Io, prof trans, e i sorrisini dei ragazzi.

20140531-164316-60196785.jpg

di Carlotta De Leo, da Il Corriere della Sera del 31 maggio 2014

Il supplente di matematica e fisica è entrato in classe in gonna. Gli studenti del liceo scientifico Oberdan di Trieste hanno pensato a un errore: aspettavano un uomo, e invece si sono trovati di fronte una professoressa con tacchi e rimmel. Nessuno sbaglio: Michele Romeo, il docente che in questi ultimi giorni di scuola ha preso il posto di quello di ruolo, è un trans. «Io non sono una travestita, sono androgina: in me convivono aspetti femminili e maschili» dice.
La storia, pubblicata dal quotidiano Il Piccolo , ha suscitato reazioni e polemiche, con genitori che sarebbero sul piede di guerra. «Non mi reputo così importante come il polverone sollevato –dice Romeo – Non ho problemi a parlare di me, e anzi trovo importante che il mio caso abbia aperto discussioni. Spero serva a tutte le persone che vivono di nascosto e con sofferenze simili alla mia».

La scoperta
Nato in Puglia nel 1976, a dieci anni ha scoperto la sua vera identità. «Avevo la passione per gli abiti e le scarpe della mamma, e un amore infinito per le scienze che sono tutt’oggi la mia vita» dice Romeo. E in effetti, nel tempo ha collezionato un curriculum di tutto rispetto: laurea in Fisica a Lecce, due anni al Politecnico di Monaco di Baviera come ricercatore associato, e attualmente un dottorato in nanotecnologie all’università di Trieste. Ed è proprio in questa città che, nel gennaio del 2013, ha sposato la sua fidanzata storica: «Stiamo insieme da 17 anni e lei ha accettato con grande intelligenza la mia decisione».

Il coming out
Cinque anni fa, infatti, dopo una crisi di panico – «unica e terrificante, mi sentivo sdoppiato» – ha iniziato il lungo percorso del coming out. «Mi sono liberato di tutti i fardelli inutili, con grande onestà intellettuale. E ho cominciato a vivere nella massima naturalezza quello che sento di essere – dice – Certo, non mi aspetto che tutti comprendano. Non mi impongo né voglio rivendicare sonoramente i miei diritti: non vado al gay pride, non frequento ambienti Lgbt. Cerco solo quella che comunemente è chiamata normalità».

«Cerco di motivare i ragazzi»
A iniziare dal lavoro. Romeo, è iscritto nelle graduatorie della scuola, «terza fascia, quella dei precari». «Insegno non solo per solo per avere un po’ più di soldi, ma perché credo che sia importante indirizzare i ragazzi – dice – All’università ho fatto il tutor con buoni risultati. Non solo, per circa un decennio durante gli studi ho anche dato lezioni private. Lavoravo tanto con l’obiettivo di fare superare ai ragazzi la maturità o gli esami di recupero a settembre. Non insegnavo solo le formule, ma cercavo di motivarli, nutrivo la loro autostima minata dai docenti, dai genitori e dal contesto. Insomma, volevo portarli ad avere fiducia in se stessi. Insomma, quello che un docente normale deve fare».

«Faccio scorrere l’imbarazzo»
Con questo approccio Michele si presenta a scuola anche oggi. E quando sale in cattedra, di fronte agli immancabili sorrisini e alle battute, resta impassibile. «Faccio scorrere l’imbarazzo iniziale. Una volta finito le risate, i ragazzi sono obbligati a fare i conti con il motivo della loro reazione di disagio. E nella maggior parte dei casi quei sorrisi non tornano più».

«Non voglio fare l’animale da circo»
Più complicato, invece, il rapporto con il mondo degli adulti e dei media. «Ma non sempre. Questa al liceo Oberdan non è stata la prima supplenza, ma la prima a fare rumore» chiarisce. Poi però confessa qualche timore: «Sono preoccupato di quanto sta accadendo, non per me, ma per i miei cari. Da scienziata so bene quello che può accadere: o la cosa si spegne per un non allineamento delle variabili, oppure si amplifica in un effetto butterfly che porterà conseguenze che io non vorrei. Ovvero al circo degli animali di esposizione. Tutta la mia vita è all’insegna dell’onestà e del serio impegno».

«Non c’è nulla di più normale»
Di fronte alle polemiche dei genitori dell’Oberdan, in sua difesa è scesa anche la preside del liceo triestino, Maria Cristina Rocco: «Queste reazioni mi stupiscono: è allucinate che un insegnante venga giudicato dagli abiti che indossa – afferma – La legge tutela i diritti di tutti e siamo noi a dover imparare che la normalità non è rappresentata dalla cosa più frequentate che siamo abituati a vedere». Ai genitori, Romeo direbbe solo poche parole: «Io faccio bene il mio dovere: insegno con la massima dedizione, occupando un posto che mi spetta di diritto. E questo è molto più importante degli aspetti esteriori. Non c’è nulla di più normale per un essere vivente che si esprime liberamente, nel rispetto altrui. Questo vale per me, ma anche per i loro figli».

Fonte: Il Corriere della Sera

BlogNomos
SEGUICI ANCHE SU FACEBOOK E SU TWITTER

IN POLITICA CHI VINCE È IL CONFLITTO GENERAZIONALE: NE SIAMO SICURI?

20140531-121425-44065633.jpg

Abbiamo il tempo dalla nostra, è ancora presto. Quest’italia è formata da generazioni di pensionati che forse non hanno voglia di cambiare, di pensare un po’ ai nipoti, ai loro figli, ma preferiscono stare così.
Queste parole con cui Grillo ha tentato di giustificare la ‘mazzata’ elettorale dimostrano che il leader di M5S è molto lontano dalla realtà, che guarda con le lenti deformate di chi, pur riempiendo le piazze, ha perso tantissimi voti. Se non se ne fosse fatta una lotta per il potere, o noi o loro, nemmeno ne staremmo a parlare, perché il 21% è comunque un buon risultato che porta il M5S al secondo posto. Ma siccome si continua a parlare di questo voto a distanza di una settimana, forse è il caso di fermarci a riflettere ed analizzare le parole di Grillo e il voto storico che il centrosinistra è riuscito a incassare.
Stiamo ai fatti: secondo diversi studi sui flussi elettorali e sulle caratteristiche generazionali degli elettori, condotti dai principali Istituti specializzati, il PD è risultato primo nella fascia di età che va dai 18 ai 24 anni e secondo, con lieve distacco, dai 35 ai 44 anni. Tutti baby pensionati? Difficile, di questi tempi. Tutti ricchi e asserviti ai poteri forti? Eccessivo, direi. Tuttavia, non vorrei commettere l’errore opposto e dire che, paradossalmente dopo queste elezioni, tutti gli antigrillini siano giovani, anche perché non è vero. Le statistiche, come anche le proiezioni elettorali, non sono esattamente speculari alla società. La verità è che, molto più semplicemente, questi fenomeni sono intergenerazionali e non devono, quindi, essere etichettati come semplici fattori anagrafici. L’elettorato italiano è ‘liquido’, non esistono più le vecchie ideologie, non c’è più la balena bianca, né il bipartitismo degli ultimi decenni.
Penso che i pensionati non abbiano votato M5S forse proprio perché, contrariamente a quanto ha scritto Grillo, vogliono cambiare le cose per poter dare ai figli e nipoti un avvenire senza avventurismo, salti nel vuoto, distruzioni e macerie dalle quali sarebbe molto difficile venire fuori. E credo che abbiano pensato che il partito del ‘rottamatore’ meglio incarnasse questo spirito. Perché bollare come matusa gli attuali pensionati, muniti di smartphone e tablet come i loro figli, e più di loro desiderosi di una svolta, fosse anche per il solo fatto di non dover essere costante sostegno economico per dei giovani che meritano un futuro migliore e un lavoro? Anzi, sono proprio i pensionati – e sopratutto i tanti che percepiscono meno di mille euro al mese – che avrebbero dovuto penalizzare il partito di maggioranza relativa dell’attuale Governo, perché sono tra quelli che, al momento, restano esclusi dall’aumento degli 80 euro netti percepiti dai lavoratori attivi pubblici e privati, disoccupati, cassintegrati e in mobilità.
D’altra parte, voler dipingere i giovani come grillini in blocco è probabilmente un luogo comune, come lo è identificare il PD come il partito dei pensionati. Generalizzare è sempre un errore, soprattutto in politica: ogni giovane è diverso dall’altro, lo stesso vale tra i nostri genitori, ognuno ha una sua storia e un suo percorso personale. È offensivo immaginare per tutti la stessa strada ed è inquietante aspettarsi che tutti i giovani abbiano lo stesso pensiero, come è triste armare una guerra generazionale, quando i nostri genitori, con la loro pensione, sono stati dall’inizio della crisi sino ad oggi la cassaforte delle famiglie d’Italia.
È la mia opinione e come tale è contestabile. In fondo, questo è un blog, non una testata giornalistica. Ma accetto solo la critica. Per gli insulti ci sono luoghi più consoni.
E non mi riferisco alle nostre mailbox, come quella di un autore di questo blog, che, per aver scritto un articolo sull’eurozona all’indomani del voto, è stato vittima della peggiori infamie, che normalmente (ma normale non è) si indirizzano a chi sceglie di restar fuori da quel 21%.

Andrea Serpieri
gratuitamente per
BlogNomos (spazio indipendente di riflessione su politiche, diritti e cultura).
SEGUICI ANCHE SU FACEBOOK E TWITTER

Pillole di globalizzazione. Il caso Uber e la “sharing economy”.

Immagine

 

di Germano De Sanctis

 

Nei giorni scorsi, è scoppiato il caso Uber. Uber è una start-up con sede a San Francisco, che offre ai propri clienti una rete di trasporto realizzata attraverso una sua app per smartphone e tablet, la quale crea un collegamento tra passeggeri e autisti, offrendo un servizio navetta per raggiungere la destinazione prescelta. La società è presente in decine di città in tutto il mondo.
Entrando nello specifico, l’app permette di prenotare le auto a noleggio con conducente, mediante l’invio di un messaggio di testo, oppure utilizzando direttamente l’applicazione mobile poc’anzi descritta. Utilizzando l’applicazione, i clienti possono tenere traccia, in tempo reale, della posizione dell’auto prenotata.

 

Come è noto, l’utilizzo sempre più diffuso di questa app, ha scatenato le proteste dei tassisti milanesi, i quali hanno contestato il fatto che Uber violi le norme nazionali che disciplinano i servizi di trasporto pubblico erogati dai tassisti “tradizionali”, a seguito di rilascio di apposita licenza.
I tassisti milanesi sono in buona compagnia, in quanto molti altri loro colleghi di altre città del mondo hanno posto in essere fenomeni di protesta del tutto simili.

 

Tuttavia, al di la dei fatti di cronaca legati alla situazione dei tassisti milanesi e di altre città del mondo, resta da affrontare il tema del complesso tema dell’intreccio tra innovazione tecnologica, globalizzazione, regole della concorrenza e privilegi corporativi.
Uber, come molte altre innovazioni tecnologiche, è il prodotto (non la causa) di una innovazione senza permesso, in quanto, anche da un punto di vista della reddittività, ogni app del genere punta solo a raccogliere, a livello globale, utenti, consensi e, quindi, a coinvolgere il numero maggiore possibile di persone, senza preoccuparsi delle singole normative nazionali di settore. Anzi, essendo presente soltanto sul web ed operando su server lontani migliaia di chilometri, si assiste alla diffusione di operazioni commerciali connotate da una indefinibile extraterritorialità.

 

Nel caso di specie, i tassisti si scagliano contro l’app in questione e protestano, accusandola di concorrenza sleale, citando le leggi nazionali che tutelano la loro categoria. Tuttavia, la loro protesta contro Uber risulta essere sterile, in quanto l’origine del loro problema non è Uber, poiché siamo di fronte ad una conseguenza inaspettata ed incontrollabile dell’innovazione senza permesso.
Infatti, l’app, diventando un operatore nell’ambito del mercato di riferimento, deve confrontarsi con esso. In altri termini, un’app come Uber si pone come intermediaria e, di conseguenza, trattiene una percentuale per la sua attività di mediazione.
Prima dell’avvento di Internet, tale forma d’intermediazione era una pratica diffusa, ma in alcun modo equiparabile per portata a un servizio professionale. Infatti, si pubblicava un annuncio sul giornale, si veniva contattati e si noleggiava un’auto con un conducente. Uber ha trasformato la classica telefonata dall’autorimessa al collega (che, ad esempio, già stava andando, per avvisarlo dell’arrivo di un nuovo cliente) in un rapporto diretto fra utenti e autisti via smartphone. In tal modo, un gruppo di Ncc od un Ncc singolo può organizzarsi per ottimizzare la giornata lavorativa ed alternare la sua attività con quella delle chiamate dirette.

 

Pertanto, la vera domanda da porsi è se una simile innovazione tecnologica è un problema, oppure un’opportunità.
Per quanto concerne la categoria dei tassisti, i loro veri problemi esulano dal singolo caso Uber, in quanto costoro devono confrontarsi quotidianamente con il car sharing, con la diffusione delle aree pedonali, i costi di manutenzione, l’imposizione fiscale etc.. A confronto Uber, è un piccolo fastidio, poiché la sua platea è decisamente ridotta, rispetto a quanti regolarmente utilizzano i tradizionali taxi. Difatti, bisogna tenere a mente che, per usare Uber, bisogna avere uno smartphone ed una carta di credito ed essere, altresì, disposti a comunicare gli estremi della propria carta di credito alla società che gestisce l’applicazione in questione. Vista la diffusione in Italia delle connessioni internet mobili e delle commercio elettronico, appare evidente che stiamo parlando di un ridotto numero di persone sottratto ai tradizionali servizi taxi.

 

Invece, la domanda iniziale circa la natura di problema o di opportunità di Uber deve essere posta in riferimento all’intero mercato globale. In linea di principio, un’app come Uber non può essere considerata immediatamente un problema, in quanto con erode, in prima istanza, fette di mercato riservate ai servizi tradizionali, perché ne offre di nuovi ed alternativi.
Questa affermazione è sicuramente veritiera nel breve e medio periodo. Invece, nel lungo periodo, i confini tra i servizi tradizionali e quelli tecnologicamente innovativi si fanno sempre più labili, poiché i settori merceologici sono gli stessi (nel caso di Uber, ad esempio, è il trasporto pubblico). Nel corso del tempo, interviene l’assuefazione da parte degli utenti ai nuovi servizi, fino a rendere non più appetibili (probabilmente anche al di là dei costi reali) i servizi tradizionali.

 

Pertanto, un’app come Uber è un opportunità per tutti, anche per coloro che erogano servizi tradizionali nel medesimo settore merceologico, a condizione che esista una classe imprenditoriale capace di studiare un servizio “glocal” economicamente profittevole, in quanto basato sulle reali esigenze locali e non strutturato su una indifferenziata proposta contrattuale su base globale.

 

Ovviamente, necessita anche un quadro normativo adeguato ed al passo dei tempi. Invece, in Italia, la questione digitale è stata finora costantemente rimandata, senza rendersi conto, né dell’urgenza di tale problema, né delle opportunità di sviluppo imprenditoriale ed occupazionale insite nelle nuove tecnologie.
Un legislatore moderno non può ignorare l’esigenza di disciplinare strumenti per cui esiste già una domanda e li deve inquadrare tempestivamente da un punto di vista normativo, garantendone, al contempo, uno sviluppo regolamentato e rispettoso dei diritti di tutti gli attori di un determinato settore macroeconomico.
Per di più, un intervento legislativo porrebbe immediatamente rimedio all’annoso problema delle c.d. “web tax”, che si pone ogni qual volta una nuova piattaforma tecnologica inizia ad erogare servizi a pagamento sul territorio nazionale, pur risiedendo in un server e facendo capo ad una società stabilmente impiantati uno Stato estero.

 

Si tratta di decisioni da assumere con la massima urgenza, in quanto la nuova globalizzazione digitale ha generato un nuovo mercato mondiale, dove i consumatori non acquistano più beni materiali con monete reali, ma fanno esclusivamente ricorso a transazioni elettroniche per accedere a servizi vari, senza mai comprarli.
Si è arrivati a pagare soltanto per condividere oggetti, capacità, tempo e spazi. Si tratta della c.d. “sharing economy”, la quale si sta sempre più affermando rubando consistenti fette di mercato al capitalismo tradizionale.
Infatti, queste piattaforme di condivisione sono capaci di incidere sul “core bussines” dei monopoli commerciali più consolidati, erodendo il potere delle lobby che dominano i mercati, in quanto gli impianti normativi a tutela degli assetti commerciali tradizionali risultano inadeguati a regolamentare i nuovi flussi commerciali dettati dalle tecnologie emergenti.

 

Si ribadisce che non si è di fronte a fenomeni isolati ed episodici. Basti pensare che in un Paese tecnologicamente arretrato come l’Italia, nel solo anno 2013, sono sorte 136 piattaforme digitali di “sharing economy”, interessando il 13% della popolazione italiana. In altri termini, l’anno scorso, almeno, sette milioni italiani hanno utilizzato almeno una volta una piattaforma digitale, condividendo con degli sconosciuti servizi a pagamento (come ad esempio, l’automobile, la baby sitter, un posto letto etc.).
Probabilmente questa dirompente diffusione è stata anche favorita dal combinato disposto degli effetti della perdurante crisi economica e della crescente diffusione dell’utilizzo degli smartphone e dei social network.

 

Inoltre, l’assenza di una chiara regolamentazione rispettosa dei diritti dei consumatori e dei doveri dei nuovi imprenditori digitali può generare fenomeni eversivi anticoncorrenziali ed antoconsumieristici, come già avvenuto in altri Paesi esteri, ove questo tipo di economia è già ben più sviluppato.
Quest’ultima considerazione appare ancor più rilevante se si considera il fatto che la “sharing economy” ed il suo connesso consumo collaborativo non stanno progressivamente decretando la fine del concetto di proprietà esclusiva, a favore di una proprietà condivisa di tipo “socialista”, bensì stanno favorendo la diffusione di una nuova forma acquisto che ha come oggetto l’acquisizione di un mero servizio, piuttosto che di un bene.
Il vantaggio per il consumatore risiede nel fatto che la spesa da affrontare è ridotta al minimo, in quanto, si paga soltanto il costo legato al consumo di un servizio (che può anche avere ad oggetto un bene: ad esempio, il noleggio di un’auto), per il solo tempo necessario.

 

Secondo alcuni siamo di fronte alla nascita di una nuova forma di capitalismo. Probabilmente, è troppo presto per dirlo. Intanto, si può rilevare che questa rivoluzione commerciale generata dalla diffusione di internet produce due immediate conseguenze. In primo luogo, incide sul sistema infrastrutturale, diffondendo le offerte e domande di consumi collaborativi in forma immateriale. In secondo luogo, favorisce la diffusione di scambi commerciali privi del famoso “intuitu personae”, in quanto la “sharing economy” ti impone di fidarti di sconosciuti, anche se nel web nessuno è realmente sconosciuto, in quanto sono facilmente rinvenibili le tracce digitali e le referenze che rilasciate da quelli che hanno già avuto a che fare con noi.

 

BlogNomos

 

Seguici anche su Facebook: https://www.facebook.com/blognomos
e Twitter: @BlogNomos

 

 

 

 

 

P.A.: SCATTA IL 6 GIUGNO L’OBBLIGO DI FATTURAZIONE ELETTRONICA.

20140529-204717-74837402.jpg

Il prossimo 6 giugno partirà l’obbligo per i fornitori della PA di fatturare le cessioni di beni e le prestazioni di servizio realizzate nei confronti di ministeri, agenzie fiscali ed enti
di previdenza soltanto con modalità elettroniche. In questa prima fase l’obbligo sarà valido per le sole Amministrazioni centrali, ma sarà esteso a tutti gli Uffici periferici entro il 31 marzo 2015, data in cui nei rapporti con tutte le altre PA le fatture emesse o trasmesse in forma cartacea non potranno più essere né accettate né pagate. Il termine originariamente stabilito era quello del 6/6/2015, ma è stato anticipato al 31 marzo 2015 dal recente Decreto Legge 24 aprile 2014, n. 66 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale 24 aprile 2014, n. 95 (cd. Decreto Renzi).

Il processo, porterà ad un risparmio complessivo di circa 60 milioni di euro coinvolgendo, a regime, 21.200 Uffici, oltre a tutti i soggetti in relazione con essi.

20140529-204802-74882797.jpg

Il vantaggio principale sarà che l‘Ente Pubblico avrà l’obbligo di assolvere al pagamento nei tempi previsti; altrettanto importante è il fatto che il fornitore avrà la certezza che il proprio documento sia stato recapitato all’ufficio di destinazione in tempi e modalità certe. Ne consegue che sia le aziende private, come i fornitori, che le PA dovranno obbligatoriamente attivare un processo di archiviazione e Conservazione Elettronica delle fatture. Gestire un archivio elettronico significa diminuire i tempi di ricerca, eliminare le duplicazioni dei documenti, ridurre i costi di stampa e consumo di carta e degli spazi dedicati all’archiviazione. Insomma, questo percorso di digitalizzazione che la PA ha iniziato produrrà un effetto benefico anche sulle aziende private. L’obbligo sarà un’opportunità concreta per innovare ed economizzare la gestione di tutti i documenti, non solo delle fatture.

20140529-204957-74997772.jpg

L’obbligo di fatturazione in forma elettronica risale alla Finanziaria 2008 (art. 1 commi dal 209 al 214 L. 244/2007) e prevede che la trasmissione delle fatture elettroniche destinate alle Amministrazioni dello Stato sia effettuata attraverso il Sistema di Interscambio (SDL), sistema informatico di supporto al processo di “ricezione e successivo inoltro delle fatture elettroniche alle Amministrazioni destinatarie” nonché alla “gestione dei dati in forma aggregata e dei flussi informativi anche ai fini della loro integrazione nei sistemi di monitoraggio della finanza pubblica”. Le modalita` di funzionamento dello SDL sono state definite con il decreto ministeriale 3 aprile 2013, n. 55.

Gli utenti coinvolti nel processo di fatturazione elettronica sono:
– gli operatori economici, cioè i fornitori di beni e servizi verso le PA, obbligati alla compilazione/trasmissione delle fatture elettroniche e all’archiviazione sostitutiva prevista dalla legge. Va precisato che le fatture emesse dagli intermediari per la trasmissione delle dichiarazioni dei redditi e per la riscossione mediante modello F24 sono, al momento, derogate dagli obblighi;
– le Pubbliche Amministrazioni, che devono effettuare una serie di operazioni collegate alla ricezione della fattura elettronica;
– gli intermediari (banche, Poste, altri intermediari finanziari, intermediari di filiera, commercialisti, imprese ICT), vale a dire quei soggetti terzi ai quali gli operatori economici possono rivolgersi per la compilazione/trasmissione della fattura elettronica e per l`archiviazione sostitutiva prevista dalla legge. Possono servirsi degli intermediari anche le PA per la ricezione del flusso elettronico dei dati e per l’archiviazione sostitutiva.

20140529-205218-75138946.jpg

Le prime indicazioni operative sono state fornite dal Dipartimento delle Finanze con Circolare 1/2014, oltreché indicato una stretta tempistica per l’inserimento nell’IPA delle anagrafiche degli uffici adibiti alla ricezione delle fatture elettroniche. Infatti, ad oggi il sito dell’Indice delle Pubbliche Amministrazioni (IPA) è già in grado di fornire l’elenco di tutti gli Enti che aderiscono al processo di Fattura Elettronica: testimonianza, questa, che le PA sono pronte ad accogliere questo nuovo documento.

La fattura elettronica consiste in un documento in formato XML, sottoscritto con firma elettronica qualificata o digitale, da inviare mediante il Sistema di interscambio. Una volta predisposta dal fornitore, la fattura va inviata allo SDI il quale assegna un identificativo ed effettua una serie di controlli propedeutici all’inoltro del documento. Tuttavia, come già accennato, per poter ricevere la fattura elettronica attraverso lo SDI, le PA sono prima tenute ad inserire all’interno dell’Indice delle Pubbliche Amministrazioni (IPA) l’anagrafica degli Uffici (centrali o periferici) destinatari delle stesse. Tali uffici saranno identificati con un Codice Univoco da comunicare ai fornitori i quali dovranno indicarlo in fattura.

La fattura elettronica riporterà i dati e le informazioni contenute nell’allegato A al D.M. 55/2013; in particolare, sarà d’obbligo riportare le informazioni fiscali e quelle per la trasmissione attraverso il sistema di interscambio. Nell’ambito dell’art. 25 del recente D.L. 66/2014, viene stabilito, inoltre, che le fatture elettroniche emesse nei confronti delle PA, devono indicare, tra gli altri elementi previsti:
– il Codice identificativo di gara (CIG), salvo gli specifici casi di esclusione della tracciabilità ex L. n. 136/2010;
– il Codice Unico di Progetto (CUP) per le fatture riferite a opere pubbliche, manutenzioni straordinarie, interventi finanziari da contributi comunitari nonché se previsto ai sensi dell’art. 11, L. n. 3/2003. In carenza di detti codici, la PA non può effettuare il pagamento della fattura.

20140529-205323-75203707.jpg

La trasmissione delle fatture allo SDI e da questo alle PA destinatarie avverà attraverso l’utilizzo di uno dei seguenti canali:
– PEC o analogo sistema di posta elettronica basato su tecnologie che certifichino data e ora dell’invio e della ricezione delle comunicazioni, nonché l’integrità del contenuto delle stesse;
– SDICoop un sistema di cooperazione applicativa esposto su rete internet fruibile attraverso protocollo HTTPS per i soggetti non attestati su rete SPC (Sistema Pubblico di Connettività);
– SPCoop un sistema di cooperazione applicativa tramite porte di dominio attestate su rete SPC (Sistema Pubblico di Connettività);
– SDIFTP un sistema di trasmissione dati tra terminali remoti basato su protocollo FTP all’interno di circuiti chiusi che identificano in modo certo i partecipanti e assicurano la sicurezza del canale;
– Internet un sistema di trasmissione telematica esposto su rete internet fruibile attraverso protocollo HTTPS per i soggetti accreditati (sito http://www.fatturapa.gov.it per i soggetti abilitati a Entratel, Fisconline o Carta nazionale dei servizi).

Si precisa che il divieto di accettare le tradizionali fatture, in realtà, non sarà immediatamente operativo; l’art. 6 del D.M. 55/2013 prevede, infatti, che le PA fino a tre mesi dalla data di decorrenza dell’obbligo potranno ancora accettare e pagare le fatture emesse in forma cartacea. Per i fornitori, invece, sarà già valido il divieto di emettere fattura cartacea.

Da ultimo, corre l’obbligo di ricordare che restano salve tutte le disposizioni in merito ai termini di pagamento delle fatture; in particolare, il D.Lgs 231/2002 fissa in 30 giorni il termine ordinario per il pagamento delle fatture, con decorrenza dalla data di ricevimento della fattura, trascorsi i quali sono dovuti al creditore gli interessi moratori sull’importo dovuto senza che sia necessaria la costituzione in mora.

20140529-205415-75255687.jpg

Continua, quindi, il cammino delle riforme della PA. L’Italia riparte e cambiano le abitudini, soprattutto in ambito lavorativo. La percezione di efficienza data dall’abitudine nello svolgere le azioni quotidiane sarà, forse, un freno nei primi tempi, che impedirà ai soggetti coinvolti di valutare positivamente l’introduzione di questi nuovi sistemi organizzativi, che il cambiamento richiede. Ma oggi l’informatica offre la possibilità di valutare la gestione dei documenti aziendali in modo più agile, introducendo anche sistemi di archiviazione elettronica graduale. La gestione delle fatture elettroniche permetterà, perciò, di capire ‘sul campo’ in che modo il lavoro quotidiano possa cambiare. Eliminare la stampa quando non serve, oltreché annullare la duplicazione dei documenti ed archiviarli elettronicamente: queste saranno presto azioni possibili, attivando semplici strumenti e a costi inferiori di quelli finora sostenuti per gestire un archivio cartaceo. Il Governo sembra davvero avere intenzione di snellire e svecchiare una volta per tutte l’Amministrazione Pubblica. E, intanto, si avvicina l’altro appuntamento promesso con le riforme in questo campo. Il 13 giugno ci sarà la tanto attesa ‘rivoluzione’ della PA? Noi ve ne daremo notizia. Voi continuate a seguirci, anche su FACEBOOK E TWITTER.

MDS
BlogNomos

Ue, Matteo Renzi: né con Merkel, né con Schulz, terza via dinamica sulle nomine. A partire dal trionfo Pd.

20140528-140636-50796008.jpg

di Angela Mauro – L’Huffington Post 27/05/14

“Se vogliamo salvare l’Europa, dobbiamo cambiare l’Europa”. E’ questo il messaggio che il premier italiano Matteo Renzi ha voluto trasferire in serata ai colleghi europei che ha incontrato a Bruxelles, nella riunione informale del consiglio Ue convocata per un’analisi del voto di domenica scorsa. Per Renzi è stata l’occasione per ricevere i complimenti e le congratulazioni dagli altri capi di Stato e di governo. “Con questa forza – ha detto Renzi – vi dico che anche chi ha votato per noi ha chiesto di cambiare l’Europa».

Né con Angela Merkel, né con Martin Schulz. Anche sulle nomine ai vertici delle istituzioni europee, Matteo Renzi ha in mente una ‘terza via’. E’ questa la linea con cui si è presentato al Consiglio europeo straordinario a Bruxelles. Prima della riunione, il presidente del Consiglio ha visitato il museo ebraico della città, colpito da un attentato antisemita proprio nel giorno del voto belga per il Parlamento di Strasburgo la settimana scorsa. E lì ha avuto modo di incrociare il premier francese Francois Hollande, di ritorno dalla riunione con il Pse cui Renzi non ha potuto partecipare per problemi di tempo. Per il premier italiano muoversi sulla ‘terza via’ vuol dire adottare una linea dinamica di approccio al tema delle nomine, dalla presidenza e vice presidenze della commissione Ue, fino ai vertici del Parlamento e l’Eurogruppo. Linea dinamica ovvero oggettiva, che tenga conto della volontà espressa dagli elettori alle urne. Cosa che per l’Italia e per il Pd vuol dire moltissimo. Senza spocchia, che peraltro non ha mostrato nemmeno nella conferenza stampa italiana post-voto, senza pugno di ferro, che semmai si riserva per un secondo momento della lunga trattativa se servirà, Renzi fa capire ai capi di stato europei per dire che il suo Pd, premiato dal voto con il 40 per cento, è l’argine più forte contro i populismi che dilagano nel continente. Perché è l’unica forza europea di governo che sia stata osannata dalle urne. Una situazione nuova, un risultato così inaspettato che non permette né di tenere fede ai vecchi patti pre-voto, come suggerisce il leader Pse Schulz, né di agire come se il Parlamento Ue non esistesse e nominare il presidente della Commissione Ue con un accordo tra governi, come vorrebbe la cancelliera tedesca Merkel.

La risposta agli euroscettici “l’abbiamo data alle elezioni”, sostiene Renzi al suo arrivo a Bruxelles. E ora “affronteremo con decisione tutte le scelte della Ue” anche perchè “l’Europa deve parlare il linguaggio dei cittadini. Tutta la partita dei nomi viene dopo, rispetto alle scelte che dobbiamo fare”.

Renzi arriva in Europa convinto che al Pd, primo gruppo anche nel Pse naturalmente, spettino molte più cariche di vertice di quanto si programmasse prima del voto. L’idea è di puntare a una vicepresidenza della Commissione (Massimo D’Alema, Enrico Letta?) e anche alla presidenza dell’Eurogruppo, organismo che riunisce i ministri dell’Economia dell’Eurozona e che quindi, se i propositi del governo italiano andassero a buon fine, verrebbe presieduto dal ministro Pier Carlo Padoan. Il presidente del Consiglio ne ha parlato anche con Giorgio Napolitano, nel consueto incontro con il capo dello Stato che si tiene prima di ogni vertice europeo. Naturalmente, la chiacchierata al Colle è stata anche l’occasione per il presidente della Repubblica per congratularsi con Renzi sul risultato elettorale. La partita vera è appena al via in Europa, dove evidentemente la linea renziana cerca alleati. Il premier non esclude affatto di poterne trovare. Anzi.

Per esempio, nella sua cerchia, sono convinti di poter contare sul premier britannico David Cameron, sfilandolo dall’abbraccio della Merkel. “A Cameron converrebbe fare asse con Renzi – dice una fonte renziana – piuttosto che stringere con la Cancelliera. Guadagnerebbe magari qualche chance per risolvere il problema dell’indipendenza chiesta dalla Scozia, dove il Labour è storicamente forte e oggi è indirettamente rafforzato dalla concorrenza a destra: tra l’Ukip, premiato dal voto europeo, e i Tories, puniti dalle urne”. Ma la serata di oggi serve a Renzi anche per studiare la situazione, capire i margini di azione, come il premier di solito fa prima di passare all’azione. Insomma, è un primo approccio perché la trattativa non si risolve in una giornata, si prevedono tempi lunghi. Ma l’importante, per il presidente del Consiglio, è stabilire il principio che l’Italia è pronta ad essere “leader in Ue e non follower”, forte del risultato elettorale del Pd che pianifica riforme con tempi strettissimi per avere le carte in regola di fronte agli altri Stati.

Dunque, per Renzi, non è il caso di tener fede ad alcun accordo antico, cioè pre-elettorale e fatto dai partiti, visto che è difficile che il Ppe, con il suo candidato alla commissione Jean Claude Juncker, riesca a formare una maggioranza in Parlamento, pur avendo conquistato il maggior numero di seggi. Ma non è nemmeno il caso di agire a livello di governi, per imporre un candidato alla presidenza della Commissione Ue senza tener conto del pronunciamento degli elettori. Renzi cerca di muoversi tra gli opposti, Schulz e Merkel, convinto che sulle nomine entrambi forniscano una risposta poco convincente alle pulsioni euroscettiche confermate dalle urne, soprattutto in Francia con il successo di Marine Le Pen, oltre che in Gran Bretagna con l’Ukip. “Ogni accordo non può essere disgiunto dalla realtà del voto”, dicono i collaboratori di Renzi, mettendo nel conto che alla fine potrebbe rendersi necessaria una larga coalizione anche in Europa, tra Ppe, Pse e i liberali di Guy Verhofstadt. Per il premier però l’importante è iniziare con il piede giusto e convincere gli altri leader sul suo approccio “dinamico”. Sì, dinamico: anche sul voto e le nomine Ue. “Sono qui a rappresentare uno dei più grandi paesi dell’Ue”, dice il premier arrivando al Justus Lipsius, la sede del consiglio europeo.

Fonte: L’Huffington Post

BlogNomos
SEGUICI SU FACEBOOK E TWITTER

PIAZZA DELLA LOGGIA: QUARANT’ANNI DOPO.

Oggi, 28 maggio 2014, ricorre l’anniversario di una delle più oscure vicende della storia della Repubblica Italiana: la strage di Piazza della Loggia.

20140528-095528-35728754.jpg

di Michele De Sanctis

È la mattina del 28 maggio 1974, quando, alle 10:02, una bomba esplode sotto i portici di Piazza della Loggia a Brescia, mentre è in corso una manifestazione indetta dai sindacati e dal Comitato Antifascista. L’attentato, rivendicato da Ordine Nero, provoca otto morti e il ferimento di altre centodue persone. L’ordigno era stato posto in un cestino portarifiuti e fatto esplodere con un congegno elettronico a distanza.

La prima istruttoria della magistratura portò alla condanna nel 1979 di alcuni esponenti dell’estrema destra bresciana. Uno di essi, Ermanno Buzzi, in carcere in attesa d’appello, fu strangolato il 13 aprile 1981 da Pierluigi Concutelli e Mario Tuti. Nel giudizio di secondo grado, nel 1982, la condanne del giudizio di primo grado vennero commutate in assoluzioni, le quali a loro volta vennero confermate nel 1985 dalla Corte di Cassazione. Tuttavia, un secondo filone di indagini, partito nel 1984 in seguito alle rivelazioni fornite da alcuni pentiti, mise sotto accusa altri rappresentanti della destra eversiva; nuovamente gli imputati furono assolti in primo grado nel 1987, per insufficienza di prove, e prosciolti in appello nel 1989 con formula piena.

20140528-095606-35766531.jpg

Nel corso di tutte le indagini e i procedimenti giudiziari relativi alla strage, si è sempre paventato un coinvolgimento dei servizi segreti e degli apparati dello Stato nella vicenda.

Il fatto più eclatante scaturito dalle indagini fu, in primo luogo, l’ordine proveniente da ambienti istituzionali, ma a tutt’oggi sconosciuti, impartito a meno di due ore dalla la strage affinché una squadra di vigili del fuoco ripulisse con le autopompe il luogo dell’esplosione, spazzando, peraltro, via indizi, reperti e tracce di esplosivo: ciò prima che la magistratura potesse effettuare i rilievi del caso.

In seguito, scomparvero, misteriosamente, anche taluni reperti prelevati in ospedale dai corpi dei feriti e dei cadaveri. Avvenimento che destò un certo sospetto. Sospetto accresciuto dall’ultima e recente perizia antropologica in cui si è individuata in una fotografia di quel giorno la presenza sul luogo di Maurizio Tramonte, militante di Ordine Nuovo e collaboratore del SID.

20140528-095720-35840366.jpg

Durante la terza ed ultima istruttoria, il 19 maggio 2005 la Suprema Corte di Cassazione ha confermato la richiesta di arresto per Delfo Zorzi. Oggi cittadino giapponese, non estradabile, con il nome di Hagen Roi, per il coinvolgimento nella strage di Piazza della Loggia.

In data 15 maggio 2008, poi, sono stati rinviati a giudizio sei imputati, tra cui tre esponenti e militanti di spicco di Ordine Nuovo, un capitano del Nucleo investigativo dei Carabinieri di Brescia, oltreché il latitante collaboratore dell’allora Ministro degli Interni Taviani.

Il 21 ottobre 2010, dopo cinque giorni e mezzo di ricostruzione delle accuse, i PM titolari dell’inchiesta, hanno formulato l’accusa di concorso in strage per tutti gli imputati, ad eccezione di Pino Rauti, per il quale è stata, invece, richiesta l’assoluzione per insufficienza di prove, pur emergendone la responsabilità politica e morale.

Il 16 novembre 2010 la Corte D’Assise ha, peraltro, emesso la sentenza di primo grado della terza istruttoria, assolvendo tutti gli imputati (Maggi, Delfino, Tramonte, Zorzi e Rauti) con la formula dubitativa di cui all’art. 530 comma 2 c.p.p., corrispondente alla vecchia formula dell’insufficienza di prove. Oltre alle assoluzioni di Maggi, Delfino, Zorzi e Rauti, i giudici hanno disposto il non luogo a procedere per Tramonte, per intervenuta prescrizione in relazione al reato di calunnia, e revocato la misura cautelare nei confronti dell’ex militante di Ordine Nuovo Delfo Zorzi.

20140528-095754-35874754.jpg

Dopo quest’ultima sentenza, Manlio Milani, presidente dell’Associazione familiari caduti della strage di Piazza della Loggia ha dichiarato: “I processi per strage non possono più entrare in un’aula di giustizia. Capisco che la verità giudiziaria, diversa da quella storica, sia difficile da trovare, ma a questo punto non è facile avere fiducia nelle istituzioni”.

In occasione della Giornata della Memoria del 9 maggio 2012, il Presidente Napolitano ha commentato la vicenda dicendo che il corso della giustizia dovesse, pur nei limiti in cui era rimasto possibile, continuare con ogni scrupolo e che, nel contempo andasse messo in luce quanto era già emerso, dalle carte processuali e dalle inchieste parlamentari, sulla matrice di estrema destra neofascista di quell’azione criminale e sugli ostacoli che una parte degli apparati dello Stato frappose alla ricerca della verità.

Il 21 febbraio 2014 la Corte di Cassazione ha, infine, annullato le assoluzioni di due degli imputati, Maggi e Tramonte, e confermato quelle di altri due, Zorzi e Delfino.

Quarant’anni e tre inchieste, per arrivare a quest’ultima sentenza. Di quella strage, atto della strategia della tensione che insanguinò l’Italia e fu preludio degli Anni di Piombo, pur essendo stato ricostruito il contesto e identificati ambienti e collusioni in cui l’attentato venne ideato ed organizzato, nonostante la revoca dell’assoluzione per due degli imputati, resta, comunque, il dubbio che manchi ancora la parola fine a una vicenda, che, sul piano giudiziario, ha lasciato i principali autori e complici sostanzialmente impuniti.

BlogNomos
SEGUICI SU FACEBOOK E TWITTER

Giù lo spread, Piazza Affari festeggia E Draghi prepara «interventi mirati».

20140528-072554-26754558.jpg

di Stefania Tamburello, da Corriere della Sera del 27 maggio 2014

ROMA – La Borsa di Milano prende il volo e segna un guadagno del 3,61%. Lo spread tra i rendimenti dei Btp decennali e i Bund tedeschi di uguale durata si restringe di oltre 20 punti percentuali riportandosi su quota 156 con i tassi dei titoli italiani di nuovo sotto al 3%. Comunque la si voglia leggere, i mercati hanno premiato la vittoria del Pd e del suo leader Matteo Renzi che alle elezioni europee ha doppiato il suo concorrente più prossimo, il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo. L’affermazione del partito che guida il governo e del presidente del Consiglio delinea infatti quell’orizzonte di stabilità politica che gli investitori mettono al primo posto delle loro valutazioni. In realtà tutte le Borse del Continente – in una giornata che si è svolta peraltro a passo ridotto per la chiusura di Wall Street e delle contrattazioni londinesi – hanno reagito positivamente all’esito del voto europeo seppure in misura minore di Piazza Affari, segnalando così come abbia prevalso nel giudizio degli operatori la stabilità dei governi dei Paesi più in difficoltà rispetto alla generale avanzata delle forze populiste. Perfino in Francia, dove il partito del presidente Hollande ha preso appena il 14%, la Borsa ha segnato un segnale positivo (0,75%). Anche l’euro si è mosso poco per le stesse ragioni chiudendo a 1,362 contro il dollaro.

Credito debole, economia debole

L’attenzione dei mercati del resto è concentrata – oltre che sui possibili equilibri politici all’indomani delle elezioni – soprattutto sull’attesa delle nuove misure espansive che la Bce, la Banca centrale europea, potrebbe decidere la prossima settimana, nella riunione del Consiglio direttivo del 5 giugno. Ed è un’attesa che ieri il presidente dell’Eurotower, Mario Draghi, ha rafforzato parlando all’incontro dei banchieri centrali che si svolge a Sintra in Portogallo.
«Non permetteremo che l’inflazione resti troppo bassa troppo a lungo», ha ribadito Draghi sottolineando come anche il rafforzamento dell’euro contribuisca a raffreddare i prezzi e sia quindi da tenere sotto stretta osservazione. Bisogna evitare, ha spiegato, l’avvio «di una spirale negativa tra bassa inflazione, attese di inflazione e credito in calo, soprattutto nei Paesi in difficoltà» che «potrebbe indurre le famiglie e le imprese a rinviare le spese». La situazione economica «è complessa» con «una ripresa in lento consolidamento» e con problemi di mancanza di credito che penalizza soprattutto le piccole e medie imprese, ha aggiunto il banchiere centrale italiano citando in particolare i casi di Spagna e Portogallo. «La debolezza del credito contribuisce alla debolezza dell’economia» ha quindi affermato rilevando che gli interventi all’esame della Bce saranno «mirati» per allentare tali vincoli.
Le diverse opzioni a disposizione saranno esaminate tutte con attenzione dai governatori dell’Eurotower, sia quelle convenzionali come il taglio dei tassi di interesse sia quelle straordinarie come l’acquisto di titoli pubblici o privati (quantitative easing ) che però saranno prese in considerazione solo nel caso di una «troppo prolungata dinamica al ribasso dell’inflazione». Quanto alle misure «mirate» sul credito, la Bce potrebbe fornire «una soluzione-ponte», come l’acquisto di prestiti cartolarizzati o la concessione alle banche di prestiti a lungo termine, una nuova Ltro, condizionata però all’erogazione di finanziamenti all’economia. Sarebbe una misura «molto importante», ha commentato a riguardo il consigliere delegato di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina, per il quale sarebbero opportuni interventi «che vanno in direzione di un deprezzamento dell’euro».

Quanto alle «mirate» sul credito, la Bce potrebbe fornire «una soluzione-ponte», come l’acquisto di prestiti cartolarizzati o la concessione alle banche di prestiti a lungo termine.

Significativa infine a Sintra l’apertura di Jeroen Dijsselbloem, presidente dell’Eurogruppo, ai paesi che s’impegnano in riforme strutturali per la crescita e che – ha detto – «potrebbero ottenere in cambio maggior flessibilità sui deficit».

Fonte: Corriere della Sera

BlogNomos
SEGUICI SU FACEBOOK E TWITTER

PERCHÉ NON POSSIAMO USCIRE DALL’EUROZONA.

Adesso che la campagna elettorale è terminata, possiamo finalmente tornare a parlare d’Europa. Con serenità. Senza timore di essere stanati dalle nostre abitazioni per aver espresso le proprie idee o sottoposti a un tribunale popolare. Al bando, dunque, populismi e fascismi: chi non è d’accordo lo faccia con modi urbani, diversamente è pregato di abbandonare luoghi come questo, dove il pensiero unilaterale non è gradito. Basta con gli slogan: adesso parliamo di sostanza, che è quello che ci riesce meglio in questo blog. Parliamo di economia.

20140526-170708-61628253.jpg

La campagna per il rinnovo del Parlamento Europeo ha visto la crescita esponenziale, in ogni angolo del Vecchio Continente, di movimenti euroscettici, per lo più di destra, che, in alcuni casi, come quello del Fronte Nazionale in Francia, hanno provocato un vero e proprio terremoto politico. Interno, tuttavia. La vittoria della destra in Francia altro effetto non produrrà se non quello di diluire l’influenza francese nell’Europarlamento, visto il risultato finale che, comunque, vede il PPE al primo posto, seguito dal PSE.

In Italia, poi, abbiamo assistito ad una clamorosa debacle di un Movimento, il cui programma principale era ‘mandiamoli a casa’, senza, peraltro, proporre nulla di concreto in vista dell’elezione dei nuovi eurodeputati: si concorreva per questo, perché le politiche ci sono già state l’anno scorso. E non credo che votare ogni 6-12 mesi, finché a vincere non saranno loro, sia nelle corde dell’elettorato italiano, fin troppo tendente all’astensionismo, come dimostrato anche domenica scorsa.

L’euroscetticismo, nutrito dalla crisi e cresciuto negli anni dell’austerity, è tuttavia stato il protagonista indiscusso di quest’ultimo mese. È innegabile: a prescindere dagli esiti elettorali, se n’è parlato troppo perché non se ne faccia un approfondimento. Serenamente, perché è così che ci sentiamo. Sereni. Lo eravamo anche prima, in realtà, quando la serenità ci veniva dalla nostra conoscenza, dai tomi studiati negli anni dell’università, dalla nostra capacità di raziocinio: lo siamo ancor di più adesso.

20140526-170742-61662018.jpg

La realtà è che allo stato attuale separarsi dall’euro sarebbe impossibile. O quasi. Sicuramente sarebbe un’operazione ad alto rischio. Soprattutto lo sarebbe se avvenisse in seguito alla decisione unilaterale di uno Stato membro, magari in netto contrasto con gli altri partner dell’Eurozona.

Ad alto rischio, in primis, perché non esistono precedenti (l’Argentina, che non se la passa granché bene attualmente, non può essere elevata a modello, perché quella dell’euro è un’esperienza unica al mondo) ed è ad alto rischio anche perché le questioni legate al debito pubblico si verrebbero a risolvere sulla base della sola forza contrattuale delle parti. Un aspetto che non giocherebbe certo a favore dei cd. PIIGS e nemmeno della Francia, sotto certi aspetti più mediterranea che mitteleuropea, qualora decidessero di andarsene per la loro strada. La forza contrattuale sarebbe il vero arbitro, perché i Trattati europei prevedono una procedura di uscita dalla UE, ma non dalla sola Unione monetaria. E in assenza di una norma, le parti si farebbero le regole da sé, un po’ come accade con i contratti innominati. Solo che in questo caso, il contraente debole sarebbe costretto a subire le condizioni dettate dagli altri, quelli che ancora avrebbero una moneta forte, l’euro. Il problema non è, tuttavia, tanto di carattere giuridico, quanto piuttosto economico e soprattutto finanziario. Se è difficile stimare le possibili ricadute in termini di svalutazione ed inflazione derivanti dall’introduzione di una nuova moneta, è, altresì, possibile individuare alcuni punti fermi con cui lo Stato, chiamiamolo pure dissenziente, sarebbe obbligato a fare i conti. Il pericolo maggiore sarebbe quello che si inneschi un effetto domino di fallimenti bancari e societari di cui si potrebbe molto rapidamente (e molto facilmente) perdere il controllo. E con una certa approssimazione alla realtà, potremmo stimare che il valore dei titoli di Stato – oltreché di gran parte delle azioni e delle obbligazioni pubbliche – diminuirebbe.

Per i più scettici, quelli del mantra disinformazione-casta-complotto, nel precisare che BlogNomos non è pagato da alcun partito, rinvio a un buon manuale di politica economica. E serve, perché questo è quanto accadrebbe con l’abbandono dell’Eurozona anche a noi italiani. Non è fantaeconomia.

Al primo annuncio di uscita di uno dei PIIGS dall’euro, infatti, con ragionevole sicurezza si assisterebbe a una massiccia quanto repentina fuga di capitali dal Paese e, nel contempo, ad una svendita di titoli di Stato. Ciò comporterebbe come primo ed immediato effetto la riduzione del valore di Bot e Btp, nel caso specifico italiano. Traduco: se un risparmiatore, subito dopo l’annuncio dell’uscita dall’euro e prima della loro scadenza, decidesse di vendere i titoli in suo possesso, andrebbe incontro a perdite sicure, perché ne otterrebbe un corrispettivo inferiore al prezzo originariamente pagato, mentre se scegliesse di portarli a scadenza, se li vedrebbe ripagati in una nuova valuta, ma più debole rispetto all’euro con cui li aveva acquistati, quindi perderebbe comunque. Non solo, una ridenominazione del debito pubblico e dei titoli di Stato che lo rappresentano in una nuova valuta costituirebbe quello che si dice un “credit event”, cioè una situazione che, a giudizio degli organismi internazionali, farebbe scattare il default sul debito del Paese. Dire che i finanzieri europei sono corrotti non impedirà il passaggio successivo: la temporanea esclusione del Paese in questione dai mercati finanziari internazionali. Né quello ancora successivo: un infinito strascico di contenziosi giudiziari.

Il default del debito e la caduta del valore dei titoli avrebbero poi un impatto immediato anche sulle (tanto odiate) banche. Quelle italiane, per esempio, hanno in portafoglio circa 400 miliardi di Bot e Btp. In più, gli ineludibili fallimenti aziendali, almeno in prima istanza, sarebbero destinati ad aumentare, caricando perciò i bilanci bancari, già in grave difficoltà come abbiamo visto, di altri crediti inesigibili. Per tenere in piedi gli istituti di credito si renderebbero allora necessari massicci interventi di ricapitalizzazione con denaro pubblico, quando non vere e proprie nazionalizzazioni. Traduco: il debito delle banche diventa nostro davvero, perché saremmo costretti a riprendercele con tutti i loro debiti. Tra l’altro, anche se su altri blog non c’è scritto, è importante sapere che le banche utilizzano spesso i titoli di stato come garanzie di prestiti a brevissima durata chiesti ad altre banche. Non è illegale. Trattasi, in realtà, di una pratica comune che serve alle banche per far fronte ad immediate esigenze di liquidità, incrociando le esigenze degli istituti che hanno bisogno di soldi e di quelli che ne hanno in eccesso. Ne potete trovare riscontro su qualunque manuale di diritto bancario e dell’intermediazione finanziaria. Compromettere queste operazioni, rendendo inutilizzabili come garanzia i titoli di Stato, sarebbe un ulteriore colpo per le banche di quel Paese e il colpo di grazia per tutti i suoi cittadini, dal momento che l’effetto sarebbe quello di un’ulteriore e significativa riduzione dei finanziamenti a imprese e famiglie.

20140526-170951-61791631.jpg

Gli euroscettici hanno un altro mantra, trito e ritrito come l’altro, secondo cui l’euro penalizza l’import dei PIIGS. Vero, ma solo in parte. Ci potrebbe essere, infatti, un certo recupero della competitività del Paese dissenziente, favorito da una valuta più debole. Sarebbe tuttavia maggiore questo recupero se io stessi scrivendo nel 1990, ma nel 2014 quasi tutte le produzioni sono strutturate su filiere globali. Al giorno d’oggi, una moneta debole sarebbe un vantaggio da un lato e uno svantaggio dall’altro. Perché la componentistica di un prodotto finale è quasi sempre il risultato di un assemblaggio di prodotti importati da altri mercati. Puntare sulle svalutazioni per competere sui mercati internazionali è un gioco che può fruttare qualcosa nel breve periodo, ma che diviene controproducente nel lungo. In primo luogo perché i competitor stranieri, anche quelli europei, metterebbero di certo in atto contromisure per contrastare il ‘nuovo’ Paese dalla valuta debole (come ad esempio delocalizzazioni della produzione). E lo farebbero perché è così che va il libero mercato. Nell’ipotesi di un’uscita dall’euro, per un tempo più o meno lungo le aziende si troverebbero, peraltro, ad operare con condizioni creditizie più difficili, tra banche in profonda difficoltà nel fornire finanziamenti e mercati che pretenderebbero interessi sempre più alti per concedere prestiti a fronte della sottoscrizione di nuove obbligazioni.

Non scordiamoci, poi, delle obbligazioni emesse sotto il diritto di un altro Stato (per esempio Germania, Regno Unito o USA). È una prassi consolidata tra le grandi aziende che si rivolgono ai mercati internazionali. Preciso che nemmeno questo è illegale. Se uno dei PIIGS (e ricordiamo che la seconda ‘I’ è stata introdotta per noi italiani) optasse per il ritorno alla valuta nazionale, questi titoli, in quanto regolati da un’altra giurisdizione, non potrebbero essere coinvolti nell’automatica conversione alla stessa. Rimborsi e interessi andrebbero, pertanto, regolati in ogni caso nella valuta d’origine dell’obbligazione (euro, sterlina, dollaro) a fronte di un ricavo realizzato per lo più con la nuova – e più debole – moneta. Nel nostro caso specifico ammonta a circa il 25% il valore delle obbligazioni italiane emesse sotto diritto estero, ce lo rivelava qualche tempo fa Il Sole 24 Ore. Tra le percentuali maggiori in Europa. Conseguentemente, anche per alcuni grandi industrie potrebbe rendersi indispensabile un sostegno pubblico per evitare il fallimento.

Piaccia o non piaccia, il livello di interconnessione dei mercati finanziari e creditizi dell’area euro è talmente stretto da non essere paragonabile a nessuna situazione verificatasi in precedenza, in un’era come questa, in cui i movimenti di capitale non hanno né limiti né confini e sono effettuati in tempo reale.

Ma non disperate. Non andrà male a tutti. A qualcuno converrà. Non vorrei essere troppo perfido, dicendo che chi promuove oggi l’uscita dall’euro, ne trarrà profitto domani, perché non ne ho prova e, dunque, mi astengo, ma l’uscita da Eurolandia converrà di sicuro a chi, pur risiedendo in Italia, percepisce grandi rendite da investimenti esteri e a chi già dispone di ingenti patrimoni investiti in prodotti finanziari non italiani (titoli di Stato tedesci, azioni inglesi o a stelle e strisce). Sì, loro continuerebbero a percepire rendite e interessi in euro, o altra valuta estera, contando, fra l’altro, su un cambio più favorevole. Vivendo in un Paese con moneta svalutata avrebbero sicuramente un maggior potere d’acquisto. Lo stesso non accadrà per noi che viviamo di uno stipendio che sarà pagato con la nuova moneta e che, quindi, subirà a sua volta una notevole svalutazione.

Per chi poi valuta un abbandono anche dell’UE, aggiungo solo una parola: dogana. Anche per le merci provenienti dalla vicina Francia. Il che sarebbe non solo la fine della produzione interna e del relativo import, per le ragioni sopra richiamate, ma anche per i nostri piccoli acquisti quotidiani. Addio e-commerce, per esempio.

20140526-171040-61840861.jpg

In conclusione, è vero, l’architettura su cui si regge l’euro presenta notevoli criticità, che, in ultima istanza, danneggiano soprattutto i Paesi più deboli. Ma il processo di integrazione si è ormai spinto troppo in là per consentire una retromarcia, di nessun tipo, come, invece, domenica sera annunciava la signora Le Pen e come più volte abbiamo sentito e letto durante quest’ultima campagna elettorale. E sebbene non possiamo scommettere sulla tenuta dell’euro, possiamo lavorare tutti insieme per farcela. Con meno austerity, probabilmente, perché ha soltanto fatto crescere il bisogno di rivalsa dei più disperati, alimentando le false soluzioni di una destra già vecchia nella propria retorica. Bisogna lavorare da subito per il bene comune, perché tra tutte le strade percorribili, questa dell’uscita dall’euro sarebbe la più pericolosa. Pericolosa per noi cittadini dell’area mediterranea, dell’Irlanda e della Francia, prima che per chiunque altro.

MDS
BlogNomos
SEGUICI SU FACEBOOK E TWITTER

A El Salvador accusa di omicidio aggravato per le donne che scelgono l’aborto

 

Immagine

 

 

di Luigia Belli

 

 

A El Salvador, piccolo stato dell’America Centrale, stretto tra il Guatemala e l’Honduras e bagnato dalle acque dell’Oceano Pacifico, è proibita qualsiasi forma di aborto, fin anche nei casi in cui la gravidanza pone in pericolo la vita della madre o ne mina gravemente la salute. Attualmente sono 17 le donne che stanno scontando una pena che oscilla tra i 30 e i 40 anni di carcere per aver commesso ciò che la legge salvadoregna bolla come omicidio aggravato ai danni dei propri figli. Altre 18 donne stanno affrontando il processo che le vedrà condannate senza scampo.

 

Morena Herrera, una delle leader femministe del paese, ha promosso la fondazione di un movimento territoriale il cui obiettivo è quello di realizzare attività in difesa delle donne vittime di questo assurdo sistema. La Herrera, in collaborazione con il Gruppo per la Depenalizzazione dell’Aborto a El Salvador, si sta impegnando in prima persona per ottenere l’indulto per le donne che hanno subito condanne pluriennali per fatti legati all’aborto.

 

El Salvador non è l’unico Paese dell’America Latina ad applicare norme altamente restrittive per l’aborto. Altri sei Paesi ne seguono l’esempio, arrivando a proibire l’aborto anche nel caso in cui la gravidanza sia frutto di una violenza sessuale nei confronti della donna o, addirittura, in caso di gravidanza ectopica, ovvero quando l’impianto dell’embrione avviene in sedi diverse dalla cavità uterina che, se non riconosciuta ed affrontata in tempo, può portare a conseguenze gravissime per la donna, fino ad avere un esito letale. La Herrera sottolinea che, stando ai pareri scientifici, una emorragia causata da una gravidanza ectopica equivale ad una ferita da arma da fuoco nel ventre di una donna. E, di fatto, a El Salvador si contano numerose donne decedute a seguito della mancata estirpazione dell’ovulo fecondato in caso di gravidanza ectopica. Stando ai dati ufficiali, nel 2012, a El Salvador, 5 donne sono rimaste vittime di gravidanze ectopiche. Mentre, nel 2013, vi sono state ulteriori 13 donne morte a causa della mancata interruzione della gravidanza.

 

Delle 17 donne condannate, la maggior parte ha perso il proprio bambino a causa di un parto precipitoso. La Herrera spiega che molte di queste donne, vivendo in sacche di povertà e marginalità, non aveva realizzato nessun controllo prenatale. Addirittura, non sono state loro a rivolgersi all’ospedale, bensì vi sono state portate da familiari che, in molti casi, le avevano trovate sanguinanti in casa. Dall’ospedale, queste donne sono state direttamente trasferite in procura per essere sottoposte ad un processo in direttissima per omicidio aggravato, che prevede da 30 a 40 anni di carcere. Sembra davvero paradossale che siano gli stessi medici, a discapito del segreto professionale che dovrebbero rispettare come valore, innanzi tutto, etico, a realizzare le denunce. Inoltre, è bene segnalare che, in nessuno dei 17 casi di condanna, le imputate avevano volontariamente interrotto la gravidanza e che, comunque, in nessuno dei 17 casi sono state addotte prove dirette. A rendere ancora più grave la situazione, infine, è bene evidenziare che le condanne, sin da subito, sono state rese definitive senza appello. Pertanto non c’è possibilità alcuna di appellarsi alla sentenza. Un cartello di organizzazioni femministe del territorio si sta impegnando in prima linea per ottenere un indulto presidenziale, che rappresenta l’unica via giuridica per restituire libertà e dignità alle donne processate. Al contempo, si sta lavorando a pieno ritmo per intercedere presso le autorità, affinché le donne che attualmente stanno affrontando il medesimo processo abbiano la possibilità di evitare pene a lungo termine.

 

 

BlogNomos

 

 

Seguici anche su Facebook: https://www.facebook.com/blognomos
e su Twitter: @BlogNomos

Il 40,1% delle Pubbliche Amministrazioni utilizza software open source

 

Immagine

 

di Germano De Sanctis

Recentemente, l’ISTAT ha pubblicato i risultati del censimento delle istituzioni pubbliche italiane, secondo il quale il 40,1% delle Pubbliche Amministrazioni utilizza software open source.
Inoltre, si è riscontrato che il 96,4% delle Pubbliche Amministrazioni ha un accesso ad internet, in quanto, a fronte di un campione di rilevamento di ben 12.146 istituzioni pubbliche, soltanto il 11.715 dispongono di un proprio sito web, presso il quale i cittadini possono accedere ad informazioni su orari degli uffici, come richiedere alcune documentazioni etc.. Inoltre, soltanto il 57,5% delle istituzioni pubbliche è dotato di una propria rete Intranet.
Sempre stando all’ISTAT, i dipendenti degli enti locali (Regioni, Province, Comuni, etc.), utilizzano principalmente pc desktop (73%), mentre solo il 7% utilizza pc portatili. Il rimanente 20% dei dipendenti interessati dal censimento utilizza device mobili come smartphone e tablet.
Si evidenzia che i dati rilasciati dall’ISTAT riguardano un censimento effettuato nel corso dell’anno 2011. Pertanto, è molto probabile che la percentuale di istituzioni pubbliche che attualmente utilizza software open source sia superiore al poc’anzi indicato 40,1%.

Venendo all’esame più dettagliato dell’utilizzo del software open source presso le Pubbliche Amministrazioni italiane, risulta interessante riscontrare subito che all’interno della platea del 40,1% delle istituzioni censite e che hanno dichiarato di utilizzare software open source, vi sono tutte le Regioni e oltre il 90% delle Province e delle Università.
Inoltre, emerge che il territorio italiano più votato all’uso del software libero è la Provincia Autonoma di Bolzano, dove l’86,2% dei Comuni utilizza software liberi.
Invece, le Regioni presso le quali si registra un basso ricorso all’open source sono il Molise (30,9%), l’Abruzzo (25,9%o) ed il Piemonte (23,7%).
A seguito dell’esame dell’utilizzo del software open source presso i Comuni, l’ISTAT ha riscontrato che la sua percentuale di utilizzo si è attestata al 40,7%. Inoltre, tale utilizzo risulta crescente all’aumentare dell’ampiezza demografica, passando dal 25,9% cento per i Comuni fino a 5.000 abitanti al 79,8%o per quelli oltre 100.000 abitanti. I più virtuosi sono risultati essere (come già detto) i Comuni della Provincia Autonoma di Bolzano (86,2%), seguiti da quelli della Toscana (67,9%) e dell’Emilia Romagna (61,4%).

 

Immagine

 

Il censimento dell’ISTAT è l’occasione per soffermarci sul fatto che la scelta operativa dalle Pubbliche Amministrazioni di utilizzare software open source deriva da un preciso fondamento normativo, spesso disatteso, se non, addirittura, ignorato.

Infatti, il rapporto tra software libero (meglio noto come open source) e Pubblica Amministrazione italiana è sempre stato problematico. Tuttavia, in data 12 agosto 2012, è entrata in vigore una modifica dell’articolo 68 del Decreto Legislativo 7 marzo 2005, nr. 82, meglio noto come Codice dell’Amministrazione Digitale, che ha mutato il quadro di riferimento.
Tale novella legislativa ha suscitato molti entusiasmi nell’immediatezza della sua approvazione, per, poi, generare grandi delusioni per la sua difficoltosa attuazione pratica.
Infatti, in virtù della norma citata, le Pubbliche Amministrazioni devono, di regola, acquisire software libero, mentre l’acquisto di software proprietario con licenza d’uso è stato circoscritto a casi eccezionali, ammissibili soltanto in particolari circostanze.
Dunque, come dicevamo, il 12 agosto 2012, si è avuta una riscrittura dell’articolo 68 del Decreto Legislativo 7 marzo 2005, nr. 82 (c.d. “Codice dell’Amministrazione digitale”), ad opera della Legge 7 agosto 2012, n. 134. Con tale riforma, è stata anche istituita l’Agenzia per l’Italia Digitale, in sostituzione di DigitPa.
Il nuovo articolo 68 del Decreto Legislativo 7 marzo 2005, nr. 82 prevede solo tre possibili modalità di acquisizione del software:

  1. software sviluppato per conto della Pubblica Amministrazione;
  2. riutilizzo di software o parti di esso sviluppati per conto della Pubblica Amministrazione;
  3. software libero o a codice sorgente aperto, oltre alla combinazione fra queste soluzioni.

In altri termini, il software proprietario non è compreso nel range delle possibili scelte, se non, come si evince leggendo nella prosecuzione della norma in questione, come extrema ratio.
Di conseguenza, è consentita l’acquisizione di programmi informatici di tipo proprietario mediante ricorso a licenza d’uso soltanto quando la valutazione comparativa di tipo tecnico ed economico dimostri l’impossibilità di accedere a soluzioni open source o già sviluppate all’interno della Pubblica Amministrazione ad un prezzo inferiore. Pertanto, il dettato normativo è talmente chiaro che la Pubblica Amministrazione può ricorrere al software proprietario solo quando sussista “l’impossibilità” di ricorrere al software libero od a programmi commissionati ad hoc.
Si tratta di una enorme novità. Se, da un lato, è possibile il verificarsi di casi in cui una Pubblica Amministrazione necessiti di applicazioni legate a specifiche attività istituzionali che non sono disponibili sotto forma di free software, e di cui non è economicamente conveniente commissionare la realizzazione, d’altro canto, è sicuramente certo che, relativamente ad altre esigenze, come, in primo luogo, i sistemi operativi e le suite da ufficio, sia assolutamente da escludere una evidente impossibilità di ricorrere all’open source. Infatti, sostenere che è “impossibile”, sia da un punto di vista tecnico, che economico, adoperare sistemi operativi open source come Ubuntu (o Linux Mint, o Fedora, o Open Suse etc.) al posto di Windows (o di Apple OSX), appare decisamente difficile. Analogo discorso vale per le suite da ufficio, dove LibreOffice (o Apache OpenOffice) possono tranquillamente sostituire Microsoft Office (come, d’altronde, è già avvenuto in molte Amministrazioni Pubbliche).

Ovviamente, una norma di tale portata ha scatenato nelle varie Pubbliche Amministrazioni reazioni diverse, in relazione alla eventuale presenza (sovente aleatoria) nelle dotazioni organiche di impiegati competenti nell’area del software open source, ovvero in stretta connessione alla necessità di aggiornare software obsoleto, o di rinnovare le licenze proprietarie scadute.
Infatti, la casistica disponibile ha dimostrato che la presenza di tecnici abituati a interfacciare le comunità del software libero ha permesso di garantire una decisa attuazione della citata disposizione di legge in questione. Al contempo, anche la necessità di aggiornare le licenze del software proprietario in scadenza ha trasformato in opportunità una migrazione attesa da tempo, a favore dei magri bilanci delle Amministrazioni Pubbliche italiane condizionati dalle forti ristrettezze economiche e dalle nuove regole di spending review.

 

Immagine

 

In attuazione di quanto previsto dall’articolo 68 del D.Lgs. n. 82/2005, l’Agenzia per l’Italia Digitale ha emanato la Circolare 6 dicembre 2013 n. 63 , avente ad oggetto le Linee Guida per la valutazione comparativa prevista dal citato art. 68 del Codice dell’Amministrazione digitale. In particolare, La Circolare in questione illustra, attraverso l’esposizione di un percorso metodologico e di una serie di esempi, le modalità e i criteri per l’effettuazione della valutazione comparativa delle soluzioni prevista dall’articolo 68 del D.Lgs. n. 82/2005. Tali Linee Guida sono indirizzate alle Pubbliche Amministrazioni elencate nell’art. 2, comma 2 del D.Lgs. n. 82/2005, che devono acquisire prodotti e soluzioni software da utilizzare nell’ambito dei propri compiti istituzionali. Alcuni dei contenuti delle Linee Guida sono peraltro d’interesse anche per gli operatori del mercato ICT.

Orbene, la Circolare n. 63/2013, pur sancendo l’obbligo di preferire il software libero e ed il riuso, ha lasciato delle ombre sulla corretta applicazione dell’articolo 68 D.Lgs. n. 82/2005.
Venendo all’esame specifico del contenuto della Circolare in questione, si rileva che essa è partita dall’assunto già contenuto nell’art. 68 D.Lgs. n. 82/2005, secondo il quale le Pubbliche Amministrazioni che devono procedere ad acquisire i software necessari allo svolgimento della propria attività, hanno l’obbligo di procedere ad una valutazione comparativa di tipo tecnico ed economico tra le differenti soluzioni disponibili (software sviluppato per conto della PA, riuso, software libero, cloud computing, software proprietario), da svolgersi secondo modalità e criteri definiti dall’Agenzia per l’Italia Digitale.
Tuttavia, siffatta valutazione comparativa è apparsa priva di un un vero e proprio criterio di preferenzialità, in quanto il legislatore ha disposto che, ove dalla valutazione comparativa di tipo tecnico ed economico risulti motivatamente l’impossibilità di accedere a soluzioni già disponibili all’interno della pubblica amministrazione, o a software liberi o a codici sorgente aperto, adeguati alle esigenze da soddisfare, è consentita l’acquisizione di programmi informatici di tipo proprietario mediante ricorso a licenza d’uso.
In sede di redazione della Circolare n. 63/2013, ci si è divisi sull’interpretazione da fornire a questa norma (che, come detto in precedenza, è apparentemente chiara). Infatti, i diversi operatori seduti al tavolo tecnico costituito presso Agenzia per l’Italia Digitale si sono divisi: da un lato coloro che ritenevano l’assenza nel testo dell’art. 68 D.Lgs. n. 82/2005 di una specifica preferenza tra le diverse soluzioni, dall’altro coloro che rilevavano una inequivocabile preferenza del legislatore a favore delle soluzioni di riuso e di software libero o a sorgente aperto.
Alla fine del confronto, la Circolare n. 63/2013 ha dato ragione a questi ultimi, definendo i criteri che ciascuna Pubblica Amministrazione deve seguire per l’acquisizione di prodotti e soluzioni software da utilizzare per l’assolvimento dei propri compiti istituzionali.
Infatti, la Circolare n. 63/2013 ha chiarito definitivamente che le Amministrazioni Pubbliche che devono procedere all’approvvigionamento di software hanno l’obbligo di:

  1. definire le proprie esigenze, identificando i requisiti (funzionali e non) dei programmi da acquisire;
  2. ricercare le soluzioni disponibili;
  3. confrontare le soluzioni “eleggibili”.

Nell’ambito di tale processo, è richiesto alle Pubbliche Amministrazioni di redigere una griglia di valutazione sulla base dei criteri di valutazione definiti dal legislatore. Tali criteri sono i seguenti:

  1. il costo complessivo;
  2. il livello di utilizzo di formati di dati aperti, con particolare riferimento al livello di utilizzo delle interfacce e degli standard per l’interoperabilità e per la cooperazione applicativa;
  3. le garanzie del fornitore in materia di livelli di sicurezza;
  4. la conformità del fornitore alla normativa in materia di protezione dei dati personali;
  5. i livelli di servizio offerti dal fornitore.

Solo dopo aver assegnato, alle diverse soluzioni confrontate, un punteggio su ciascuno dei criteri di valutazione, l’Amministrazione Pubblica procedente può procedere a determinare il risultato complessivo della valutazione.
Inoltre, al punto 3.3.9 della Circolare n. 63/2013, è previsto che, nel caso in cui all’esito della valutazione comparativa, la soglia minima di accettabilità venga superata da più soluzioni alternative, di cui una o più nelle categorie “software libero o a sorgente aperto” e/o “software in riuso“, queste ultime dovranno essere preferite a soluzioni proprietarie, salvo che l’Amministrazione non ne motivi l’impossibilità.

Tuttavia, a fronte di queste chiare indicazioni a favore del software open source, la Circolare n. 63/2013 si distingue anche per essere un documento molto pesante e farraginoso, il cui rispetto risulta essere particolarmente oneroso, specialmente per gli Enti Pubblici di piccole dimensioni.
Per di più, bisogna sottolineare il rischio di un potenziale contenzioso che può facilmente essere generato da una scorretta od incompleta valutazione comparativa, la quale, così come è stata descritta dalla Circolare in questione, riserva margini ancora troppo ampi di discrezionalità. In altri termini, sussiste un elevato rischio generato dalla possibilità di poter facilmente impugnare la scelta operata dalla Pubblica Amministrazione procedente, chiedendone la declaratoria di illegittimità e, quindi, del successivo affidamento, con relativo contenzioso dinanzi al TAR e conseguente responsabilità dirigenziale.
Per fortunatamente, in presenza di dubbi interpretativi, le Pubbliche Amministrazioni procedenti possono chiedere all’Agenzia per l’Italia Digitale di esprimere un parere (seppur non vincolante) sul rispetto delle norme in materia di valutazione comparativa.
In definitiva, l’analisi comparativa delle possibili soluzioni che una Pubblica Amministrazione deve effettuare prima di acquisire programmi informatici non può prescindere dalla preventiva conoscenza, da parte delle stessa Pubblica Amministrazione, delle diverse tipologie di licenza d’uso presenti sul mercato. Inoltre, la Circolare n. 62/2013 si sottolinea che, in ogni caso, la scelta del percorso metodologico da intraprendere per l’acquisizione di programmi informatici nelle PA dovrà essere basata sulla valutazione della complessità organizzativa della Pubblica Amministrazione interessata, sulle sue competenze informatiche e sulla rilevanza strategica della specifica acquisizione di software.

In conclusione, l’analisi fin qui svolta dimostra che la Pubblica Amministrazione italiana è all’inizio di un lungo cammino che la deve portare all’effettivo e generalizzato utilizzo del software open source, non soltanto per rispettare precise indicazioni fornite dal legislatore nazionale, ma anche e specialmente per liberare importanti risorse finanziare da poter destinare ad altri servizi che, in questi tempi di ristrettezze dei bilanci delle Amministrazioni Pubbliche, rischiano seriamente di non essere garantiti in maniera adeguatamente efficace.

 

Per approfondimenti:

 

BlogNomos

 

Seguici anche su Facebook: https://www.facebook.com/blognomos
e Twitter: @BlogNomos