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La Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima la “Riforma Madia” nella parte in cui prevede il parere della Conferenza Stato-Regioni e non l’intesa

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di Germano De Sanctis

Con la sentenza n. 251 depositata il 25 novembre 2016, la Corte Costituzionale ha dichiarato la illegittimità costituzionale di alcune norme della Legge delega, 7 agosto 2015 n. 124 (meglio nota come “Riforma Madia”) avente ad ad oggetto la riforma della Pubblica Amministrazione

Nello specifico, gli articoli della Legge n. 124/2015 oggetto del vaglio di legittimità costituzionale sono stati i seguenti:

  • art. 1, comma 1, lett. b), c) e g);

  • art. 1, comma 2;

  • art. 11, comma 1, lett. a), b), n. 2, c), nn. 1 e 2), e), f), g), h), i), l), m), n), o), p) e q);

  • art. 11, comma 2,;

  • art. 16, comma 1;

  • art. 16, comma 4;

  • art. 17, comma 1, lett. a), b), c), d), e), f), l), m), o), q), r), s) e t);

  • art. 18, lett. a), b), c), e), i), l) e m), nn. da 1 a 7;

  • art. 19, lett. b), c), d), g), h), l), m), n), o), p), s), t) e u);

  • art. 23, comma 1.

In estrema sintesi, il giudizio di illegittimità costituzionale interessa quella parte della Legge 124/2015 in cui è stato previsto che l’attuazione della stessa attraverso appositi decreti legislativi, possa avvenire a seguito di un semplice parere della Conferenza Stato-Regioni o Unificata. Invece, secondo la Consulta, la quale si è pronunciata a seguito di un ricorso della Regione Veneto, è necessaria una previa intesa.

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Entrando nel dettaglio, le norme impugnate hanno ad oggetto la delega al Governo ad adottare una serie di decreti legislativi per il riordino di numerosi settori delle Pubbliche Amministrazioni, comprese quelle regionali e degli enti locali.

Tali decreti legislativi interessano:

  • la cittadinanza digitale (art.1);

  • la dirigenza pubblica (art, 11);

  • il conferimento degli incarichi di direttore generale, di direttore amministrativo e di direttore sanitario delle Aziende UU.SS.LL. (art. 11);

  • il lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni (art. 17);

  • le partecipazioni azionarie delle Pubbliche Amministrazioni (art. 18);

  • i servizi pubblici locali di interesse economico generale (art. 19).

Come si vede, si stratta di diverse materie che vedono coinvolti, in una prospettiva unitaria, interessi e competenze, sia statali, che regionali (ed, in alcuni casi, anche degli enti locali).

Per tale ragione, la Corte costituzionale ha affermato che, in primo luogo, necessita verificare se, nei singoli settori in cui intervengono le norme impugnate, vi siano alcune materie rispetto alle quali risulti evidente la competenza prevalente dello Stato. Siffatta prevalenza escluderebbe la violazione delle competenze regionali.

Qualora non fosse possibile individuare una materia di competenza dello Stato cui ricondurre, in via prevalente, la normativa impugnata, poiché sussiste una concorrenza di competenze, statali e regionali, relative a materie legate in un intreccio inestricabile, il legislatore statale deve necessariamente rispettare il principio di leale collaborazione e prevedere adeguati strumenti di coinvolgimento delle Regioni (e degli enti locali), a difesa delle loro competenze.

Tale impostazione ermeneutica era già stata evidenziata in precedenti occasioni da parte della Consulta. Infatti, la Corte Costituzionale ha più volte evidenziato che il legislatore statale deve vincolare l’attuazione della propria normativa al raggiungimento di un’intesa, basata sulla reiterazione delle trattative al fine del raggiungimento di un esito consensuale, nella sede della Conferenza Stato-Regioni o della Conferenza unificata, a seconda che siano in discussione solo interessi e competenze statali e regionali o anche degli enti locali.

Si tiene a precisare che la costante giurisprudenza della Corte Costituzionale qualifica le Conferenze come le sedi più qualificate per realizzare la leale collaborazione e, in particolare, per consentire alle Regioni di svolgere un ruolo costruttivo nella determinazione del contenuto di atti legislativi statali che incidono su materie di competenza regionale.

In coerenza con tale filone giurisprudenziale, la Corte Cost. n. 251/2016 ha affermato che l’intesa nella Conferenza è un necessario passaggio procedurale anche qualora la normativa statale debba essere attuata con decreti legislativi delegati adottati dal Governo nel rispetto dell’art. 76 Cost. Infatti, questi decreti legislativi delegati sono sottoposti a limiti temporali e qualitativi e condizionati a tutte le indicazioni contenute nella Costituzione e nella legge delega. Pertanto, essi non possono sottrarsi alla procedura concertativa appositamente prevista per garantire il pieno rispetto del riparto costituzionale delle competenze.

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In virtù di siffatto ragionamento ermeneutico, la Corte Costituzionale ha respinto i gravami di legittimità costituzionale proposti dalla Regione Veneto nei confronti delle norme recanti la delega a modificare e integrare il D.Lgs., 7 marzo 2005, n. 82, meglio noto come Codice dell’Amministrazione Digitale (cfr., art. 1, Legge n. 124/2015). Infatti, queste norme costituiscono un’espressione, in maniera prevalente, della competenza statale in tema di coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’Amministrazione statale, regionale e locale (cfr., art. 117, comma 2, lett. r), Cost.), poiché esse garantiscono una comunanza di linguaggi, di procedure e di standard omogenei, necessaria per rendere possibile la comunicabilità tra i sistemi informatici della Pubblica Amministrazione (cfr., in tal senso, Corte Cost. n. 17/2004), nell’ottica della piena realizzazione dell’Agenda Digitale Italiana, a sua volta, rispettosa delle indicazioni provenienti dall’Unione Europea.

Per di più, tali norme assolvono anche all’esigenza primaria di offrire ai cittadini garanzie uniformi su tutto il territorio nazionale nell’accesso ai dati personali, come pure ai servizi. Si tratta evidentemente di una esigenza riconducibile alla competenza statale in materia di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni dei diritti civili e sociali (cfr., art. 117, comma 2, lett. m), Cost.).

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Invece, per quanto concerne le norme contenenti la delega al Governo in materia riorganizzazione della dirigenza pubblica (cfr., art. 11, Legge n. 124/2015), la Corte costituzionale ha riscontrato un chiaro ed inestricabile concorso di competenze statali e regionali, tale impedire che le une fossero prevalenti sulle altre.

Quest’ultima considerazione è apparsa particolarmente pregnante in relazione all’istituzione del ruolo unico dei dirigenti regionali e alla definizione, da un lato, dei requisiti di accesso, delle procedure di reclutamento, delle modalità di conferimento degli incarichi, nonché della durata e della revoca degli stessi (aspetti inerenti all’organizzazione amministrativa regionale, di chiara competenza regionale), dall’altro, di regole unitarie inerenti al trattamento economico ed al regime di responsabilità dei dirigenti (aspetti inerenti al rapporto di lavoro privatizzato e, quindi, sicuramente riconducibili alla materia dell’ordinamento civile, di competenza statale).

Pertanto, la Corte Costituzionale ha dovuto dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 11 Legge n. 124/2015, nella parte in cui, incidendo su materie di competenza sia statale, che regionale, prevede che i decreti attuativi siano adottati sulla base di una forma di raccordo con le Regioni, che non è l’intesa, ma il semplice parere, che, come è noto, non garantisce un confronto autentico con le autonomie regionali.

Anche la sede individuata dalle norme impugnate risulta non essere idonea, in quanto le norme impugnate interessano sfere di competenza esclusivamente statali e regionali. Infatti, l’unico luogo idoneo per l’intesa è la Conferenza Stato-Regioni e non la Conferenza unificata.

Anche le norme contenenti le deleghe al Governo per il riordino della disciplina vigente in tema di lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni, nonché di partecipazioni azionarie delle Pubbliche Amministrazioni e di servizi pubblici locali di interesse economico generale interessano una pluralità di materie e di interessi, ineludibilmente connessi e riconducibili, sia a competenze statali (ordinamento civile, tutela della concorrenza, principi di coordinamento della finanza pubblica), che regionali (organizzazione amministrativa regionale, servizi pubblici locali e trasporto pubblico locale).

Pertanto, la Corte Cost. n. 251/2016 ha dovuto dichiarare l’illegittimità costituzionale di tali norme nella parte in cui, incidendo su materie di competenza sia statale sia regionale, è stato previsto che i decreti legislativi attuativi siano adottati sulla base di una forma di raccordo con le Regioni, che non è quella dell’intesa, ma quella del semplice parere, la quale, come detto, non è idonea a realizzare un confronto autentico con le autonomie regionali.

Anche in tal caso, la previa intesa deve essere raggiunta in sede di Conferenza Stato-Regioni per l’adozione delle norme attuative della delega in tema di riordino della disciplina del lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni, in quanto sono in gioco interessi che coinvolgono lo Stato e le Regioni, mentre in sede di Conferenza Unificata sono coinvolti anche gli interessi degli enti locali.

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Infine, si tiene a precisare che la Corte Costituzionale ha circoscritto il giudizio di legittimità solo alle disposizioni di delega specificamente impugnate dalla Regione Veneto, lasciando fuori le norme attuative. Si ricorda che le pronunce di illegittimità costituzionale colpiscono le disposizioni impugnate solo nella parte in cui prevedono che i decreti legislativi siano adottati previo parere e non previa intesa.

Ne consegue che eventuali impugnazioni delle norme attuative dovranno tenere necessariamente conto delle concrete lesioni delle competenze regionali, alla luce delle soluzioni correttive che il Governo, esercitando il suo potere discrezionale, riterrà opportuno adottare in ossequio al principio di leale collaborazione.

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A.A.A. APPARTAMENTO DOTATO DI OGNI COMFORT AFFITTASI A PROSTITUTA REFERENZIATA.

Quella che vi propongo oggi è la vicenda giudiziaria di un imprenditore immobiliare abruzzese, alla cui attività di agente aveva affiancato quella di imprenditore del sesso. Secondo voi è pericoloso dare un immobile in locazione ad una squillo? Non è che rischiamo di finire in carcere, come l’imputato di questo processo, solo per aver affittato ad una di loro? Scopriamolo insieme.

di Michele De Sanctis

Colpevole di favoreggiamento della prostituzione: è questo il verdetto definitivo riconosciuto a carico di un agente immobiliare abruzzese, condannato in appello alla pena di 4 anni di reclusione e 5 di interdizione dai pubblici uffici, oltreché a diecimila euro di multa, in base all’art 3 comma 8 della L. n. 75/58 (c.d. Legge Merlin). Con Sent. n. 47387 dello scorso 18 novembre, la Terza Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione ha, infatti, confermato la condanna subita dall’imprenditore in secondo grado, facendo, dunque, scattare l’ordine di carcerazione e, nel contempo, l’esecuzione di precedenti condanne per altri reati, per un totale di 7 anni e 8 mesi di reclusione.

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A ricorrere al Giudizio di Legittimità era stato lo stesso agente immobiliare, indagato nel 2010 nel corso di un’operazione denominata ‘Non solo affitti 3’, dopo che in secondo grado si era visto confermare la condanna inflittagli dal Tribunale di Teramo nel dicembre del 2011 per favoreggiamento. Secondo l’accusa, a provare la sua colpevolezza era stata la stessa attività di agente immobiliare, attraverso cui l’uomo gestiva i contratti di locazione degli appartamenti in cui circa quaranta prostitute esercitavano abitualmente il loro mestiere, unitamente al fatto che questi si era reso disponibile ad assistere tali donne nelle loro varie necessità. L’uomo, peraltro, fin dal primo grado era stato assolto dall’accusa di sfruttamento della prostituzione perché il fatto non sussisteva, al pari dell’altro imputato, il proprietario di alcuni degli immobili, assolto sia dall’accusa di sfruttamento che di favoreggiamento. Ma per l’imprenditore restava in piedi il secondo dei due capi d’imputazione.

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Questi erano i fatti. Ora, però, analizziamo la sentenza della Cassazione e se avete un’inquilina poco raccomandabile di cui non sapete molto, tranquilli: il semplice ‘affitto’ ad una prostituta non è condotta sufficiente a provare la vostra colpevolezza (quanto meno mancherebbe l’elemento soggettivo). Sia che voi siate proprietari sia che svolgiate attività di mediazione immobiliare. Come noto, nel nostro Paese la prostituzione non è un reato, mentre lo è se ci si approfitta dell’altrui attività di meretricio, cioè se la si sfrutta, oppure semplicemente quando la si favorisce. È questa, infatti, la condotta contestata all’agente immobiliare, ma non per aver gestito i contratti di locazione di un gruppo di prostitute. La mera stipula del contratto, del resto, come in passato già precisato dagli Ermellini, di per sé “non integra la fattispecie criminosa, in quanto l’atto negoziale, in assenza di altre prestazioni accessorie, riguarda la persona e le sue esigenze abitative, e non costituisce diretto ausilio all’attività di prostituzione” (Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 7338 del 04/02/2014). Anzi, il proprietario di un immobile locato ad una squillo non commette reato di favoreggiamento della prostituzione, neppure se consapevole dell’uso che la donna ne faccia, trattandosi, in questo caso, tutt’al più di tolleranza, punita dal comma 2 dell’art. 3 della L. 75/1958. Ma non è colpevole di favoreggiamento, purché – badate bene- il canone di locazione sia onesto, vale a dire in linea con i prezzi di mercato, dal momento che “la stipulazione del contratto non rappresenta un effettivo ausilio per il meretricio” (Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 28754 del 20/03/2013). Pertanto, affinché il locatore (o l’agente immobiliare) possa essere ritenuto colpevole del delitto di favoreggiamento è necessario che questi fornisca qualcosa in più rispetto al semplice godimento del bene immobile, diciamo pure una sorta di extra che la Corte indica in “prestazioni accessorie che esulino dalla stipulazione del contratto ed in concreto agevolino il meretricio” (Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 33160 del 19/02/2013). L’extra offerto dal locatore può essere di varia natura: si va da attività decisamente partecipative all’esercizio dell’attività di meretricio (inserzioni pubblicitarie, fornitura di preservativi, ricezione dei clienti: Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 7338/2014) fino a collaborazioni meno ‘fattive’, ma, non per questo, meno censurabili dal punto di vista penale.
Nel caso di specie, ad esempio, l’agente immobiliare abruzzese, consapevole che le inquiline avrebbero utilizzato quegli appartamenti per prostituirsi, non solo aveva locato tali immobili a un prezzo superiore a quello di mercato, ma si era, peraltro, attivato per favorire il più possibile quella loro particolare attività professionale, predisponendo a tal proposito “un allestimento specifico degli appartamenti diretto a ottimizzare il loro utilizzo per la prostituzione, collocandosi letti matrimoniali anche nelle cucine” (Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 47387 del 18/11/2014). L’uomo, poi, si era altresì reso disponibile ad assistere le donne in molte altre necessità quotidiane: accompagnandole, per esempio, a fare la spesa o in banca o scortandole fino a casa di qualche conoscente.

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La Cassazione non ha, dunque, ravvisato vizi di legittimità nella pronuncia del Giudice d’Appello, secondo cui l’imputato, lungi dall’essersi limitato alla mera locazione delle abitazioni in gestione a un gruppo di squillo, era, piuttosto, “colui che tirava i fili di tutta una organizzazione che favoriva l’attività delle prostitute sue inquiline” (Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 47387 del 18/11/2014), così commettendo il reato contestatogli che testualmente punisce “chiunque in qualsiasi modo favorisca o sfrutti la prostituzione altrui” (art. 3 comma 8 della L. 75/1958). In qualsiasi modo, anche con una locazione particolare. L’uomo, originario di un comune della costa abruzzese tra le province di Teramo e Pescara, è attualmente detenuto presso la Casa Circondariale teramana di Castrogno, dopo l’ordine di carcerazione portato ad esecuzione lo scorso 26 novembre.

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DANNI DA INSIDIE STRADALI: ECCO UN CASO IN CUI SPETTA IL RISARCIMENTO.

Per i danni da omessa manutenzione della strada a risponderne è il Comune, a meno che non venga dimostrato il caso fortuito – Corte di Cassazione Civile, sentenza 23 ottobre 2014, n. 22528.

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di Michele De Sanctis

Se il pedone scivola su un ‘cubetto instabile’ non visibile né segnalato, il Comune deve risarcire il danno. È quanto ha stabilito la IV Sezione della Suprema Corte di Cassazione con sentenza del 23 ottobre 2014, n. 22528. I giudici di Piazza Cavour nel cassare la precedente decisione d’appello, che aveva risparmiato il Comune dalla condanna, ha richiamato un ragionamento giuridico su cui si fonda un orientamento ormai pacifico sia in giurisprudenza che in dottrina. Tale ragionamento poggia sulla figura pretoria della cd. insidia stradale e del trabocchetto, per cui la Pubblica Amministrazione è tenuta a mantenere il patrimonio stradale in uno stato tale da impedire che l’utente possa subire conseguenze pregiudizievoli a causa dell’esistenza di situazioni di pericolo occulte e imprevedibili.

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Questi i fatti. In primo grado il Tribunale accoglieva la richiesta di risarcimento danni avanzata da un pedone per un sinistro occorsogli nel comune di Guardia Sanframondi. Tuttavia, tale decisione veniva rigettata in secondo grado dalla Corte di Appello di Napoli, che dava ragione al Comune.

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Per la Cassazione, al contrario, il caso doveva essere esaminato alla luce dei principi di cui all’art. 2051 c.c. (Danno cagionato da cosa in custodia). La Corte, infatti, ha dapprima richiamato una consolidata sequenza di decisioni in materia (per tutte cfr. Cass. n. 9546/2010), basata, peraltro, su una lettura costituzionalmente orientata delle norme di tutela riferite alla responsabilità civile della Pubblica Amministrazione, rispetto alla non corretta manutenzione del manto stradale e del marciapiede, che costituisce il normale percorso di calpestio dei pedoni). Successivamente il giudice ha affermato che “la presunzione di responsabilità di danni alle cose si applica, ai sensi dell’art. 2051 c.c. per i danni subiti dagli utenti dei beni demaniali, quando la custodia del bene, intesa quale potere di fatto sulla cosa legittimamente e doverosamente esercitato, sia esercitabile nel caso concreto, tenuto conto delle circostanze, della natura limitata del tratto di strada vigilato”. Questa presunzione può essere superata solo con la prova del caso fortuito che – ha rilevato la Cassazione – non sussiste nel caso in esame, dal momento che il danneggiato è caduto “in presenza di un avvallamento sul marciapiede coperto da uno strato di ghiaino, ma lasciato aperto al calpestio del pubblico, senza alcuna segnalazione delle condizioni di pericolo”.

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Per questi motivi, la Corte ha accolto il ricorso del pedone e rinviato il giudizio alla Corte di Appello di Napoli, in diversa composizione.

Di seguito in testo della sentenza Cass. n. 22528 del 23 ottobre 2014.

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Fatto e diritto

R.G. ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi avverso la sentenza della Corte d’Appello di Napoli del 28.5.2010 che ha accolto l’appello proposto dal Comune di Guardia Sanframondi in un giudizio di risarcimento danni da sinistro stradale, causato dallo scivolamento dell’attuale ricorrente, all’epoca dei fatti minore, su un cubetto instabile della pavimentazione stradale “non visibile, né segnalato”, che gli aveva causato lesioni personali alla caviglia sinistra.
Resiste con controricorso il Comune di Guardia Sanframondi.
I motivi esaminati congiuntamente sono fondati ed il ricorso va , quindi, accolto.
L’errore del ragionamento giuridico, compiuto dalla Corte di merito sta nell’avere applicato al caso in esame una giurisprudenza ormai superata basata sui caratteri dell’insidia e trabocchetto.
Questa Corte, viceversa, con una sequenza consolidata di decisioni, da Cass. 6 luglio 2006 n. 15383 a Cass. 22 aprile 2010 n. 9546 sino a recentissime pronunciate – con una lettura costituzionalmente orientata delle norme di tutela riferite alla responsabilità civile della pubblica amministrazione in relazione alla non corretta manutenzione del manto stradale e del marciapiede, che costituisce il normale percorso di calpestio dei pedoni – ha stabilito che la presunzione di responsabilità di danni alle cose si applica, ai sensi dell’art. 2051 c.c. per i danni subiti dagli utenti dei beni demaniali, quando la custodia del bene, intesa quale potere di fatto sulla cosa legittimamente e doverosamente esercitato, sia esercitabile nel caso concreto, tenuto conto delle circostanze, della natura limitata del tratto di strada vigilato. La presunzione in tali circostanze resta superata dalla prova del caso fortuito, e tale non appare il comportamento del danneggiato che cade in presenza di un avvallamento sul marciapiede coperto da uno strato di ghiaino, ma lasciato aperto al calpestio del pubblico, senza alcuna segnalazione delle condizioni di pericolo.
Le censure, unitariamente considerate, pongono in evidenza gli errori di applicazione delle norme giuridiche rispetto alla fattispecie come circostanziata, per fatto illecito e responsabilità da custodia, dovendo, viceversa, il caso essere esaminato alla luce dei principii di cui all’art. 2051 c.c..
La cassazione avviene con rinvio alla Corte di appello di Napoli in diversa composizione, con vincolo di attenersi ai principi di diritto come sopra enunciati, e ribaditi nel precedente di questa Corte del 22.4.2010 n. 9546; Cass. 15.10. 2010 n. 21329). Le spese sono rimesse al giudice del rinvio.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso, cassa e rinvia anche per le spese di questo giudizio di cassazione alla Corte di appello di Napoli in diversa composizione.

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CASSAZIONE: SE IL DATORE DI LAVORO NON VI HA VERSATO I CONTRIBUTI…

di Michele De Sanctis

In caso di mancato versamento dei contributi previdenziali da parte del datore di lavoro, ai fini dell’ammissibilità della domanda di condanna, oltre allo stesso datore di lavoro, è necessario citare anche l’Istituto previdenziale. Peraltro, resta precluso il pagamento dei contributi in favore del lavoratore.

È quanto ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione, con Sentenza n. 19398/2014, Sez. Lavoro in tema di condanna del datore di lavoro al pagamento dei contributi previdenziali.

In particolare, il caso di specie riguardava un dipendente che, dopo aver perso il posto di lavoro, aveva adito il Giudice del Lavoro per impugnare il licenziamento e contestualmente chiedere che il datore di lavoro venisse condannato al pagamento dei contributi INPS, dovuti in virtù del rapporto di lavoro e dell’attività lavorativa effettivamente prestata.

Tuttavia, la Cassazione ha sottolineato che in questi casi l’INPS (come qualunque altro ente previdenziale) deve essere necessariamente citato in causa, pena l’inammissibilità della domanda. Nella citata sentenza, infatti, la Suprema Corte ha ritenuto infondata l’impugnazione del licenziamento, relativamente all’obbligo di pagamento del datore di lavoro in favore dell’INPS, escludendo che il Giudice potesse emettere una condanna in tal senso, senza che il lavoratore avesse preventivamente citato in giudizio anche l’INPS.

“In caso di omissione contributiva – affermano gli Ermellini – il lavoratore può chiedere la condanna del datore di lavoro al pagamento dei contributi previdenziali in favore dell’ente previdenziale sole se quest’ultimo sia parte nel medesimo giudizio, restando esclusa in difetto l’ammissibilità di tale pronuncia (che sarebbe una condanna nei confronti di terzo, non ammessa nel nostro ordinamento in difetto di espressa previsione)”.

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Le norme processuali, in effetti, richiedono che il procedimento si svolga tra tutti i soggetti che possano costituirsi quali parti in causa, dal momento che l’ordinamento repubblicano riconosce loro il diritto di interloquire e contraddire sulle questioni che li riguardano (art. 24 Cost.), fatti salvi taluni casi eccezionali, per i quali si ammette una pronuncia che incida anche su un terzo, non convenuto. Nondimeno, la precedente giurisprudenza, in tema di omissione contributiva, aveva costantemente ammesso l’insussistenza in capo agli enti previdenziali della qualità di necessario contraddittore (cfr. Cass. Sent. n. 169/94 Sez. Lav.), vista la natura della controversia, che riguardava direttamente il rapporto di lavoro e non quello previdenziale, di cui il primo costituiva, piuttosto, il presupposto giuridico. In passato, quindi, secondo la Corte, ciò implicava un accertamento solo in relazione al rapporto di lavoro, mentre le conseguenze sul rapporto assicurativo obbligatorio (cioè la necessaria relazione tra lavoratore ed Istituto previdenziale) erano solo riflesse.

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Ebbene, la portata rivoluzionaria della sentenza in parola sta proprio in questo: se fino ad oggi l’esigenza di integrità del contraddittorio non era condizione di ammissibilità della domanda di condanna del datore di lavoro al versamento dei contributi previdenziali, adesso la Corte, senza entrare nel merito dei fatti e senza alcun riferimento al diritto soggettivo costituzionalmente tutelato dalla posizione assicurativa (ricordiamo sempre che quello della Cassazione è un giudizio di legittimità), ha stabilito una nuova prassi procedurale ai fini dell’ammissibilità di questo tipo di ricorsi – prassi, in realtà, già prevista del Legislatore – evidenziando la circostanza che “l’interesse del lavoratore è connesso con il diritto di credito dell’Istituto, sia geneticamente, perché nasce dal medesimo fatto che a quello dà origine (la costituzione del rapporto di lavoro), sia funzionalmente perché l’adempimento del debito contributivo realizza anche la soddisfazione del diritto alla posizione assicurativa”.

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Pertanto, “la sussistenza del suddetto interesse del lavoratore, ed il riconoscimento di una sua tutelabilità mediante la regolarizzazione della posizione contributiva, danno ragione del riconoscimento da parte dell’ordinamento della facoltà del lavoratore di chiamare in causa il datore di lavoro e l’ente previdenziale, convenendoli entrambi in giudizio, al fine di accertare l’obbligo contributivo del primo e sentirlo condannare al versamento dei contributi (che sia ancora possibile giuridicamente) nei confronti del secondo, a valere sulla sua posizione contributiva, impedendo il verificarsi di un danno nei suoi confronti (e nei limiti in cui a ciò il lavoratore vi abbia interesse, come avviene quando non operi in suo favore, o c’è il rischio che possa non operare, per qualsiasi ragione, il principio di automaticità delle prestazioni). Resta per converso esclusa per ragioni processuali la possibilità per il lavoratore di agire per ottenere una condanna del datore al pagamento dei contributi nei confronti dell’INPS che non sia stato chiamato in causa, stante la generale esclusione dei provvedimenti nei confronti di terzo ed il carattere eccezionale della condanna c.d. a favore di terzo. Infatti, di regola il processo deve svolgersi tra tutti coloro che sono parti del rapporto sostanziale dedotto, i quali hanno diritto ad interloquire sulle questioni che li riguardano (art. 24 Cost.), e il provvedimento che definisce il processo fa stato solo nei confronti delle parti e loro aventi causa, mentre solo in alcuni casi eccezionali (ne sono un esempio, nella materia del lavoro, le due condanne in favore di terzo previste dall’art. 18 stat. lav. in materia di licenziamenti illegittimi) è ammessa una pronuncia in favore di terzo”.

In conclusione, se non chiamate in causa l’INPS, il datore di lavoro che vi ha licenziato potrebbe non essere condannato al versamento dei contributi che vi spettano. E oltre a perdere qualcosa che vi siete guadagnati col vostro lavoro, correte il rischio concreto di essere, altresì, condannati al pagamento delle spese di lite.

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CASSAZIONE SHOCK: ATTENUANTI PER STUPRO ALL’UOMO CHE VIOLENTAVA LA MOGLIE SOTTO L’INFLUENZA DELL’ALCOL.

di Michele De Sanctis

Pur se la violenza sessuale è stata completa, è lecito concedere l’attenuazione della pena. È questo quanto è stato recentemente deciso dalla Terza Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione, con Sentenza n. 39445 depositata lo scorso 25 settembre (udienza del primo luglio). La Corte ha annullato (con rinvio) la precedente decisione della Corte di Appello di Venezia, che condannava un uomo per violenze ripetute sulla moglie, confermando, peraltro, il giudizio di I grado. Avverso la sentenza di II grado, l’imputato aveva presentato ricorso in Cassazione, sostenendo che andava valutata la ‘qualità’ del gesto (e segnatamente il grado di coartazione, il danno arrecato e l’entità della compressione), più che la ‘quantità’ della violenza fisica esercitata.

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Infatti, i giudici veneziani nel condannarlo per stupro e maltrattamenti in famiglia, avevano negato la concessione di attenuanti alla pena, rilevando che una violenza sessuale non è mai un “fatto di minore gravità”. Tuttavia, a giudizio degli Ermellini, non può negarsi tale concessione, anche in un caso come quello di specie, in cui la violenza perpetrata ai danni della vittima è stata completa, dal momento che la “tipologia” dell’atto sarebbe “solo uno degli elementi indicativi dei parametri”, in base a cui stabilire la gravità della violenza e non costituirebbe, dunque, un elemento “dirimente”.

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In particolare, la Suprema Corte ha sottolineato che “così come l’assenza di un rapporto sessuale ‘completo’ non può, per ciò solo, consentire di ritenere sussistente l’attenuante, simmetricamente la presenza dello stesso rapporto completo non può, per ciò solo, escludere che l’attenuante sia concedibile, dovendo effettuarsi una valutazione del fatto nella sua complessità”. Nel caso di specie, la decisione dei giudici d’appello risulta viziata, in quanto sarebbe “mancata ogni valutazione globale”, in particolare “in relazione al fatto che le violenze sarebbero sempre state commesse sotto l’influenza dell’alcol”.

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Davvero singolare, in realtà, risulta la valutazione della commissione di un reato in stato di ebbrezza quale circostanza meritevole di valutazione ai fini della concessione dell’attenuazione della pena, ove, per altri reati, la stessa è, invece, una circostanza aggravante. Né lo stato di alterazione psichica procuratosi dall’aggressore può considerarsi alla stregua di un’attenuante generica ex art. 62bis cp, ossia come una di quelle circostanze indeterminate e non tipizzate, che il giudice può prendere in considerazione quando le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena. Tuttavia, lo stato di ebbrezza dell’aggressione non è il solo parametro di riferimento. La Corte, a tal proposito, rileva che “ai fini della concedibilità dell’attenuante di minore gravità, assumono rilievo una serie di indici, segnatamente riconducibili, attesa la ‘ratio’ della previsione normativa, al grado di coartazione esercitato sulla vittima, alle condizioni fisiche e mentali di quest’ultima, alle caratteristiche psicologiche, valutate in relazione all’età, all’entità della compressione della libertà sessuale ed al danno arrecato alla vittima anche in termini psichici”.
Se così non fosse, – prosegue la Corte – si verrebbe a riprodurre la “vecchia distinzione, ripudiata dalla nuova disciplina, tra ‘violenza carnale’ e ‘atti di libidine’ che lo stesso legislatore ha ritenuto di non focalizzare preferendo attestarsi sulla generale clausola di ‘casi di minore gravità’”.

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Il problema, però, è che per mezzo di questa clausola, il reato in parola, a prescindere dalla fattispecie in esame, sembra uscire in qualche misura ‘derubricato’. Come se l’analisi formale delle parole del Legislatore avesse scoperto che la norma, in realtà, prevede una sorta di bonus per tutti quei rispettabili padri di famiglia, che, nel chiuso delle pareti domestiche, in preda ai fumi dell’alcol, sono soliti picchiare e violentare la moglie. In effetti, per come è impostato il ricorso dell’aggressore, che la Cassazione ha accolto, si è quasi portati a pensare che l’ebbrezza fosse addirittura propedeutica alla violenza. Se così fosse, tuttavia, le attenuanti non sarebbero concedibili: la fattispecie si configurerebbe come ‘actio libera in causa’, ossia come quel fenomeno (giuridicamente rilevante) che si verifica quando un soggetto si ponga in stato di incoscienza al fine di commettere un reato o di procurarsi una scusante. In tal caso, infatti, viene applicata la pena anche se chi ha commesso il fatto era in stato di incapacità di intendere e di volere al momento della consumazione del reato. Ma dobbiamo sempre ricordare che la Corte di Cassazione non giudica i fatti nel loro merito. La Corte, piuttosto, ha precisato che la circostanza attenuante “deve considerarsi applicabile tutte quelle volte in cui – avuto riguardo ai mezzi, alle modalità esecutive ed alle circostanze dell’azione – sia possibile ritenere che la libertà sessuale della vittima sia stata compressa in maniera non grave”. E questo vale anche nel caso di specie.

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La Corte di Appello di Venezia, per negare l’attenuante, aveva fatto riferimento soltanto “ai plurimi rapporti sessuali completi ottenuti con la violenza e senza il minimo rispetto della dignità e libertà di determinazione della donna”. L’attenuante, però, può essere applicata tutte le volte in cui è possibile ritenere “che la libertà sessuale della vittima sia stata compressa in maniera non grave”. Per la Cassazione, infatti, è necessaria “una disamina complessiva, con riferimento alla valutazione delle ripercussioni delle condotte, anche sul piano psichico, sulla persona della vittima”: i giudici, in casi come quello esaminato, non possono fare come i magistrati della Corte di Appello di Venezia che si sono piuttosto “limitati” a “descrivere il fatto contestato, necessariamente comprensivo, per la stessa definizione normativa, di violenza, senza tuttavia analizzarne, come necessario, gli effetti”.
Il caso viene, quindi, rinviato ad altra sezione della Corte di Appello del Capoluogo lagunare.

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LA RIFORMA DEL PROCESSO CIVILE IN SINTESI.

È stato pubblicato in G.U.R.I. dello scorso 12 settembre il d.l. 123/2014, con cui il Governo intende smaltire l’arretrato degli Uffici Giudiziari italiani. A distanza di due settimane dal via libera del Consiglio dei Ministri, è arrivato, dunque, il primo testo della riforma della giustizia civile, sotto forma di decreto legge, che dovrà adesso seguire il normale iter parlamentare di conversione. In realtà, il decreto in questione costituisce solo una parte della riforma della giustizia voluta dal Governo Renzi. L’intero pacchetto prevede, infatti, ulteriori interventi, alcuni regolati con decreto legge e altri con disegno di legge delega, in materia penale, oltreché una serie di disposizioni relative all’ordinamento giudiziario. Analizziamo in questa sede i punti principali degli interventi sul processo civile previsti dal d.l. 123/2014.

di Michele De Sanctis

POSSIBILITÀ DI SPOSTARE IL PROCEDIMENTO DAL CONTENZIOSO CIVILE A QUELLO ARBITRALE. Nelle cause civili pendenti sia in primo che secondo grado, le parti potranno richiedere congiuntamente di promuovere un procedimento arbitrale (già regolato dalle disposizioni ordinarie contenute nel codice di procedura civile ed espressamente richiamate dal decreto). Facoltà esclusa, tuttavia, per due materie di una certa rilevanza: le liti sui diritti indisponibili e le cause del lavoro. Quanto agli effetti, il lodo arbitrale avrà la stessa forza di una sentenza.

PROCEDURA NEGOZIALE ASSISTITA. Si tratta di una procedura di conciliazione tra le parti effettuata con l’assistenza di un avvocato e volta al raggiungimento di un accordo che eviti il giudizio, consentendo, peraltro, una rapida formazione di un titolo esecutivo stragiudiziale. La relativa convenzione dovrà avere forma scritta perché sia efficace. Non si tratta solo di una facoltà, poiché in taluni casi (liti in materia di risarcimento danni da circolazione stradale e nautica o nelle richieste di pagamento fino a € 50.000) il preventivo tentativo di conciliazione viene previsto come condizione di procedibilità, senza cui non sarà, pertanto, possibile adire il giudice.

NEGOZIAZIONE ASSISTITA NELLE CAUSE DI SEPARAZIONE E DIVORZIO. La procedura di conciliazione appena illustrata ha una forte ricaduta nel diritto di famiglia, dal momento che, anche in tema di separazione personale, di cessazione degli effetti civili o di scioglimento del matrimonio (nei casi di avvenuta separazione personale), di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio, il decreto prevede la facoltà di ricorrere alla negoziazione, assistita da un avvocato o meno. I coniugi, infatti, oltre ad avere la facoltà di ricorrere alla procedura di conciliazione co-gestita con l’assistenza di un legale, potranno, in alternativa, recarsi semplicemente al cospetto di un ufficiale dello stato civile per formalizzare l’intesa raggiunta. Si tratta, dunque, di un’importante semplificazione dei procedimenti di separazione e divorzio, che renderà l’Italia uno dei Paesi europei, in cui lo scioglimento del matrimonio sarà più rapido.

DICHIARAZIONI RESE AL DIFENSORE. La riforma prevede la possibilità di raccogliere direttamente da terzi dichiarazioni utili sul procedimento giudiziario in corso per accelerare e razionalizzare la fase istruttoria. Il legale potrà, infatti, sentire testimoni al di fuori del processo. L’intervento in parola risulta, peraltro, complementare all’ampio spazio concesso dalla riforma alla risoluzione stragiudiziale delle controversie. In pratica, si introduce una specifica norma mediante cui si realizza la tipizzazione delle dichiarazioni scritte rese al difensore, quali fonti di prova che la parte può produrre in giudizio sui fatti rilevanti che ha l’onere di provare.

PASSAGGIO DAL RITO ORDINARIO AL RITO SOMMARIO. Nelle cause meno complesse e per la cui decisione è idonea un’istruttoria semplice, si affida al giudice unico, nelle materie di sua competenza, la possibilità di convertire d’ufficio il procedimento dal rito ordinario di cognizione al rito sommario, con ordinanza non impugnabile – e previo contraddittorio anche mediante trattazione scritta.

RIDUZIONE DEI TERMINI DI SOSPENSIONE FERIALE DEI PROCEDIMENTI. Nonostante l’opposizione ricevuta dalla magistratura sul punto, il decreto stabilisce che il periodo interlocutorio di sospensione feriale nei Tribunali sia compreso dal 6 agosto al 31 agosto (anziché dal 1 agosto al 15 settembre). Mentre si prevede la riduzione delle ferie dei magistrati da 45 a 30 giorni.

MODIFICA AL REGIME DELLA COMPENSAZIONE DELLE SPESE E INTERESSI SULLE SPESE DI LITE. Chi perde è tenuto a rimborsare le spese del processo. Il decreto se da una parte tenta di scoraggiare le cd. liti temerarie, dall’altra appronta una limitazione a certe condotte processuali meramente dilatorie. Nel primo caso, riduce i margini di discrezionalità delle Autorità Giudiziarie in ordine alla compensazione delle spese di lite, di cui, nonostante le modifiche restrittive introdotte negli ultimi anni, nella pratica si continuava a fare larghissimo uso, specie se una delle parti in causa era un’Amministrazione Pubblica. La soccombenza, adesso, assume un suo naturale e rilevante costo, incrementato, peraltro, dall’attribuzione di un tasso d’interesse nel corso dei procedimenti di cognizione pari a quello per i ritardi nelle transazioni commerciali. Quest’ultima disposizione dovrebbe, peraltro, disincentivare le pratiche dilatorie.

ESECUZIONE FORZATA. In fase esecutiva si consente l’accesso telematico degli Uffici Giudiziari alle banche dati delle P.A. per individuare con esattezza l’ammontare dei beni aggredibili del debitore soccombente in giudizio. L’intervento in materia di ricerca dei beni da pignorare è finalizzato a migliorare l’efficienza dei procedimenti di esecuzione mobiliare presso il debitore e presso terzi in linea con i sistemi ordinamentali di altri Paesi europei. La via seguita è evidentemente quella di implementare i poteri di ricerca dei beni da parte dell’Ufficiale Giudiziario, colmando così la ‘asimmetria informativa’ tra creditore e debitore in riferimento agli asset patrimoniali di quest’ultimo. Al creditore spetta trasmettere in Cancelleria per via telematica la nota di iscrizione a ruolo, unitamente all’atto di pignoramento, al titolo esecutivo e al precetto. Ulteriori provvedimenti in materia di esecuzione sono l’eliminazione dei casi in cui la dichiarazione del terzo debitore sia resa in udienza e l’obbligo di ordinare la liberazione dell’immobile con la pronuncia di ordinanza di vendita.

COMPETENZA TERRITORIALE DEL GIUDICE DELL’ESECUZIONE. Il decreto stabilisce che, per tutti i soggetti diversi dalle Pubbliche Amministrazioni, la competenza per i procedimenti di espropriazione forzata di crediti verrà radicata presso il Tribunale del luogo di residenza, domicilio, dimora o sede del debitore.

INFRUTTUOSITÀ DELL’ESECUZIONE. Viene, infine, introdotta una fattispecie di chiusura anticipata del processo esecutivo per infruttuosità (art. 164-bis disp. att. c.p.c.) nel caso in cui risulti che le pretese dei creditori non possano più conseguire un ragionevole soddisfacimento, tenuto altresì conto dei costi necessari ai fini della prosecuzione della procedura di esecuzione forzata, delle probabilità di liquidazione del bene e del presumibile valore di realizzo.

Clicca qui per leggere il testo del Decreto legge

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MOLESTIE SU FACEBOOK: PER LA CASSAZIONE IL SOCIAL NETWORK VA CONSIDERATO ‘LUOGO APERTO AL PUBBLICO’.

di Michele De Sanctis

La Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione con Sentenza n. 37596 ha affermato che, ai fini della configurabilità del reato di molestie o disturbo alle persone, di cui all’art. 660 c.p., la piattaforma sociale Facebook va considerata alla stregua di un luogo aperto al pubblico, in quanto luogo ‘virtuale’ aperto all’accesso di chiunque utilizzi la rete.

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Pertanto, l’invio di messaggi molesti mediante l’uso di Facebook integra la fattispecie descritta dall’art. 660 c.p., che sanziona «chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo». Il contravventore è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda fino a euro 516.

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Nel caso di specie, vittima del reato in parola era una donna, all’epoca dei fatti, nel 2008, caporedattore di una testata locale toscana, che aveva ricevuto ripetuti e continui apprezzamenti volgari e a sfondo sessuale sia presso gli uffici del quotidiano per cui lavorava, che sul proprio account Facebook. Sul social, il molestatore aveva, peraltro, celato la propria identità con un falso profilo.

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In un primo momento il Tribunale di Livorno aveva assolto l’imputato con la formula “il fatto non sussiste” quanto ai fatti commessi presso gli uffici del giornale, escludendo che una redazione fosse luogo pubblico, e con la formula “il fatto non è previsto dalla legge come reato” quanto ai fatti «commessi utilizzando l’indirizzo di posta elettronica». Tuttavia, la Corte di Appello di Firenze, riformando la decisione di primo grado, rilevava come la redazione di un quotidiano fosse paragonabile a un luogo aperto al pubblico, in quanto frequentato dai dipendenti del giornale stesso oltreché da eventuali soggetti estranei che ivi portano notizie o chiedono la pubblicazione di annunci. Quanto poi alla condotta realizzata mediante i messaggi inviati sotto pseudonimo tramite la chat di Facebook al profilo della vittima, il Giudice di II grado, ritenendo che tale comportamento integrasse il reato di cui all’art. 660 c.p., evidenziava come il profilo della vittima sul social network costituisse una community aperta «evidentemente accessibile a chiunque».

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L’imputato, a questo punto, ricorreva in Cassazione per chiedere l’annullamento della sentenza di secondo grado per violazione dell’art. 660 c.p., con riguardo alla nozione di luogo aperto al pubblico accolta in sede di gravame. In particolare, quanto alla condotta posta in essere su Facebook, rilevava l’imputato che l’invio dei messaggi era avvenuto tramite la chat privata del social network e non sul diario e che ciò escludesse l’analogia con altri luoghi aperti al pubblico. In verità, l’invio dei messaggi tramite la chat di Facebook lascerebbe, piuttosto, propendere per l’assimilabilità della comunicazione telematica alla comunicazione telefonica (l’altra modalità di realizzazione delle molestie di cui all’art 660 c.p.), ma resterebbero dei profili da chiarire per quanto concerne i principi di tassatività e legalità. Tuttavia, poiché il gravame aveva liquidato il caso come molestia in luogo aperto al pubblico, secondo gli Ermellini il ricorso non risulta manifestamente infondato, per difetto della sentenza di II grado nella sua base fattuale, laddove si fa riferimento all’invio di messaggi su un profilo evidentemente accessibile a tutti, trascurando, invece, la fattispecie concreta dell’invio tramite chat privata.

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A prescindere dalle risultanze del caso di specie, ciò che più rileva e che merita di essere commentato, ancorché non si tratti di una decisione delle Sezioni Unite, è tuttavia l’estensione da parte dei Giudici della I Sez. della Cassazione del concetto di luogo aperto al pubblico in riferimento al social network. Infatti, la Corte, ritiene «innegabile che la piattaforma sociale Facebook (disponibile in oltre 70 lingue, che già nel 2008 contava più di 100 milioni di utenti) rappresenti una sorta di piazza immateriale che consente un numero indeterminato di accessi e visioni, rese possibili da una evoluzione scientifica che il Legislatore non era arrivato ad immaginare. Ma che la lettera della legge non impedisce di escludere dalla nozione di luogo e che, a fronte della rivoluzione portata alle forme di aggregazione e alle tradizionali nozioni di comunità sociale, la sua ratio impone, anzi, di considerare».

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In definitiva, la molestia sul diario di Facebook integra la contravvenzione di cui all’art. 660 c.p. (lo stesso potrebbe, forse, dirsi anche per l’invio di messaggi molesti via Facebook, se fosse possibile assimilarli alla molestia telefonica). E quindi, nel caso di specie, il giudice di rinvio avrebbe dovuto riformare il proprio giudizio, non censurando la molestia nella chat di Facebook come se fosse stata fatta in luogo pubblico, perché è solo la bacheca ad essere assimilata a un’agorà, non anche la mailbox. Avrebbe, perché la sentenza di appello per il caso finora illustrato è stata cassata, ma senza rinvio per intervenuta prescrizione del reato contravvenzionale contestato.

Cassazione Penale, Sez. I, 12 settembre 2014 (ud. 11 luglio 2014), n. 37596 Presidente Chieffi, Relatore Di Tommasi

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Per la Cassazione l’acquirente di un computer non ha l’obbligo di accettare il sistema operativo preinstallato e può chiederne il rimborso

di Germano De Sanctis

La Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione, con la sentenza 11.09.2014, n. 19161, ha dichiarato che l’acquisto di un computer da parte di un privato non comporta anche l’obbligo di utilizzo del sistema operativo o di altro software preinstallato da parte del produttore. In estrema sintesi, la Suprema Corte ha riconosciuto il diritto del consumatore ad ottenere il rimborso per la sola parte del prezzo relativa alla licenza d’uso del programma informatico non negoziato con il venditore, qualora egli intenda installare un software alternativo e concorrente.

Nello specifico, la sentenza in questione è intervenuta sul tema delle politiche commerciali di vendita abbinata hardware/software dei computer, riconoscendo il diritto dell’acquirente di installare i programmi, senza essere essere vincolato, né, tanto meno, economicamente gravato di costi indebiti dalle scelte produttive del produttore della macchina.

La controversia, seppur di scarso impatto economico (i tre gradi di processo vertono sulla restituzione di 140 euro corrispondenti al costo stimato del sistema operativo Microsoft Windows XP Home Edition e del software applicativo Microsoft Work 8 forniti insieme ad un notebook Hp acquistato nel dicembre 2005) è rilevante dal punto di vista civilistico, per quanto concerne l’interpretazione fornita relativamente alla volontà negoziale delle parti coinvolte.

Venendo all’esame del caso di specie, un consumatore si è inizialmente rivolto al Tribunale di Firenze, dopo aver acquistato un computer portatile Hewlett Packard ed essere stato costretto ad attivare la licenza d’uso del pacchetto Microsoft. Alla base della sua citazione in giudizio vi era il diniego da parte del produttore della sua richiesta di rimborso del prezzo relativo al costo di Windows, in quanto le condizioni contrattuali rendevano possibile il predetto imborso soltanto in caso di restituzione, sia del notebook, che del software preinstallato.
In seguito, in opposizione alla sentenza di appello favorevole al consumatore, la società informatica produttrice del computer ha presentato ricorso in Cassazione, asserendo che non è possibile restituire il software, ottenendone il relativo rimborso e trattenendo il solo hardware, in quanto sussisterebbe l’unitarietà dell’acquisto del pacchetto hardware/software.

Tale ricorso è stato rigettato, in quanto i giudici della Suprema Corte hanno interpretato una specifica clausola contrattuale contenuta nel contratto di licenza con l’utente finale relativo all’utilizzo del software del sistema operativo Microsoft Windows preinstallato ed hanno concluso che l’integrazione tra software e hardware non si basa su un’esigenza di natura tecnologica, ma unicamente commerciale e, pertanto, non sussistono ostacoli tali da impedire la considerazione frazionata dei due prodotti.

La sentenza in esame afferma anche che l’oggetto del contratto di vendita in questione può essere soltanto il computer portatile acquistato dal consumatore, poiché esso è l’unico bene oggetto del contratto e soltanto su di esso è possibile riscontrare il perfezionamento dell’accordo negoziale.
I giudici di legittimità hanno trovato riscontro a tale interpretazione anche nel regolamento contrattuale predisposto dal produttore del computer in questione, il quale, a fronte dell’acquisto dell’hardware, ha previsto soltanto un mera sottoscrizione della licenza d’uso dei programmi proprietari preinstallati.

La Cassazione, confermando il giudizio già espresso nel corso dei due gradi del giudizio di merito, ha riscontrato l’esistenza di due distinte vicende negoziali, l’una relativa al computer e l’altra concernente il programma informatico proprietario preinstallato. In altri termini, hardware e software sono da intendersi come due beni distinti e strutturalmente scindibili, oggetto di due diverse tipologie negoziali.
Pertanto, sussiste un vero e proprio sdoppiamento di oggetto e negozio e soltanto sul primo fenomeno contrattuale, cioè, l’acquisto del computer, è possibile affermare che si è regolarmente formato il consenso. Al contrario, la Corte di Cassazione ha riscontrato che non è intercorso alcun rapporto contrattuale tra il produttore del software e l’acquirente del notebook, poiché si è in presenza soltanto di licenze economiche e licenze di vendita che vengono trattate, a monte della grande distribuzione, in virtù di accordi commerciali su vasta scala, direttamente stipulati tra la casa produttrice del software e le principali case produttrici dell’hardware.
La Suprema Corte ha rilevato che il rapporto commerciale instaurato tra il produttore del computer e la società produttrice del software non coinvolge minimamente il consumatore, il quale, invece, esercita la sua libertà di scelta contrattuale di acquistare un determinato computer, valutando esclusivamente le caratteristiche tecniche dell’hardware, anche in ragione del fatto che quest’ultimo assume obiettivamente una assoluta preponderanza nel valore economico del computer medesimo al momento della formazione del prezzo finale di mercato del bene informatico genericamente inteso.

Pertanto, non è possibile sostenere la tesi dell’unitarietà del contratto hardware/software (simul stabunt, simul cadent), in quanto non sussistono adeguati elementi volti a dimostrare che i due contratti in oggetto siano stati voluti dalle parti contraenti nell’ambito di una combinazione strumentale volta a realizzare uno scopo pratico unitario.
Anzi, secondo la Cassazione l’acquisto del computer non implica l’obbligo di accettare il sistema operativo, pena lo scioglimento della vendita e l’azzeramento dell’intera operazione contrattuale. Di conseguenza, il consumatore che acquista un computer con un sistema operativo preinstallato di serie ha diritto al rimborso del costo del software, anche quello applicativo, se non clicca sull’accettazione della licenza d’uso, trattenendo, in tal caso, il solo hardware, per, poi, avere diritto al rimborso per software proprietario preinstallato non accettato.

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VIETATO SPIARE LA MOGLIE! E SE SCOPRI CHE È INFEDELE, MEGLIO NON RACCONTARLO IN GIRO.

La moglie fedifraga, sorpresa dal marito mediante l’uso di un apparecchio di videoregistrazione, può invocare l’applicazione dell’art. 615 bis c.p., che punisce chiunque, mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, si procura indebitamente notizie o immagini relative alla vita privata altrui nella sua dimora. È, pertanto, illecita l’acquisizione delle prove dell’avvenuto adulterio con tali modalità. Né è consentito rivelare ad altri le informazioni apprese. Scoprire con tali mezzi un tradimento e raccontarlo non vi risparmierà, quindi, da un’accusa per diffamazione.
A scanso di equivoci, però, chiariamo subito che lo stesso vale se è il marito infedele ad essere spiato dalla moglie…

di Michele De Sanctis

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Con sentenza n. 35681/2014, la Suprema Corte di Cassazione ha confermato la decisione del Giudice di Pace di Senorbì del 10 maggio 2013, che aveva condannato per diffamazione (art. 595 c.p.) un marito, poiché, parlando con una coppia di conoscenti, aveva insinuato il tradimento della sua ex moglie. Il ricorso dinanzi al giudice di legittimità era incentrato su una presunta mancata considerazione da parte del G.d.P. dello stato d’ira dell’imputato, che aveva appena scoperto il tradimento della moglie per mezzo di un dispositivo di registrazione da lui installato in cucina. Il capo d’accusa non era, del resto, la registrazione in sé, bensì, la diffamazione che era seguita alla visione delle immagini catturate dal marito tradito.

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Leggi anche: L’INSULTO SU FACEBOOK È DIFFAMAZIONE, ANCHE SE LA VITTIMA RESTA ANONIMA. LO DICE LA CASSAZIONE.

Nel nostro ordinamento giuridico, a differenza di altri Paesi di Civil Law, perché possa escludersi il reato di diffamazione, non è necessario che quanto asserito non sia falso. Il delitto in parola, da noi, si consuma al ricorrere di questi tre elementi essenziali: l’offesa all’onore o al decoro di qualcuno, la comunicazione con più persone e l’assenza della persona offesa. Tuttavia sono previste delle cause di giustificazione, tra le quali è contemplato anche lo stato d’ira. Proprio per questo, la circostanza che quanto dichiarato dal marito non fosse falso, nel ricorso da questi presentato, rilevava non quale causa di esclusione del reato di diffamazione, ma quale presupposto dello stato di collera ingeneratosi nello stesso. O meglio, a provocarlo era stata la visione del filmato, che, in quanto tale, non poteva non corrispondere alla realtà. Veniva, pertanto, impugnata una presunta violazione di legge in sede di merito e il vizio di motivazione con riguardo all’esclusione della causa di non punibilità di cui all’art. 599, comma 2 c.p. Secondo il ricorrente, infatti, l’istruttoria espletata in sede di giudizio di merito aveva dimostrato come l’uomo avesse agito in stato d’ira determinato dalla scoperta, per mezzo delle videoregistrazioni, del tradimento della moglie. Per tale motivo, illegittima da parte del Giudice di Pace era stata l’esclusione di tale esimente e inadeguata la spiegazione fornita, secondo cui, poiché la prova del tradimento era stata illegittimamente acquisita (pur essendo stata fatta dal marito all’interno nell’abitazione coniugale), non era declamabile, cioè spendibile, in sede giudiziaria.

IMG_3698.JPGLa locandina del film ‘Io so che tu sai che io so’ con Alberto Sordi e Monica Vitti, in cui un marito scopre il tradimento della moglie per caso, guardando le riprese fatte alla donna a causa di un errore commesso da un investigatore privato.

I giudici di Piazza Cavour, però, hanno rigettato il ricorso dell’uomo e ravvisato la correttezza del giudizio di merito, richiamando proprio il principio dell’inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione di divieti di legge (ex art. 191 c.p.c.) e, soprattutto, quello dell’inviolabilità del diritto alla riservatezza del coniuge o del familiare convivente, confermando, peraltro, il proprio pacifico orientamento su questioni analoghe (cfr. Cass. Sent. n. 12698/2003). Infatti, la sanzione prevista dall’art. 615 bis c.p., che censura le interferenze illecite nell’altrui vita privata, non consente l’ammissione delle immagini registrate (illecitamente) dal marito, quale prova dello stato psicologico in cui versava. Sarebbe come rendersi colpevole di qualcosa e poi invocare quale esimente lo stato psicologico conseguente alla commissione di un altro reato. Perché la registrazione della moglie, a sua insaputa, è un reato. Quanto poi al principio di inviolabilità del diritto alla riservatezza del coniuge, la Corte ha più volte ribadito che i doveri di solidarietà derivanti dal matrimonio non sono incompatibili con il diritto alla riservatezza di ciascuno, ma ne presuppongono, anzi, l’esistenza, poiché la solidarietà si realizza solo tra persone che si riconoscono piena e pari dignità. Ciò vale anche nel caso di infedeltà del coniuge, poiché la violazione dei doveri di solidarietà coniugale non è sanzionata dalla perdita del diritto alla riservatezza. (cfr. Cass Sez. V 23 maggio 1994 n. 198994).

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Pertanto, il marito non solo non può lamentare il mancato riconoscimento dello stato d’ira, quale scriminante nei delitti contro l’onore, ma deve, altresì, ritenersi fortunato, perché condannato solo per diffamazione, visto che la sua attività ‘investigativa’ lo rendebbe addirittura passibile di querela per il reato di interferenze illecite nella vita privata ai sensi dell’art. 615 bis del codice penale. E di questo deve ringraziare proprio la moglie infedele, poiché il delitto in questione – se commesso da un privato cittadino, come nel caso di specie – è punibile solo a querela della persona offesa. Ma, a quanto pare, la signora ha avuto la ‘bontà’ di limitarsi alla sola diffamazione.

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Leggi anche: L’OFFESA A TERZI VIA SMS NON È DIFFAMAZIONE: LO DICE LA CASSAZIONE.

È, quindi, evidente che non c’è scusa che tenga: spiare il proprio partner è un reato. Evitatelo, perché rischiate dai sei mesi ai quattro anni. Che riusciate a farla franca o meno, non sentitevi migliori di chi ha tradito la vostra fiducia. Violare l’intimità del partner non è poi tanto diverso, a parte il fatto che l’infedeltà non costituisce reato e le interferenze illecite nella vita privata, invece, sì.

Cass. Sent. n. 35681/2014

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TAR LOMBARDIA: LEGITTIMO IL TRASFERIMENTO DELLA PROPRIETÀ DI UNA FARMACIA TRAMITE L’ISTITUTO DEL TRUST.

Con un recente provvedimento, il Tar Lombardia, Sezione II di Brescia, ha dichiarato l’illegittimità del negato riconoscimento da parte di un’Azienda Sanitaria Locale del trasferimento della titolarità di una farmacia mediante l’istituto del trust, mettendo in parte in discussione una prassi amministrativa ben consolidata nel settore delle farmacie private. Secondo la sentenza in parola (n. 890 del 30 luglio 2014), il ricorso al trust non sarebbe, infatti, alla stregua di un negozio elusivo della normativa di riferimento, quella, cioè, dettata dalla L. 475/78, ma si tratterebbe piuttosto di uno strumento necessario a garantire il subentro generazionale in un’attività di famiglia in presenza di eredi che, tuttavia, risultino ancora privi dei requisiti richiesti dalla legge. Analizziamo insieme gli aspetti più rilevanti di questa sentenza, che potremmo definire ‘storica’.

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di Michele De Sanctis

La questione di fondo alla pronuncia dei giudici bresciani sull’argomento è che la L. 475/78 (e successive modifiche e integrazioni) prevede solo sei mesi di tempo dalla presentazione della denuncia di successione, quale termine concesso all’erede per trasferire la farmacia in capo a un soggetto professionalmente idoneo. Seppur breve, il termine di sei mesi risponde ad un principio coerente con la regola di diritto pubblico, in base alla quale la proprietà della farmacia deve coincidere con la titolarità della relativa concessione amministrativa. Sussiste, però, un problema di non coincidenza tra proprietà e titolarità nel caso in cui l’erede non sia ancora farmacista idoneo o addirittura sia minorenne, col conseguente rischio che l’attività di famiglia vada perduta. Una soluzione non convenzionale potrebbe essere quella offerta da una prassi di derivazione anglosassone, con cui è possibile regolare una molteplicità di rapporti giuridici di natura patrimoniale (isolamento e protezione di patrimoni, gestioni patrimoniali controllate ed in materia di successioni, pensionistica, diritto societario e fiscale). Si fa riferimento a quel contratto atipico per il diritto civile italiano, poiché non ancora disciplinato/tipizzato dal legislatore, che va sotto il nome di trust. Il trust è rapporto giuridico che sorge per effetto della stipula di un atto tra vivi o mortis causa, con cui un soggetto (settlor o disponente) trasferisce ad un altro soggetto (trustee) beni o diritti con l’obbligo di amministrarli nell’interesse del disponente o di altro soggetto (beneficiario), ovvero per il perseguimento di uno scopo determinato, sotto l’eventuale vigilanza di un terzo (protector o guardiano), secondo le regole dettate dal disponente nell’atto istitutivo del trust. Tuttavia, sia per la sua atipicità, sia per la sua complessità ed estrema flessibilità, potrebbe dubitarsi circa la reale esperibilità dell’uso di questo istituto per il passaggio generazionale della farmacia o per affrontarne le questioni alla relativa successione ereditaria. Soprattutto per le norme di carattere imperativo alla base del provvedimento amministrativo di concessione.

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Ebbene, la sentenza del TAR in esame affronta la questione fornendo una risposta chiara e precisa: dichiarando, infatti, l’illegittimità del negato riconoscimento da parte dell’ASL del trasferimento della titolarità di una farmacia mediante trust, il Giudice Amministrativo ha ritenuto quest’istituto – e ogni altro negozio fiduciario con cui si disponga l’effettivo trasferimento di una proprietà aziendale – compatibile con la disciplina speciale in materia di farmacie. Il trust, quindi, non solo non confligge con la norma che impone di non dissociare la titolarità della farmacie e il relativo esercizio dell’impresa dalla proprietà piena dell’azienda, ma garantisce, altresì, il pieno perseguimento delle finalità d’interesse pubblico tutelate dalla L. 475/78.

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Secondo il G.A., il trasferimento della proprietà al trustee integra il rispetto delle condizioni di legge, poiché la norma che prescrive il trasferimento in proprietà a un soggetto legittimato al subentro, in quanto farmacista ammette altresì che, successivamente, tale proprietà possa essere nuovamente trasferita, purché rispettando la condizione che ciò avvenga a favore di un farmacista qualificato. Ora, il caso del trasferimento della proprietà a un trustee comporta che tale successione sia già programmata, in quanto alla scadenza del termine del trust, la proprietà dovrà essere necessariamente trasferita o ai beneficiari, se titolati, oppure ad un terzo, da individuarsi da parte del disponente entro il termine di legge di sei mesi. “In tutti i casi e in tutti i momenti (con la sola esclusione dell’eventuale fase di transizione alla scadenza del trust senza che si sia verificata la condizione per il trasferimento ai beneficiari) sono sempre garantiti sia la coincidenza tra proprietà e gestione, che la qualifica di farmacista del proprietario. Ne consegue che né le singole disposizioni, né la ratio della norma possano ritenersi frustrate dal ricorso al particolare istituto del trust, una volta chiarito, come si è fatto nella parte che precede, che il trustee è a tutti gli effetti proprietario, ancorché temporaneamente, e che i vincoli ad esso imposti non possono, di per sé, precludere il raggiungimento dello scopo della norma”. Il Tar di Brescia ritiene, peraltro, che non rappresenti un problema neppure “il fatto che la farmacia, la cui proprietà è trasferita al trustee, non entri nel patrimonio di quest’ultimo (essendo ciò espressamente escluso dalla disciplina dell’istituto): al contrario, ciò pare fornire maggiore garanzia al sistema sanitario, in quanto la farmacia e i suoi beni non potranno essere aggrediti dai creditori personali del trustee, diversamente da quanto accade in situazioni di ordinaria titolarità”.

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Si tratta, inoltre, di una conclusione assolutamente coerente con i principi e le regole del diritto farmaceutico, anche alla luce delle pronunce della Corte di Giustizia dell’UE, che “ha ritenuto compatibile con i principi comunitari la particolare disciplina del sistema farmaceutico nazionale, ma solo entro il limite del garantire che le farmacie siano gestite da farmacisti professionisti, in quanto proprio la professionalità degli stessi può rappresentare la garanzia contro il rischio, per la sanità pubblica, che la finalità di lucro prevalga sulla sicurezza e qualità della distribuzione dei medicinali. Data l’ontologica tendenza al perseguimento del lucro, il contemperamento con il perseguimento del fine pubblico può essere garantito solo dalla deontologia del farmacista professionista e dal fatto che della violazione di essa il professionista deve rispondere compromettendo “non soltanto il valore del suo investimento, ma altresì la propria vita professionale” (cfr. Quarta Sezione della CGUE, sentenza del 5 dicembre 2013 nelle cause riunite da C-159/12 a C-161/12).

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Tale obiettivo primario, il cui perseguimento è, peraltro, ritenuto legittimo a livello comunitario, risulta, dunque, ampiamente garantito nel caso di specie, in cui la gestione della farmacia è pacificamente affidata ad un farmacista professionista, anche se costituito, coerentemente con le previsioni di legge, nella forma della società di persone.

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Vale, allora, la pena di leggere attentamente l’intera sentenza fin qui esaminata, in attesa di conoscere l’eventuale seguito che avrà la vicenda, in caso di ricorso dell’Azienda Sanitaria dinanzi al Consiglio di Stato, e di analizzarne, fin da adesso, le logiche conseguenze che potrebbe avere sul piano negoziale. Siamo, infatti, di fronte a un primo precedente in materia, che costituirà probabilmente anche un punto di riferimento per casi analoghi, aprendo, altresì, scenari contrattuali del tutto inediti nell’esperienza giuridica italiana, ove sarà possibile trasferire la proprietà di una farmacia ad un’entità esterna, nondimeno senza i requisiti richiesti dalla L. 475/78, purché la stessa farmacia venga gestita da un trustee, ovvero da una figura equiparabile all’attuale direttore responsabile, che ne detenga a tutti gli effetti la piena titolarità.

Clicca QUI per leggere la sentenza TAR Lombardia, Brescia sez. II, 30/7/2014 n. 890

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