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Gay o etero, ma con amore. Elogio dei genitori imperfetti.

da Repubblica.it Cultura del 10/5/2014

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di Michela Marzano

François Hollande l’aveva promesso durante la campagna elettorale: se fosse stato eletto presidente della Repubblica, avrebbe riaperto il dibattito sul matrimonio e sull’adozione delle coppie omosessuali. Pochi mesi dopo la vittoria del candidato socialista, il primo ministro francese Jean-Marc Ayrault annuncia che il progetto di legge sarà finalmente presentato in Consiglio dei Ministri il 31 ottobre 2012, scatenando immediatamente le polemiche. Perché i gay e le lesbiche non si accontentano del Pacs e vogliono anche loro sposarsi? Il matrimonio non dovrebbe essere riservato alle coppie eterosessuali?

Per tutti coloro che si oppongono all’estensione del matrimonio e dell’adozione alle coppie omosessuali, è soprattutto la questione dell’adozione ad essere problematica. Permettere alle coppie omosessuali di adottare, significherebbe per loro non solo impedire ad un bimbo di avere un padre e una madre, ma anche privarlo della possibilità di crescere in modo armonioso, identificandosi con la figura maschile (se si tratta di un bambino adottato da una coppia di lesbiche) o con la figura femminile (se si tratta invece di una bambina adottata da una coppia di gay). Per non parlare poi dei danni a livello psicologico: per poter avere accesso a quello che alcuni psicoanalisti chiamano “l’ordine simbolico”, sembrerebbe infatti necessario vivere in una “famiglia normale”. Ma che cosa vuol dire “normale”? Esiste un unico modo di occuparsi dei bambini oppure questa normalità è solo un modo per discriminare gli omosessuali?

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In realtà, l’idea di normalità non ha alcun senso quando si parla dell’educazione dei figli. Esistono solo tanti percorsi diversi, per i bambini, di imparare a “tenersi su”, come direbbe il pediatra e psicoanalista Donald Winnicott. Ossia tanti modi diversi per capire che si ha diritto di essere quello che si è, indipendentemente dalle aspettative altrui. E che l’amore che si riceve non ha né sesso né orientamento sessuale. Non è vero che le madri hanno tutte un istinto materno. Esattamente come non è vero che i padri sono tutti, per natura, incapaci di occuparsi dei propri figli.

Dietro la maggior parte delle obiezioni al matrimonio e all’adozione delle coppie omosessuali, si nascondono contraddizioni e luoghi comuni. Tanto per cominciare, in Francia, è possibile già da molti anni adottare anche quando si è single. Questo significa che, fino ad ora, l’eventuale problema dell’assenza dell’altro genitore non si era posto. E che lo si solleva solo nel momento in cui entra in gioco l’orientamento sessuale dei genitori adottivi. Ma il nodo del problema è altrove, visto che l'”ordine simbolico” di cui si parla tanto, altro non è che la capacità di integrare il fatto che al mondo esistono due categorie di persone: gli uomini e le donne. Peccato che le scelte sessuali di una persona non c’entrino affatto con la negazione della differenza dei sessi, a meno che non si confonda il concetto di “identità sessuale” con quello di “orientamento sessuale”. Ma questo tipo di confusione, in fondo, sono solo alcuni eterosessuali a farla, non capendo che l’identità sessuale dell’oggetto del desiderio di una persona non rimette affatto in discussione la consapevolezza del fatto che ognuno di noi sia “maschio” o “femmina”.

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Il vero problema dell’adozione non è quello dell’orientamento sessuale della coppia che adotta, ma quello del posto che si lascia a un bambino. Questo problema, però, lo si ha sempre, indipendentemente dal fatto che un bimbo cresca accanto a due uomini, due donne, o un uomo e una donna. Quando si ha a che fare con un figlio, la cosa più difficile è riconoscerne l’alterità. Per poter accedere a quel famoso “ordine simbolico”, per crescere, ogni bimbo ha bisogno di essere accettato nella propria alterità, e quindi di essere riconosciuto come “altro” rispetto ai propri genitori. Proprio perché è unico.

È solo in questo modo che si ha poi accesso all’ordine simbolico secondo cui non solo la donna è diversa dall’uomo, ma ogni persona è diversa da tutte le altre. Incentrare il dibattito sulla questione dell’unicità e dell’individualità, però, costringerebbe ognuno di noi ad interrogarsi sulla propria capacità di tollerare ciò che è diverso. Sapendo benissimo che i bambini, quando crescono, si identificano non solo con i genitori, ma anche con tutti gli altri adulti che contribuiscono alla loro educazione. E che tanti problemi, nella vita, nascono quando non si è stati accettati e riconosciuti per quello che si era. Anche quando si è cresciuti in una famiglia “normale”, con un papà e una mamma.

Fonte: La Repubblica

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UNA BRUTTA STORIA DI POLITICA E TRANSFOBIA.

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di Andrea Serpieri

Fino a quando (e fino a che punto) la più becera politica italiana dovrà somministrarci altri episodi di intolleranza, di cui, francamente, faremmo volentieri a meno? Questa è la storia di Laura Matrone, una splendida quarantenne, operatrice sociale, attualmente in lizza per le elezioni a Castel Volturno, provincia di Caserta, con il candidato sindaco PD Dimitri Russo. Russo si presenta con cinque donne nella lista civica “Cento volti per la svolta” e sei donne nel PD. Ma per qualcuno le donne sono di meno, perché Laura è nata uomo e pertanto non sarebbe “donna abbastanza” da soddisfare le quote rosa. Insomma, Laura non sarebbe una “vera” donna! A rivelare questa ‘verità nascosta’ all’elettorato di Castel Volturno è stato il candidato sindaco per Forza Italia (il partito delle libertà) Cesare Diana, il quale sostiene che la candidatura di Laura violi le norme sulla parità e quindi le liste di Russo andrebbero escluse dalla competizione politica.
In realtà, non c’è alcuno scoop, perché Laura non nasconde a nessuno il suo passato e soprattutto perché giuridicamente Laura Matrone è una donna “vera”, uso questo aggettivo per farmi comprendere anche da quelle persone che proprio non riescono a vedere il mondo in modo più fluido delle definizioni che usano: gay, etero, maschio, femmina…è così importante? È importante sapere se una trans abbia subito un’operazione o meno? A parte il fatto, poi, che sarebbero affari suoi, anche quando si mette in politica, perché l’essere stata uomo incide sulla sua condotta morale solo per le menti più bigotte. E ipocrite.

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In ogni caso, la candidata del PD non c’è stata a questo linciaggio pubblico e su La Repubblica, rivolgendosi all’avversario forzista, precisa: “L’hanno informato male. Sono una donna a tutti gli effetti dal 2002”.
Nell’intervista Laura Matrone si racconta, descrive i punti del suo gruppo in vista delle prossime elezioni e, sull’episodio di transfobia di cui è stata vittima, dice: “Volevano tentare di far ricusare la lista per mancanza di quote femminili, poi si sono accorti in tempo dell’errore e hanno desistito”.
“Sono Laura, sono una persona. Non c’è bisogno di mettere continuamente un timbro dietro le spalle per dire chi ero. Sono una persona. Con una faccia, con due gambe, due braccia. Mi sono sposata e separata legalmente. Sono una donna normalissima che non ha mai avuto nessuna difficoltà di inserimento nella vita sociale. Ho insegnato arti marziali alla Nato. Sono stata due volte campionessa mondiale di taekwondo e undici volte campionessa europea. Ma dal 1990 faccio spettacolo, mi occupo di canto, teatro, televisione, di pubbliche relazioni”.
Sulla sua vicenda personale che l’ha portata ad essere la donna bellissima che è oggi, riferisce: “Sono originaria di Napoli, ma vivo a Castel Volturno da quando avevo 14 anni. Nel 2002 mi sono operata e ho cambiato i connotati all’anagrafe. Ho fatto il primo intervento per cambiare sesso a Napoli tramite l’Asl, gratuitamente. Lo consente una legge del 1984. La mia famiglia all’inizio è stata un po’ titubante. I miei genitori all’inizio non capivano. Appartengono ad un’altra generazione. Però poi i miei familiari me li sono ritrovati sempre al mio fianco, specie mia sorella, mio fratello e i miei nipoti”.

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A questo punto, io mi chiedo: ma se per esempio Laura non fosse stata operata – o avesse deciso di non farlo proprio – non sarebbe stato, comunque, etico considerarla una donna a tutti gli effetti? In fondo, lei è così che si sentiva, anche prima dell’operazione. Eppure, lo Stato italiano, che nella Costituzione riconosce i diritti e l’uguaglianza di tutti e si impegna a rimuovere gli ostacoli che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese, con la L. 164/82 ha stabilito che si possa chiedere il cambio di sesso all’anagrafe solo dopo la riassegnazione genitale. Forse sarebbe il caso di cambiare questa norma, giusto per riconoscere il terzo sesso anche qui? Che piaccia o no, esiste e non può essere semplicemente negato sulla carta, per continuare a far finta che non ci sia. Cosa che, peraltro, certi benpensanti potrebbero fare tranquillamente, se magari smettessero di interessarsi delle altrui preferenze sessuali e ci lasciassero vivere in pace. Gay, etero, uomini, donne o qualunque cosa vogliate essere. Siatelo! La nostra felicità è un diritto non scritto che per natura preesiste alle norme di diritto positivo.

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Rivoluzione canone Rai: diventerà flessibile e lo pagheremo in base ai consumi.

Il sottosegretario Giacomelli: pronta la riforma, “Cancelleremo l’evasione dell’imposta nel 2015”.

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di Aldo Fontanarosa da La Repubblica del 4 maggio 2014

ROMA – Qualcuno ci ha provato, fallendo miseramente. Qualcun altro ha promesso di farlo, poi ha desistito per non perdere voti. Ora il governo Renzi annuncia la missione impossibile: ridurre, anzi azzerare l’evasione del canone Rai già nel 2015. “Non lo paga il 27% delle famiglie – ricorda Antonello Giacomelli, nuovo sottosegretario alle Comunicazioni, uomo del Pd – con un danno che la tv di Stato stima in 1,7 miliardi tra il 2010 e il 2015. Una cosa imbarazzante, che noi fermeremo”.

Il nuovo canone non si pagherà con la bolletta elettrica (“il governo prevede il taglio netto della bolletta, per aiutare le persone e le aziende, e non il suo aumento”). E neanche si tramuterà in una gabella legata alla casa come in Francia o in Germania (“se qualcuno vuole proporre questa soluzione a Matteo Renzi, pago il biglietto per assistere alla reazione”). “Al di là della modalità di versamento, che troveremo d’intesa con il ministero dell’Economia, quel che conta sarà la logica, del tutto nuova: pagheremo tutti, pagheremo con più equità”. Il governo cancellerà il canone unico di 113 euro e mezzo che ogni famiglia dovrebbe versare oggi (unica eccezione gli anziani sotto i 6.714 euro di reddito; nuclei in povertà che sono esentati).

Al posto del canone unico arriverà un’imposta flessibile ad importo variabile legata ad un nuovo indicatore che fotograferà i consumi, cioè la capacita di spesa delle persone. “L’effetto è che avremo un canone più basso che in passato, almeno per le famiglie in difficoltà, e molto meno impopolare. Lavoriamo per rinsaldare un patto di fiducia tra la Rai e il suo pubblico”, aggiunge Giacomelli.

Parole molto belle, che potrebbero suonare beffarde a Viale Mazzini. La Rai – ricordiamolo – ha appena perso 150 milioni del canone 2014 per mano del Documento di economia e finanza del governo Renzi. Una botta mai vista. “Dietro la nostra decisione non c’è alcuna volontà punitiva – assicura Giacomelli – da tempo il direttore generale della Rai Gubitosi ci parlava della vendita di RaiWay (la società dei ripetitori, ndr). Il progetto c’era già, dunque. Noi invitiamo Viale Mazzini ad accelerare nella valorizzazione dell’asset. Servono soldi. La tv di Stato li cerchi come e dove sa”.

E questo dove si chiama Borsa. Il governo suggerisce di quotare una fetta minoritaria di Rai Way, con un duplice obiettivo. Conservare in mano pubblica il controllo della società e della rete. Ma ricavare comunque tante risorse (“sicuramente più dei 150 milioni che il Def chiede a Rai come contributo”, calcola Giacomelli). Ma RaiWay si potrà quotare un anno. E nel 2015? Dove trovare altri 150 milioni? “Serve un nuovo Piano editoriale. Oggi la Rai ha ancora tre tg e tre reti, le principali, figlie della tripartizione decisa dai partiti nel 1975. L’effetto è una moltiplicazione dei centri di spesa. Suggerisco il massimo delle sinergie nella produzione dei servizi, nell’impiego delle troupe anche esterne, nell’uso degli impianti”. Poi andranno chiuse alcune sedi regionali, che Palazzo Chigi considera un bene statico, inerme. Questo colosso da 700 dipendenti di cui 200 giornalisti “deve produrre di più”.

Azzerare l’evasione del canone. Quotare RaiWay. Varare un nuovo Piano editoriale che assicuri risparmi tra giornalisti e sedi regionali. Trasformare Viale Mazzini in una media company capace di competere nell’era di Google e Youtube. Quest’insieme di mosse – nei piani dell’esecutivo – permetterà alla tv di Stato di reggere l’urto dei 150 milioni persi e di conservare inalterata l’offerta. Non mancheranno i fondi, ad esempio, per comprare i diritti della Nazionale. Un programma simbolo.

In questo quadro, il nuovo sottosegretario lavora e si dà da fare, malgrado Palazzo Chigi non abbia ancora formalizzato, a lui e ad altri sottosegretari e vice ministri, le deleghe che definiranno il perimetro della loro azione. “E’ una situazione singolare. Per me vale di più la parola del premier dell’atto scritto. Renzi mi invita a procedere come se ci fosse la delega ed io procedo. Certo, prima si colma questo vuoto e meglio è per tutti. L’8 maggio, incontrerò il commissario Ue all’Agenda Digitale, Neelie Kroes”. Ha avuto problemi? “Abbiamo dovuto spiegare a che titolo la incontrerò, non avendo io la delega. Peraltro, alla vigilia della presidenza italiana del semestre europeo, esporrò la nostra posizione su temi non banali. Dirò alla Kroes, ad esempio, che ci teniamo alla net neutrality. Non vogliamo un Internet veloce e un altro meno, un Internet di serie A e uno di serie B. Questa sarà la linea e vorrei motivarla con la dovuta efficacia”.

Fonte: La Repubblica

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Lavoro, la beffa delle 30enni laureate: più preparate e meno pagate

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A cinque anni dalla laurea le ragazze che hanno trovato un impiego hanno in media uno stipendio di 1.333 euro. Ai loro coetanei vanno invece 300 euro in più. Un divario, anche nella precarietà, più elevato anche rispetto alle più giovani. E la nascita di un figlio diventa sempre di più un elemento condizionante. Indagine Almalaurea sul profilo di 210mila laureate.

di FEDERICO PACE La Repubblica 8/3/2014

Alcune di loro le trovi nei posti di comando delle imprese, altre stanno sedute di fronte ai luminosi monitor dove si decidono le sorti dei capitali mondiali e qualcuna anche sta sullo scranno di ministro di governo. Eppure, la gran parte delle 30enni italiane sono altrove. Le trovi negli uffici e negli spazi di piccole e grandi imprese, impegnate al loro meglio e costrette a dover accettare condizioni di lavoro svantaggiate rispetto a quelle dei loro colleghi maschi. Dall’editoria alla grande distribuzione. Quasi ovunque, un divario persistente, sia in termini di paga mensile sia di precarietà, a un’età così cruciale per lo sviluppo del proprio destino e per la crescita di un nuovo nucleo familiare.

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A cinque anni dalla laurea, le ragazze che sono riuscite a trovare un impiego, ricevono dalle imprese, in busta paga, solo 1.333 euro. I loro colleghi riescono invece a portare a casa una cifra che le supera del 22 per cento (1.626 euro). Quel che accade alle 30enni italiane ha l’aspetto di una beffa ancor maggiore, perché a un anno dalla laurea, la scarto che separa i due generi è di gran lunga inferiore e pari al 14 per cento (1.098 euro per le donne e 1.254 per gli uomini). Con il passare del tempo, di fatto, invece di smussarsi, le ineguaglianze e le disparità si inaspriscono e si acuiscono. Con il passare del tempo, alle ragazze, troppo spesso, non viene data la possibilità di accrescere il proprio valore e impiegare al meglio le risorse di cui sono in possesso.

Il dato italiano è quello elaborato dall’ultima indagine di AlmaLaurea che ha studiato il profilo di quasi 210 mila laureate. Il consorzio interuniversitario ha “fotografato” le immagini delle ragazze nei successivi passi della loro crescita e maturazione: a un anno dal conseguimento del titolo di studio, a tre anni e a cinque anni. I dati, come visto, non sono confortevoli. Il professore Andrea Cammelli, direttore, fondatore del consorzio e da sempre attento studioso dei fenomeni legati ai giovani in rapporto all’istruzione e all’occupazione, ha voluto precisare come questi dati siano il “segnale di un forte arretramento culturale e civile del Paese rispetto all’obiettivo di realizzare una partecipazione paritaria delle donne al mercato del lavoro” e ha sottolineato come di fatto “tale arretramento contribuisca a svalutare gli investimenti nell’istruzione universitaria femminile”.

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E’ vero che i differenziali retributivi possono essere influenzati da molti fattori. Dal tipo di studi intrapresi, dall’età media alla laurea, dal voto di laurea, dalla formazione post-laurea, così come dalla tipologia dell’attività lavorativa, dall’area di lavoro e dal diverso peso del tempo pieno e del part-time tra i due diversi generi. Gli esperti di AlmaLaurea però, in una ricerca ad hoc, hanno anche neutralizzato tali effetti e hanno mostrato come a parità di condizioni, i trentenni continuino a guadagnare in media 172 euro mensili in più delle loro coetanee.

In questo scenario si innesta poi l’elemento della precarietà che aggredisce il segmento femminile in misura maggiore di quanto non faccia con quello maschile. A un anno dalla laurea riescono a trovare un posto stabile solo il 31 per cento delle ragazze, mentre i ragazzi arrivano al 39 per cento. Con l’andare del tempo, se è vero che pare attenuarsi la precarietà dei ragazzi, che arrivano a un contratto stabile nel 79 per cento dei casi, lo stesso non accade in ugual misura alle ragazze. Nel loro caso, a cinque anni dalla laurea, solo due terzi riescono a conquistarsi il tanto ambito rapporto di lavoro stabile.

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Queste le ineguali condizioni di chi è riuscita a trovare un impiego, più o meno stabile, più o meno remunerato. Ma a queste vanno aggiunte, le molte che purtroppo non ci riescono neppure. Trovare lavoro è difficile per tutti, è una battaglia dove nessuno dei due generi risulta davvero vincente, entrambi strozzati in un mercato asfittico e sempre più striminzito. Eppure le donne fanno ancor più difficoltà, anche lì dove è già difficile per tutti. Già a un anno dalla laurea le differenze sono significative: trovano un impiego 52 donne su 100, mentre tra gli uomini ce ne riescono 59 su cento. C’è anche un altro dato che svela come le ragazze subiscano in misura maggiore la beffa: sono loro infatti quelle che in maggiore percentuale si dichiarano alla ricerca di un impiego (35 per cento rispetto al 27 degli uomini).

C’è poi la delicata questione della maternità. Se una giovane donna ha il coraggio, l’ardire, lo slancio, la naturalezza di divenire madre, allora la disparità occupazionale cresce quasi a dismisura. Le trentenni, a cinque anni dalla laurea, che hanno almeno un figlio hanno un tasso di occupazione pari al 63,5 per cento mentre i loro coetanei con figli sono occupati per l’89 per cento.

Avere un figlio, in termini occupazionali, di fatto risulta essere un condizionamento che forse non ha pari in Europa. Lo si capisce ancora di più se si mettono a confronto i destini occupazionali delle trentenni che hanno avuto almeno un figlio, con quello delle giovani che i figli, volenti o nolenti, non li hanno fatti. Ebbene, il 76 per cento delle laureate senza figli lavora a cinque anni dalla laurea, mentre succede lo stesso solo al 63 per cento di quelle con almeno un figlio. Questi numeri chiamano in causa i decisori e non si può non dare ragione a Cammelli quando dice che sono “forti sono le responsabilità in termini di politiche a sostegno della famiglia e della madre-lavoratrice”.

Fonte: La Repubblica

Gli invisibili dell’Europa

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Di Barbara Spinelli, pubblicato su La Repubblica 26/02/2014

Il dolore sta producendo risultati”: fa impressione, proprio ora che è divenuto ministro dell’Economia, rileggere quel che Pier Carlo Padoan disse il 29 aprile 2013 al Wall Street Journal, quando era vice segretario generale dell’Ocse.

Già allora i dati sull’economia reale smentivano una così impudente glorificazione dell’austerità – e addirittura dei patimenti sociali che infliggeva – ma l’ultimo numero di Lancet, dedicato alla sanità pubblica in Grecia dopo sei anni di Grande Depressione, va oltre la semplice smentita. Più che correggersi, il ministro farebbe bene a scusarsi di una frase atroce che irresistibilmente ricorda Pangloss, quando imperterrito rassicura Candide mentre Lisbona è inghiottita dal terremoto raccontato da Voltaire: “Queste cose sono il meglio che possa accadere. La caduta dell’uomo e la maledizione entrano necessariamente nel migliore dei mondi possibili”.

Lancet non è un giornale di parte: è tra le prime cinque riviste mediche mondiali. Il suo giudizio sulla situazione ellenica, pubblicato sabato in un ampio dossier (lo ha ripreso Andrea Tarquini sul sito di Repubblica), è funesto: la smisurata contrazione dei redditi e i tagli ai servizi pubblici hanno squassato la salute dei cittadini greci, incrementando il numero di morti specialmente tra i bambini, tra gli anziani, nelle zone rurali. Nella provincia di Acaia, il 70 per cento degli abitanti non ha soldi per comprare le medicine prescritte. Emergency denuncia la catastrofe dal giugno 2012. Numerose le famiglie che vivono senza luce e acqua: perché o mangi, o paghi le bollette. Nel cuore d’Europa e della sua cultura, s’aggira la morte e la chiamano dolore produttivo.
“Siamo di fronte a una tragedia della sanità pubblica”, constata la rivista, “ma nonostante l’evidenza dei fatti le autorità responsabili insistono nella strategia negazionista”. Qualcuno deve spiegare a chi agonizza come sia possibile che il dolore e la morte siano “efficaci”, e salvifiche per questo le riforme strutturali fin qui adottate.

Né è solo “questione di comunicazione” sbagliata, come sosteneva nell’intervista Padoan: sottolineare gli esiti promettenti del consolidamento fiscale, ammorbidendo magari qualche dettaglio tecnico, non toglie la vittoria al pungiglione della morte. Trasforma solo un’improvvida teoria economica in legge naturale, perfino divina. Moriremo, certo, ma in cambio il Paradiso ci aspetta. Soprattutto ci aspetta se non cadremo nel vizio disinvoltamente rinfacciato agli indebitati-impoveriti: la “fatica delle riforme” (reform fatigue), peccato sempre in agguato quando i governi “sono alle prese con resistenze sociali molto forti”. Quando siamo ingrati, come Atene, alle iniezioni di liquidità che l’Unione offre a chi fa bancarotta: nel caso greco, due bailout tardivi, legati a pacchetti deflazionistici monitorati dalla trojka. I contribuenti tedeschi hanno già dato troppo, dicono in Germania. Non è vero, i contribuenti non hanno pagato alcunché perché di prestiti si tratta, anche se a tassi agevolati e destinati in primis alle banche.

Difficile dar torto alle “forti resistenze sociali”, se solo guardiamo le cifre fornite su Lancet dai ricercatori delle università britanniche di Cambridge, Oxford e Londra. A causa della malnutrizione, della riduzione dei redditi, della disoccupazione, della scarsità di medicine negli ospedali, dell’accesso sempre più arduo ai servizi sanitari (specie per le madri prima del parto) le morti bianche dei lattanti sono aumentate fra il 2008 e il 2010 del 43%. Il numero di bambini nati sottopeso è cresciuto del 19 %, quello dei nati morti del 20.

Al tempo stesso muoiono i vecchi, più frequentemente. Fra il 2008 e il 2012, l’incremento è del 12,5 fra gli 80-84 anni e del 24,3 dopo gli 85. E s’estende l’Aids, perché la distribuzione di siringhe monouso e profilattici è bloccata. Malattie rare o estinte ricompaiono, come la Tbc e la malaria (quest’ultima assente da 40 anni. Mancano soldi per debellare le zanzare infette).
La rivista inglese accusa governi e autorità europee, ed elogia i paesi, come Islanda e Finlandia, che hanno respinto i diktat del Fondo Monetario o dell’Unione. Dopo la crisi acuta del 2008, Reykjavik disse no alle misure che insidiavano sanità pubblica e servizi sociali, tagliando altre spese scelte col consenso popolare. Non solo: capì che la crisi minacciava la sovranità del popolo, e nel 2010-2011 ridiscusse la propria Costituzione mescolando alla democrazia rappresentativa una vasta sperimentazione di democrazia diretta.

Non così in Grecia. L’Unione l’ha usata come cavia: sviluppi islandesi non li avrebbe tollerati. Proprio nel paese dove Europa nacque come mito, assistiamo a un’ecatombe senza pari: una macchia che resterà, se non cambiano radicalmente politiche e filosofie ma solo questo o quel parametro. Il popolo sopravvive grazie all’eroismo di Ong e medici volontari (tra cui Médecins du Monde, fin qui attivi tra gli immigrati): i greci che cercano soccorso negli ospedali “di strada” son passati dal 3-4% al 30%. S’aggiungono poi i suicidi, in crescita come in Italia: fra il 2007 e il 2011 l’aumento è del 45%. In principio s’ammazzavano gli uomini. Dal 2011 anche le donne.
Lancet non è ottimista sugli altri paesi in crisi. La Spagna, cui andrebbe assommata l’Italia, è vicina all’inferno greco. Alexander Kentikelenis, sociologo dell’università di Cambridge che con cinque esperti scrive per la rivista il rapporto più duro, spiega come il negazionismo sia diffuso, e non esiti a screditare le più serie ricerche scientifiche (un po’ come avviene per il clima). L’unica istituzione che si salva è il Centro europeo di prevenzione e controllo delle malattie, operativo dal 2005 a Stoccolma.

La Grecia prefigura il nostro futuro prossimo, se le politiche del debito non mutano; se scende ancora la spesa per i servizi sociali. Anche in Italia esistono ospedali di volontari, come Emergency. La luce in fondo al tunnel è menzogna impudente. Senza denunciarla, Renzi ha intronizzato ieri la banalità: “L’Europa non dà speranza se fatta solo di virgole e percentuali” – “l’Italia non va a prendere la linea per sapere che fare, ma dà un contributo fondamentale”. Nessuno sa quale contributo.

Scrive l’economista Emiliano Brancaccio che i nostri governi “interpretano il risanamento come fattore di disciplinamento sociale”. Ma forse le cose stanno messe peggio: il risanamento riduce malthusianamente le popolazioni, cominciando da bambini e anziani. Regna l’oblio storico di quel che è stata l’Europa, del perché s’è unita. Dimentica anche la Germania, che pure vive di memoria. Dopo il ’14-18 fu trattata come oggi la Grecia: sconfitto, il paese doveva soffrire per redimersi. Solo Keynes insorse, indignato. Nel 1919 scrisse: “Se diamo per scontata la convinzione che la Germania debba esser tenuta in miseria, i suoi figli rimanere nella fame e nell’indigenza […], se miriamo deliberatamente all’umiliazione dell’Europa centrale, oso farmi profeta, la vendetta non tarderà”.

La vendetta non tardò a farsi viva, ed è il motivo per cui ben diversa e più saggia fu la risposta nel secondo dopoguerra. Quella via andrebbe ripercorsa e potrebbe sfociare in una Conferenza europea sul debito, che condoni ai paesi in difficoltà parte dei debiti, connetta i rimborsi alla crescita, dia all’Unione poteri politici e risorse per lanciare un New Deal di ripresa collettiva e ecosostenibile. È già accaduto, in una conferenza a Londra che nel 1953 ridusse quasi a zero i debiti di guerra della Germania. I risultati non produssero morte, ma vita. Fecero rinascere la democrazia tedesca. Non c’era spazio, a quei tempi, per i Pangloss che oggi tornano ad affollare le scene.

Fonte ALBA SOGGETTO POLITICO NUOVO

I medici italiani lavorano troppo. La Ue pronta a sanzionare l’Italia

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Turni di 48 ore settimanali che sfiorano le 70 e l’assenza di un riposo settimanale garantito. Secondo Bruxelles negli ospedali italiani non vengono rispettate le direttive Ue sugli orari di lavoro. Per questo ha deferito il nostro paese alla Corte di giustizia dell’Unione europea.
di VALERIA PINI (La Repubblica)

TURNI estenuanti che sembrano non finire mai. Sulla carta sono 48 ore settimanali, ma spesso diventano 60 o 70. Negli ospedali italiani i medici lavorano troppo e per questo la Commissione europea ha deciso di deferire l’Italia alla Corte di giustizia dell’Unione europea per non aver applicato correttamente le normative in materia. Per la precisione si tratta della Direttiva sull’orario di lavoro ai medici che lavorano nel servizio sanitario pubblico. Tutto questo con rischi per i pazienti e per i camici bianchi, costretti ad affrontare situazioni stressanti e sempre più preoccupati per la paura di eventuali cause legali.

“Senza diritti”. Secondo la Ue, negli ospedali i dottori affrontano condizioni di lavoro difficili. Ad oggi, la normativa italiana priva questi medici del loro diritto a un limite nell’orario lavorativo settimanale e a un minimo di periodi di riposo giornalieri. Spulciando la normativa italiana gli esperti della Commissione hanno scoperto che non esiste neanche il diritto a un periodo minimo di riposo nell’arco della settimana.

Il primo avvertimento. Da tempo la questione è allo studio dei burocrati europei che già a maggio scorso aveva inviato un ‘parere motivato’ in materia al nostro paese. “In Italia diversi diritti fondamentali contenuti nella direttiva sull’orario di lavoro, come il limite di 48 ore stabilito per l’orario lavorativo settimanale medio e il diritto a periodi minimi giornalieri di riposo di 11 ore consecutive, non si applicano ai dirigenti operanti nel servizio sanitario nazionale – spiega la Commissione – . Invece la direttiva non consente agli Stati membri di escludere i dirigenti o le altre persone aventi potere di decisione autonomo dal godimento di tali diritti”.

La questione dei dirigenti. La Commissione ricorda che i medici attivi nel Servizio sanitario pubblico italiano sono formalmente classificati come dirigenti, senza necessariamente godere delle prerogative o dell’autonomia dirigenziali durante il loro orario di lavoro. Inoltre, “la normativa italiana contiene altre disposizioni e regole che escludono i lavoratori del servizio sanitario nazionale dal diritto di riposo giornaliero e settimanale minimo. Dopo aver ricevuto diverse denunce, la Commissione ha inviato all’Italia un “parere motivato” in cui le chiedeva di adottare le misure necessarie per assicurare che la legislazione nazionale ottemperasse alla direttiva”. Non c’è stata una risposta e e oggi Bruxelles ha deciso di rinviare il caso alla Corte europea di giustizia.

La direttiva Ue. La direttiva sull’orario di lavoro prevede che, per motivi di salute e sicurezza, si lavori in media un massimo di 48 ore alla settimana, compresi gli straordinari. I lavoratori hanno inoltre diritto a fruire di un minimo di 11 ore ininterrotte di riposo al giorno e di un ulteriore riposo settimanale ininterrotto di 24 ore. C’è peò una certa flessibilità che consente di posporre i periodi minimi di riposo per motivi giustificati, ma soltanto a condizione che il lavoratore possa recuperare subito dopo le ore di riposo di cui non ha fruito.

A chi si applica. La direttiva si applica a tutti i medici con un contratto di lavoro subordinato. Solo per i medici in formazione la limitazione dell’orario di lavoro è stata introdotta gradualmente, sulla base di regole speciali, nel periodo 2000-2009. Dal 1° agosto 2009, il limite di 48 ore si applica anche ai dottori in formazione, mentre i periodi minimi di riposo si applicavano anche a questa categoria in tutti gli Stati membri già dal primo agosto 2004. Ma l’Italia ha ignorato queste norme.

Fonte: La Repubblica