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L’ITALIA PUÒ TORNARE COMPETITIVA?

di Germano De Sanctis

L’economia italiana, al pari di gran parte delle altre economie degli Stati Membri della Unione Europea, non riesce ad uscire dalla crisi economica e finanziaria. Infatti, siamo quotidianamente “bombardati” dagli allarmanti dati sulla costante recessione e dalle costanti previsioni sulla permanente deflazione.

Questa incapacità di uscire dalla crisi è principalmente cagionata dall’assenza di una reale ripresa dell’economia nazionale, la quale, a sua volta, è determinata da una perdurante assenza di competitività.

Per comprendere meglio questa affermazione, basta considerare il fatto che la crisi finanziaria del 2007 ha colpito in modo differente i singoli Paesi europei. Infatti, gli Stati europei che avevano investito nei decenni precedenti nelle aree fondamentali per la crescita economica (come, ad esempio, l’istruzione, la formazione del capitale umano, la ricerca e lo sviluppo etc.) hanno saputo gestire meglio questa difficile fase. Invece, i Paesi denominati dalla poco edificante etichetta di “Pigs” (cioè, Portogallo, Italia, Grecia e Spagna) hanno subito maggiormente gli effetti negativi della crisi, proprio perché avevano in precedenza dedicato pochissime risorse a questo genere di investimenti. Inoltre, in Italia, la crisi economica è accompagnata anche dalla difficile gestione del proprio debito sovrano. Appare evidente come un simile quadro produca una seria crisi di competitività.

Inoltre, le generiche politiche di austerità finora adottate hanno contribuito ad aggravare i fenomeni recessivi in atto, in quanto, l’Italia, al pari dei Paesi europei che versano nelle sue medesime condizioni, necessita prioritariamente di riforme “strutturali”, capaci di stimolare la crescita.

Tuttavia, in un quadro di così profonda crisi, la crescita non può essere prodotta soltanto facendo ricorso agli investimenti privati in un’ottica di loro autoregolamentazione neoliberista.

Forse è il caso di ragionare sull’utilità di nuove politiche di stampo keynesiano, dove lo Stato interviene nell’aumentare gli investimenti in quei settori capaci di aumentare la produttività e di generare la crescita. In altri termini, lo Stato deve investire sull’istruzione, sulla formazione e sulla ricerca.

Tuttavia, simili politiche d’intervento necessitano di istituzioni pubbliche dinamiche, capaci di assicurare un efficace collegamento tra il mondo scientifico, i settori industriali ed il sistema finanziario. Soltanto in tal modo, si potrà garantire la ricaduta tecnologica della migliore ricerca scientifica, attraverso l’avvio di politiche industriali innovative e supportate da investimenti finanziari a lungo termine.

Personalmente, ritengo che lo sforzo che la BCE intende compiere attraverso il c.d. il “Quantitative Easing” sia un’operazione necessaria, ma non sufficiente. Infatti, tale operazione fallirebbe se la sua iniezione di denaro fosse destinata solo al sostegno del credito. Invece, bisogna dirottare questo futuro aumento di liquidità monetaria verso i settori produttivi dell’economia reale. Però, per raggiungere un simile risultato, è imprescindibile l’intervento delle istituzioni pubbliche, così come l’esperienza passata ha già avuto modo di insegnare. Basti pensare, ad esempio, all’operazione compiuta recentemente negli USA con il programma di misure di stimolo promosso da Barak Obama.

Appare, quindi, evidente che l’Eurozona deve immediatamente elaborare politiche d’intervento unitarie, se non vuole attraversare l’intero 2015, inseguendo un ripresa che, altrimenti, non arriverà mai. Le istituzioni comunitarie ed i Singoli Stati Membri devono avere il coraggio di avviare politiche “solidali” di crescita e sviluppo, capaci di eliminare gli squilibri macroeconomici attualmente esistenti tra le singole economie nazionali. Anche la “locomotiva tedesca” ne beneficerebbe, godendo del maggiore potere di acquisto dei cittadini dell’intero continente europeo, il quale rappresenta, tuttora, il suo principale mercato d’esportazione.

Tuttavia, la competitività non si raggiunge abbattendo i costi della manodopera, ma acquisendo la capacità di produrre in maniera competitiva prodotti di alta qualità, che il resto mondo intende acquistare, ma che non è ancora capace di produrre, o di realizzare con i medesimi standard di fabbricazione.

Pertanto, bisognerebbe ricercare subito le risorse per avviare un simile genere di investimenti, partendo dai fondi strutturali comunitari, che dovrebbero essere prioritariamente destinati all’avvio di progetti innovativi, fattibili e con forti ricadute sociali. Risulta chiaro il fatto che una simile politica comporterebbe anche un necessario ripensamento del ruolo della Banca Europea per gli Investimenti (BEI). Inoltre, bisognerebbe contestualmente rivedere il sistema dei controlli legati a tali finanziamenti. Le Pubbliche Amministrazioni e le imprese degli Stati Membri che ricevono risorse comunitarie devono garantire modalità gestionali adeguate per prevenire ed evitare ogni forma di truffa, nonché per garantire un utilizzo efficace delle medesime. Non sto alludendo all’imposizione di mere politiche di austerity, capaci solo di provocare circoli viziosi di assenza di crescita. Sto alludendo a politiche capaci di verificare ex ante il reale raggiungimento dei risultati attesi.

Tengo a precisare che l’assenza di crescita in Italia non è condizionata soltanto da una Pubblica Amministrazione eccessivamente burocratizzata, ma è anche limitata da un settore privato che da troppo tempo non si distingue più (salvo rare e felici eccezioni) per essere adeguatamente dinamico e innovativo.

Ciò detto, non si può pretendere che il settore privato sia dinamico ed innovativo, in assenza di un settore pubblico altrettanto dinamico e innovativo. Il problema della Pubblica Amministrazione non risiede principalmente nel suo eccesso di burocratizzazione, ma nella sua incapacità (a differenza di molti altri Stati europei) di finanziare adeguatamente l’istruzione, la ricerca e l’innovazione, allo scopo di incrementare lo sviluppo del capitale umano. In altri termini, la Pubblica Amministrazione italiana non è stata finora in grado di favorire l’implementazione di quei settori che determinano la crescita e la produttività.

Ovviamente, il settore pubblico non può determinare da solo l’avvio di una nuova fase di crescita, in quanto necessita di un settore privato capace di raccogliere una simile sfida. Affinché si riesca a garantire una efficace ricaduta tecnologica degli investimenti pubblici in materia di ricerca ed innovazione, vi deve essere un settore privato capace di comprendere e sfruttare le opportunità di profitto offerte dall’innovazione tecnologica, introducendo nuove tipologie di prodotti, la cui utilità marginale è insita nel valore aggiunto del prodotto in sé, e non nel suo basso costo di produzione.

In estrema sintesi, il settore pubblico ed il settore privato devono assumere insieme i rischi della ricerca, per, poi, goderne insieme dei benefici conseguenti.

Questa sinergia tra pubblico e privato in materia di ricerca ed innovazione deve divenire una sorta di cooperazione allargata tra imprese private e Pubbliche Amministrazioni, capace di produrre ricchezza attraverso la crescita della società italiana.

Si tiene a precisare che non si sta delineando un politica economica statalista e/o assistenziale. Si sta solo evidenziando che un sistema di imprese private, per quanto innovativo e dinamico voglia e possa essere, non ha la forza di affrontare da solo alcune tipologie di investimenti aventi ad oggetto ricerche con ricadute tecnologiche ed economiche soltanto di lungo periodo. Invece, tali tipi di investimento devono essere supportati dal settore pubblico, il quale deve avere la forza e la lungimiranza di garantire alla propria economia nazionale una riserva di risorse all’uopo dedicate. Soltanto operando in tal modo, si potrà garantire la crescita necessaria per garantire uno sviluppo sostenibile della società.

L’assenza di un ruolo dello Stato nel promuovere l’innovazione e la ricerca è la ragione dell’entropia di un sistema economico nazionale ed è, altresì, la base di un costante ed irreversibile fenomeno d’impoverimento per assenza di crescita. Pertanto, lo Stato deve svolgere un ruolo essenziale nel sostenere i primi passi dei grandi processi di innovazione, in quanto, di fronte a progetti d’investimento molto ampi ed a lunga gittata, il settore privato non è disposto a correre rischi giudicati troppo alti.

Chiaramente, un simile ragionamento impone un totale ripensamento “culturale” della Pubblica Amministrazione italiana, la quale, fin quanto sarà ritenuta una macchina burocratica inefficiente e parassitaria, difficilmente riuscirà ad attrarre al suo interno figure professionali capaci realmente di innovare.

In estrema sintesi, l’Italia ha smesso di essere competitiva e non riesce ad avere un’economia in crescita, in quanto lo Stato ha smesso di svolgere da troppo tempo il suo ruolo di promotore dell’innovazione e dello sviluppo tecnologico, supportando adeguatamente le risorse intellettuali disponibili.

Bisogna, quindi, abbandonare le concezioni che vedono l’intervento diretto dello Stato, solo come evento sussidiario di ultima istanza in caso di fallimento del mercato. Infatti, tutte le grandi scoperte tecnologiche hanno sempre visto protagonista lo Stato, nel ruolo di finanziatore iniziale della ricerca scientifica pura, per, poi, “trasferire” le ricadute tecnologiche di tale ricerca finanziata al sistema imprenditoriale privato.

Non è possibile supportare l’innovazione, soltanto attraverso l’abbattimento dell’imponibile fiscale e mediante la riduzione della regolamentazione giuslavoristica. Un prodotto industriale non diventerà mai competitivo, soltanto riducendone i costi di produzione, ma rendendolo appetibile per il mercato, in modo tale che il suo costo di produzione sia rilevante solo relativamente alla quantificazione dei ricavi ottenuti dalla sua vendita. Tale affermazione trova riscontro nell’analisi dei fatti, la quale dimostra esattamente il contrario e, cioè, che l’aumento del costo unitario del lavoro è il diretto risultato del calo della produttività dovuto alla diminuzione degli investimenti pubblici e privati e pubblici in tutti i settori capaci d’incrementare la crescita del capitale umano e lo sviluppo dell’innovazione.

In conclusione l’Italia tornerà a crescere soltanto se il settore pubblico sarà capace di avviare una politica industriale, capace di promuovere lo sviluppo di imprese (anche piccole) innovative, attraverso investimenti a medio e lungo termine.

L’intervento pubblico dovrà essere comunque d’ausilio (e non sostitutivo) dei  pur sempre necessari investimenti privati, i quali dovranno essere, a loro volta, supportati da un settore finanziario finalmente riformato. In tal modo, si potrà ottenere un felice ricongiungimento tra la finanza e l’economia reale, in grado di garantire un lungo periodo di crescita stabile e costante. In altri termini, necessita un intervento del settore finanziario a favore degli investimenti di lungo termine e a supporto dei processi d’innovazione tecnologici e produttivi.

Inoltre, l’economia reale dovrà anche beneficiare di una politica fiscale progressiva (e non regressiva) a lungo termine, posta a sostegno del processo d’innovazione e che esuli da meri tagli orizzontali della tassazione, i quali sono capaci soltanto di favorire gli speculatori.

Infine, lo Stato dovrà attivarsi per costruire un nuovo sistema di dinamiche relazionali con le parti sociali. Soltanto in tal modo, sarà possibile negoziare condizioni migliori per tutti i lavoratori, senza pregiudicare la redditività delle singole produzioni, in un periodo in cui i profitti continuano a crescere in rapporto ai salari. Il mondo sindacale non deve essere confinato in un ruolo di strenuo difensore di diritti acquisiti dalle precedenti generazioni di lavoratori, ma, al contempo, incapace di proporre un modello condiviso di sviluppo. Esso deve essere coinvolto dal settore pubblico nel processo d’innovazione, fino a trasformarlo in un soggetto che contribuisce attivamente all’avvio di una nuova fase di crescita nazionale, trainata dall’innovazione tecnologica e dai nuovi cicli produttivi.

Questa sinergia di interventi dovrebbe infondere al settore privato quel necessario coraggio ad investire nell’innovazione che è ormai assente in Italia da troppo tempo.

In estrema sintesi, l’Italia tornerà a crescere, soltanto se si riscontrerà la presenza congiunta delle politiche pubbliche per l’innovazione, della riforma del settore finanziario e del riconoscimento delle ruolo delle organizzazioni sindacali nella creazione di un nuovo dialogo sociale.

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Breve analisi della nuova disciplina del FEG per il periodo 2014-2020

 

 

di Germano De Sanctis

Premessa

Il Regolamento (UE) n. 1309 del 17 dicembre 2013 1 disciplina il Fondo Europeo di Adeguamento alla Globalizzazione (c.d. FEG) per la durata del quadro finanziario pluriennale intercorrente dal 1° gennaio 2014 al 31 dicembre 2020.
Tale provvedimento abroga il precedente Reg. (CE) n. 1927/2006 (così come modificato dal Reg. (CE) n. 546/2009), con il quale il fondo in questione è stato istituito con finalità di reinserimento professionale in un mercato del lavoro seriamente compromesso dagli effetti della globalizzazione.
Infatti, il processo di globalizzazione dei mercati ha prodotto effetti talmente negativi in materia di occupazione, al punto da spingere le Istituzioni comunitarie a predisporre strumenti volti al recupero delle professionalità dei lavoratori ed al loro reinserimento nel mercato del lavoro.
Esaminiamo sinteticamente gli aspetti più salienti del Reg. (UE) n. 1309/2013.

L’ambito di applicazione

Il FEG intende contribuire ad una crescita economica intelligente, inclusiva e sostenibile, nonché vuole promuovere un’occupazione sostenibile in un’ottica di solidarietà e sostegno ai lavoratori collocati in esubero e ai lavoratori autonomi la cui attività sia cessata:

  • in conseguenza di trasformazioni rilevanti della struttura del commercio mondiale dovute alla globalizzazione;
  • a causa del persistere della crisi finanziaria ed economica globale;
  • a causa di una nuova crisi economica e finanziaria globale.

In particolare, l’art. 2 Reg. (UE) n. 1309/2013 individua l’ambito di applicazione del FEG, prevedendo che le domande presentate dagli Stati membri devono riguardare azioni indirizzate a:

  1. lavoratori collocati in esubero e lavoratori autonomi la cui attività sia cessata in conseguenza di trasformazioni rilevanti della struttura del commercio mondiale dovute alla globalizzazione, dimostrate in particolare da un sostanziale aumento delle importazioni nell’Unione Europea, da un cambiamento radicale del commercio di beni e servizi nell’Unione Europea, da un rapido declino della quota di mercato dell’Unione Europea in un determinato settore o da una delocalizzazione di attività verso paesi terzi, a condizione che tali esuberi abbiano un impatto negativo di rilievo sull’economia locale, regionale o nazionale;
  2. lavoratori collocati in esubero e lavoratori autonomi la cui attività sia cessata a causa della crisi finanziaria ed economica globale.

I criteri d’intervento

L’art. 4, par. 1, Reg. (UE) n. 1309/2013 circostanzia i criteri d’intervento, prevedendo che può essere concesso un contributo finanziario a valere sul FEG quando le condizioni ex art. 2 Reg. (UE) n. 1309/2013 comportano come conseguenza:

  1. il collocamento in esubero di almeno 500 lavoratori o la cessazione dell’attività di lavoratori autonomi, nell’arco di un periodo di riferimento di quattro mesi, in un’impresa di uno Stato membro, compresi i lavoratori collocati in esubero e i lavoratori autonomi la cui attività sia cessata alle imprese dei fornitori o dei produttori a valle dell’impresa in questione;
  2. il collocamento in esubero di almeno 500 lavoratori o la cessazione dell’attività di lavoratori autonomi, nell’arco di un periodo di riferimento di nove mesi, in particolare in PMI, tutte operanti nello stesso settore economico definito a livello delle divisioni della NACE revisione 2 (n.b.: si tratta della classificazione statistica comune delle attività economiche nella Comunità europea così come definita dal Reg (CE) n. 1893/2006), in una regione o due regioni contigue di livello NUTS 2 3 , oppure in più di due regioni contigue di livello NUTS 2, a condizione che il numero complessivo di lavoratori o di lavoratori autonomi in due regioni combinate sia superiore a 500 (n.b.: NUTS è l’acronimo di Nomenclatura delle Unità Territoriali Statistiche, la quale ripartisce il territorio della UE a fini statistici; in particolare, il livello NUTS 1 distingue le aree geografiche (gruppi di regioni), il livello NUTS 2 le regioni e il livello NUTS3 le province).

Appare evidente la semplificazione operata rispetto al previgente Reg. (CE) n. 1297/2006, il quale prevedeva il collocamento in esubero di almeno 1000 lavoratori.

L’art. 4, par. 2, Reg. (UE) n. 1309/2013 prevede anche un ulteriore criterio d’intervento applicabile in circostanze eccezionali, qualora i predetti criteri di cui sopra non siano completamente soddisfatti. In particolare, siffatto criterio ricorre in presenza di mercati del lavoro di dimensioni ridotte, ovvero in presenza di circostanze eccezionali debitamente giustificate dallo Stato membro, con particolare riferimento alle domande collettive che coinvolgono le PMI e sempre che gli esuberi abbiano un grave impatto sull’occupazione e sull’economia locale, regionale o nazionale. Si evidenzia che, in tale ipotesi, lo Stato membro richiedente ha l’obbligo di specificare quale dei criteri d’intervento di cui ai precedenti punti 1) e 2) non risulti essere interamente soddisfatto e che, comunque, l’importo cumulato dei contributi non può eccedere il 15 % dell’importo annuo massimo del FEG.

Il calcolo degli esuberi e delle cessazioni di attività

L’art. 5, par. 1, Reg. (UE) n. 1309/2013 definisce i criteri di calcolo degli esuberi e delle cessazioni di attività, prevedendo che ogni Stato membro richiedente deve precisare il metodo utilizzato per calcolare, ai fini dell’art. 4Reg. (UE) n. 1309/2013, il numero di lavoratori e di lavoratori autonomi di cui all’art. 3 Reg. (UE) n. 1309/2013.
Il Reg. (UE) n. 1309/2013 impone ad ogni Stato membro l’obbligo di chiarire alla Commissione Europea il metodo utilizzato per effettuare il calcolo in questione, il quale deve tenere comunque conto di una delle seguenti date, quali termini da cui far decorrere il conteggio:

  • dalla data in cui il datore di lavoro (conformemente all’art. 3, par. 1, Dir. 98/59/CE), notifica il piano di collocamento in esubero collettivo all’autorità pubblica competente per iscritto; in tal caso, lo Stato membro che ha presentato la domanda fornisce ulteriori informazioni alla Commissione sul numero reale di lavoratori collocati in esubero;
  • dalla data in cui il datore di lavoro notifica il preavviso di licenziamento o di risoluzione del contratto di lavoro;
  • dalla data della risoluzione di fatto del contratto di lavoro o della sua scadenza;
  • dalla fine dell’incarico presso l’impresa utilizzatrice;
  • per i lavoratori autonomi, dalla data di cessazione delle attività determinata conformemente alle disposizioni legislative o amministrative nazionali.

I beneficiari

L’art. 3 Reg. (UE) n. 1309/2013 chiarisce che, per beneficiario, s’intende:

  1. un lavoratore il cui contratto di lavoro si sia concluso anticipatamente per collocamento in esubero, oppure giunto a scadenza nel corso del periodo di riferimento di cui all’art. 4 Reg. (UE) n. 1309/2013 e non rinnovato;
  2. un lavoratore autonomo che abbia impiegato un massimo di dieci lavoratori che erano stati collocati in esubero nell’ambito di applicazione del Reg. (UE) n. 1309/2013 e la cui attività sia cessata, a condizione che quest’ultima dipendesse in maniera dimostrabile dall’impresa di cui all’art. 4, par. 1, lett. a), Reg. (UE) n. 1309/2013, oppure che, ai sensi dell’art. 4, par. 1, lett. b), Reg. (UE) n. 1309/2013, il lavoratore autonomo operasse nel settore economico in questione.

Ai sensi dell’art. 6, par. 1, Reg. (UE) n. 1309/2013, i beneficiari ammissibili possono essere:

  1. i lavoratori collocati in esubero e i lavoratori autonomi la cui attività sia cessata durante il periodo di riferimento previsto all’art. 4 Reg. (UE) n. 1309/2013;
  2. i lavoratori collocati in esubero e i lavoratori autonomi la cui attività sia cessata prima o dopo il periodo di riferimento di cui all’art. 4, par. 1, lett. a) Reg. (UE) n. 1309/2013 (cioè 4 mesi);
  3. i lavoratori collocati in esubero e i lavoratori autonomi la cui attività sia cessata, se una domanda presentata a norma dell’art. 4, par. 2, Reg. (UE) n. 1309/2013 non risponde ai criteri stabiliti dall’art. 4, par. 1, lett. a), Reg. (UE) n. 1309/2013.

I lavoratori e i lavoratori autonomi di cui alle precedenti punti 2) e 3) sono considerati ammissibili, a condizione che siano collocati in esubero o che la loro attività sia cessata dopo la notifica generale del progetto di licenziamento e a condizione che possa essere stabilito un chiaro nesso causale con l’evento da cui hanno avuto origine gli esuberi durante il periodo di riferimento.

L’art. 6, par. 2, Reg. (UE) n. 1309/2013 contiene un’importante deroga che consente agli Stati membri richiedenti, fino al 31 dicembre 2017, di fornire servizi personalizzati, cofinanziati dal FEG, per un determinato numero di NEET (not in Education, Employment or Training) di età inferiore ai 25 anni (o ai 30 anni, se lo Stato membro decide in tal senso), uguale al numero dei beneficiari interessati, dando la priorità ai collocati in esubero o la cui attività sia cessata. L’unica condizione richiesta per poter usufruire di tale possibilità è che almeno una parte degli esuberi sia collocata in regioni di livello NUTS 2, ritenute ammissibili nell’ambito dell’iniziativa per l’occupazione giovanile (c.d. Garanzia Giovani).

Le azioni ammissibili

Ai dell’art. 7, par. 1, Reg. (UE) n. 1309/2013, il FEG può finanziare misure attive del mercato del lavoro, nell’ambito di un pacchetto coordinato di servizi personalizzati volti a facilitare le reintegrazione nel mercato del lavoro dipendente o autonomo dei beneficiari interessati, più nello specifico, i disoccupati svantaggiati, giovani e meno giovani.
Il pacchetto coordinato di servizi personalizzati può comprendere, in particolare:

  1. la formazione e la riqualificazione su misura anche per quanto riguarda le competenze nel campo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e la certificazione dell’esperienza acquisita, l’assistenza nella ricerca di un lavoro, l’orientamento professionale, i servizi di consulenza, il tutoraggio, l’assistenza al ricollocamento, la promozione dell’imprenditorialità, l’aiuto alle attività professionali autonome, alla creazione e al rilevamento di imprese da parte dei dipendenti nonché le attività di cooperazione;
  2. misure speciali di durata limitata, quali le indennità per la ricerca di un lavoro, gli incentivi all’assunzione destinati ai datori di lavoro, le indennità di mobilità, le indennità di soggiorno o di formazione (comprese le indennità di assistenza);
  3. misure volte a incentivare in particolare i disoccupati svantaggiati, giovani e meno giovani, a rimanere o ritornare nel mercato del lavoro.

A tal proposito, il Reg. (UE) n. 1309/2013 evidenzia che la progettazione del pacchetto coordinato di servizi personalizzati dovrebbe tener conto delle prospettive future del mercato del lavoro e delle competenze richieste e che il pacchetto in parola dovrebbe essere compatibile con il passaggio a un’economia sostenibile nonché efficiente sotto il profilo delle risorse.

Invece, l’art. 7, par. 2, Reg. (UE) n. 1309/2013 dichiara non ammissibili a un contributo finanziario a valere sul FEG:

  1. le misure speciali di durata limitata di cui all’art. 7, par. 1, lett. b), Reg. (UE) n. 1309/2013, che non sono condizionali alla partecipazione attiva dei beneficiari interessati ad attività di ricerca di lavoro e di formazione;
  2. le misure che rientrano nella sfera di responsabilità delle imprese in virtù del diritto nazionale o di contratti collettivi.

Inoltre, le azioni sostenute dal FEG non possono sostituire le misure passive di protezione sociale.
È interessante evidenziare come l’art. 7, par. 3, Reg. (UE) n. 1309/2013 valorizzi il rapporto con il partenariato, in perfetta coerenza con l’intera programmazione dei fondi SIE per il periodo 2014-2020, prevedendo che il pacchetto coordinato di servizi personalizzati debba essere elaborato in consultazione con i beneficiari interessati, i loro rappresentanti o le parti sociali.

Le domande di ammissione al contributo

Ai sensi dell’art. 8, par. 1, Reg. (UE) n. 1309/2013, lo Stato membro presenta la domanda di contributo alla Commissione entro dodici settimane dalla data in cui sono soddisfatti i criteri di intervento di cui all’art. 4, par. 1 o 2, Reg. (UE) n. 1309/2013, che, per essere considerata completa, deve contenere diversi elementi indicati in dettaglio nell’art. 8, par. 5, Reg. (UE) n. 1309/2013, tra i quali meritano una particolare attenzione:

  1.  un’analisi motivata del collegamento tra gli esuberi o la cessazione dell’attività e le trasformazioni rilevanti nella struttura del commercio mondiale od il grave deterioramento della situazione economica locale, regionale e nazionale in seguito alla globalizzazione o al persistere della crisi finanziaria ed economica globale oppure a una nuova crisi finanziaria ed economica globale;
  2. la conferma che l’impresa che ha proceduto al licenziamento, qualora le sue attività siano proseguite anche in seguito a tale provvedimento, abbia adempiuto agli obblighi di legge in materia di esuberi accordando ai propri lavoratori tutte le prestazioni previste;
  3. una descrizione del pacchetto coordinato di servizi personalizzati e delle relative spese, comprese in particolare le eventuali misure a sostegno delle iniziative per l’occupazione dei beneficiari svantaggiati, giovani e meno giovani; una spiegazione in merito alla complementarità del pacchetto di misure rispetto alle azioni finanziate da altri fondi nazionali o dell’Unione, nonché informazioni sulle iniziative che rivestono un carattere obbligatorio per le imprese interessate in virtù del diritto nazionale o di contratti collettivi;
  4. una stima dei costi per ciascuna delle componenti del pacchetto coordinato di servizi personalizzati;
  5. le date di avvio, effettive o previste, dei servizi personalizzati; le procedure seguite per la consultazione dei beneficiari interessati, dei loro rappresentanti o delle parti sociali nonché delle autorità locali e regionali o eventualmente di altre organizzazioni interessate;
  6. una dichiarazione di conformità dell’assistenza FEG richiesta alle norme procedurali e sostanziali dell’Unione in materia di aiuti di Stato, nonché una dichiarazione che spieghi i motivi per cui i servizi personalizzati non si sostituiscono alle misure che rientrano nella sfera di responsabilità delle imprese in virtù del diritto nazionale o di contratti collettivi.

La complementarità, la conformità ed il coordinamento

L’art. 9, par. 1, Reg. (UE) n. 1309/2013 specifica che i contributi finanziari a valere sul FEG non sostituiscono le azioni che rientrano nella sfera di responsabilità delle imprese in virtù del diritto nazionale o di contratti collettivi.
L’assistenza a favore dei beneficiari interessati integra le azioni realizzate dagli Stati membri a livello nazionale, regionale e locale, comprese quelle cofinanziate da fondi dell’Unione (cfr., art. 9, par. 2, Reg. (UE) n. 1309/2013), nel rispetto delle norme di diritto dello Stato membro e dell’Unione Europea, anche per quanto concerne le norme in materia di aiuti di Stato (cfr., art. 9, par. 3, Reg. (UE) n. 1309/2013).
A tal proposito, lo Stato membro che ha presentato la domanda garantisce che le azioni specifiche finanziate dal FEG non ricevano assistenza anche da altri strumenti finanziari dell’Unione, con particolare riferimento al Fondo Sociale Europeo (cfr., (cfr., art. 9, par. 5, Reg. (UE) n. 1309/2013).

La determinazione del contributo finanziario

L’art. 13 Reg. (UE) n. 1309/2013 prevede che il tasso di cofinanziamento del contributo FEG non possa superare il 60% del totale dei costi sostenuti.
Si ricorda che l’art. 12 Reg. (UE) n. 1311/2013 ha previsto il fatto che, nell’ambito del quadro finanziario pluriennale per il periodo 2014-2020, gli stanziamenti del FEG non debbano superare un importo massimo annuo di 150 milioni di Euro e che debbano essere iscritti nel bilancio generale dell’Unione Europea a titolo di stanziamento accantonato.

Il pagamento e l’utilizzo del contributo finanziario

Ai sensi dell’art. 16, par. 1, Reg. (UE) n. 1309/2013, il contributo finanziario allo Stato membro interessato viene versato, da parte della Commissione, in un unico pagamento di prefinanziamento pari al 100%.
Lo Stato membro realizza le azioni ammissibili il prima possibile e comunque entro 24 mesi dalla data di presentazione della domanda. Lo Stato membro può decidere di posticipare l’avvio delle azioni ammissibili per un massimo di tre mesi dalla data di presentazione della domanda. In tal caso, le azioni ammissibili sono attuate entro 24 mesi dalla data di avvio comunicata dallo Stato membro nella domanda (cfr., art. 16, par. 4, Reg. (UE) n. 1309/2013).

 

La relazione finale e la chiusura

L’art. 18, par. 1, Reg. (UE) n. 1309/2013 prevede che entro sei mesi dalla scadenza del termine di 24 mesi, lo Stato membro debba presentare alla Commissione una relazione finale sull’attuazione del contributo, contenente le seguenti informazioni:

  1. il tipo di azione e i principali risultati ottenuti;
  2. i nomi degli organismi responsabili dell’esecuzione del pacchetto di misure nello Stato membro;
  3. le caratteristiche dei beneficiari interessati ed il loro status occupazionale;
  4. l’eventualità che l’impresa, salvo che si tratti di microimpresa e PMI, abbia beneficiato di aiuti di Stato o di precedenti finanziamenti a valere sul Fondo di coesione o dei fondi strutturali dell’Unione nei cinque anni precedenti;
  5. una dichiarazione giustificativa delle spese indicante, ove possibile, la complementarità delle azioni con quelle finanziate dal Fondo sociale europeo (FSE).

Entro sei mesi dalla ricezione delle predette informazioni, la Commissione procede alla chiusura del contributo finanziario, determinandone l’importo finale ed eventualmente il saldo dovuto allo Stato membro interessato (cfr., art. 18, par. 2, Reg. (UE) n. 1309/2013).

Infine, l’art. 21 Reg. (UE) n. 1309/2013 sancisce la responsabilità dello Stato membro relativamente alla gestione delle azioni che beneficiano del sostegno FEG, unitamente al controllo finanziario di tali azioni. A tal fine, lo Stato membro deve garantire una valida collaborazione con la Commissione anche in materia di controlli in loco, i quali possono essere effettuati da quest’ultima sulle azioni finanziate, anche mediante selezioni a campione.

 

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Il 43,3% dei giovani italiani è disoccupato

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di Germano De Sanctis

Gli ultimi dati ISTAT relativi al mercato del lavoro nei primi tre mesi del 2014 hanno suscitato un’enorme preoccupazione. Infatti, tre milioni e mezzo di italiani sono in cerca di un’occupazione, portando il tasso di disoccupazione alla cifra record del 12,6% (peraltro, invariato rispetto al mese precedente, ma in aumento dello 0,6% nei dodici mesi). Inoltre, se ci limita ad analizzare il tasso di disoccupazione tra i giovani di età compresa tra i 15 ed i 24 anni, quest’ultimo dato raggiunge la percentuale drammatica del 43,3% (tra l’altro, in aumento dello 0,4% rispetto al mese precedente e del 4,5% su base annua).

Si tratta di una sequenza di dati negativi sul mercato del lavoro che non si era più registrata fin dal lontano 1977. Tra l’altro, il dato statistico è aggravato dal fatto che esso rileva una ancor più profonda spaccatura dell’andamento del mercato del lavoro tra l’Italia Settentrionale ed il Mezzogiorno. Infatti, i primi dati disponibili (anche se non ancora non ancora depurati dai giorni di mancato lavoro) fanno emergere il fatto che, nel primo trimestre dell’anno, a fronte di un tasso medio nazionale di disoccupazione giovanile pari (come visto) al 43,3% (cioè 739.000 giovani tra 15 e 24 anni che cercano lavoro), tale dato, se riferito soltanto al Mezzogiorno, si eleva fino al 60,9%.
Bisogna anche evidenziare che dal calcolo del tasso di disoccupazione sono esclusi i giovani inattivi, cioè coloro che non sono occupati e non cercano lavoro, ad esempio, perché impegnati negli studi. Attualmente, il numero di giovani inattivi è pari a 4.405.000, in aumento dello 0,3% nel confronto congiunturale (+14.000) e dello 0,2% su base annua (+11.000).
In particolare, il tasso d’inattività dei giovani tra 15 e 24 anni risulta attestarsi alla percentuale record del 73,6%, segnando una crescita dello 0,3% nell’ultimo mese e dello 0,7% nei dodici mesi.

Inoltre, si deve anche evidenziare che, ad aprile 2014, sono risultati occupati soltanto 898.000 giovani tra i 15 e i 24 anni, evidenziando un calo dell’1,8% rispetto al mese precedente (-16.000) e del 9,2% su base annua (-91.000).
Di conseguenza, il tasso di occupazione giovanile si è attestato al 15,0%, diminuendo dello 0,3% rispetto al mese precedente e dell’1,4% nei dodici mesi.
Il numero di giovani disoccupati, pari a 685.000, è in diminuzione dello 0,2% nell’ultimo mese, ma in aumento del 6,3% rispetto a dodici mesi prima (+41.000).
L’incidenza dei giovani disoccupati tra 15 e 24 anni sul totale dei giovani della stessa classe di età è pari all’11,4%. Tale incidenza risulta invariata nell’ultimo mese ed in aumento dello 0,8% rispetto allo scorso anno.

Si tratta di cifre allarmanti, che hanno sollevato un coro di dichiarazioni preoccupate da parte di tutte le organizzazioni sindacali e datoriali, anche alla luce dei recenti dati sulla debole crescita del nostro sistema produttivo.

Tale quadro è ulteriormente aggravato da fatto che la percentuale record del 43,3% (la quale interessa l’intera platea dei giovani italiani di età compresa tra i 15 ed i 24 anni) si affianca e, soltanto in parte, racchiude al suo interno i circa 2.000.000 di scoraggiati (i quali, ormai, non cercano neanche di trovare un’occupazione) ed i circa 2.442.000 NEET (cioè, i giovani di età compresa tra i 15 ed i 29 anni che non studiano, non lavorano e non fanno formazione, il cui dato statistico è in in crescita del 4,8% cento rispetto allo scorso anno).
In altri termini, il nostro mercato del lavoro è fermo e sarà importante capire, dall’esame prossime rilevazioni statistiche, se il Jobs Act sarà in grado di produrre effetti positivi sui flussi occupazionali.

Il tasso di disoccupazione giovanile al 43,43% rimane ugualmente preoccupante anche se lo si paragona con quello analogo di altri Stati membri dell’Unione Europea che hanno problemi occupazionali analoghi. Infatti, sebbene il nostro dato sulla disoccupazione giovanile sia migliore di quello registrato in Croazia, Grecia e Spagna, al contempo, bisogna evidenziare che, in tali Paesi, la disoccupazione giovanile è in calo, mentre in Italia continua inesorabilmente a crescere.

L’Unione Europea non può ignorare questa situazione di profonda difficoltà di un’intera generazione che dovrebbe essere la culla della futura classe dirigente del Vecchio Continente ed, invece, si trova relegata ai margini del mercato del lavoro, senza poter costruire un percorso professionale, capace di garantire, da un lato, un’adeguata gratificazione individuale, ma, dall’altro, fornire un’indispensabile iniezione di idee ed energie fresche, sempre più necessarie per garantire un modello di sviluppo competitivo per l’economia europea del XXI Secolo.

Tale preoccupazione è ulteriormente rafforzata dalla considerazione che il tasso disoccupazione giovanile ha una curva disomogenea tra i vari Stati membri. Infatti, bisogna riscontrare che, a fronte dei Paesi dell’area mediterranea (ad esempio, Italia, Spagna, Croazia e Grecia), ove la disoccupazione giovanile è particolarmente forte, vi sono territori dell’Europa continentale, dove il fenomeno è molto più circoscritto (ad esempio, Germania ed Austria), se non, addirittura, completamente assente (ad esempio, la Baviera).
Siamo di fronte ad una marcata disomogeneità nelle condizioni del mercato del lavoro all’interno dei singoli Paesi europei, che sta producendo un sempre più marcato dumping sociale, il quale, se non adeguatamente contrastato, minerà irrimediabilmente la coesione territoriale all’interno dell’Unione Europea, tradendo, in tal modo, una delle direttrici su cui di fonda l’istituzione comunitaria in questione.

Pertanto, l’Unione Europea ha l’obbligo di attivare politiche capaci di omogeneizzare e favorire le condizioni di accesso al mercato del lavoro riservate ai giovani, specialmente, con particolare riferimento a quegli Stati membri, come l’Italia, che, in passato avevano una parte dei loro territori (cioè, le Regioni dell’Italia settentrionale) capace di assicurare gli stessi tassi di occupazione giovanile delle zone più evolute d’Europa e che, oggi, hanno perso ogni capacità di promozione e tutela dell’occupazione giovanile. Si tratta della decadenza di territori che, in precedenza, partecipavano fattivamente allo sviluppo dell’intera economia continentale e che attualmente si sono ridotti ad essere bacini produttivi in sofferenza e bisognosi di sussidi occupazionali sempre più ingenti, con evidenti ricadute negative sull’andamento della spesa pubblica dei singoli Stati membri.

Attualmente, l’Unione Europea ha avviato il noto programma comunitario denominato “Garanzia Giovani”. Tuttavia, la Garanzia Giovani non può essere l’unica forma d’intervento posta in essere dalle istituzioni comunitarie per contrastare questo dilagante e preoccupante fenomeno che sta, come detto, minando alle basi l’Unione Europea stessa.
In primo luogo, la Garanzia Giovani ha una dotazione finanziaria modesta, essendo stati stanziati per tutti gli Stati membri circa 6 miliardi di Euro da spendere nell’arco di un biennio.
Inoltre, la Garanzia Giovani è un fondo strutturale e, come tale, ha notevoli costi amministrativi, rispetto al valore economico dei servizi erogati ai beneficiari (cioè i giovani e le imprese) e che incidono significativamente sulla dotazione finanziaria complessiva poc’anzi indicata, riducendo sensibilmente la quota di risorse da destinare esclusivamente alle azioni dirette.
A fronte di queste considerazioni di carattere generale, bisogna anche aggiungere la considerazione che l’Italia (intesa come sistema-Paese) non si è mai distinta (salvo le dovute, ma sporadiche, eccezioni) per la sua capacità di saper spendere efficacemente le risorse dei fondi strutturali comunitari, sia non spendendo tutte le risorse finanziarie assegnatele, sia disperdendole in una moltitudine di piccoli progetti, talvolta anche privi di qualsiasi coerenza sistemica con gli obiettivi di programmazione.

Per cominciare ad contrastare seriamente la disoccupazione giovanile in Europa bisogna, innanzi tutto, avere la consapevolezza dell’inutilità di ogni politica di coesione avente una dimensione esclusivamente nazionale.
Una prima opzione d’intervento comunitaria è rinvenibile nella risoluzione del noto problema della tassazione del lavoro, la quale risulta essere fortemente disomogenea, poiché ogni Stato membro gode di una sua regolamentazione tributaria in materia. Ad esempio, l’Italia è la Nazione europea con il più al tasso di imposizione fiscale sul lavoro (circa quattro volte superiore alla media comunitaria). Un sistema di tassazione sul lavoro omogeneo per tutti gli Stati membri permetterebbe ai giovani europei di godere di un’offerta di lavoro non condizionata da carichi fiscali disomogenei e permetterebbe una immediata armonizzazione delle politiche di coesione.
Analogamente le risorse comunitarie potrebbero essere utilizzate per armonizzare e facilitare l’accesso al credito a favore di tutte le imprese, con particolare riferimento alle quelle di piccole e medie dimensioni.

In estrema sintesi, per aiutare i giovani a trovare lavoro, bisogna intervenire con politiche strutturali comunitarie, capaci di favorire la creazione di posti di lavoro, piuttosto che sostenerne la mera ricerca, poiché nessuna ricerca di lavoro può avere esito positivo se non si sostiene l’economia continentale nell’incrementare la propria capacità produttiva e la propria redditività, con conseguente esigenza, da parte dei datori di lavoro, ad assumere nuove unità di personale giovane ed adeguatamente formato ed istruito.

 

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Tirocinio retribuito a Londra per neolaureati.

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L’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA – European Medicines Agency), con sede a Londra, offre tirocini retribuiti del valore di 1.350 sterline nette al mese (all’incirca 1.600 euro). L’Agenzia Europea per i Medicinali è un organo della UE con sede a Londra. Il suo compito principale è tutelare e promuovere la sanità pubblica e la salute mediante la valutazione e il controllo dei medicinali per uso umano e veterinario. L’Agenzia Europea per i Medicinali è l’agenzia comunitaria dell’Unione Europea che si occupa della valutazione e del controllo di medicinali umani e veterinari. L’Agenzia è stata fondata nel 1995 con i contributi dell’Unione Europea, dei singoli stati membri e dell’industria farmaceutica, con lo scopo di affiancare il lavoro delle organizzazioni nazionali che si occupano del mercato dei farmaci.
Gli obiettivi che l’Unione Europea si è prefissa con la fondazione dell’EMA sono essenzialmente due: da un lato, la riduzione delle spese burocratiche (si parla di cifre a sei zeri) che ogni anno le case farmaceutiche devono sostenere per l’approvazione dei farmaci nei singoli Stati membri, dall’altro, per ridurre il protezionismo dei singoli Stati volto ad ostacolare l’inserimento sul mercato di farmaci concorrenti ad altri già inseriti nel mercato interno.

EMA Traineeship Programme

Il programma di tirocinio si rivolge a laureati all’inizio della loro carriera professionale. I requisiti richiesti sono:
– essere cittadini EU/EEA;
– aver conseguito una laurea alla data di scadenza per l’invio delle domande;
– avere una buona conoscenza della lingua inglese più la conoscenza di una seconda lingua ufficiale dell’Unione Europea.

Oltre a dare una comprensione dei compiti dell’Agenzia e del suo ruolo nell’ambito delle attività dell’Unione Europea, il programma fornirà ai tirocinanti un’esperienza professionale in un ambiente di lavoro a tutti gli effetti, altamente qualificato e riconosciuto in tutta l’Area Economica Europea.
I profili ricercati sono di vario genere: dai laureati in discipline core per l’attività dell’EMA (medicina, farmacia, chimica, biologia, veterinaria), a giovani con laurea nel settore delle comunicazioni, in scienze dell’informazione, relazioni pubbliche, risorse umane, giurisprudenza, fino a laureati in materie umanistiche specializzati in biblioteconomia.

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Per proporre la propria candidatura è necessario compilare l’apposito modulo disponibile sulla pagina dedicata al programma tirocini ed inviarlo all’indirizzo di traineeship@ema.europa.eu entro e non oltre il 15 giugno 2014. Per coloro che verranno selezionati, il Programma avrà inizio il 1 ottobre.

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Pubblicato il Rapporto sullo stato di avanzamento del “Programma italiano sulla Garanzia per i Giovani 2014-2020”

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Ieri è stato pubblicato sul sito del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali il “Programma italiano sulla Garanzia per i Giovani 2014-2020”.

II Rapporto in questione fotografa lo stato di avanzamento del Piano alla data 14 febbraio 2014, confermando l’intenzione ministeriale di avviare il Programma Garanzia Giovani nel corso del primo trimestre di quest’anno, successivamente alla stipulazione dei dovuti accordi con le Regioni, nella loro qualità di soggetti responsabili dell’attuazione delle varie misure.

A tal fine, appare particolarmente rilevante l’introduzione di una nuova piattaforma tecnologica che, per la prima volta, collegherà tutti i Centri per l’Impiego e le altre strutture pubbliche e private per costruire un portale virtuale nazionale, in grado di migliorare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro.

Il Rapporto illustra in modo più ampio il Piano Italiano Garanzia Giovani, presentato nel mese di dicembre del 2013, alla Commissione Europea e da quest’ultima approvato nel corso dello scorso gennaio.

In particolare, il Rapporto esamina gli aspetti più squisitamente operativi e si sofferma sullo stato di attuazione di molte misure che configurano questo Programma come un’ampia riforma strutturale del funzionamento del mercato del lavoro italiano, alla quale sono chiamate a partecipare le istituzioni responsabili dell’attuazione (Stato, Regioni, Province) e tutte le componenti della società italiana (imprese e organizzazioni sindacali, associazioni giovanili e del non profit, etc.).

La Struttura di Missione, istituita a giugno 2013 dal D.L. n. 76/2013 presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, ha coinvolto nella progettazione del Piano tutti gli attori interessati: Regioni, Province, Miur, Mise, Mef, Dipartimento della Gioventù, Unioncamere, Isfol, Italia Lavoro, Inps. Al contempo, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha avviato un dialogo e un confronto attivo con la società civile, incontrando quasi 60 associazioni, le cui proposte sono state recepite nel Piano, così da creare un’ampia mobilitazione per rispondere pienamente allo spirito della Raccomandazione del Consiglio europeo sulla Garanzia Giovani.

Il Rapporto sullo stato di avanzamento del “Programma italiano sulla Garanzia per i Giovani 2014-2020” è scaricabile al seguente indirizzo: http://www.lavoro.gov.it/AreaComunicazione/comunicati/PublishingImages/Pages/2014_2_15GG/14-2-2014-RAPPORTO%20GG_ITdef.pdf

Germano De Sanctis