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La Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima la “Riforma Madia” nella parte in cui prevede il parere della Conferenza Stato-Regioni e non l’intesa

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di Germano De Sanctis

Con la sentenza n. 251 depositata il 25 novembre 2016, la Corte Costituzionale ha dichiarato la illegittimità costituzionale di alcune norme della Legge delega, 7 agosto 2015 n. 124 (meglio nota come “Riforma Madia”) avente ad ad oggetto la riforma della Pubblica Amministrazione

Nello specifico, gli articoli della Legge n. 124/2015 oggetto del vaglio di legittimità costituzionale sono stati i seguenti:

  • art. 1, comma 1, lett. b), c) e g);

  • art. 1, comma 2;

  • art. 11, comma 1, lett. a), b), n. 2, c), nn. 1 e 2), e), f), g), h), i), l), m), n), o), p) e q);

  • art. 11, comma 2,;

  • art. 16, comma 1;

  • art. 16, comma 4;

  • art. 17, comma 1, lett. a), b), c), d), e), f), l), m), o), q), r), s) e t);

  • art. 18, lett. a), b), c), e), i), l) e m), nn. da 1 a 7;

  • art. 19, lett. b), c), d), g), h), l), m), n), o), p), s), t) e u);

  • art. 23, comma 1.

In estrema sintesi, il giudizio di illegittimità costituzionale interessa quella parte della Legge 124/2015 in cui è stato previsto che l’attuazione della stessa attraverso appositi decreti legislativi, possa avvenire a seguito di un semplice parere della Conferenza Stato-Regioni o Unificata. Invece, secondo la Consulta, la quale si è pronunciata a seguito di un ricorso della Regione Veneto, è necessaria una previa intesa.

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Entrando nel dettaglio, le norme impugnate hanno ad oggetto la delega al Governo ad adottare una serie di decreti legislativi per il riordino di numerosi settori delle Pubbliche Amministrazioni, comprese quelle regionali e degli enti locali.

Tali decreti legislativi interessano:

  • la cittadinanza digitale (art.1);

  • la dirigenza pubblica (art, 11);

  • il conferimento degli incarichi di direttore generale, di direttore amministrativo e di direttore sanitario delle Aziende UU.SS.LL. (art. 11);

  • il lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni (art. 17);

  • le partecipazioni azionarie delle Pubbliche Amministrazioni (art. 18);

  • i servizi pubblici locali di interesse economico generale (art. 19).

Come si vede, si stratta di diverse materie che vedono coinvolti, in una prospettiva unitaria, interessi e competenze, sia statali, che regionali (ed, in alcuni casi, anche degli enti locali).

Per tale ragione, la Corte costituzionale ha affermato che, in primo luogo, necessita verificare se, nei singoli settori in cui intervengono le norme impugnate, vi siano alcune materie rispetto alle quali risulti evidente la competenza prevalente dello Stato. Siffatta prevalenza escluderebbe la violazione delle competenze regionali.

Qualora non fosse possibile individuare una materia di competenza dello Stato cui ricondurre, in via prevalente, la normativa impugnata, poiché sussiste una concorrenza di competenze, statali e regionali, relative a materie legate in un intreccio inestricabile, il legislatore statale deve necessariamente rispettare il principio di leale collaborazione e prevedere adeguati strumenti di coinvolgimento delle Regioni (e degli enti locali), a difesa delle loro competenze.

Tale impostazione ermeneutica era già stata evidenziata in precedenti occasioni da parte della Consulta. Infatti, la Corte Costituzionale ha più volte evidenziato che il legislatore statale deve vincolare l’attuazione della propria normativa al raggiungimento di un’intesa, basata sulla reiterazione delle trattative al fine del raggiungimento di un esito consensuale, nella sede della Conferenza Stato-Regioni o della Conferenza unificata, a seconda che siano in discussione solo interessi e competenze statali e regionali o anche degli enti locali.

Si tiene a precisare che la costante giurisprudenza della Corte Costituzionale qualifica le Conferenze come le sedi più qualificate per realizzare la leale collaborazione e, in particolare, per consentire alle Regioni di svolgere un ruolo costruttivo nella determinazione del contenuto di atti legislativi statali che incidono su materie di competenza regionale.

In coerenza con tale filone giurisprudenziale, la Corte Cost. n. 251/2016 ha affermato che l’intesa nella Conferenza è un necessario passaggio procedurale anche qualora la normativa statale debba essere attuata con decreti legislativi delegati adottati dal Governo nel rispetto dell’art. 76 Cost. Infatti, questi decreti legislativi delegati sono sottoposti a limiti temporali e qualitativi e condizionati a tutte le indicazioni contenute nella Costituzione e nella legge delega. Pertanto, essi non possono sottrarsi alla procedura concertativa appositamente prevista per garantire il pieno rispetto del riparto costituzionale delle competenze.

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In virtù di siffatto ragionamento ermeneutico, la Corte Costituzionale ha respinto i gravami di legittimità costituzionale proposti dalla Regione Veneto nei confronti delle norme recanti la delega a modificare e integrare il D.Lgs., 7 marzo 2005, n. 82, meglio noto come Codice dell’Amministrazione Digitale (cfr., art. 1, Legge n. 124/2015). Infatti, queste norme costituiscono un’espressione, in maniera prevalente, della competenza statale in tema di coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’Amministrazione statale, regionale e locale (cfr., art. 117, comma 2, lett. r), Cost.), poiché esse garantiscono una comunanza di linguaggi, di procedure e di standard omogenei, necessaria per rendere possibile la comunicabilità tra i sistemi informatici della Pubblica Amministrazione (cfr., in tal senso, Corte Cost. n. 17/2004), nell’ottica della piena realizzazione dell’Agenda Digitale Italiana, a sua volta, rispettosa delle indicazioni provenienti dall’Unione Europea.

Per di più, tali norme assolvono anche all’esigenza primaria di offrire ai cittadini garanzie uniformi su tutto il territorio nazionale nell’accesso ai dati personali, come pure ai servizi. Si tratta evidentemente di una esigenza riconducibile alla competenza statale in materia di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni dei diritti civili e sociali (cfr., art. 117, comma 2, lett. m), Cost.).

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Invece, per quanto concerne le norme contenenti la delega al Governo in materia riorganizzazione della dirigenza pubblica (cfr., art. 11, Legge n. 124/2015), la Corte costituzionale ha riscontrato un chiaro ed inestricabile concorso di competenze statali e regionali, tale impedire che le une fossero prevalenti sulle altre.

Quest’ultima considerazione è apparsa particolarmente pregnante in relazione all’istituzione del ruolo unico dei dirigenti regionali e alla definizione, da un lato, dei requisiti di accesso, delle procedure di reclutamento, delle modalità di conferimento degli incarichi, nonché della durata e della revoca degli stessi (aspetti inerenti all’organizzazione amministrativa regionale, di chiara competenza regionale), dall’altro, di regole unitarie inerenti al trattamento economico ed al regime di responsabilità dei dirigenti (aspetti inerenti al rapporto di lavoro privatizzato e, quindi, sicuramente riconducibili alla materia dell’ordinamento civile, di competenza statale).

Pertanto, la Corte Costituzionale ha dovuto dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 11 Legge n. 124/2015, nella parte in cui, incidendo su materie di competenza sia statale, che regionale, prevede che i decreti attuativi siano adottati sulla base di una forma di raccordo con le Regioni, che non è l’intesa, ma il semplice parere, che, come è noto, non garantisce un confronto autentico con le autonomie regionali.

Anche la sede individuata dalle norme impugnate risulta non essere idonea, in quanto le norme impugnate interessano sfere di competenza esclusivamente statali e regionali. Infatti, l’unico luogo idoneo per l’intesa è la Conferenza Stato-Regioni e non la Conferenza unificata.

Anche le norme contenenti le deleghe al Governo per il riordino della disciplina vigente in tema di lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni, nonché di partecipazioni azionarie delle Pubbliche Amministrazioni e di servizi pubblici locali di interesse economico generale interessano una pluralità di materie e di interessi, ineludibilmente connessi e riconducibili, sia a competenze statali (ordinamento civile, tutela della concorrenza, principi di coordinamento della finanza pubblica), che regionali (organizzazione amministrativa regionale, servizi pubblici locali e trasporto pubblico locale).

Pertanto, la Corte Cost. n. 251/2016 ha dovuto dichiarare l’illegittimità costituzionale di tali norme nella parte in cui, incidendo su materie di competenza sia statale sia regionale, è stato previsto che i decreti legislativi attuativi siano adottati sulla base di una forma di raccordo con le Regioni, che non è quella dell’intesa, ma quella del semplice parere, la quale, come detto, non è idonea a realizzare un confronto autentico con le autonomie regionali.

Anche in tal caso, la previa intesa deve essere raggiunta in sede di Conferenza Stato-Regioni per l’adozione delle norme attuative della delega in tema di riordino della disciplina del lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni, in quanto sono in gioco interessi che coinvolgono lo Stato e le Regioni, mentre in sede di Conferenza Unificata sono coinvolti anche gli interessi degli enti locali.

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Infine, si tiene a precisare che la Corte Costituzionale ha circoscritto il giudizio di legittimità solo alle disposizioni di delega specificamente impugnate dalla Regione Veneto, lasciando fuori le norme attuative. Si ricorda che le pronunce di illegittimità costituzionale colpiscono le disposizioni impugnate solo nella parte in cui prevedono che i decreti legislativi siano adottati previo parere e non previa intesa.

Ne consegue che eventuali impugnazioni delle norme attuative dovranno tenere necessariamente conto delle concrete lesioni delle competenze regionali, alla luce delle soluzioni correttive che il Governo, esercitando il suo potere discrezionale, riterrà opportuno adottare in ossequio al principio di leale collaborazione.

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La presunta sospensione della dematerializzazione dei documenti delle Pubbliche Amministrazioni

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di Germano De Sanctis

È opinione diffusa che il legislatore abbia disposto una sospensione a favore delle Pubbliche Amministrazioni delle regole tecniche sulla formazione dei documenti informatici. In realtà, l’attenta lettura del dato normativo delinea un quadro fattuale molto diverso.

Lo scorso 13 settembre 2016 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il D.Lgs. 26 agosto 2016, n. 179 che ha apportato alcune modifiche al D.Lgs. n. 82/20005, meglio noto come Codice dell’Amministrazione Digitale (C.A.D.).

In particolare, tale novella legislativa prevede la sospensione dell’efficacia del D.P.C.M. 13 novembre 2014 per un tempo congruo all’emanazione di nuove regole tecniche in materia di formazione, trasmissione, copia, duplicazione, riproduzione e validazione temporale dei documenti informatici pienamente conformi alle disposizioni del Codice. In altri termini, si è in presenza di una parziale sospensione a breve termine di parte delle regole tecniche e solo a favore delle Pubbliche Amministrazioni che decidano di avvalersene. Fatta questa debita premessa, passiamo ad esaminare nel dettaglio il dato normativo.

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In primo luogo, chiariamo la situazione. L’obbligo di dematerializzare i documenti delle Pubbliche Amministrazioni risale a ben undici ani fa, quando entrò in vigore il D.Lgs. n. 82/2005. Tuttavia, le Pubbliche Amministrazioni sono state messe nelle condizioni di rispettare tale obbligo solo a seguito dell’approvazione del D.P.C.M. 13 novembre 2014, contenente le Regole Tecniche del Codice dell’Amministrazione Digitale. Nello specifico, l’art. 17, comma 2, D.P.C.M. 13 novembre 2014 prevede che le Pubbliche Amministrazioni devono formare gli originali dei propri documenti con mezzi informatici secondo le disposizioni contenute nel D.Lgs. n. 82/2005, con particolare riferimento alle regole tecniche di cui all’art. 71 D.Lgs. n. 82/2005. In altri termini, tali riferimenti normativi contengono le caratteristiche fondamentali per considerare legale un documento informatico redatto da una Pubblica Amministrazione, o da consegnare ad una Pubblica Amministrazione.

In attuazione dell’art. 17, comma 2, D.P.C.M. 13 novembre 2014, a far data dal 12 agosto 2016, le Pubbliche Amministrazioni devono procedere alla dematerializzazione dei loro documenti amministrativi. Come vedremo, non esiste alcuna certezza circa la tempistica della presunta sospensione di tale obbligo, né, tanto meno, che esso sia stato oggetto di rinvio.

Infatti, l’art. 61, comma 1, D.Lgs. n. 179/2016 dispone che, con decreto del Ministro della Semplificazione e la Pubblica Amministrazione da adottare entro quattro mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto (avvenuta 14 settembre 2016), sono aggiornate e coordinate le regole tecniche previste dall’art. 71 D.Lgs. n. 82/2015. Le regole tecniche vigenti nelle materie del D.Lgs. n. 82/2005 restano efficaci fino all’adozione del decreto in questione.

Inoltre, sempre fino all’adozione del suddetto decreto ministeriale, l’obbligo per le Pubbliche Amministrazioni di adeguare i propri sistemi di gestione informatica dei documenti, di cui all’art. 17 D.P.C.M. 13 novembre 2014, è sospeso, salva la facoltà per le Pubbliche Amministrazioni medesime di adeguarsi anteriormente.

Ne consegue che tutte le regole tecniche attualmente in vigore devono essere aggiornate entro quattro mesi decorrenti dal 14 settembre 2016. Tuttavia, si deve precisare che tale termine sembrerebbe avere natura meramente ordinatoria, sia perché non sono previste conseguenze per il suo mancato rispetto, sia anche perché appare molto difficile regolamentare una normativa così complessa in un lasso di tempo veramente ridotto.

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Pertanto, nell’attesa che venga emanato il decreto in questione contenente tutte le regole tecniche previste dall’art. 71 D.Lgs. n. 82/2005, restano efficaci e vincolanti per le Pubbliche Amministrazioni le regole preesistenti, nel rispetto delle quali si devono formare, gestire e conservare i documenti amministrativi in modalità esclusivamente digitale.

Per quanto concerne i contenuti della citata modalità digitale, l’art. 23-ter D.Lgs. n. 82/2005 ha chiarito che gli atti formati dalle Pubbliche Amministrazioni con strumenti informatici, nonché i dati e i documenti informatici detenuti dalle stesse, costituiscono informazione primaria ed originale da cui è possibile effettuare, su diversi tipi di supporto, duplicazioni e copie per gli usi consentiti dalla legge. Inoltre, l’art. 41 D.Lgs. n. 82/2005 ha previsto che le Pubbliche Amministrazioni debbano:

  • formare, senza alcuna eccezione, gli originali dei propri documenti e registri con mezzi informatici secondo le disposizioni del D.Lgs. n. 82/2005 e delle regole tecniche in vigore;

  • gestire i procedimenti amministrativi utilizzando le tecnologie dell’informazione e della comunicazione.

Anche la lettura degli artt. 3, 3-bis e 5-bis, D.Lgs. n. 82/2005 conferma l’immediata vigenza dell’obbligo di dematerializzare i propri documenti da parte delle Pubbliche Amministrazioni. Infatti, tali norme prevedono che, sia i cittadini, che le imprese devono hanno il diritto di comunicare in modalità digitale con le Pubbliche Amministrazioni e che, di conseguenza, le Pubbliche Amministrazioni hanno il preciso obbligo di accettare la presentazione di istanze e dichiarazioni in modalità digitale, nonché di formare i propri documenti come originali esclusivamente informatici.

Orbene, tornando all’esame dell’art. 61, D.Lgs. n. 179/2016, esso specifica che fino all’adozione del citato emanando decreto ministeriale contenente le regole tecniche, l’obbligo in capo alle Pubbliche Amministrazioni di adeguare i propri sistemi di gestione informatica dei documenti, ex art. 17 D.P.C.M. 13 novembre 2014, è sospeso, fatta salva la facoltà in capo alle Pubbliche Amministrazioni medesime di adeguarsi anteriormente.

Ricordiamo che l’art. 17 D.P.C.M. 13 novembre 2014 prevede che la sua entrata in vigore decorsi trenta giorni decorrenti dalla data della sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana. Le Pubbliche Amministrazioni devono adeguare i propri sistemi di gestione informatica dei documenti entro diciotto mesi dalla sua entrata in vigore, cioè entro il 12 agosto 2016 e che, fino al completamento di siffatto processo, si possono applicare le previgenti regole tecniche (anche se, in precedenza, non sono mai state rilasciate altre regole tecniche formazione dei documenti informatici). Fatta questa premessa, l’art. 17 D.P.C.M. 13 novembre 2014 prevede che, decorso tale termine, si applicano le attuali regole tecniche.

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Giunti a questo punto, viene da chiedersi come si sia generata la convinzione diffusa che sia entrata in vigore una sospensione. Infatti, esaminando il dato letterale dell’art. 61, comma 1, D.Lgs. n. 179/2016 emergerebbe la sospensione soltanto dei sistemi di gestione documentale delle Pubbliche Amministrazioni e non anche della fase della formazione dei documenti.

Tale conclusione appare logica se si tiene conto che, ragionando “a contrario”, non troverebbero più applicazione tutti gli altri principi contenuti nel D.Lgs. n. 82/2005 e nel D.P.C.M. 13 novembre 2014, concernenti la fase attuativa della dematerializzazione dei documenti amministrativi (cioè, l’avvio delle istanze on line, la gestione documentale, l’archiviazione, la conservazione etc.), con la conseguenza che risulterebbero inattuabili tutte le regole sulla formazione dei documenti informatici, i quali costituiscono il presupposto dell’attività amministrativa informatica.

Si potrebbe ritenere che la sospensione riguardi soltanto gli obblighi di fascicolazione informatica da parte delle Pubbliche Amministrazioni. Tuttavia, anche questa interpretazione non è esente da critiche, poiché la sospensione delle regole tecniche di cui al D.P.C.M. 13 novembre 2013 contrasterebbe con l’art. 43, comma 1-bis, D.Lgs. n. 82/2005, secondo il quale se il documento informatico è conservato per legge dalle Pubbliche Amministrazioni ex art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 165/2001 (cfr., art. 2, comma 2, D.Lgs. n. 82/2005) cessa l’obbligo di conservazione a carico dei cittadini e delle imprese che possono, in ogni momento, richiedere l’accesso al documento stesso. Infatti, sembrerebbe assurdo prevedere una norma che impone alle Pubbliche Amministrazioni di conservare i documenti informatici, garantendo il diritto di accesso ai cittadini e alle imprese ed, al contempo, sospendere gli obblighi di fascicolazione informatica di tali documenti. Infatti, se la Pubblica Amministrazione non crea e conserva il fascicolo informatico relativo ad un procedimento, il cittadino è impossibilitato ad effettuare un accesso digitale ai documenti che gli interessano.

In estrema sintesi, non è intervenuta alcuna una reale sospensione delle regole tecniche, anche se si è diffusa questa opinione.

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Le norme della Legge di Stabilità 2016 sulla erogazione dei servizi sanitari nel rispetto delle disposizioni dell’Unione europea in materia di orario di lavoro

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di Germano De Sanctis

Premessa

Come è noto, a far data dal 25.11.2015, in virtù dell’art. 14, comma 1, Legge n. 161/2014, la normativa italiana in materia di orario di lavoro dei medici e dirigenti sanitari si è ufficialmente riallineata alla normativa europea vigente.

Tale norma ha obbligato le PP.AA. a garantire in modo diretto ed immediato i seguenti obblighi normativi nella gestione dell’orario di lavoro della dirigenza medica:

  • il rispetto del limite massimo di lavoro giornaliero pari a 12 ore e 50 minuti di lavoro giornaliero;

  • il rispetto del limite massimo di orario di lavoro settimanale pari a 48 ore di durata media, compreso il lavoro straordinario;

  • il rispetto del limite minimo di riposo giornaliero pari a 11 ore continuative nell’arco dell’intera giornata.

Nello specifico, l’art. 14, comma 1, Legge, n. 161/2014, abrogando l’art. 41, comma 13, D.L. n. 112/2008 (conv. dalla Legge n. 133/2008), ha soppresso l’espressa previsione legislativa che consentiva alla contrattazione collettiva di gestire il regime derogatorio delle disposizione ex art. 7 D.Lgs. n. 66/2003, con il solo limite di assicurare modalità e condizioni di lavoro idonee a garantire un pieno recupero delle energie psico-fisiche.

In coerenza con tale previsione abrogatrice, l’art. 14, comma 2, Legge n. 161/2014 dispone che, per fare fronte alle esigenze derivanti dalle disposizioni di cui all’art. 14, comma 1, Legge n. 161/2014, le Regioni e le Province Autonome di Trento e di Bolzano devono garantire la continuità nell’erogazione dei servizi sanitari e l’ottimale funzionamento delle strutture, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, attraverso una più efficiente allocazione delle risorse umane disponibili sulla base della legislazione vigente, attuata attivando appositi processi di riorganizzazione e razionalizzazione delle strutture e dei servizi dei propri enti sanitari.

Peraltro, l’art. 14, comma 3, Legge n. 161/2014 prevede che, nel rispetto di quanto previsto dall’art. 17, D.Lgs., n. 66/2003, al fine di garantire la continuità nell’erogazione dei LEA, i contratti collettivi nazionali di lavoro del comparto sanità devono disciplinare le deroghe alle disposizioni in materia di riposo giornaliero del personale del S.S.N. preposto ai servizi relativi all’accettazione, al trattamento e alle cure, prevedendo anche equivalenti periodi di riposo compensativo, immediatamente successivi al periodo di lavoro da compensare, ovvero, in casi eccezionali in cui la concessione di tali periodi equivalenti di riposo compensativo non sia possibile per ragioni oggettive, adeguate misure di protezione del personale stesso.

Il medesimo art. 14, comma 3, Legge n. 161/2014 stabilisce, altresì, che, nelle more del rinnovo dei contratti collettivi vigenti, le disposizioni contrattuali in materia di durata settimanale dell’orario di lavoro e di riposo giornaliero, attuative degli abrogati art. 41, comma 13, D.L. n. 112/2008 (convertito dalla Legge, n. 133/2008) e art. 17, comma 6-bis, D.Lgs. n. 66/2003, cessano di avere applicazione a decorrere dal 25.11.2015.

Tale nuovo assetto normativo impone alle Direzioni delle Aziende U.S.L. di:

  • modificare immediatamente modificare l’organizzazione del lavoro di ciascun reparto e/o servizio;

  • riformulare, se necessario, gli obiettivi aziendali, al fine di renderli raggiungibili alla luce delle disposizioni in materia di orario di lavoro contenute nel D.Lgs. 66/2003.

In caso di mancato rispetto delle disposizioni previste dal D.Lgs. n. 66/2003, saranno irrogate le sanzioni amministrative pecuniarie previste dal decreto legislativo medesimo.

Il rispetto di tali previsioni legislative ha creato non pochi problemi operativi alle PP.AA. interessate.

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La Legge 28.12.2015, n. 208 (c.d. Legge di Stabilità 2016)

A fronte di tale quadro normativo, è intervenuto l’art. 1, commi da 541 a 544 Legge 28.12.2015, n. 208 (c.d. Legge di Stabilità 2016), con l’intento di fornire una soluzione normativa alle difficoltà poc’anzi indicate.

Esaminiamo le norme appena introdotte nel dettaglio.

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Art. 1, comma 541, Legge n. 208/2015

Nell’ambito della cornice finanziaria programmata per il S.S.N. e in relazione alle misure di accrescimento dell’efficienza del settore sanitario previste dall’art. 1, commi da 521 a 552, Legge n. 208/2015 e alle misure di prevenzione e gestione del rischio sanitario di cui all’art. 1, commi da 538 a 540, Legge n. 208/2015, al fine di assicurare la continuità nella erogazione dei servizi sanitari, nel rispetto delle disposizioni dell’Unione europea in materia di articolazione dell’orario di lavoro, le Regioni e le Province Autonome:

  • ove non abbiano ancora adempiuto a quanto previsto dall’art. 1, comma 2, D.M., n. 70/2015, adottano un provvedimento generale di programmazione di riduzione della dotazione dei posti letto ospedalieri accreditati ed effettivamente a carico del S.S.R., nonché i relativi provvedimenti attuativi. Le Regioni sottoposte ai piani di rientro, nel rispetto dell’art. 1, comma 4, D.M. n. 70/2015, devono adottare i relativi provvedimenti nel rispetto dei tempi e delle modalità operative definiti nei programmi operativi di prosecuzione dei piani di rientro (cfr., art. 1, comma 541, lett. a), Legge n. 208/2015);

  • predispongono un piano concernente il fabbisogno di personale, contenente l’esposizione delle modalità organizzative del personale, tale da garantire il rispetto delle disposizioni dell’Unione Europea in materia di articolazione dell’orario di lavoro attraverso una più efficiente allocazione delle risorse umane disponibili, in coerenza con quanto disposto dall’art. 14, Legge n. 161/2014 (cfr., art. 1, comma 541, lett. b), Legge n. 208/2015);

  • trasmettono entro il 29.02.2016 i provvedimenti di cui all’art. 1, comma 541, lett. a) e b), Legge n. 208/2015 al Tavolo di verifica degli adempimenti e al Comitato permanente per la verifica dell’erogazione dei LEA, nonché al Tavolo per il monitoraggio dell’attuazione del regolamento di cui al D.M. n. 70/2015. Il Tavolo di verifica degli adempimenti e il Comitato permanente per la verifica dell’erogazione dei LEA valutano congiuntamente, entro il 31.03.2016, i provvedimenti di cui all’art. 1, comma 541, lett. a) e b), Legge n. 208/2015 (cfr., art. 1, comma 541, lett. c), Legge n. 208/2015);

  • ferme restando le disposizioni vigenti in materia di contenimento del costo del personale e quelle in materia di piani di rientro, se sulla base del piano del fabbisogno del personale emergono criticità, si applica l’art. 1, commi 543 e 544, Legge n. 208/2015 (cfr., art. 1, comma 541, lett. d), Legge n. 208/2015).

 

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Art. 1, comma 542, Legge n. 208/2015

Nelle more della predisposizione e della verifica dei piani di cui all’art. 1 comma 541, lett. b), Legge n. 208/2015, nel periodo intercorrente dal 01.01.2016 al 31.07.2016, le Regioni e le Province Autonome, previa attuazione delle modalità organizzative del personale al fine di garantire il rispetto delle disposizioni dell’Unione Europea in materia di articolazione dell’orario di lavoro, qualora si evidenzino criticità nell’erogazione dei livelli essenziali di assistenza, possono ricorrere, in deroga a quanto previsto dall’art. 9, comma 28, D.L. n. 78/2010 (conv. dalla Legge n. 122/2010), a forme di lavoro flessibile, nel rispetto delle disposizioni vigenti in materia sanitaria, ivi comprese quelle relative al contenimento del costo del personale e in materia di piani di rientro.

Se al termine del medesimo periodo temporale permangono le predette condizioni di criticità, tali contratti di lavoro possono essere prorogati fino al termine massimo del 31.10.2016.

Ovviamente, deve essere data tempestiva comunicazione ai Ministeri della Salute e dell’Economia e delle Finanze del ricorso a tali forme di lavoro flessibile, nel rispetto delle disposizioni vigenti in materia sanitaria, ivi comprese quelle relative al contenimento del costo del personale e in materia di piani di rientro.

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Art. 1, comma 543, Legge n. 208/2015

In deroga a quanto previsto dal D.P.C.M. 06.03.2015 e in attuazione dell’art. 4, comma 10, D.L. n. 101/2013 (conv. dalla Legge n. 125/2013), gli enti del S.S.N. possono indire, entro il 31.12.2016, e concludere, entro il 31.12.2017, procedure concorsuali straordinarie per l’assunzione di:

  • personale medico;

  • personale tecnico-professionale;

  • personale infermieristico.

Deve risultare che tale personale è necessario per a far fronte alle eventuali esigenze assunzionali emerse in relazione alle valutazioni operate sul piano di fabbisogno del personale, secondo quanto previsto dall’art. 1, comma 541, Legge n. 208/2015.

Nell’ambito di tali procedure concorsuali, gli enti del S.S.N. possono riservare i posti disponibili, nella misura massima del 50%, al personale medico, tecnico-professionale e infermieristico:

  • in servizio alla data di entrata in vigore della Legge n. 208/2015;

  • che abbia maturato, alla data di pubblicazione del bando, almeno tre anni di servizio, anche non continuativi, negli ultimi cinque anni con i medesimi enti con:

    • contratti a tempo determinato;

    • contratti di collaborazione coordinata e continuativa;

    • altre forme di rapporto di lavoro flessibile.

Nelle more della conclusione delle medesime procedure, gli enti del S.S.N. continuano ad avvalersi del personale contrattualizzato in forma flessibile, anche in deroga ai limiti di cui all’art. 9, comma 28, D.L. n. 78/2010 (conv. dalla Legge n. 122/2010). In relazione a tale deroga, gli enti del S.S.N., oltre alla prosecuzione dei rapporti di lavoro flessibile già in essere, sono autorizzati a stipulare anche nuovi contratti di lavoro flessibile esclusivamente ai sensi dell’art. 1, comma 542, Legge n. 208/2015, fino al termine massimo del 31.10.2016.

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Art. 1, comma 544, Legge n. 208/2015

Per il biennio 2016-2017, le previsioni di cui all’art. 1 comma 543, Legge n. 208/2015, sono attuate nel rispetto della cornice finanziaria programmata e delle seguenti disposizioni:

  • art. 2, comma 71, Legge n. 191/2009, in virtù del quale le spese del personale, al lordo degli oneri riflessi a carico delle PP.AA. e dell’IRAP, non devono superare il corrispondente ammontare dell’anno 2004 diminuito dell’1,4 per cento;

  • art. 17, comma 3, D.L. n. 98/2011 (conv. dalla Legge n. 111/2011), secondo il quale le disposizioni di cui all’art. 2, commi 71 e 72, Legge, n. 191/2009 si applicano, ogni anno, fino al 2020;

  • art. 17, comma 3-bis D.L. n. 98/2011 (conv. dalla Legge n. 111/2011), il quale dispone che la verifica dell’effettivo conseguimento degli obiettivi di cui all’art. 17 comma 3, D.L. n. 98/2011 viene svolta con le modalità previste dall’art. 2, comma 73, Legge n. 191/2009. La Regione è giudicata adempiente, ove sia accertato l’effettivo conseguimento di tali obiettivi. In caso contrario, per gli anni dal 2013 al 2019, la Regione è considerata adempiente, ove abbia raggiunto l’equilibrio economico e abbia attuato, negli anni dal 2015 al 2019, un percorso di graduale riduzione della spesa di personale fino al totale conseguimento nell’anno 2020 degli obiettivi previsti all’art. 2, commi 71 e 72, Legge n. 191/2009;

  • art. 17, comma 3-ter, D.L. n. 98/2011 (conv. dalla Legge n. 111/2011), in virtù del quale le Regioni sottoposte ai piani di rientro dai deficit sanitari o ai programmi operativi di prosecuzione dei predetti pianirestano comunque fermi gli specifici obiettivi ivi previsti in materia di personale;

  • i piani di rientro previsti per le Regioni a loro sottoposte, i quali impongono specifici obiettivi in materia, da ritenersi comunque vincolanti, anche a fronte delle citate norme di rango nazionale.

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EVASIONE: LA CRISI NON BASTA A GIUSTIFICARE LO STATO DI NECESSITÀ.

Se solo qualche mese fa, la terza Sezione penale della Suprema Corte di Cassazione (sent. n. 40394 del 30 settembre 2014) aveva annullato la condanna di un imprenditore catanese per il mancato versamento dell’Iva rimandando tutto all’Appello, ora, sempre per la Terza Sezione, l’imprenditore deve pagare le tasse, anche nel caso in cui vanti crediti dallo Stato. Anche di fronte all’evenienza in cui questi abbia onorato i crediti vantati nei suoi confronti dal personale dipendente.

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Negli ultimi anni abbiamo assistito allo sviluppo di un filone interpretativo di natura giurisprudenziale, ad opera dei giudici di merito e ancor di più della Cassazione, in base al quale nel giudizio di evasione perpetrata da un imprenditore andasse valutata la specifica situazione che porta il soggetto ad evadere. Spesso, infatti, sempre più spesso, anzi, ricorre l’ipotesi in cui l’imprenditore pur sapendo di dover pagare, non lo fa perchè materialmente obbligato a scegliere tra gli stipendi dei propri dipendenti e il fisco. A mancare, secondo quest’orientamento, sarebbe quello che, per la teoria generale del reato, è l’elemento psicologico del reato, vale a dire l’elemento soggettivo. Il processo penale, infatti, impone di valutare e provare la volontarietà della commissione del delitto (o dell’omissione come in questo caso), volontarietà che evidentemente finora, in questa particolare fattispecie, per il giudice non sussisteva a causa della crisi finanziaria, per cui l’imprenditore si trovava in difficoltà anche in conseguenza di condotte di terzi inadempienti nei suoi confronti, primo fra tutti lo Stato.

CRISI: PROSEGUE BOOM FALLIMENTI, 3.000 PRIMO TRIMESTRE

Sostanzialmente, sono tre i motivi di illiquidità che la giurisprudenza ha finora ritenuto validi:
1) l’avere ritenuto di privilegiare il pagamento delle retribuzioni ai dipendenti per evitare licenziamenti;
2) l’aver dovuto pagare i debiti ai fornitori, per scongiurare richieste di fallimento della società;
3) la mancata riscossione di crediti vantati e documentati, spesso nei confronti dello Stato per appalti pubblici.

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Tuttavia, con la sentenza n. 52038 del 15/12/2014, la Cassazione ha mostrato una netta inversione di tendenza, ritenendo impossibile invocare l’esimente dalla fattispecie penale in caso di illiquidità. In tale pronuncia, infatti, nessuna delle tre situazioni appena richiamate, anche se provata può può far riconoscere lo stato di necessità che conduce all’impunibilità. Non lo è, in primis la scelta di pagare in via preferenziale i lavoratori. Sul punto la Suprema Corte di Cassazione ricorda, anzi, che lo stato di necessità previsto dall’art. 54 c.p. esclude la sanzione per chi ha commesso il fatto costretto dalla necessità di salvare se stesso o altri dal pericolo serio attuale e concreto di un danno grave alla persona. Ed è perciò da escludere che la perdita del diritto al lavoro, di cui pure è riconosciuta l’importanza, possa essere annoverata tra i casi di danno grave alla persona, riferiti invece solo «ai beni morali e materiali che costituiscono l’essenza stessa dell’essere umano». Non costituisce esimente neppure il rischio di fallimento dell’impresa, che, sostiene la Cassazione, può essere chiesto anche dall’Erario, oltreché dai creditori. E non lo è, infine, il credito non riscosso, sia pure quello vantato nei confronti dello Stato perché, come evidenzia la Suprema Corte, è la legge a stabilire nel dettaglio in che modo stabilire la compensazione del debito tributario, escludendo la facoltà di scelta in capo al contribuente.

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Se, dunque, adesso per la Cassazione pagare gli stipendi piuttosto che le tasse non esime dalla condanna per evasione e se la circostanza di salvare intere famiglie, spesso monoreddito, dalla miseria non costituisce stato di necessità, c’è da porsi più di una domanda sull’eticità di uno Stato che condanna per evasione e che, nel contempo, non onora tempestivamente i propri debiti. L’etica, infatti, non è concetto avulso dalla legge né dalla sua applicazione. C’è da chiedersi allora se sia di diritto quello Stato che nega il danno grave alla persona conseguente alla perdita del posto di lavoro. Il primo articolo della Costituzione stabilisce che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro, non sulla contribuzione. Ma uno Stato che richiede il sacrificio costante dei suoi cittadini per la propria sopravvivenza, per un bene superiore, non si è già trasformato nella società di Moloch?

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Il Decreto Legislativo attuativo del Jobs Act che istituisce la NASpI e l’ASDI

di Germano De Sanctis
Premessa.

Nel corso del Consiglio dei Ministri tenutosi il giorno della vigilia di Natale sono stati approvati i primi due decreti attuativi della Legge delega n. 183/2014, meglio nota come “Jobs Act”.

Il primo decreto legislativo disciplina il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, mentre il secondo, emanato in attuazione dell’art. 1, comma 2, Legge n. 183/2014, prevede l’istituzione della NASpI e dell’ASDI. Entrambi i decreti legislativi dovranno essere sottoposti al parere non vincolante delle Commissioni Lavoro della Camera dei Deputati e del Senato.

In tale sede, esaminiamo il secondo decreto legislativo. Esso prevede che il 1° maggio 2015 entrerà in vigore la Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego (NASpI), che sostituisce Aspi e miniAspi. Tale decreto attuativo disciplina anche il nuovo Assegno di Disoccupazione (denominato ASDI). Il decreto in esame è composto da 16 articoli, a loro volta, suddivisi in due Titoli.

Fatta questa premessa passiamo all’esame, articolo per articolo, del decreto legislativo che istituisce la NASpI e l’ASDI.

Articolo 1 – La nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego (NASpI).

I primi quattordici articoli del decreto legislativo in esame sono racchiusi nel Titolo I, il quale è esclusivamente dedicato alla disciplina della Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego (NASpI).

In virtù dell’articolo 1, a decorrere dal 1° maggio 2015, è istituita presso la Gestione Prestazioni Temporanee ai Lavoratori Dipendenti (ex art. 24, Legge n. 88/1989) e nell’ambito dell’Assicurazione Sociale per l’Impiego (c.d. ASpI ex art. 2, Legge n. 92/2012), una indennità mensile di disoccupazione, denominata Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego (NASpI), avente la funzione di fornire una tutela di sostegno al reddito ai lavoratori con rapporto di lavoro subordinato che abbiano involontariamente perduto la propria occupazione. La NASpI sostituisce le prestazioni di AspI e miniASpI introdotte dall’art. 2, Legge n. 92/2012, con riferimento agli eventi di disoccupazione verificatisi dal 1° maggio 2015.

Articolo 2 – I destinatari della NASpI.

Sono destinatari della NASpI i lavoratori dipendenti con esclusione dei dipendenti a tempo indeterminato delle Pubbliche Amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 165/2001.

Inoltre, le disposizioni relative alla NASpI non si applicano nei confronti degli operai agricoli a tempo determinato o indeterminato, per i quali trovano applicazione le norme di cui all’art. 7, comma 1, Legge n. 160/1988, all’art. 25, Legge n. 457/1972, all’art. 7, Legge n. 37/1977 e all’art. 1, Legge n. 247/2007.

Articolo 3 – I requisiti per ottenere la NASpI.

La NASpI è riconosciuta ai lavoratori che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione e che presentino congiuntamente i seguenti requisiti:

  • siano in stato di disoccupazione ai sensi dell’art. 1, comma 2, lett. c), D.Lgs. n. 181/2000;
  • possano far valere, nei quattro anni precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione, almeno tredici settimane di contribuzione;
  • possano far valere diciotto giornate di lavoro effettivo o equivalenti, a prescindere dal minimale contributivo, nei dodici mesi che precedono l’inizio del periodo di disoccupazione.

La NASpI è riconosciuta anche ai lavoratori che hanno rassegnato rassegnato le dimissioni per giusta causa e nei casi di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro intervenuta nell’ambito della procedura di cui all’art. 7, Legge n. 604/1966. Si ricorda che tale norma prevede, nelle imprese con più di 15 dipendenti, il ricorso ad un tentativo obbligatorio di conciliazione presso la commissione istituita presso ogni Direzione Territoriale del Lavoro.

Articolo 4 – Il calcolo e la misura della NASpI.

La NASpI è rapportata alla retribuzione imponibile ai fini previdenziali degli ultimi quattro anni utili, comprensiva degli elementi continuativi e non continuativi e delle mensilità aggiuntive, divisa per il numero di settimane di contribuzione e moltiplicata per il numero 4,33.

Nei casi in cui la retribuzione mensile sia pari o inferiore, nel 2015, all’importo di € 1.195 mensili (rivalutato annualmente sulla base della variazione dell’indice ISTAT intercorsa nell’anno precedente), l’indennità mensile è pari al 75% della retribuzione. Nei casi in cui la retribuzione mensile sia superiore al predetto importo, l’indennità è pari al 75% del predetto importo incrementato di una somma pari al 25% del differenziale tra la retribuzione mensile e il predetto importo. L’indennità mensile non può in ogni caso superare, nel 2015, l’importo massimo mensile di € 1.300 (rivalutato annualmente sulla base della variazione dell’indice ISTAT intercorsa nell’anno precedente).

L’indennità è ridotta progressivamente nella misura del 3% al mese dal primo giorno del quinto mese di fruizione. Per gli eventi di disoccupazione verificatisi dal 1° gennaio 2016, tale riduzione si applica dal primo giorno del quarto mese di fruizione.

Articolo 5 – La durata della NASpI.

La NASpI è corrisposta mensilmente, per un numero di settimane pari alla metà delle settimane di contribuzione degli ultimi quattro anni. Ai fini del calcolo della durata, non sono computati i periodi contributivi che hanno già dato luogo ad erogazione delle prestazioni di disoccupazione. Per gli eventi di disoccupazione verificatisi dal 1° gennaio 2017, la durata di fruizione della prestazione è, in ogni caso, limitata a un massimo di 78 settimane.

Articolo 6 – La presentazione della domanda e decorrenza della prestazione.

La NASpI è presentata all’INPS in via telematica, entro il termine di decadenza di sessantotto giorni dalla cessazione del rapporto di lavoro.

La NASpI spetta a decorrere dal giorno successivo alla data di presentazione della domanda e in ogni caso non prima dell’ottavo giorno successivo alla cessazione del rapporto di lavoro.

Articolo 7 – La condizionalità.

L’erogazione della NASpI è condizionata, a pena di decadenza dalla prestazione:

  • alla permanenza dello stato di disoccupazione di cui all’art. 1, comma 2, lett. c), D.Lgs. n. 181/2000, n. 181;
  • alla regolare partecipazione alle iniziative di attivazione lavorativa, nonché ai percorsi di riqualificazione professionale proposti dai Servizi competenti ai sensi dell’art. 1, comma 2, lett. g), D.Lgs. n. 181/2000.

Con l’emanando decreto legislativo in materia di riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e di politiche attive previsto all’art. 1, comma 3, Legge n. 183/2014, saranno introdotte ulteriori misure volte a condizionare la fruizione della NASpI alla ricerca attiva di un’occupazione e al reinserimento nel tessuto produttivo.

Con un apposito emanando decreto del Ministro del Lavoro, di natura non regolamentare, da adottare entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto saranno determinate le condizioni e le modalità per l’attuazione delle disposizioni di cui al presente articolo, nonché il sistema di sanzioni in caso di inottemperanza ai predetti obblighi di partecipazione alle azioni di politica attiva.

Articolo 8 – L’incentivo all’autoimprenditorialità.

Il lavoratore avente diritto alla corresponsione della NASpI può richiedere la liquidazione anticipata, in unica soluzione, dell’importo complessivo del trattamento che gli spetta e che non gli è stato ancora erogato, a titolo di incentivo all’avvio di un’attività di lavoro autonomo o di un’attività in forma di impresa individuale o per associarsi in cooperativa.

L’erogazione anticipata in un’unica soluzione della NASpI non dà diritto, né alla contribuzione figurativa, né all’Assegno per il Nucleo Familiare.

Il lavoratore che intende avvalersi della liquidazione in un’unica soluzione della NASpI deve presentare all’INPS domanda di anticipazione in via telematica entro 30 giorni dalla data di inizio dell’attività autonoma o dell’associazione in cooperativa.

Se il lavoratore, aderendo a una cooperativa, instaura un rapporto di lavoro subordinato, ai sensi dell’art. 1, comma 3, Legge n. 142/2001, l’importo della prestazione anticipata compete alla cooperativa.

Il lavoratore che instaura un rapporto di lavoro subordinato prima della scadenza del periodo per cui è riconosciuta la NASpI è tenuto a restituirne per intero l’anticipazione ottenuta.

Articolo 9 – La compatibilità e la cumulabilità della NASpI con un rapporto di lavoro subordinato.

Il lavoratore in corso di fruizione della NASpI che instauri un rapporto di lavoro subordinato il cui reddito annuale sia superiore al reddito minimo escluso da imposizione decade dalla prestazione, salvo il caso in cui la durata del rapporto di lavoro non sia superiore a sei mesi. In tale caso, la prestazione è sospesa d’ufficio per la durata del rapporto di lavoro e fino a un massimo di sei mesi. La contribuzione versata durante il periodo di sospensione è utile ai fini di cui agli articoli 3 e 5 del decreto legislativo in esame.

Il lavoratore in corso di fruizione della NASpI che instauri un rapporto di lavoro subordinato il cui reddito annuale sia inferiore al reddito minimo escluso da imposizione mantiene la prestazione, a condizione che comunichi all’INPS entro un mese dall’inizio dell’attività il reddito annuo previsto e che il datore di lavoro o, qualora il lavoratore sia impiegato con un contratto di somministrazione, l’utilizzatore, siano diversi dal datore di lavoro o dall’utilizzatore per i quali il lavoratore prestava la sua attività quando è cessato il rapporto di lavoro che ha determinato il diritto alla NASpI e non presentino rispetto ad essi rapporti di collegamento o di controllo ovvero assetti proprietari sostanzialmente coincidenti. In caso di mantenimento della NASpI, la prestazione è ridotta nei termini di cui all’articolo 10 e la contribuzione versata è utile ai fini di cui agli articoli 3 e 5 del decreto legislativo in questione.

Il lavoratore titolare di due o più rapporti di lavoro subordinato a tempo parziale che cessi da uno dei detti rapporti a seguito di licenziamento, dimissioni del rapporto per giusta causa, risoluzione consensuale del rapporto di lavoro intervenuta nell’ambito della procedura di cui all’art. 7, Legge n. 604/1966 e il cui reddito sia inferiore al limite utile ai fini della conservazione dello stato di disoccupazione, ha diritto, ricorrendo tutti gli altri requisiti previsti, di percepire la NASpI, ridotta nei termini di cui al successivo articolo 10, a condizione che comunichi all’INPS entro un mese dalla domanda di prestazione il reddito annuo previsto.

Articolo 10 – La compatibilità e la cumulabilità della NASpI con lo svolgimento di un’attività lavorativa in forma autonoma.

Il lavoratore in corso di fruizione di NASpI che intraprenda un’attività lavorativa autonoma, dalla quale derivi un reddito inferiore al limite utile ai fini della conservazione dello stato di disoccupazione, deve informare l’INPS entro un mese dall’inizio dell’attività, dichiarando il reddito annuo che prevede di trarne.

La NASpI è ridotta di un importo pari all’80% del reddito previsto, rapportato al periodo di tempo intercorrente tra la data di inizio dell’attività e la data in cui termina il periodo di godimento dell’indennità o, se antecedente, la fine dell’anno. Tale riduzione è ricalcolata d’ufficio al momento della presentazione della dichiarazione dei redditi.

Il lavoratore esentato dall’obbligo di presentazione della dichiarazione dei redditi è tenuto a presentare all’INPS un’apposita autodichiarazione concernente il reddito ricavato dall’attività lavorativa autonoma.

Articolo 11 – La decadenza dalla NASpI.

Il lavoratore decade dalla fruizione della NASpI nei seguenti casi:

  • perdita dello stato di disoccupazione;
  • inizio di un’attività lavorativa subordinata senza provvedere alle comunicazioni di cui al precedente articolo 9, commi 2 e 3;
  • inizio di un’attività lavorativa in forma autonoma senza provvedere alla comunicazione di cui al precedente articolo 10;
  • raggiungimento dei requisiti per il pensionamento di vecchiaia o anticipato;
  • acquisizione del diritto all’assegno ordinario di invalidità, sempre che il lavoratore non opti per la NASpI;
  • violazione delle regole di condizionalità di cui al precedente articolo 7.

Articolo 12 – La contribuzione figurativa.

La contribuzione figurativa è rapportata alla già esaminata retribuzione di cui al precedente articolo 4, comma 1. Per gli eventi di disoccupazione verificatisi dal 1° gennaio 2016, la contribuzione figurativa è rapportata alla retribuzione di cui al precedente articolo 4, comma 1 entro un limite di retribuzione pari a 1,4 volte l’importo massimo mensile della prestazione della NASpI.

Le retribuzioni computate nei predetti limiti, rivalutate fino alla data di decorrenza della pensione, non sono prese in considerazione per la determinazione della retribuzione pensionabile qualora siano di importo inferiore alla retribuzione media pensionabile ottenuta neutralizzando tali retribuzioni.

Articolo 13 – Misura dell’indennità per le nuove categorie di lavoratori assicurati dal 1° gennaio 2013.

Per i soci lavoratori delle cooperative di cui al D.P.R. n. 602/1970 e per il personale artistico con rapporto di lavoro subordinato, a decorrere dal 1° maggio 2015, la misura della NASpI è allineata a quella della generalità dei lavoratori.

Articolo 14 – Disposizione di rinvio agli istituti in vigore.

Alla NASpI si applicano le norme già operanti in materia di AspI in quanto compatibili.

Articolo 15 – L’Assegno di Disoccupazione (ASDI).

Il Titolo II del decreto legislativo in esame, agli articoli 15 e 16, disciplina le ulteriori prestazioni ulteriori di sostegno al reddito.

In virtù dell’articolo 15, a decorrere dal 1° maggio 2015, è istituito, in via sperimentale per l’anno 2015, l’Assegno di disoccupazione (ASDI), avente la funzione di fornire una tutela di sostegno al reddito ai lavoratori percettori della NASpI, che ne abbiano fruito per l’intera sua durata senza trovare occupazione e che si trovino in una condizione economica di bisogno in termini di ISEE.

Nel primo anno di applicazione gli interventi saranno prioritariamente riservati ai lavoratori appartenenti a nuclei familiari con minorenni e quindi ai lavoratori in età vicina al pensionamento, ma che non abbiano maturato i requisiti per i trattamenti di quiescenza. Al termine di tale primo anno di applicazione, con apposito decreto del Ministro del Lavoro potranno essere stabilite le modalità di estensione sino eventualmente a coprire la predetta intera platea di beneficiari della NAsPi.

L’ASDI è erogato per una durata massima di sei mesi ed è pari al 75% dell’ultimo trattamento percepito ai fini della NASpI, se non superiore alla misura dell’assegno sociale, di cui all’art. 3, comma 6, Legge n. 335/1995. Tale ammontare sarà incrementato per gli eventuali carichi familiari del lavoratore, secondo le modalità che verranno specificate con un apposito decreto del Ministro del Lavoro, che stabilirà anche l’ammontare massimo complessivo della prestazione.

Al fine di incentivare la ricerca attiva del lavoro, saranno stabiliti con apposito decreto del Ministro del Lavoro i limiti nei quali i redditi derivanti da nuova occupazione potranno essere parzialmente cumulati con il sostegno economico e le modalità attraverso cui il sostegno sarà gradualmente declinato al perdurare dell’occupazione e in relazione al reddito da lavoro.

Il sostegno è condizionato all’adesione ad un progetto economico personalizzato redatto dai competenti servizi per l’impiego, secondo modalità definite con apposito decreto del Ministro del Lavoro e comunque contenente specifici impegni in termini di ricerca attiva di lavoro, disponibilità a partecipare ad iniziative di orientamento e formazione, accettazione di adeguate proposte di attivazione lavoro. La partecipazione alle iniziative proposte è obbligatoria, pena la perdita del beneficio.
Il sostegno economico è erogato per il tramite di uno strumento di pagamento elettronico, secondo le modalità che saranno definite da un apposito decreto del Ministro del Lavoro.

Descrivendo l’ASDI, si è più volte citato un emanando decreto del Ministero del Lavoro. Tale decreto non avrà natura regolamentare e dovrà essere emanato entro 90 giorni dall’entrata in vigore del decreto legislativo in esame.

Al finanziamento dell’ASDI si provvede mediante le risorse di uno specifico fondo istituito nello stato di previsione del Ministero del Lavoro. All’attuazione e alla gestione dell’intervento provvede l’INPS.

Articolo 16 – L’indennità di disoccupazione per i lavoratori con rapporto di collaborazione coordinata e continuativa e a progetto (DIS-COLL).

In attesa degli interventi di semplificazione, modifica o superamento delle forme contrattuali previsti all’art. 1, comma 7, lett. a), Legge n. 183/2014, in via sperimentale per il 2015 ed in relazione ai nuovi eventi di disoccupazione verificatisi a decorrere dal 1° gennaio 2015 e sino al 31 dicembre 2015, è riconosciuta ai collaboratori coordinati e continuativi e a progetto, iscritti in via esclusiva alla Gestione separata, non pensionati e privi di partita IVA, che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione, una indennità di disoccupazione mensile denominata DIS-COLL.

La DIS-COLL è riconosciuta a tali soggetti, purché essi siano congiuntamente in possesso dei seguenti requisiti:

  • siano, al momento della domanda di prestazione, in stato di disoccupazione ai sensi dell’art. 1, comma 2, lett. c), D.Lgs. n. 181/2000;
  • possano far valere almeno tre mesi di contribuzione nel periodo che va dal 1° gennaio dell’anno solare precedente l’evento di cessazione dal lavoro al predetto evento;
  • possano far valere, nell’anno solare in cui si verifica l’evento di cessazione dal lavoro, un mese di contribuzione, oppure un rapporto di collaborazione di durata pari almeno ad un mese e che abbia dato luogo a un reddito almeno pari alla metà del importo che dà diritto all’accredito di un mese di contribuzione.

La DIS-COLL è rapportata al reddito imponibile ai fini previdenziali (risultante dai versamenti contributivi effettuati in virtù di rapporti di collaborazione), relativo, sia all’anno in cui si è verificato l’evento di cessazione dal lavoro, sia all’anno solare precedente, diviso per il numero di mesi di contribuzione, o frazione di essi.

La DIS-COLL, rapportata al reddito medio mensile nel predetto modo, è pari al 75% dello stesso reddito nei casi in cui il reddito mensile sia pari o inferiore nel 2015 all’importo di € 1.195 mensili (annualmente rivalutato sulla base della variazione dell’indice ISTAT intercorsa nell’anno precedente). Nei casi in cui il reddito medio mensile sia superiore al predetto importo l’indennità è pari al 75% del predetto importo incrementata di una somma pari al 25% del differenziale tra il reddito medio mensile e il predetto importo. L’indennità mensile non può in ogni caso superare l’importo massimo mensile di € 1.300 nel 2015 (annualmente rivalutato sulla base della variazione dell’indice ISTAT intercorsa nell’anno precedente).

A partire dal primo giorno del quinto mese di fruizione l’indennità è ridotta progressivamente nella misura del 3% al mese.
La DIS-COLL è corrisposta mensilmente per un numero di mesi pari alla metà dei mesi di contribuzione presenti nel periodo che va dal 1° gennaio dell’anno solare precedente l’evento di cessazione del lavoro al predetto evento. Ai fini della durata non sono computati i periodi contributivi che hanno già dato luogo ad erogazione della prestazione. La DIS-COLL non può in ogni caso superare la durata massima di sei mesi.

Per i periodi di fruizione della DIS-COLL non sono riconosciuti i contributi figurativi.

La DIS-COLL è presentata all’INPS in via telematica, entro il termine di decadenza di sessantotto giorni dalla cessazione del rapporto di lavoro.

La DIS-COLL spetta a decorrere dal giorno successivo alla data di presentazione della domanda e in ogni caso non prima dell’ottavo giorno successivo alla cessazione del rapporto di lavoro.

L’erogazione della DIS-COLL è condizionata al possesso congiunto dei seguenti requisiti:

  • permanenza dello stato di disoccupazione di cui all’art. 1, comma 2, lett. c), D.Lgs. n. 181/2000;
  • regolare partecipazione alle iniziative di attivazione lavorativa e ai percorsi di riqualificazione professionale proposti dai Servizi competenti ai sensi dell’art.1, comma 2, lett. g), D.Lgs. n. 181/2000.

Con l’emamando decreto legislativo in attuazione dell’art. 1, comma 3, Legge n. 183/2014 concernente il riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e di politiche attive, saranno introdotte ulteriori misure volte a condizionare la fruizione della DIS-COLL alla ricerca attiva di un’occupazione e al reinserimento nel tessuto produttivo.

In caso di nuova occupazione del lavoratore con contratto di lavoro subordinato, la DIS-COLL è sospesa d’ufficio, fino ad un massimo di cinque giorni. Al termine di un periodo di sospensione di durata inferiore a cinque giorni l’indennità riprende a decorrere dal momento in cui era rimasta sospesa. Nei casi di sospensione, i periodi di contribuzione legati al nuovo rapporto di lavoro possono essere fatti valere ai fini di un nuovo trattamento nell’ambito della NASpI.

Il beneficiario della DIS-COLL che intraprenda un’attività lavorativa autonoma, dalla quale derivi un reddito inferiore al limite utile ai fini della conservazione dello stato di disoccupazione, deve informare l’INPS entro un mese dall’inizio dell’attività, dichiarando il reddito annuo che prevede di trarne. La DIS-COLL è ridotta di un importo pari all’80% del reddito previsto, rapportato al periodo di tempo intercorrente tra la data di inizio dell’attività e la data in cui termina il periodo di godimento dell’indennità o, se antecedente, la fine dell’anno. La riduzione di cui al periodo precedente è ricalcolata d’ufficio al momento della presentazione della dichiarazione dei redditi. Il lavoratore esentato dall’obbligo di presentazione della dichiarazione dei redditi è tenuto a presentare all’INPS un’apposita autodichiarazione concernente il reddito ricavato dall’attività lavorativa autonoma.

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La disciplina del contratto “a tutele crescenti” contenuta nel primo decreto legislativo attuativo del Jobs Act

di Germano De Sanctis
Premessa

Il Consiglio dei Ministri tenutosi il giorno della vigilia di Natale ha approvato i primi due decreti attuativi della Legge delega n. 183/2014, meglio nota come “Jobs Act”. Tali decreti sono in attesa di essere pubblicati sulla Gazzetta Uficiale.
Il primo decreto legislativo disciplina il contratto di lavoro a tempo indeterminato a “tutele crescenti”, mentre il secondo prevede l’estensione dell’Aspi a 24 mesi.

In tale sede, esaminiamo, il decreto legislativo che disciplina il contratto di lavoro a tempo indeterminato a “tutele crescenti”. Si tratta di una delle novità più rilevanti del Jobs Act, che, tra l’altro, è stata, nei mesi scorso, oggetto di un accesso dibattito politico e sindacale.
Tale nuova tipologia contrattuale si caratterizza per il fatto che le tutele riconosciute in capo ai lavoratori che firmeranno un simile contratto aumenteranno con il passare del tempo. Tuttavia, i nuovi assunti, se verranno licenziati, avranno un indennizzo soltanto di natura economica, il quale aumenterà in base all’anzianità di servizio maturata. In pratica, si esclude la possibilità del reintegro del lavoratore, fatta eccezione per i licenziamenti nulli e discriminatori.
Il contratto a tutele crescenti si applica soltanto nei confronti dei nuovi assunti. Infati, chi è già titolare di un contratto di lavoro a tempo indeterminato continuerà a vedere disciplinato il proprio rapporto di lavoro dalle norme previgenti. Pertanto, il contratto “a tutele crescenti” sarà effettivamente vantaggioso soltanto per chi attualmente è disoccupato, ovvero è titolare di lavoro a tempo determinato, o di un contratto di collaborazione, in quanto la nuova tipologia contrattuale in esame abbatte il costo del lavoro di circa trenta punti percentuali.

Fata questa premessa, come già accennato, passiamo all’esame, articolo per articolo, del decreto legislativo che disciplina il contratto di lavoro a tempo indeterminato “a tutele crescenti”.

Articolo 1 – Il campo di applicazione.

A far data di entrata in vigore del decreto legislativo in esame, il regime di tutela nel caso di licenziamento illegittimo da esso dettato deve essere applicato nei confronti di tutti i lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Nel caso in cui il datore di lavoro, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all’entrata in vigore del decreto legislativo in questione, integri il requisito occupazionale di cui all’art. 18, commi 8 e 9, Legge n. 300/1970 (cioè, occupi più di quindici dipendenti), il licenziamento dei lavoratori, anche se assunti precedentemente a tale data, è disciplinato dalle disposizioni del decreto legislativo in esame.

Articolo 2 – Il licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale.

Qualora venga emanata una sentenza che dichiari la nullità del licenziamento, in quanto discriminatorio o riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, il giudice deve ordinare al datore di lavoro (imprenditore o non imprenditore) di procedere alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto. A seguito del predetto ordine giudiziale di reintegrazione, il rapporto di lavoro s’intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall’invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l’apposita indennità prevista dal decreto legislativo in esame. Tale regime si applica anche al licenziamento dichiarato inefficace, in quanto intimato in forma orale.
Con la predetta sentenza, il giudice condanna il datore di lavoro anche al risarcimento del danno subito dal lavoratore a seguito del licenziamento di cui sia stata accertata la nullità e l’inefficacia. A tal fine, il giudice deve stabilire un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è, altresì, condannato, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.
Fermo restando tale diritto al risarcimento del danno, al lavoratore è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro e non è assoggettata a contribuzione previdenziale. La richiesta dell’indennità deve essere effettuata entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione.

Articolo 3 – Il licenziamento per giustificato motivo e giusta causa.

Nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità.
Soltanto in caso di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore (rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento), il giudice deve annullare il licenziamento e condannare il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, nonché al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, fatto salvo quanto avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro ex art. 4, comma 1, D.Lgs. n. 181/2000. In ogni caso, la misura dell’indennità risarcitoria relativa al periodo antecedente alla pronuncia di reintegrazione non può essere superiore a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione. Anche in questo caso, al lavoratore è attribuita la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro e non è assoggettata a contribuzione previdenziale.
Tale disciplina applicazione anche nelle ipotesi in cui il giudice accerta il difetto di giustificazione per motivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli artt. 4, comma 4, e 10, comma 3, Legge, n. 68/1999.
Infine, si evidenzia che nei confronti del licenziamento dei lavoratori di cui all’articolo 1 del decreto legislativo in esame non trova applicazione l’art. 7, Legge n. 604/1966, così come modificato dall’art. 1, comma 40, Legge n. 92/2012. Tale norma prevede che, nelle imprese con più di quindici dipendenti (nel settore agricolo, con oltre i cinque dipendenti), il ricorso ad un tentativo obbligatorio di conciliazione presso la commissione provinciale istituita in ogni Direzione Territoriale del Lavoro, attivabile attraverso una procedura che inizia con una comunicazione inviata a tale organo periferico del Ministero del Lavoro, nonché, per conoscenza, all’interessato, con la quale il datore di lavoro comunica la propria intenzione di procedere al recesso, indicando, sia le motivazioni, sia le eventuali misure di assistenza alla ricollocazione.

Articolo 4 – I vizi formali e procedurali.

Nell’ipotesi in cui il licenziamento sia intimato violando il requisito di motivazione previsto dall’art. 2, comma 2, Legge n. 604/1966, ovvero non rispettando la procedura disciplinare ex art. 7, Legge n. 300/1970, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti la sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle poc’anzi esaminate tutele previste dagli articoli 2 e 3 del decreto legislativo in questione.

Articolo 5 – La revoca del licenziamento.

In caso di revoca del licenziamento effettuata entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione al datore di lavoro dell’impugnazione del medesimo, il rapporto di lavoro s’intende ripristinato senza soluzione di continuità, con conseguente diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca. In tale ipotesi, non si applicano i regimi sanzionatori previsti dal decreto legislativo in esame.

Articolo 6 – L’offerta di conciliazione.

In caso di licenziamento dei lavoratori di cui al già esaminato articolo 1, al fine di evitare il giudizio e ferma restando la possibilità per le parti di addivenire a ogni altra modalità di conciliazione prevista dalla legge, il datore di lavoro può offrire al lavoratore, entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento, in una delle sedi di cui all’art. 2113 c.c. (che disciplina le rinunzie e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge) ed all’art. 82, comma 1, D.Lgs. n. 276/2003 (che disciplina le rinunce e transazioni in sede di certificazione dei contrati di lavoro), un importo che non costituisce reddito imponibile ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e che non è assoggettato a contribuzione previdenziale. L’ammontare di tale importo è pari ad una mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a diciotto mensilità, mediante consegna al lavoratore di un assegno circolare. L’accettazione dell’assegno in tale sede da parte del lavoratore comporta l’estinzione del rapporto alla data del licenziamento e la rinuncia alla impugnazione del licenziamento anche qualora il lavoratore l’abbia già proposta.

Articolo 7 – Il computo dell’anzianità negli appalti.

Ai fini del calcolo delle indennità e dell’importo da erogare in caso di licenziamento per giustificato motivo e giusta causa ex articolo 3, di vizi formali e procedurali ex articolo 4, e di offerta di conciliazione ex articolo 6, l’anzianità di servizio del lavoratore che passa alle dipendenze dell’impresa che subentra in un appalto si deve computare tenendo conto di tutto il periodo durante il quale il lavoratore è stato impiegato nell’attività appaltata.

Articolo 8 – Il computo e la misura delle indennità per frazioni di anno.

Per le frazioni di anno d’anzianità di servizio, le indennità e l’importo da erogare in caso di licenziamento per giustificato motivo e giusta causa ex articolo 3, di vizi formali e procedurali ex articolo 4, e di offerta di conciliazione ex articolo 6, devono essere riproporzionati e le frazioni di mese uguali o superiori a quindici giorni si devono computare come mese intero.

Articolo 9 – Le piccole imprese e le organizzazioni di tendenza.

Qualora il datore di lavoro non raggiunga i requisiti dimensionali di cui all’art. 18, commi 8 e 9, Legge n. 300/1970 (cioè, non occupi più di quindici dipendenti), non trova applicazione la disciplina prevista in caso di licenziamento per giustificato motivo e giusta causa ex articolo 3 e l’ammontare delle indennità e dell’importo da erogare in caso di licenziamento per giustificato motivo e giusta causa ex articolo 3, di vizi formali e procedurali ex articolo 4 e di offerta di conciliazione ex articolo 6 deve essere dimezzato e non può, in ogni caso, superare il limite di sei mensilità.
Inoltre, la disciplina contenuta nel decreto legislativo in questione trova applicazione anche nei confronti dei datori di lavoro non imprenditori, che svolgono senza fine di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto.

Articolo 10 – Il licenziamento collettivo.

In caso di licenziamento collettivo ai sensi degli artt. 4 e 24, Legge n. 223/1991 intimato senza l’osservanza della forma scritta, si deve applicare il regime sanzionatorio previsto dall’articolo 2 del decreto legislativo in esame. In caso di violazione delle procedure richiamate dall’art. 4, comma 12, Legge n. 223/1991 o dei criteri di scelta di cui all’art. 5, comma 1, Legge n. 233/1991, si deve applicare il regime contenuto nell’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo in questione.

Articolo 11 – Il contratto di ricollocazione.

È istituito, presso l’INPS, il Fondo per le Politiche Attive per la Ricollocazione dei Lavoratori in Stato di Disoccupazione Involontaria, al quale affluisce la dotazione finanziaria del Fondo istituito dall’art. 1, comma 215, Legge n. 147/2013, il quale era stato costituito per avviare alcune sperimentazioni in sede regionale del contratto di ricollocazione, al fine di favorire il reinserimento lavorativo dei fruitori di ammortizzatori sociali anche in regime di deroga e di lavoratori in stato di disoccupazione.
Il lavoratore licenziato illegittimamente o per giustificato motivo oggettivo o per licenziamento collettivo ai sensi degli artt. 4 e 24 Legge n. 223/1991, ha il diritto di ricevere dal Centro per l’Impiego territorialmente competente un voucher rappresentativo della dote individuale di ricollocazione, a condizione che egli effettui la procedura di definizione del profilo personale di occupabilità, ai sensi dell’emanando decreto legislativo attuativo della delega contenuta nella Legge n. 183/2014 ( meglio nota come “Jobs Act”), in materia di politiche attive per l’impiego.
Inoltre, presentando il voucher ad una Agenzia per il Lavoro pubblica o privata accreditata secondo quanto previsto dal predetto emanando decreto legislativo in materia di politiche attive per l’impiego, il lavoratore interessato ha diritto a sottoscrivere con essa un contratto di ricollocazione che deve, a sua volta, prevedere:

  • il diritto del lavoratore a una assistenza appropriata nella ricerca della nuova occupazione, programmata, strutturata e gestita secondo le migliori tecniche del settore, da parte dell’Agenzia per il Lavoro;
  • il diritto del lavoratore alla realizzazione da parte dell’Agenzia per il Lavoro di iniziative di ricerca, addestramento, formazione o riqualificazione professionale mirate a sbocchi occupazionali effettivamente esistenti e appropriati in relazione alle capacità del lavoratore e alle condizioni del mercato del lavoro nella zona ove il lavoratore è stato preso in carico;
  • il dovere del lavoratore di porsi a disposizione e di cooperare con l’Agenzia per il Lavoro nelle iniziative da essa predisposte.

L’ammontare del voucher è proporzionato in relazione al predetto profilo personale di occupabilità e l’Agenzia per il Lavoro ha diritto ad incassarlo soltanto a risultato ottenuto secondo quanto stabilito dall’emanando decreto legislativo in materia di politiche attive per l’impiego.

Articolo 12 – Il rito applicabile.

Infine, i licenziamenti disciplinati dal decreto legislativo in esame non sono sottoposti alle disposizioni contenute dall’art. 1, commi da 48 a 68, Legge n. 92/2012 (c.d. “Riforma Fornero”).

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A.A.A. APPARTAMENTO DOTATO DI OGNI COMFORT AFFITTASI A PROSTITUTA REFERENZIATA.

Quella che vi propongo oggi è la vicenda giudiziaria di un imprenditore immobiliare abruzzese, alla cui attività di agente aveva affiancato quella di imprenditore del sesso. Secondo voi è pericoloso dare un immobile in locazione ad una squillo? Non è che rischiamo di finire in carcere, come l’imputato di questo processo, solo per aver affittato ad una di loro? Scopriamolo insieme.

di Michele De Sanctis

Colpevole di favoreggiamento della prostituzione: è questo il verdetto definitivo riconosciuto a carico di un agente immobiliare abruzzese, condannato in appello alla pena di 4 anni di reclusione e 5 di interdizione dai pubblici uffici, oltreché a diecimila euro di multa, in base all’art 3 comma 8 della L. n. 75/58 (c.d. Legge Merlin). Con Sent. n. 47387 dello scorso 18 novembre, la Terza Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione ha, infatti, confermato la condanna subita dall’imprenditore in secondo grado, facendo, dunque, scattare l’ordine di carcerazione e, nel contempo, l’esecuzione di precedenti condanne per altri reati, per un totale di 7 anni e 8 mesi di reclusione.

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A ricorrere al Giudizio di Legittimità era stato lo stesso agente immobiliare, indagato nel 2010 nel corso di un’operazione denominata ‘Non solo affitti 3’, dopo che in secondo grado si era visto confermare la condanna inflittagli dal Tribunale di Teramo nel dicembre del 2011 per favoreggiamento. Secondo l’accusa, a provare la sua colpevolezza era stata la stessa attività di agente immobiliare, attraverso cui l’uomo gestiva i contratti di locazione degli appartamenti in cui circa quaranta prostitute esercitavano abitualmente il loro mestiere, unitamente al fatto che questi si era reso disponibile ad assistere tali donne nelle loro varie necessità. L’uomo, peraltro, fin dal primo grado era stato assolto dall’accusa di sfruttamento della prostituzione perché il fatto non sussisteva, al pari dell’altro imputato, il proprietario di alcuni degli immobili, assolto sia dall’accusa di sfruttamento che di favoreggiamento. Ma per l’imprenditore restava in piedi il secondo dei due capi d’imputazione.

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Questi erano i fatti. Ora, però, analizziamo la sentenza della Cassazione e se avete un’inquilina poco raccomandabile di cui non sapete molto, tranquilli: il semplice ‘affitto’ ad una prostituta non è condotta sufficiente a provare la vostra colpevolezza (quanto meno mancherebbe l’elemento soggettivo). Sia che voi siate proprietari sia che svolgiate attività di mediazione immobiliare. Come noto, nel nostro Paese la prostituzione non è un reato, mentre lo è se ci si approfitta dell’altrui attività di meretricio, cioè se la si sfrutta, oppure semplicemente quando la si favorisce. È questa, infatti, la condotta contestata all’agente immobiliare, ma non per aver gestito i contratti di locazione di un gruppo di prostitute. La mera stipula del contratto, del resto, come in passato già precisato dagli Ermellini, di per sé “non integra la fattispecie criminosa, in quanto l’atto negoziale, in assenza di altre prestazioni accessorie, riguarda la persona e le sue esigenze abitative, e non costituisce diretto ausilio all’attività di prostituzione” (Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 7338 del 04/02/2014). Anzi, il proprietario di un immobile locato ad una squillo non commette reato di favoreggiamento della prostituzione, neppure se consapevole dell’uso che la donna ne faccia, trattandosi, in questo caso, tutt’al più di tolleranza, punita dal comma 2 dell’art. 3 della L. 75/1958. Ma non è colpevole di favoreggiamento, purché – badate bene- il canone di locazione sia onesto, vale a dire in linea con i prezzi di mercato, dal momento che “la stipulazione del contratto non rappresenta un effettivo ausilio per il meretricio” (Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 28754 del 20/03/2013). Pertanto, affinché il locatore (o l’agente immobiliare) possa essere ritenuto colpevole del delitto di favoreggiamento è necessario che questi fornisca qualcosa in più rispetto al semplice godimento del bene immobile, diciamo pure una sorta di extra che la Corte indica in “prestazioni accessorie che esulino dalla stipulazione del contratto ed in concreto agevolino il meretricio” (Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 33160 del 19/02/2013). L’extra offerto dal locatore può essere di varia natura: si va da attività decisamente partecipative all’esercizio dell’attività di meretricio (inserzioni pubblicitarie, fornitura di preservativi, ricezione dei clienti: Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 7338/2014) fino a collaborazioni meno ‘fattive’, ma, non per questo, meno censurabili dal punto di vista penale.
Nel caso di specie, ad esempio, l’agente immobiliare abruzzese, consapevole che le inquiline avrebbero utilizzato quegli appartamenti per prostituirsi, non solo aveva locato tali immobili a un prezzo superiore a quello di mercato, ma si era, peraltro, attivato per favorire il più possibile quella loro particolare attività professionale, predisponendo a tal proposito “un allestimento specifico degli appartamenti diretto a ottimizzare il loro utilizzo per la prostituzione, collocandosi letti matrimoniali anche nelle cucine” (Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 47387 del 18/11/2014). L’uomo, poi, si era altresì reso disponibile ad assistere le donne in molte altre necessità quotidiane: accompagnandole, per esempio, a fare la spesa o in banca o scortandole fino a casa di qualche conoscente.

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La Cassazione non ha, dunque, ravvisato vizi di legittimità nella pronuncia del Giudice d’Appello, secondo cui l’imputato, lungi dall’essersi limitato alla mera locazione delle abitazioni in gestione a un gruppo di squillo, era, piuttosto, “colui che tirava i fili di tutta una organizzazione che favoriva l’attività delle prostitute sue inquiline” (Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 47387 del 18/11/2014), così commettendo il reato contestatogli che testualmente punisce “chiunque in qualsiasi modo favorisca o sfrutti la prostituzione altrui” (art. 3 comma 8 della L. 75/1958). In qualsiasi modo, anche con una locazione particolare. L’uomo, originario di un comune della costa abruzzese tra le province di Teramo e Pescara, è attualmente detenuto presso la Casa Circondariale teramana di Castrogno, dopo l’ordine di carcerazione portato ad esecuzione lo scorso 26 novembre.

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LE DELEGHE LEGISLATIVE CONTENUTE NEL JOBS ACT

di Germano De Sanctis

Premessa.

Nel corso della giornata del 3 dicembre scorso, il Senato ha approvato in via definitiva la Legge delega di riforma del lavoro, meglio nota come “Jobs Act”. Entro entro sei mesi dall’entrata in vigore della presente legge, dovranno essere emanati i suoi Decreti Legislativi attuativi.

Esaminiamo nel dettaglio il contenuto delle deleghe conferite al Governo, evidenziando che esse interessano le seguenti cinque importanti aree tematiche:

  1. gli ammortizzatori sociali;
  2. i servizi per l’impiego e le politiche attive del lavoro;
  3. le procedure e gli adempimenti concernenti la costituzione e la gestione dei rapporti di lavoro;
  4. la disciplina dei rapporti di lavoro e l’attività ispettiva;
  5. la tutela e la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro.

La delega in materia di ammortizzatori sociali.

L’art. 1, comma 1, contiene una specifica delega al Governo per la riforma degli di ammortizzatori sociali, tenuto conto delle peculiarità dei diversi settori produttivi e senza produrre nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica (cfr., art 1, comma 12).

In particolare, tale delega interviene nella materia della disoccupazione involontaria, prevedendo l’introduzione di tutele uniformi e legate alla storia contributiva dei lavoratori, attraverso:

  • la razionalizzazione della normativa in materia di integrazione salariale;
  • il coinvolgimento attivo di quanti siano stati espulsi dal mercato del lavoro, ovvero siano beneficiari di ammortizzatori sociali;
  • la semplificazione delle procedure amministrative;
  • la riduzione degli oneri non salariali del lavoro.

L‘art. 1, comma 2, contiene i principi ed i criteri direttivi per l’esercizio della delega in esame.

In primo luogo, con riferimento agli strumenti di tutela in costanza di rapporto di lavoro, la legge delega prevede:

  • l’impossibilità di autorizzare le integrazioni salariali in caso di cessazione definitiva di attività aziendale o di un ramo di essa;
  • la semplificazione delle procedure burocratiche attraverso l’incentivazione di strumenti telematici e digitali, considerando anche la possibilità di introdurre meccanismi standardizzati a livello nazionale di concessione dei trattamenti prevedendo strumenti certi ed esigibili;
  • la necessità di regolare l’accesso alla CIG solo a seguito di esaurimento delle possibilità contrattuali di riduzione dell’orario di lavoro, eventualmente destinando una parte delle risorse attribuite alla cassa integrazione a favore dei contratti di solidarietà;
  • la revisione dei limiti di durata da rapportare al numero massimo di ore ordinarie lavorabili nel periodo di intervento della CIG ordinaria e della CIG straordinaria;
  • la previsione di una maggiore compartecipazione da parte delle imprese utilizzatrici;
  • la riduzione degli oneri contributivi ordinari e la rimodulazione degli stessi tra i settori in funzione dell’utilizzo effettivo;
  • la revisione dell’ambito di applicazione della cassa integrazione guadagni ordinaria e straordinaria e dei fondi di solidarietà ex art. 3 Legge n. 92/2012, fissando un termine certo per l’avvio dei fondi medesimi, anche attraverso l’introduzione di meccanismi standardizzati di concessione;
  • la revisione dell’ambito di applicazione e delle regole di funzionamento dei contratti di solidarietà ex Legge n. 863/1984;

Invece, per quanto concerne gli strumenti di sostegno in caso di disoccupazione involontaria, la legge delega dispone:

  • la rimodulazione dell’Assicurazione sociale per l’impiego (ASpI), con omogeneizzazione della disciplina relativa ai trattamenti ordinari e ai trattamenti brevi, rapportando la durata dei trattamenti alla pregressa storia contributiva del lavoratore;
  • l’incremento della durata massima per i lavoratori con carriere contributive più rilevanti;
  • l’universalizzazione del campo di applicazione dell’ASpI, con estensione ai lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa, fino al suo superamento, e con l’esclusione degli amministratori e sindaci, mediante l’abrogazione degli attuali strumenti di sostegno del reddito, l’eventuale modifica delle modalità di accreditamento dei contributi e l’automaticità delle prestazioni, e prevedendo, prima dell’entrata a regime, un periodo almeno biennale di sperimentazione a risorse definite;
  • l’introduzione di massimali in relazione alla contribuzione figurativa;
  • l’eventuale introduzione, dopo la fruizione dell’ASpI, di una prestazione, eventualmente priva di copertura figurativa, limitata ai lavoratori, in disoccupazione involontaria, che presentino valori ridotti dell’indicatore della situazione economica equivalente, con previsione di obblighi di partecipazione alle iniziative di attivazione proposte dai servizi competenti;
  • l’eliminazione dello stato di disoccupazione come requisito per l’accesso a servizi di carattere assistenziale.

Inoltre, i beneficiari degli ammortizzatori sociali dovranno essere destinatari di meccanismi ed interventi che incentivino la ricerca attiva di una nuova occupazione, ricorrendo a percorsi personalizzati (di cui all’art. 1, comma 4, lett. v)) d’istruzione, formazione professionale e lavoro, anche mediante l’adozione di strumenti di segmentazione dell’utenza basati sull’osservazione statistica. Coerentemente, viene previsto l’adeguamento delle sanzioni e delle relative modalità di applicazione, nei confronti del lavoratore beneficiario di sostegno al reddito che non si rende disponibile ad una nuova occupazione, o a programmi di formazione.

La delega in materia di servizi per l’impiego e di politiche attive per il lavoro.

L’art. 1, comma 3, contiene la delega al Governo in materia di servizi per l’impiego e di politiche attive per il lavoro. L’attività riformatrice oggetto di siffatta delega legislativa intende garantire un’effettiva fruizione dei servizi essenziali in materia di politica attiva per il lavoro su tutto il territorio nazionale, unitamente all’esercizio unitario delle relative funzioni amministrative.

L’art. 1, comma 4, contiene i principi ed i criteri direttivi per l’esercizio della delega cui il Governo deve attenersi. Essi sono:

  • la razionalizzazione degli incentivi all’assunzione esistenti;
  • la razionalizzazione degli incentivi per l’autoimpiego e l’autoimprenditorialità, anche nella forma dell’acquisizione delle imprese in crisi da parte dei dipendenti;
  • l’istituzione, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, di un’Agenzia Nazionale per l’Occupazione (qui, di seguito, denominata “Agenzia”), partecipata dallo Stato, dalle Regioni e dalle Province Autonome e vigilata dal Ministero del Lavoro, al cui funzionamento si provvede con le risorse umane, finanziarie e strumentali già disponibili a legislazione vigente;
    il coinvolgimento delle parti sociali nella definizione delle linee di indirizzo generali dell’azione dell’Agenzia;
  • l’attribuzione all’Agenzia di competenze gestionali in materia di servizi per l’impiego, politiche attive del lavoro e ASpI;
  • la razionalizzazione degli enti strumentali e degli uffici del Ministero del Lavoro, mediante l’utilizzo delle risorse umane, strumentali e finanziarie già disponibili a legislazione vigente;
  • la razionalizzazione e la revisione delle procedure e degli adempimenti in materia di inserimento mirato delle persone con disabilità ex Legge n. 68/1999;
  • l’individuazione del comparto contrattuale del personale dell’Agenzia con modalità tali da garantire l’invarianza di oneri per la finanza pubblica;
  • la determinazione della dotazione organica di fatto dell’Agenzia attraverso la corrispondente riduzione delle posizioni presenti nella pianta organica di fatto delle amministrazioni di provenienza del personale ricollocato presso l’Agenzia medesima;
  • il rafforzamento delle funzioni di monitoraggio e valutazione delle politiche e dei servizi;
  • la valorizzazione delle sinergie tra servizi pubblici e privati, nonché operatori del terzo settore, dell’istruzione secondaria, professionale e universitaria, anche mediante la definizione dei criteri per l’accreditamento e l’autorizzazione dei soggetti che operano sul mercato del lavoro e la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni nei servizi pubblici per l’impiego;
  • la valorizzazione della bilateralità attraverso il riordino della disciplina vigente in materia;
  • l’introduzione di principi di politica attiva del lavoro che prevedano la promozione di un collegamento tra misure di sostegno al reddito della persona inoccupata o disoccupata e misure volte al suo inserimento nel tessuto produttivo, anche attraverso la conclusione di accordi per la ricollocazione che vedano come parte le agenzie per il lavoro o altri operatori accreditati, con obbligo di presa in carico, e la previsione di adeguati strumenti e forme di remunerazione, proporzionate alla difficoltà di collocamento, a fronte dell’effettivo inserimento almeno per un congruo periodo, a carico di fondi regionali a ciò destinati, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica statale o regionale;
  • l’introduzione di modelli sperimentali, che prevedano l’utilizzo di strumenti per incentivare il collocamento dei soggetti in cerca di lavoro e che tengano anche conto delle buone pratiche realizzate a livello regionale;
  • la previsione di meccanismi di raccordo e di coordinamento delle funzioni tra l’Agenzia e l’INPS (sia a livello centrale, che territoriale), al fine di favorire una maggiore integrazione delle politiche attive e delle politiche di sostegno del reddito;
  • la previsione di meccanismi di raccordo tra l’Agenzia e gli enti che (a livello centrale e territoriale) esercitano competenze in materia di incentivi all’autoimpiego e all’autoimprenditorialità;
  • il mantenimento in capo alle Regioni ed alle Province Autonome delle competenze in materia di programmazione di politiche attive del lavoro;
  • l’attivazione del soggetto che cerca lavoro, in quanto mai occupato, espulso dal mercato del lavoro o beneficiario di ammortizzatori sociali, al fine di incentivarne la ricerca attiva di una nuova occupazione, secondo percorsi personalizzati di istruzione, formazione professionale e lavoro.

La delega per la semplificazione e la razionalizzazione delle procedure e degli adempimenti concernenti la costituzione e la gestione dei rapporti di lavoro.

La delega legislativa contenuta nell’art. 1, comma 5, concerne il conseguimento di obiettivi di semplificazione e razionalizzazione delle procedure in materia di costituzione e gestione dei rapporti di lavoro, nonché in materia di igiene e sicurezza sul lavoro.

I principi ed i criteri direttivi da osservare durante l’esercizio della delega legislativa in esame sono contenuti nell’art. 1, comma 6. Essi sono:

  • la razionalizzazione e la semplificazione delle procedure e degli adempimenti, anche mediante abrogazione di norme, connessi con la costituzione e la gestione del rapporto di lavoro, con l’obiettivo di ridurre drasticamente il numero di atti di gestione del medesimo rapporto, di carattere amministrativo;
  • la semplificazione, anche mediante norme di carattere interpretativo, o abrogazione delle norme interessate da rilevanti contrasti interpretativi, giurisprudenziali o amministrativi;
    l’unificazione delle comunicazioni alle Pubbliche Amministrazioni per i medesimi eventi e obbligo delle stesse Amministrazioni di trasmetterle alle altre amministrazioni competenti;
  • l’introduzione del divieto per le Pubbliche Amministrazioni di richiedere dati dei quali esse sono in possesso;
  • il rafforzamento del sistema di trasmissione delle comunicazioni in via telematica e abolizione della tenuta di documenti cartacei;
  • la revisione del regime delle sanzioni, tenendo conto dell’eventuale natura formale della violazione, in modo da favorire l’immediata eliminazione degli effetti della condotta illecita, nonché valorizzazione degli istituti di tipo premiale;
    la previsione di modalità semplificate per garantire data certa, nonché l’autenticità della manifestazione di volontà della lavoratrice o del lavoratore in relazione alle dimissioni o alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, anche tenuto conto della necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente in tal senso della lavoratrice o del lavoratore;
  • l’individuazione di modalità organizzative e gestionali che consentano di svolgere esclusivamente in via telematica tutti gli adempimenti di carattere amministrativo connessi con la costituzione, la gestione e la cessazione del rapporto di lavoro;
  • la revisione degli adempimenti in materia di libretto formativo del cittadino, anche con riferimento al sistema dell’apprendimento permanente;
  • la promozione del principio di legalità e priorità delle politiche volte a prevenire e scoraggiare il lavoro sommerso in tutte le sue forme ai sensi delle risoluzioni del Parlamento europeo del 9 ottobre 2008 sul rafforzamento della lotta al lavoro sommerso (2008/2035(INI)) e del 14 gennaio 2014 sulle ispezioni sul lavoro efficaci come strategia per migliorare le condizioni di lavoro in Europa (2013/2112(INI)).

La delega per il riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e delle tipologie dei relativi contratti e per la razionalizzazione e semplificazione dell’attività ispettiva.

L’art. 1, comma 7, reca una delega al Governo per il riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e delle tipologie dei relativi contratti, nonché per la razionalizzazione e semplificazione dell’attività ispettiva.

Allo scopo di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, nonché di riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo e di rendere più efficiente l’attività ispettiva, l’art. 1, comma 7, ha delegato il Governo è delegato ad adottare uno o più decreti legislativi. Uno di tali decreti legislativi deve contenere un testo organico semplificato delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro.

L’esercizio della delega legislativa avverrà nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi:

  • l’individuazione e l’analisi di tutte le forme contrattuali esistenti, in funzione dei predetti interventi di semplificazione, modifica o superamento delle medesime tipologie contrattuali;
  • la promozione del contratto di lavoro a tempo indeterminato come forma comune di contratto di lavoro, rendendolo più conveniente rispetto agli altri tipi di contratto in termini di oneri diretti e indiretti;
  • la previsione, per le nuove assunzioni, del contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento;
  • il rafforzamento degli strumenti per favorire l’alternanza tra scuola e lavoro;
  • la revisione della disciplina delle mansioni, in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale individuati sulla base di parametri oggettivi, contemperando gli interessi dei datori di lavori con gli interessi dei lavoratori, prevedendo limiti alla modifica dell’inquadramento;
  • la revisione della disciplina dei controlli a distanza sugli impianti e sugli strumenti di lavoro, tenendo conto dell’evoluzione tecnologica e contemperando le esigenze produttive ed organizzative dell’impresa con la tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore;
  • l’introduzione (anche in via sperimentale) del compenso orario minimo, applicabile ai rapporti aventi ad oggetto una prestazione di lavoro subordinato, nonché, fino al loro superamento, ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, nei settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale;
  • la previsione, nel rispetto dell’art. 70 D.Lgs. n. 276/2003, della possibilità di estendere, il ricorso a prestazioni di lavoro accessorio per le attività lavorative discontinue e occasionali nei diversi settori produttivi;
    l’abrogazione di tutte le disposizioni che disciplinano le singole forme contrattuali, incompatibili con le disposizioni del testo organico semplificato, al fine di eliminare duplicazioni normative e difficoltà interpretative e applicative;
  • la razionalizzazione e la semplificazione dell’attività ispettiva, attraverso misure di coordinamento ovvero attraverso l’istituzione, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica e con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, di una Agenzia Unica per le Ispezioni del Lavoro, tramite l’integrazione in un’unica struttura dei servizi ispettivi del Ministero del lavoro, dell’INPS e dell’INAIL, prevedendo, altresì, strumenti e forme di coordinamento con i servizi ispettivi delle ASL e delle agenzie regionali per la protezione ambientale.

La delega per la revisione e l’aggiornamento delle misure volte a tutelare le cure parentali, la maternità e le forme di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.

L‘art. 1, comma 8, prevede una specifica delega al Governo, finalizzata a garantire un adeguato sostegno alle cure parentali, attraverso misure volte a tutelare la maternità delle lavoratrici, nonché a favorire le opportunità di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro per la generalità dei lavoratori. Tale delega sarà attuata entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge delega attraverso l’emanazione di uno o più decreti legislativi finalizzati alla revisione e all’aggiornamento delle misure volte a tutelare la maternità e le forme di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.

I principi ed i criteri direttivi di tale delega sono rinvenibili nell’art. 1, comma 9. Essi sono:

  • la ricognizione delle categorie di lavoratrici beneficiarie dell’indennità di maternità, nella prospettiva di estendere tale prestazione a tutte le categorie di donne lavoratrici;
  • la garanzia, per le lavoratrici madri parasubordinate, del diritto alla prestazione assistenziale, anche in caso di mancato versamento dei contributi da parte del datore di lavoro;
  • l’introduzione del tax credit, quale incentivo al lavoro femminile, per le donne lavoratrici (anche autonome) con figli minori o disabili non autosufficienti e che si trovino al di sotto di una determinata soglia di reddito individuale complessivo;
  • l’armonizzazione del regime delle detrazioni per il coniuge a carico;
  • l’incentivazione di accordi collettivi volti a favorire la flessibilità dell’orario lavorativo e dell’impiego di premi di produttività, al fine di favorire la conciliazione tra l’esercizio delle responsabilità genitoriali e dell’assistenza alle persone non autosufficienti e l’attività lavorativa, anche attraverso il ricorso al telelavoro;
  • l’eventuale riconoscimento (compatibilmente con il diritto ai riposi settimanali ed alle ferie annuali retribuite) della possibilità di cessione fra lavoratori dipendenti dello stesso datore di lavoro di tutti o parte dei giorni di riposo aggiuntivi spettanti in base al CCNL in favore del lavoratore genitore di figlio minore che necessita di presenza fisica e cure costanti per le particolari condizioni di salute;
  • l’integrazione dell’offerta di servizi per le cure parentali forniti dalle imprese e dai fondi o enti bilaterali nel sistema pubblico-privato dei servizi alla persona in coordinamento con gli enti locali titolari delle funzioni amministrative;
  • la ricognizione delle disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, ai fini di poterne valutare la revisione per garantire una maggiore flessibilità dei relativi congedi obbligatori e parentali, favorendo le opportunità di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro;
  • l’introduzione di congedi dedicati alle donne inserite nei percorsi di protezione relativi alla violenza di genere debitamente certificati dai servizi sociali del comune di residenza.

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La riforma degli ammortizzatori sociali contenuta nel Jobs Act

di Germano De Sanctis

Premessa

Come è noto, dopo l’approvazione da parte della della Camera dei Deputati avvenuta lo scorso 25 novembre, il Jobs Act è ritornato al Senato per la terza lettura. Il disegno di legge sarà discusso in aula il 2 dicembre con l’obiettivo di giungere alla sua approvazione entro il 4 dicembre senza ulteriori modifiche.

Con l’entrata in vigore del Jobs Act (cioè, il giorno successivo alla sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale), inizieranno a decorrere i sei mesi che il Governo avrà a disposizione per emanare i vari decreti legislativi attuativi della legge delega.

In particolare, il Jobs Act interviene in materia di ammortizzatori sociali. Esaminiamo come tali istituti giuridici muteranno con l’approvazione del disegno di legge in questione, ricordando velocemente come sono attualmente disciplinati.

La disciplina vigente degli ammortizzatori sociali.

La normativa in vigore (cioè, la Legge n. 92/2012, c.d. “Riforma Fornero”), prevede che, in caso di licenziamento, al lavoratore debbano essere erogate due indennità: l’ASpI e la Mini ASpI.

L’ASpI viene riconosciuta alle seguenti tipologie di lavoratori che risultano aver perso il lavoro per motivi indipendenti dalla loro volontà:

  • i lavoratori dipendenti del settore privato;
  • i lavoratori assunti con contratto di apprendistato;
  • i lavoratori di cooperativa.

Sono esclusi dall’ambito di applicazione dell’AspI:

  • i dipendenti a tempo indeterminato delle Pubbliche Amministrazioni;
  • gli operai agricoli;
  • i lavoratori extracomunitari con permesso di soggiorno di lavoro stagionale.

Per poter essere beneficiari dell’ASpI, bisogna possedere due requisiti:

  • essere assicurati all’INPS da minimo due anni;
  • aver pagato almeno un anno di contributi nei due che precedono il momento in cui si è perso il lavoro.

I lavoratori che non possiedono i predetti requisiti possono beneficiare della Mini ASpI, a condizione che abbiano versato almeno 13 settimane di contributi negli ultimi 12 mesi. In tale ipotesi, costoro riceveranno un’indennità per un lasso di tempo pari alla metà delle settimane lavorate nel corso dell’ultimo anno.

La riforma degli ammortizzatori sociali contenuta nel Jobs Act.

Il Jobs Act riforma interamente il poc’anzi descritto sistema degli ammortizzatori sociali contenuto nella Riforma Fornero. L’AspI e la Mini ASpI vengono radicalmente trasformate con lo scopo di tutelare una platea più ampia di lavoratori e, di conseguenza, aumentare il livello di equità dei sussidi garantiti dal Governo.
In particolare, l’ASpI verrà estesa ed universalizzata anche a coloro che perdono il lavoro senza possibilità di reintegro ed estenderà il suo ambito di applicazione anche a favore dei co.co.pro. (però, con l’esclusione degli amministratori e dei sindaci), mediante l’abrogazione degli attuali strumenti di sostegno del reddito, nonché attraverso l’eventuale modifica delle modalità di accreditamento dei contributi e dell’automaticità delle prestazioni. A tal fine, è previsto, prima dell’entrata a regime, un periodo almeno biennale di sperimentazione a risorse definite.
In estrema sintesi, l’AspI e la Mini AspI saranno unificate in un’unica indennità, la cui durata sarà direttamente proporzionale al periodo contributivo maturato dal lavoratore. Pertanto, in virtù di tale stretto rapporto con la pregressa storia contributiva del lavoratore, coloro che hanno lavorato per molti anni, saranno beneficiari del sussidio di disoccupazione per un tempo maggiore.

L’universalizzazione dell’AspI comporterà le seguenti modifiche sostanziali all’intero sistema contributivo vigente:

  • introduzione di massimali in relazione alla contribuzione figurativa;
  • eventuale introduzione, dopo la fruizione dell’ASpI, di una prestazione, eventualmente priva di copertura figurativa, limitata ai lavoratori, in disoccupazione involontaria, che presentino valori ridotti dell’indicatore della situazione economica equivalente, con previsione di obblighi di partecipazione alle iniziative di attivazione proposte dai servizi competenti;
  • eliminazione dello stato di disoccupazione come requisito per l’accesso a servizi di carattere assistenziale;
  • attivazione a favore del soggetto beneficiario di ammortizzatori sociali di meccanismi ed interventi finalizzati all’incentivazione della ricerca attiva di una nuova occupazione, ricorrendo a percorsi personalizzati;
  • previsione di un coinvolgimento attivo del soggetto beneficiario di ammortizzatori sociali, tale da consistere anche nello svolgimento di attività a beneficio delle comunità locali, con modalità che non determinino aspettative di accesso agevolato alla Pubblica Amministrazione;
  • adeguamento delle sanzioni e delle relative modalità di applicazione, in funzione della migliore effettività, secondo criteri oggettivi e uniformi, nei confronti del lavoratore beneficiario di sostegno al reddito, che non si rende disponibile ad una nuova occupazione, a programmi di formazione, o ad attività a beneficio di comunità locali.

Vista la chiara volontà d’introdurre un sistema di garanzia universale, sarebbe auspicabile che i decreti legislativi prevedano, in caso di disoccupazione involontaria, la costituzione di un sistema di tutele uniformi e legate alla storia contributiva dei lavoratori, nonché una riduzione adeguata della severità dei criteri di accesso per l’AspI, al fine di garantire un effettivo ampliamento della platea dei lavoratori tutelati. Ovviamente, una operazione del genere manterrebbe una sua equità, a condizione che la durata del sostegno al reddito sia modulato in relazione alla anzianità contributiva del lavoratore interessato ed, nel rispetto della delega legislativa, incrementando l’attuale durata a favore di quei lavoratori che posseggono una importante anzianità contributiva.

Gli interventi del Jobs Act in materia di cassa integrazione.

In primo luogo, il Jobs Act prevede che l’erogazione della CIGS venga sospesa in caso di cessazione definitiva dell’attività aziendale o di un ramo della stessa. Inoltre, è stato specificato che i meccanismi standardizzati per la concessione di ammortizzatori saranno definiti a livello nazionale.
Il Jobs Act ha, altresì, previsto che l’accesso alla cassa integrazione guadagni può avvenire soltanto a seguito dell’esaurimento delle possibilità contrattuali di riduzione dell’orario di lavoro, eventualmente destinando una parte delle risorse attribuite alla cassa integrazione a favore dei contratti di solidarietà. Appare evidente l’intenzione contenuta in tale previsione di responsabilizzare le imprese, obbligandole a farsi direttamente carico della situazione, prima di poter accedere alle nuove tutele previste dal sistema previdenziale.
In altri termini, le previsioni di carattere generale poc’anzi indicate rendono evidente che siamo di fronte ad un totale cambio di prospettiva, caratterizzato dall’idea di rivedere i limiti di durata dell’integrazione salariale in stretta correlazione ai singoli lavoratori e non, come attualmente accade, alla condizioni in cui si trova l’impresa ed alle circostanze che ne rendono necessario l’utilizzo.

A fronte di tale affermazioni di carattere generale, il disegno di legge in esame fornisce la delega al Governo per:

  • operare la revisione dei limiti di durata da rapportare al numero massimo di ore ordinarie lavorabili nel periodo di intervento della cassa integrazione guadagni ordinaria e della cassa integrazione guadagni straordinaria e individuazione dei meccanismi di incentivazione della rotazione;
  • prevedere una maggiore compartecipazione da parte delle imprese utilizzatrici;
    ridurre gli oneri contributivi ordinari e rimodulazione degli stessi tra i settori in funzione dell’utilizzo effettivo.

Per quanto concerne le risorse finanziare disponibili, stante la permanenza in vigore nel 2015 della cassa integrazione, l’ASpI e la Mini ASpI eroderanno la quantità di risorse finora esclusivamente destinate alla CIG ed alla CIGS, pari a circa 1,5 miliardi di euro, a cui si dovrebbero aggiungere i circa 400 milioni di euro stanziati dal Governo Renzi per il biennio 2015/2016. Poi, come noto, la cassa integrazione e la mobilità in deroga scompariranno a partire dall’anno 2016.

Il ruolo attribuito all’Agenzia Nazionale per l’Occupazione in materia di ammortizzatori sociali.

Il Jobs Act attribuisce all’Agenzia Nazionale per l’Occupazione (di seguito, denominata Agenzia) la competenza gestionale in materia di servizi per l’impiego, politiche attive e ASPI.
Tale Agenzia si occuperà anche di servizi per il lavoro e di politiche attive e sarà partecipata dallo Stato, dalle Regioni e dalle Province autonome e sarà sottoposta alla vigilanza del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, con il coinvolgimento delle parti sociali nella definizione delle linee di indirizzo generali e meccanismi di raccordo con l’INPS.
In un ottica di diritto comparato, appaiono evidenti le assonanze con l’agenzia federale per il lavoro tedesca.
L’intenzione del legislatore delegato è quella di creare un’Agenzia capace di coordinare e gestire il collocamento, le politiche del lavoro, la formazione e gli ammortizzatori sociali, realizzando un autentico raccordo tra le politiche attive e le politiche passive del lavoro, finalizzato all’inserimento e/o al reinserimento nel mercato del lavoro dei lavoratori inoccupati e/o disoccupati. Sarà interessante analizzare come il decreto attuativo in materia declinerà tali indicazioni contenute nella delega legislativa.

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Le previsioni del Jobs Act sull’Agenzia Nazionale per l’Occupazione

di Germano De Sanctis

Come è noto, la Camera dei Deputati ha licenziato il disegno di legge denominato “Jobs Act”, modificandone il contenuto rispetto al testo già approvato in sede di prima lettura dal Senato e che, quindi, dovrà essere riesaminato da quest’ultimo ramo del Parlamento.

Tale disegno di legge prevede l’istituzione di un’Agenzia Nazionale per l’Occupazione (di seguito, denominata Agenzia; cfr. art. 1, comma 4, lett.c), per l’esercizio della delega legislativa (prevista dall’art. 1, comma 3) finalizzata al riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e di politiche attive. Si tiene a precisare, che nonostante l’istituzione dell’Agenzia in questione, l’art. 4, comma 1, lett. u) prevede il mantenimento in capo alle Regioni e alle Province autonome delle competenze in materia di programmazione di politiche attive del lavoro.

In particolare, ai sensi del predetto art. 1, comma 4, la citata delega legislativa dovrà fissare alcuni principi e criteri direttivi, volti a delineare specificatamente le funzioni e le competenze dell’Agenzia, le quali sono solo declinate in maniera generica nell’articolato del Jobs Act.

Venendo all’esame specifico delle disposizioni dedicate all’Agenzia, emerge, in primo luogo, il coinvolgimento delle parti sociali nella definizione delle linee di indirizzo generali dell’azione dell’Agenzia (cfr., art. 1, comma 4, lett. d). Tale aspetto assume un’importanza peculiare se si considera che è stata attribuita all’Agenzia la competenza gestionale in materia di servizi per l’impiego, politiche attive e ASPI (cfr., art. 1, comma 4, lett. e).

Invece, per quanto concerne il processo istitutivo dell’Agenzia, il Jobs Act chiarisce che essa sarà istituita (anche ex art. 8, D.Lgs. n. 300/1999) senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica e sarà, altresì, partecipata dallo Stato, dalle Regioni e dalle Province Autonome. Inoltre l’Agenzia sarà sottoposta alla vigilanza del Ministero del Lavoro (cfr., art. 1, comma 4, lett. c).

Al funzionamento dell’Agenzia si provvederà attraverso l’utilizzo delle risorse umane, finanziarie e strumentali già disponibili a legislazione vigente (cfr., art. 1, comma 4, lett. c), nonché mediante la razionalizzazione degli enti strumentali e degli uffici del Ministero del Lavoro allo scopo di aumentare l’efficienza e l’efficacia (cfr., art. 1, comma 4, lett. f).
Con specifico riferimento al conferimento delle risorse umane destinate al funzionamento dell’Agenzia, è stata prevista la possibilità di far confluire, in via prioritaria, nei ruoli dell’Agenzia stessa il personale proveniente dalle Amministrazioni o dagli uffici soppressi o riorganizzati in attuazione del poc’anzi esaminato art. 1, comma 4, lett. f), nonché proveniente da altre Amministrazioni (cfr., art. 1, comma 4, lett. h). L’immissione nel ruolo dell’Agenzia del personale in questione comporterà l’individuazione del comparto contrattuale da adottare, assicurando modalità tali da garantire l’invarianza degli oneri per la finanza pubblica (cfr., art. 1, comma 4, lett. i).
La determinazione della dotazione organica di fatto dell’Agenzia sarà garantita attraverso la corrispondente riduzione delle posizioni presenti nella pianta organica di fatto delle Amministrazioni di provenienza del personale ricollocato presso l’Agenzia medesima (cfr., art. 1, comma 4, lett. l).

Venendo ai rapporti interistituzionali dell’Agenzia, si dispone, innanzi tutto, la previsione di meccanismi di raccordo e di coordinamento delle funzioni tra l’Agenzia e l’INPS, sia a livello centrale che a livello territoriale, al fine di tendere a una maggiore integrazione delle politiche attive e delle politiche di sostegno del reddito (cfr., art. 1, comma 4, lett. r). Inoltre, sono previsti meccanismi di raccordo tra l’Agenzia e gli enti che, a livello centrale e territoriale, esercitano competenze in materia di incentivi all’autoimpiego e all’autoimprenditorialità (cfr., art. 1, comma 4, lett. s).

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