsità di medicine negli ospedali, dell’accesso sempre più arduo ai servizi sanitari (specie per le madri prima del parto) le morti bianche dei lattanti sono aumentate fra il 2008 e il 2010 del 43%. Il numero di bambini nati sottopeso è cresciuto del 19 %, quello dei nati morti del 20.

Al tempo stesso muoiono i vecchi, più frequentemente. Fra il 2008 e il 2012, l’incremento è del 12,5 fra gli 80-84 anni e del 24,3 dopo gli 85. E s’estende l’Aids, perché la distribuzione di siringhe monouso e profilattici è bloccata. Malattie rare o estinte ricompaiono, come la Tbc e la malaria (quest’ultima assente da 40 anni. Mancano soldi per debellare le zanzare infette).
La rivista inglese accusa governi e autorità europee, ed elogia i paesi, come Islanda e Finlandia, che hanno respinto i diktat del Fondo Monetario o dell’Unione. Dopo la crisi acuta del 2008, Reykjavik disse no alle misure che insidiavano sanità pubblica e servizi sociali, tagliando altre spese scelte col consenso popolare. Non solo: capì che la crisi minacciava la sovranità del popolo, e nel 2010-2011 ridiscusse la propria Costituzione mescolando alla democrazia rappresentativa una vasta sperimentazione di democrazia diretta.

Non così in Grecia. L’Unione l’ha usata come cavia: sviluppi islandesi non li avrebbe tollerati. Proprio nel paese dove Europa nacque come mito, assistiamo a un’ecatombe senza pari: una macchia che resterà, se non cambiano radicalmente politiche e filosofie ma solo questo o quel parametro. Il popolo sopravvive grazie all’eroismo di Ong e medici volontari (tra cui Médecins du Monde, fin qui attivi tra gli immigrati): i greci che cercano soccorso negli ospedali “di strada” son passati dal 3-4% al 30%. S’aggiungono poi i suicidi, in crescita come in Italia: fra il 2007 e il 2011 l’aumento è del 45%. In principio s’ammazzavano gli uomini. Dal 2011 anche le donne.
Lancet non è ottimista sugli altri paesi in crisi. La Spagna, cui andrebbe assommata l’Italia, è vicina all’inferno greco. Alexander Kentikelenis, sociologo dell’università di Cambridge che con cinque esperti scrive per la rivista il rapporto più duro, spiega come il negazionismo sia diffuso, e non esiti a screditare le più serie ricerche scientifiche (un po’ come avviene per il clima). L’unica istituzione che si salva è il Centro europeo di prevenzione e controllo delle malattie, operativo dal 2005 a Stoccolma.

La Grecia prefigura il nostro futuro prossimo, se le politiche del debito non mutano; se scende ancora la spesa per i servizi sociali. Anche in Italia esistono ospedali di volontari, come Emergency. La luce in fondo al tunnel è menzogna impudente. Senza denunciarla, Renzi ha intronizzato ieri la banalità: “L’Europa non dà speranza se fatta solo di virgole e percentuali” – “l’Italia non va a prendere la linea per sapere che fare, ma dà un contributo fondamentale”. Nessuno sa quale contributo.

Scrive l’economista Emiliano Brancaccio che i nostri governi “interpretano il risanamento come fattore di disciplinamento sociale”. Ma forse le cose stanno messe peggio: il risanamento riduce malthusianamente le popolazioni, cominciando da bambini e anziani. Regna l’oblio storico di quel che è stata l’Europa, del perché s’è unita. Dimentica anche la Germania, che pure vive di memoria. Dopo il ’14-18 fu trattata come oggi la Grecia: sconfitto, il paese doveva soffrire per redimersi. Solo Keynes insorse, indignato. Nel 1919 scrisse: “Se diamo per scontata la convinzione che la Germania debba esser tenuta in miseria, i suoi figli rimanere nella fame e nell’indigenza […], se miriamo deliberatamente all’umiliazione dell’Europa centrale, oso farmi profeta, la vendetta non tarderà”.

La vendetta non tardò a farsi viva, ed è il motivo per cui ben diversa e più saggia fu la risposta nel secondo dopoguerra. Quella via andrebbe ripercorsa e potrebbe sfociare in una Conferenza europea sul debito, che condoni ai paesi in difficoltà parte dei debiti, connetta i rimborsi alla crescita, dia all’Unione poteri politici e risorse per lanciare un New Deal di ripresa collettiva e ecosostenibile. È già accaduto, in una conferenza a Londra che nel 1953 ridusse quasi a zero i debiti di guerra della Germania. I risultati non produssero morte, ma vita. Fecero rinascere la democrazia tedesca. Non c’era spazio, a quei tempi, per i Pangloss che oggi tornano ad affollare le scene.

Fonte ALBA SOGGETTO POLITICO NUOVO

Capital Economics: gli Olandesi Starebbero Meglio se Uscissero dall’Euro

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Bruno Waterfield (The Telegraph – Londra)
Bruno Waterfield commenta sul Telegraph un recente studio pubblicato dall’istituto internazionale di ricerca macroeconomica Capital Economics, già vincitore del Premio Wolfson per l’Economia nel 2012 con uno studio sul miglior modo per smantellare la moneta unica. Secondo Capital Economics gli Olandesi avrebbero grandi vantaggi economici ad abbandonare sia l’euro che l’Unione Europea. Lo studio è stato commissionato dal politico “euroscettico” Geert Wilders, tuttora in testa ai sondaggi in Olanda. L’articolo del Telegraph: “Secondo un importante studio, ci sarebbero grandi benefici economici per gli olandesi se lasciassero l’UE. Secondo un recente studio, se l’Olanda abbandonasse euro e Unione Europea la famiglia media olandese starebbe meglio per l’equivalente di oltre 8000 sterline l’anno e il reddito nazionale olandese crescerebbe di oltre mille miliardi. Lo studio sul Nexit, termine che designa una potenziale uscita dell’Olanda, condotto dalla sezione britannica della rispettabile società di ricerca Capital Economics, riporta che ci sarebbero significativi benefici durante i prossimi due decenni se il paese cambiasse la sua appartenenza all’UE con uno status simile a quello che hanno Svizzera o Norvegia. “Un’eventuale decisione di lasciare l’UE è prima di tutto una decisione sociale, culturale e politica. Ruota attorno a questioni che riguardano la sovranità nazionale, la cittadinanza e la libertà di autodeterminarsi,” sostiene il report. “Ci sono comunque anche delle buone ragioni per ritenere che un paese, svincolandosi dalla burocrazia di Bruxelles e diventando capace di prendere decisioni da solo, anziché lasciarsi imporre delle politiche in stile taglia-unica-adatta-a-tutti, trarrebbe dei benefici anche dal punto di vista economico.” La ricerca è stata colta al volo dagli euroscettici per contrastare quelli che essi ritengono degli avvertimenti allarmistici da parte di leaders del mondo delle imprese e politici mainstream sul presunto tracollo economico della Gran Bretagna se lasciasse l’UE. “Questo report è significativo perché è stato prodotto da un gruppo di ricerca credibile della City. Non può essere liquidato tanto facilmente,” ha dichiarato Douglas Carswell, un parlamentare conservatore del collegio elettorale di Clacton. “Dimostra che non siamo più soli. Non siamo solo noi britannici ad avere capito che l’integrazione europea è difettosa fin dalle basi. Noi siamo molto simili agli olandesi, un piccolo paese che ha prosperato commerciando su scala globale. Pensate cosa potrebbero essere paesi come i nostri in un tipo diverso di Europa.” Pur riconoscendo i rischi di un’uscita dall’UE, Capital Economics conclude il report sostenendo che l’Olanda, paese creditore dell’eurozona con rating AAA, starebbe meglio fuori dall’UE a causa della minaccia alla sua ricchezza a lungo termine posta dai problemi strutturali della moneta unica europea. “Ci sono ovviamente dei rischi a lasciare l’unione – e questi devono essere riconosciuti e affrontati da tutti nel momento in cui si considera il Nexit,” dice il report. “Ma ci sono anche dei rischi significativi nel restare dentro il blocco dei paesi che condividono una moneta che ha dei difetti fondamentali. Qui la nostra analisi mostra che l’Olanda farebbe meglio a riprendere il controllo del proprio destino, anzichè mantenere un atteggiamento del tipo ‘si vedrà’.” Il report conclude che il reddito nazionale olandese potrebbe crescere per un ammontare pari a 1500 miliardi entro il 2035, portando un aumento della ricchezza di circa 9800 euro a famiglia ogni anno. Anche se l’Olanda non fosse in grado di ottenere accordi come quelli concessi a Svizzera e Norvegia, che sono nel mercato unico europeo pur non essendo membri dell’UE, “l’economia sarebbe in condizioni migliori restando fuori piuttosto che dentro l’unione,” sostiene il report. Lo studio indipendente era stato commissionato da Geert Wilders, leader del partito olandese anti-UE, il Freedom Party, per valutare i costi che l’Olanda dovrebbe affrontare lasciando l’Unione, giacché lui è in testa ai sondaggi nazionali per la corsa alle elezioni europee di questa primavera. “Al contrario di quanto di quanto affermano gli allarmisti, la nostra economia non s’inchioderebbe. Anzi, guadagneremmo miliardi rispetto ad ora,” ha detto. “All’inizio ci sarebbe un periodo di transizione per passare, ad esempio, dall’euro al fiorino. Ma passato quello, l’economia crescerebbe molto più di ora, un dieci percento in più entro il 2024 e un tredici percento entro il 2035.” ha concluso. Sondaggi d’opinione svolti da Maurice de Hond in Olanda hanno rilevato che una maggioranza del 55 percento sarebbe favorevole a lasciare l’UE se si dimostra che ciò porterebbe una maggiore crescita economica e alla creazione di posti di lavoro. Nel 2012 Capital Economics aveva vinto il prestigioso premio Wolfson per uno studio su come gestire uno smantellamento ordinato dell’euro, durante il picco della crisi del debito in Europa. Lo studio, lungo 164 pagine, sdrammatizza i costi e la turbolenza implicati dall’uscita dall’euro. “Ci sono costi economici per lasciare l’UE, specialmente legati al fatto di dover rimpiazzare la moneta unica con una moneta nazionale. Ma questi costi sono modesti e gestibili,” afferma. Molta della crescita economica prevista in caso di abbandono dell’UE, in un paese dominato dal porto di Rotterdam, viene da una “crescita più veloce delle esportazioni verso i mercati non-europei, dovuta alla possibilità di negoziare e commerciare con economie emergenti in rapida crescita senza essere vincolati alle politiche comunitarie europee sul commercio”. Attualmente molti accordi di libero scambio nell’UE sono sospesi o impantanati nei dissensi interni tra paesi più orientati al libero scambio come Gran Bretagna e Olanda e i paesi più protezionisti del blocco latino guidati da Francia e Italia. Il report sul “Nexit”, un’espressione che mescola l’abbreviazione della parola “Netherlands” (cioè “Paesi Bassi”, ndt) e la parola “exit” (cioè “uscita”, ndt), considera anche che ci sono vantaggi economici nello stare fuori dall’UE, tra cui una riduzione dei costi per le imprese per “un minimo di 20 miliardi all’anno entro il 2034, attraverso il ritorno a una regolamentazione nazionale nelle aree attualmente sotto la giurisdizione delle istituzioni di Bruxelles”. Complessivamente, il rapporto conclude che gli olandesi sarebbero in grado di gestire la propria economia “in modo più efficiente avendo la libertà di stabilire delle politiche monetarie e fiscali su misura per le condizioni del loro paese, e non su misura dell’intera eurozona”. Lo studio riporta anche di una “riduzione della spesa pubblica di minimo 7,5 miliardi di euro all’anno sino al 2035, per il fatto di non essere più legati alle leggi UE sulla libera circolazione e “attraverso una revisione delle politiche sull’immigrazione per orientarle più strettamente su coloro che possono dare un contributo economico”. Lo studio contraddice un precedente studio ufficiale olandese sui benefici dell’appartenenza all’UE, calcolati in Olanda sui duemila euro all’anno a persona. Jeroen Dijsselbloem, il ministro delle finanze olandese nonché presidente dell’eurogruppo, ha attaccato l’idea del Nexit come “decisamente imprudente”, e ha difeso la moneta unica europea. “Lo leggerò, ma so una cosa per certo: l’Olanda è una potenza economica dell’Europa. Noi guadagnamo la maggior parte della nostra ricchezza commerciando con paesi dell’UE, per cui l’Olanda ha decisamente interesse ad avere un mercato interno in cui il commercio sia facilitato” ha detto. “C’è anche la moneta unica. Attualmente è molto forte e le condizioni dell’eurozona adesso appaiono molto migliorate rispetto ad alcuni anni fa. Non c’è motivo di intraprendere nuove avventure. Sarei decisamente contrario.”

Fonte: Voci dall’estero

Guasta è l’economia. La crisi, il lavoro, le risposte del mercato e le proposte per un nuovo progetto comune.

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di Michele De Sanctis

Dal 2008 ad oggi, tutto ciò che è apparso come qualcosa di nuovo, fin dal default degli Usa, è, in realtà, la riproposizione di quanto accade dal 1971. Dall’abbandono da parte degli Stati Uniti degli accordi di Bretton Woods, per l’esattezza. Durante la conferenza di Bretton Woods del ’44, infatti, erano stati presi degli accordi che avevano dato vita ad un sistema di regole e procedure volte a regolare la politica monetaria internazionale con l’obiettivo di governare i futuri rapporti economici e finanziari, impedendo di ritornare alla situazione che diede vita al secondo conflitto mondiale. La decisione si rese necessaria poiché tra le cause del secondo conflitto mondiale andavano, altresì, annoverate le diffuse pratiche protezionistiche portate avanti dai singoli Stati, le svalutazioni dei tassi di cambio per ragioni competitive e la scarsa collaborazione tra i Paesi in materia di politica monetaria. I due principali compiti della conferenza furono, perciò, la creazione di condizioni idonee ad una stabilizzazione dei tassi di cambio rispetto al dollaro (eletto a valuta principale) e la eliminazione di quelle condizioni di squilibrio determinate dai pagamenti internazionali (tale compito fu affidato al FMI). Secondo il sistema definito da Bretton Woods il dollaro era l’unica valuta convertibile in oro in base al cambio di 35 dollari contro un oncia del metallo prezioso. Il dollaro venne così eletto valuta di riferimento per gli scambi, mentre alle altre valute furono consentite solo oscillazioni limitate entro un regime di cambi fissi a parità centrale. Per raggiungere l’obiettivo di vigilare sulle nuove regole e sul sistema dei pagamenti internazionali furono creati il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (Banca Mondiale), due importanti istituzioni esistenti ancora oggi, che diventarono operative nel 1946. Inizialmente il numero di Paesi aderenti al FMI era ridotto: per aderire ogni Stato doveva versare una quota in oro e una in valuta nazionale sulla base delle quali veniva deciso il proprio peso decisionale. L’obiettivo del Fondo era quello controllare la liquidità internazionale e coadiuvare i vari Paesi nel caso di difficoltà nella bilancia dei pagamenti.
Tuttavia, la guerra del Vietnam, il forte aumento della spesa pubblica e del debito americano segnarono la fine i questo sistema.
Infatti, il 15 agosto 1971 a Camp David Richard Nixon sospese la convertibilità del dollaro in oro, in quanto, con le crescenti richieste di conversione in oro le riserve americane si stavano sempre più assottigliando. Successivamente, il dicembre di quello stesso anno segnò il definitivo abbandono degli accordi di Bretton Woods da parte dei membri del G10 (il gruppo dei dieci Paesi formato da Germania, Belgio, Canada, Stati Uniti, Francia, Italia, Giappone, Paesi Bassi, Regno Unito, Svezia). Con lo Smithsonian Agreement il dollaro venne svalutato e si diede il via alla fluttuazione dei cambi.
Nondimeno, le istituzioni create a Bretton Woods sopravvissero ma si trovarono a ridefinire priorità e obiettivi. In particolare, il FMI, con la caduta di Bretton Woods, vide di fatto cambiare il proprio ruolo di sorveglianza. Con l’introduzione dei cambi flessibili e l’abbandono dello standard aureo, venne meno la necessità di gestire la liquidità internazionale e l’attenzione del FMI fu piuttosto portata sulle politiche macroeconomiche interne perseguite dai membri e sugli elementi strutturali dei loro mercati. Venne poi data priorità all’obiettivo di finanziamento degli squilibri della bilancia dei pagamenti dei Paesi in via di sviluppo trasformando il FMI da prestatore a breve termine a prestatore a lungo termine. Pertanto, il FMI si trovò investito del compito di effettuare prestiti vincolati al rispetto di specifiche condizioni e a piani di rigorosa stabilizzazione macroeconomica. Una funzione che il FMI mantiene ancora oggi, come dimostrano i recenti sviluppi collegati alla crisi dell’Euro e ai piani di salvataggio di Grecia, Irlanda e Portogallo, che vedono il Fondo quale prestatore di prima istanza insieme all’UE.
Con la fine degli accordi di Bretton Woods, dunque, gli USA hanno deciso, in base al loro potere politico e militare, di imporre il proprio indebitamento come peculiare modello di sviluppo, il cui costo, però, veniva fatto pagare agli altri. Debito privato, debito pubblico e consumo sostenuti dal mix tra debito interno ed esterno, tuttavia con dei fondamentali macroeconomici alquanto deboli: l’economia reale, già allora, mostrava, infatti, i caratteri della crisi strutturale e sistemica.
È da questo momento in poi che può analizzarsi la genesi dell’attuale crisi, che altro non è che un sintomo di esaurimento messo in moto dal capitale americano in quegli anni per continuare ad attrarre manodopera a basso costo privata, tra l’altro, della garanzia dei diritti sindacali minimi, oltreché risorse materiali dal resto del mondo in forma di merci. Sempre a credito.

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Lo scenario economico internazionale, peraltro, acuisce le proprie criticità sistemiche all’indomani della caduta del muro di Berlino e il successivo crollo dell’Unione Sovietica, quando si apre una fase di guida unipolare del mondo basata sullo strapotere politico e militare degli Stati Uniti, che, imponendo l’acquisto dei loro titoli hanno altresì imposto il sostegno della loro crescita basata su indebitamento ed economia di guerra. Successivamente, nel corso degli anni ’90 si aprì una fase di competizione globale, basata non tanto e non solo sul modello importatore degli americani, quanto segnata dai tentativi dell’Europa di trovare i suoi spazi di affermazione economica, puntando a un ruolo internazionale, con una forte posizione di esportatore svolto dalla Germania. Nel contempo, lo stesso modello di economia basata sulle esportazioni viene realizzato dalla Cina, che, grazie ai suoi avanzi nella bilancia dei pagamenti, decide di diventare il maggior compratore del debito statunitense. Il modello tirava e fu così che le banche tedesche e lo Stato cinese iniziarono ad acquistare titoli USA e, in parte, anche di altri Stati membri dell’UE. Questi ultimi, d’altro canto, dovevano subire lo strapotere tedesco e con questo la costruzione dell’Unione Europea come nuovo polo imperialista che, pur mancando di grande forza interna politica e militare, imponeva una logica economico-finanziaria tedesca.
Ma, come è ovvio, un sistema basato sull’indebitamento non può reggere all’infinito. Capita sempre che, a un certo punto, qualcuno presenti il conto!
Siamo a cavallo del 2007-2008. Negli USA scoppia la crisi dei subprime: il crack viene subito evidenziato come crisi finanziaria dovuto allo scoppio delle bolle speculative immobiliari e finanziarie, ma è solo la punta dell’iceberg. In realtà, più che finanziaria è una crisi dell’economia reale, dei meccanismi stessi dell’accumulazione: erano, cioè, gli stessi meccanismi del modo di produzione capitalistico che si erano ‘inceppati’ già nei primi anni ’70 e che nel 2008 dimostravano quanto quella crisi fosse divenuta ineluttabile, irreversibile e di carattere sistemico. Le privatizzazioni, l’attacco indiscriminato al costo del lavoro, al sistema del welfare e ai diritti, ma soprattutto la finanziarizzazione dell’economia finora hanno soltanto cercato di coprire una crisi dell’economia reale che si porta dietro il carattere della strutturalità e della sistemicità.
La competizione globale si inasprisce, così come pure il tentativo di centralizzare la ricchezza in poche mani, tentativo, peraltro, accompagnato da sempre più frequenti ‘guerre’: economico-finanziaria, commerciale e sociale. E infine da guerre militari per accaparrarsi nuove risorse. La caduta del regime di Gheddafi, per esempio, non è stata solo esportazione di democrazia, ma prima ancora è stata una conquista di matrice imperialista.
Contemporaneamente, la finanziarizzazione allargava il proprio giro, segnando l’arrivo dei Paesi che prima venivano denominati paesi in via di sviluppo, che ora divengono emergenti: i cosiddetti BRICS.
Sul fronte UE, invece, il modello esportatore tedesco, che aveva ormai sempre più bisogno di importatori, anche direttamente europei, porta la Germania ad investire l’avanzo che matura comprando titoli dei PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna). A loro volta, questi Paesi sono costretti ad indebitarsi per rispondere alle regole dell’euro, soffocando le proprie economie e massacrando il mondo del lavoro per garantire che la “questione” dell’Euro rimanga funzionale allo sviluppo esportatore della Germania (e in seconda battuta agli interessi francesi). Gli stessi Stati Uniti hanno un indebitamento in parte sostenuto dalla Germania oltre che dalla Cina. La competizione, però, oggi è ancora più aspra, come si è già accennato, perché ci sono nuovi competitor e i BRICS rivendicano il loro spazio.
A questo punto gli USA che non hanno più la forza politica e militare per imporre al mondo il proprio modello di sviluppo fondato sul loro indebitamento, si vedono costretti a chiedere l’innalzamento del debito appunto perché sanno che fuori dai loro confini non troverebbero poi tanti soggetti disposti a finanziare il Paese come avveniva nella vigenza del precedente modello economico. E questa è la prova che il mondo a guida unipolare basato sull’egemonia statunitense è ormai tramontato.
Quello di spostare il problema del debito più avanti, cioè di tentare di far fronte al deficit, che è un dato congiunturale di flusso, trasformandolo in esposizione strutturale di stock, è un problema non solo americano, ma anche italiano. L’Italia sembra, infatti, entrata in una spirale perversa tra recessione e maggiori interessi sulla vendita dei titoli che dovrebbero servire a finanziare il debito (sic!). Il dato preoccupante, però, è che un esposizione strutturale di stock oggi sarà debito sovrano domani. Cioè il debito che penderà sulle future generazioni di lavoratori. E i meccanismi per far fronte al deficit, certe manovre ‘lacrime e sangue’ che ci vengono imposte per la prima volta, diventeranno la norma. Perché fintantoché si continuerà a far cassa a discapito dei lavoratori ogni manovra sarà lacrime e sangue. Ma se il debito continuerà ad essere finanziato con altro debito, con la vendita, cioè, di altri titoli, il circolo vizioso che s’è creato potrà spezzarsi con molta difficoltà. Perché diventerà il sistema. La parte di deficit che si capitalizza, quindi, è una mannaia per le generazioni del futuro.

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Ho parlato di spirale perversa, di circolo vizioso, ma, in realtà, il meccanismo descritto altro non è che semplice speculazione finanziaria. Eppure, all’indomani del crollo dei subprime americani ad essere messi sotto accusa non era stata proprio la finanza speculativa? La risposta è ovvia quanto evidente. Il mercato non conosce sazietà. “Guasto e’ il mondo, preda di mali che si susseguono, dove la ricchezza si accumula mentre gli uomini vanno in rovina” recita la tomba del poeta inglese Oliver Goldsmith.
Guasto è il mondo, diceva Tony Judt nel testo che ha lasciato in eredità al l’umanità. Guasto perché il mercato è lasciato a se stesso, senza controlli o con meno controlli, perché il mercato che ha divorato se stesso ha ancor più necessità d’essere alimentato. Guasto perché gli appetiti personali sono diventati di colpo coraggiose virtù, la diseguaglianza s’è diffusa; la finanza, non più il lavoro e la produzione, è diventata la risorsa prima dell’economia. Guasto perché alla fine è arrivato il conto da pagare, salatissimo.
Il problema che si pone non è quello della crisi finanziaria ma di una crisi del modello di accumulazione: in crisi è quindi l’intero sistema capitalista. La finanza speculativa, che doveva essere quella in crisi, si sta, invece, riaffacciando in modo prepotente sfoderando armi diverse e combattendo su nuovi terreni. La speculazione finanziaria è ancora lì, come un avvoltoio, con quegli strumenti creativi con cui aggredisce chi non accetta le regole di dominio e che non effettua attacchi sempre più pesanti contro il salario diretto, indiretto e differito.
Sotto l’effetto di interessi particolari ed appetiti economici Gli ideali e la volontà di costruire una società coesa, prevalenti in Occidente nel dopoguerra, sono stati colpevolmente lasciati cadere. Per qualche decennio, hanno fatto da guida gli ideali keynesiani di un mercato temperato dall’intervento dello Stato. Le migliori leggi e le migliori politiche sociali adottate dall’America nel corso del XX secolo corrispondono in gran parte a ciò che gli europei chiamano socialdemocrazia. Ma poi qualcosa si è rotto: “Dovunque ti girassi” scrive Judt, “trovavi un economista o un ‘esperto’ che decantava le virtù della deregolamentazione, dello Stato minimo e delle tasse basse”. L’abbiamo sentita cantare anche noi questa canzone e ne stiamo sopportando i risultati.
Per uscire dal debito greco, per esempio, si stanno approntando nuovi strumenti di finanza creativa che dilazionano l’indebitamento e creano le premesse di nuovi collassi. La finanzia continua a svolgere il suo ruolo speculativo, in questo gioco al massacro ai danni delle casse pubbliche, dei salari e dello Stato sociale.
Il problema non è dunque la crisi finanziaria scoppiata nel 2008 ma il fatto – piuttosto – che per trent’anni abbiamo trasformato in virtù il perseguimento dell’interesse materiale personale, anzi, ormai questo è diventato l’unico scopo collettivo che ancora ci rimane.
In questo modo di fare, anzi di vivere, lo Stato è diventato un problema non una soluzione; le disuguaglianze sociali aumentano perché tutto si incentra sulla capacità e sulla furbizia di ciascun individuo, mentre i redditi tendono a concentrarsi nella cuspide della piramide in quanto lo sviluppo “sociale” del dopoguerra diventa “personale” per essere definitivamente abbandonato.
Il problema, pertanto, non è solo economico, ma altresì etico e politico. Secondo Hessel, le società civili, i giovani, in particolare, hanno il dovere morale di reagire di fronte a questa situazione. Di indignarsi! Secondo Judt, poi, avere idee nuove, per una società nuova, intendo, è fondamentale, in quanto è da qui che si parte per nuove correnti di pensiero, correnti che un giorno, magari, si trasformeranno in vere e proprie leggi.
Se la società è scomparsa a favore degli individui e se tutto ma proprio tutto verte sull’economia, ciò che riguarda l’etica – che implicitamente significa eguaglianza – diventa ogni giorno di più una cosa risibile. Ma questa cosa risibile è proprio il nostro punto da cui ripartire per riformare l’intera società. Oggi rivoluzione significa che dobbiamo tendere alla formazione di una “società nuova”. Bisogna, infatti, coniugare l’efficienza del capitalismo con la società, riducendo gli squilibri e permettendo allo Stato di rimanere un attore fondamentale all’interno del sistema sociale e del mercato.

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La politica, dunque, è la strada maestra, l’unica via percorribile affinché si possano regolamentare difendere i cittadini più deboli e vessati da questo sistema, cittadini che ogni giorno aumentano sempre di più. È, pertanto, indispensabile l’impegno politico e sociale di tutti i cittadini, che devono continuamente spronare e stimolare il dibattito pubblico, al fine di evitare che si spenga tra le ceneri del potere.
Se infatti ci si arrendesse, il gioco al massacro a cui stiamo assistendo continuerà finché il numero delle vittime non sarà superiore a quello dei salvati. E accadrà davvero se non ci riappropriamo di un’etica della politica e se, nel contempo, non smettiamo di pensarci come singoli individui, piuttosto che come membri di un’unica società.
Dal punto di vista pratico, per mettere un argine a questa situazione, per lo meno nel vecchio continente, bisogna innanzitutto abbandonare la via tracciata dalla Trojka. Infatti, la cosa assurda è che chi dovrebbe confezionare proposte in grado di tirarci fuori da questa situazione in realtà pensa agli interessi di una sola parte dei Paese di Eurolandia, i ricchi e i soliti noti, banchieri e finanzieri, come dimostrano le ultime leggi finanziarie e la legge di stabilità. Secondo Luciano Vasapollo, docente di Economia applicata a La Sapienza, una prima risposta può essere lanciare una campagna del mondo del lavoro non contro l’Europa, ma contro le regole del massacro sociale imposte dalle compatibilità economico-finanziarie dell’euro. La seconda questione che va posta all’ordine del giorno è rilanciare una serie di politiche in ordine ad un’efficiente nazionalizzazione e statalizzazione delle banche e dei settori strategici dell’economia. Il debito sovrano sta diventando un nodo nei Paesi deboli, perché con i soldi pubblici si sono finanziate le banche. Quindi la prima nazionalizzazione deve essere del sistema bancario. E poi è necessario porre immediatamente la soluzione del nodo dei settori strategici di energia, trasporti e comunicazioni che devono da subito ritornare in mano allo Stato. Quello che Vasapollo prospetta nel suo illuminante saggio del 2011 ‘Il risveglio dei maiali. PIIGS. Le proposte di CESTES-PROTEO’ sembrerebbe un ritorno agli anni 50-60, quando si creò in Italia una forte economia mista, con un welfare vero e un futuro per i giovani.
Tuttavia, le tesi di Vasapollo sono in linea con quelle di altri economisti critici ed eterodossi, che, nelle loro varie componenti, stanno cercando di trovare un accordo su un programma minimo di controtendenza da proporre e insieme praticare con il ruolo centrale del sindacalismo conflittuale di classe. In ogni caso, se da un punto di vista logico, esistono, infatti, varie alternative possibili alla attuale competizione globale, fino alla maggiore determinazione del superamento del modo di produzione capitalista, d’altro canto ognuna presenta distinti gradi di probabilità in funzione di ragioni tecnico-economiche o politico-sociali. Ciò che più rileva, comunque, è che qualsiasi proposta attuabile dovrà “fare i conti”, in primo luogo, con la tecnologia. Il cambio tecnologico può rappresentare un progresso tecnico e sociale solo se è frutto di una decisione collettiva dei lavoratori, maggioritaria, responsabile, aperta al dialogo, negoziata e contrattata. Dall’epoca “luddista” – l’epoca di quegli operai che distruggevano le macchine che andavano ormai a prendere il loro posto nelle fabbriche tessili -, i sindacati dei lavoratori hanno rinunciato a controllare, a regolare e a partecipare nel senso e nell’orientamento del cambio tecnico. È stata una decisione che si è lasciata sempre in mano agli imprenditori e al capitale. Invertire questa tendenza secolare implica intendere in altra maniera lo sviluppo democratico, comprendere che il dibattito sulla tecnologia, che è in fondo parte del dibattito tra marxisti, esige che tra i lavoratori vi sia una cultura tecnologica – che oggi non c’è -, delle strutture che servano a canalizzare e organizzare il dibattito sul cambio tecnico. L’attuale processo di privatizzazione delle risorse, per esempio, verrebbe superato proprio da questa nuova cultura tecnologica. In secondo luogo, anche l’economista Vasapollo dichiara la necessità etica di un cambiamento radicale di tipo socioculturale (quello che in termini gramsciani si chiama un cambio di egemonia che modifichi il senso comune): un cambio che inverta le relazioni causali tra l’economia e la politica. La politica, infatti, è sempre stata al servizio dell’economia, quantomeno dal XIX secolo. Il discorso politico occultava precedentemente questi interessi nell’essenza dell’economia; ma nel XX secolo c’è stata una svolta, il discorso politico è stato colonizzato dagli interessi economici, tanto che oggi sembra che parlare di politica sia esclusivamente parlare di economia, di spesa pubblica, di interessi, di imposte, di marche legali, di legislazione del lavoro o legislazione commerciale. Questo è logico solamente in un sistema che subordina lo sviluppo sociale agli interessi di mercato.

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Le proposte concrete e immediate sono quindi quelle offerte da nazionalizzazioni, investimenti in edilizia pubblica, lavoro e salario pieno e a totalità di diritti veri, di uscita dall’euro (o quantomeno di creazione di un euro debole nell’area mediterranea e in Irlanda), ma più importante di tutte è la proposta di azzeramento del debito. Questi sono i primi punti qualificanti il programma minimo di controtendenza.
Il problema è che l’economia finanziaria non crea risorse perché sul medio periodo è un gioco a somma zero, quindi in questo ballo mascherato delle celebrità , cioè dei potentati finanziari devono entrarci gli Stati, i lavoratori, in ultima istanza, su cui si scarica tutta la durezza e drammaticità della crisi. Per esempio, in Grecia non bisogna dilazionare ma dare un taglio netto. E del resto è quanto è già stato fatto in Sud America, ad esempio quando l’Argentina girò le spalle al Fondo Monetario Internazionale. Se si entra nella logica della diminuzione del tasso di interesse e di allungamento del debito, il ricatto diventa continuo e l’economia reale perde completamente i parametri di sostenibilità sociale e ambientale. Per questo, un’alternativa globale ridefinisce il discorso politico nel terreno del sociale e subordina, a questo discorso politico sul sociale, il discorso economico e il discorso politico sull’economia. L’Europa deve costruire in maniera indipendente le proprie prospettive muovendosi da subito in piena autonomia da qualsiasi modello consociativo, concertativo e di cogestione della crisi. Solo così l’autonomia di classe potrà assumere un vero connotato di indipendenza dai diversi modelli di sviluppo voluti e imposti dalle varie forme di capitalismo, ma soprattutto da quel sistema di sfruttamento imposto dall’unico modo di produzione che il capitale sia stato in grado di conoscere. E in tal senso il movimento dei lavoratori non può e non deve essere elemento cogestore della crisi, ma nella crisi deve trovare gli elementi del rafforzamento della sua soggettività politica. Ciò vuol dire che non è accettabile alcuna gestione della crisi da parte dei lavoratori, né è ammissibile un nuovo sistema compatibile con la sopravvivenza del capitalismo: l’indipendenza del mondo del lavoro dal cosiddetto ‘sviluppismo’ capitalista significa in primis non collaborare ma offrire un proprio programma minimo di classe al di là delle compatibilità del capitale, esprimendo, così, tutta la propria autonomia nella conflittualità. Entrare nel gioco significherebbe piuttosto morire nel gioco! Sono sempre i più deboli che soccombono: prosperano, cioè, i fondi pensione e di investimento e perdono i lavoratori con la privazione di pensioni e salari, del welfare e dei diritti sociali.

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Subordinare l’economia alla politica sarebbe quindi un’alternativa alla mondializzazione capitalista realmente esistente. Non è, in fondo, altra cosa del vecchio, ma non antico né superato, programma delle organizzazioni internazionali di classe: la subordinazione del capitale al lavoro, della produzione all’essere umano.

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