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CLASSE 1980: LA GENERAZIONE PERDUTA. 

La scorsa settimana il presidente dell’INPS, Tito Boeri, rivelando al Paese ciò che Mastrapasqua, suo predecessore nella carica, ‘si vantava’ di nascondere per scongiurare una rivolta popolare, ha reso noto ai giovani le cifre delle loro future pensioni. Come era di facile previsione in un clima che Grammellini nel suo ‘Buongiorno’ del 2 dicembre ha definito catatonico, in un Paese che è sempre rimasto assopito dinanzi a tutto ciò che fosse altro da una partita di calcio, nessuna rivolta si è venuta a creare e anzi la notizia preoccupante che ha dato spunto a questo post, nell’era del tutto e subito, è già vecchia, vecchissima: per farci un’idea, su Flipboard e Google News dobbiamo scrollare parecchio prima di ritrovarla. Per farcene un’altra: si parla ancora di presepi e crocifissi in aula, visto che l’Avvento non è ancora finito, ma dei nati degli anni ’80 si è già smesso di discutere. Personalmente, trovo ingiusto protrarre il dibattito pubblico su argomenti di natura teologica, per quanto intrisi di risvolti sociali ed etnici di grande attualità, mentre io, che ho 35 anni, ho già smesso di fare notizia. Soprattutto se la notizia è che lavorerò ancora a lungo, diciamo tutta la vita, per irrorare la pensione di chi è cresciuto in un’epoca di diritti sociali e ne verrò per giunta ricompensato – sempre citando Grammellini – “con un epilogo esistenziale a base di fatica e di stenti.” La cosa, infatti, potrebbe anche darmi alquanto fastidio, specialmente perché il modello attuariale, in base al quale viene finanziato il nostro sistema previdenziale pubblico, la cosiddetta ripartizione pura, secondo cui le prestazioni attuali vengono finanziate contestualmente alla loro erogazione proprio da me che lavoro, da almeno un ventennio viene ‘simpaticamente’ chiamato dagli addetti ai lavori “metodo dell’imprevidenza” (lo trovate scritto perfino sui compendi della Simone). Eppure, poco o nulla si è fatto. Anzi, piuttosto si è infierito: ricorderete sicuramente l’amabile ex ministro Padoa Schioppa che ci definì bamboccioni e la formidabile Elsa Fornero che ci apostrofò come choosy. Vale a dire che per i grandi (in Italia lo si è tipo dopo i 40-45 anni) è colpa di noi piccoli se i nostri padri e i loro padri prima di loro si sono già mangiati tutte le provviste e hanno, nel contempo, avallato un sistema basato sull’orgia edonistica degli anni ’80, quando si consumava tutto e ciò che avanzava piuttosto si buttava, senza preoccuparsi del domani. Ebbene, il domani è arrivato ed è il mio presente e non mi sento responsabile del mio vivere ancora in famiglia, sebbene anche noi giovani abbiamo le nostre colpe, lo ammetto. Vero è che questa colpa la condividiamo con i nostri padri e le nostre madri. E con lo Stato, che fa leva sul risparmio delle famiglie come ammortizzatore sociale per i giovani disoccupati o precari – risparmio per lo più detenuto da chi 30 anni non li ha più da un pezzo.  
 Il nostro peccato più grave, infatti, è la rassegnazione con cui accettiamo ogni cosa. A differenza dei nostri coetanei che hanno avuto il coraggio di andare via, noi che siamo rimasti continuiamo a percepire come normale un sistema sadico, nel quale ciò che conta è l’anzianità. Non parlo solo di pensioni. Per esempio, in Italia un trentenne oggi potrà anche farsi apprezzare in azienda, nel pubblico come nel privato, per le sue capacità e conoscenze, ma all’atto di conferire una posizione di responsabilità, anche di una semplice linea di prodotto, la scelta cadrà con maggior probabilità su un soggetto più anziano del trentenne, perché più esperto, sebbene meno curriculato. Molti di noi, ad esempio, hanno continuato a studiare, nelle more di una vita professionale, che in teoria lo Stato avrebbe dovuto garantirci, almeno stando al dettato costituzionale. Quindi è facile che un trentenne abbia qualche laurea in più rispetto ai soggetti più anziani di lui che incontrerà nel mercato del lavoro. Ma la giustificazione di solito è sempre la stessa: “Tanto hai tutta la vita davanti! Arriverà anche per te…” La anormalità sta proprio in questo, perché sto vivendo anche adesso e se ritengo di meritare alcunché è giusto che io l’ottenga. Invece di norma il trentenne risponderà “grazie”, sperando in cuor suo di non dover aspettare altri dieci anni. In fin dei conti, se lo analizziamo in maniera spiccia, col contratto a tutele crescenti a venir istituzionalizzata e generalizzata è proprio la regola dell’anzianità. I sindacati, così contrari al Jobs Act, nei luoghi di lavoro continuano tuttora a tutelare le competenze acquisite. Sapete cosa vuol dire tutelare una competenza? Fare largo ai vecchi. Per cui è normale incontrare responsabili diplomati e operatori esecutivi laureati. Non lo è, ma noi siamo quelli che accettano qualunque lavoro, pur di portare a casa qualche soldo e pur essendo dottori magistrali facciamo i camerieri, i segretari o gli operatori di call center.

  
C’è anche un altro aspetto, che tanto normale non appare, se lo confrontiamo con l’estero. Ad esempio, non è normale che i giovani in Italia non abbiano alcuna garanzia per la futura pensione, nessuna meritocrazia o nessun supporto all’acquisto della prima casa. Noi stiamo tollerando, come fosse se una situazione naturale, un’ingiustizia profonda: l’esclusione dal mondo del lavoro, dalla politica, dalla carriera nelle università (dove la cronaca ricorda che oltreché vecchio bisogna, peraltro, anche essere parente di qualcuno) e stiamo accettando senza riserve questa atroce disparità intergenerazionale. I trentenni vivono in una società che non è la loro, ma quella dei propri genitori. Sono privi di punti di contatto con un mondo reale che è loro estraneo, non hanno alcuna forza antagonista, vivono nella società come in famiglia, come il gatto di casa: a proprio agio, ma senza voce in capitolo. Ciò che manca è la dialettica tra loro e la società.  

 
Dialettica che non può esistere senza un reale ricambio generazionale. La carenza di turn over nel mercato del lavoro, peraltro, comporta un altro grande gap, oltre al fatto che lascia soli in un ambiente di 50-60enni quei pochi di noi che riescono a lavorare. Infatti, l’assenza di massa di un’intera generazione dal lavoro sta modificando la struttura del modello sociale in modo allarmante. La cultura, l’industria, l’imprenditoria mancano per questo di innovazione e i giovani non sviluppano la carica antagonista che sempre ha fatto da propellente sul costume, sulla cultura e sulla stessa politica del nostro come degli altri Paesi. Il “parricidio” e l’allontanamento dalle famiglie di origine è un passo fondamentale per la crescita di un individuo. I giovani italiani, invece, rimangono in qualche misura ancora legati alla paghetta settimanale in una società neomediovale, dove la fluidità interclassista è praticamente inesistente. 

 
Il dramma della situazione che così si viene a creare è questo circolo vizioso tra genitori e figli, da cui per ora, considerato l’immobilismo del mercato del lavoro, non conviene uscire, ma che lascerà un’intera generazione sul baratro, quando mamma e papà non ci saranno più a darci una mano con le loro belle pensioni calcolate col metodo retributivo. Il nostro è un problema di asfissia culturale. I cattivi maestri (e gli pseudo maestri) ci sono sempre stati. Poi, però, si cresceva e si faceva a pugni con il sapere acquisito dai padri. Ma oggi a 30 anni non ancora si hanno gli strumenti per farlo e ci si appiattisce sulle idee dei vecchi. Gli attuali trentenni temono l’incertezza, più che in passato, sono terrorizzati dai rischi che il cambiamento porta con sé. Se l’Italia fosse un Paese forte, cosciente e solidale si occuperebbe di loro e, di conseguenza, del suo stesso futuro. Ma se continuiamo con questo non far nulla, la generazione dei nati negli anni ottanta sarà come se non fosse mai esistita. L’Italia avrà, allora, perso un’intera generazione e il danno in termini di capitale umano sul progresso materiale del Paese sarà inestimabile. Sarà irrecuperabile, sempre che non lo sia già.

MDS – BlogNomos

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NON POSSIAMO PERDERE LA SPERANZA

di Germano De Sanctis

In seguito all’attentato terroristico avvenuto l’11 settembre 2001, il mondo occidentale ha inizialmente risposto alla minaccia del terrorismo dichiarando guerra alle Nazioni ritenute complici degli attentatori, non risolvendo minimamente il problema e non assicurando ai suoi cittadini alcuna sicurezza.

Infatti, quattordici anni dopo e all’indomani del un nuovo attacco terroristico alla redazione del settimanale parigino Charlie Hebdo, si è reso evidente come il c.d. terrorismo islamico non solo non è stato debellato, ma anzi non è stato minimamente scalfito da anni di politiche di contrasto, attuate anche, come detto, ricorrendo agli strumenti offerti dalla guerra convenzionale.
Inoltre, la nostra libera, pacifica e democratica società europea si è scoperta totalmente incapace di prevenire l’accadimento di eventi di tale portata.

Lo sgomento è amplificato dal fatto che questi attacchi terroristici hanno sempre colpito sempre un simbolo della democrazia occidentale. Infatti, l’attentato alla redazione del settimanale Charlie Hebdo ha come obiettivo simbolico la libertà di stampa. In precedenza, altri simboli del nostro sistema democratico sono stati chirurgicamente colpiti: la scuola a Tolosa (la libertà d’struzione), il museo ebraico di Bruxelles (il divieto di discriminazione), il coffee shop di Sidney (il diritto di riunione) ed il Parlamento del Canada a Ottawa (il diritto di rappresentanza).

In altri termini, emerge una chiara strategia di destrutturare la società civile occidentale, mirando ai suoi luoghi che più rappresentano simbolicamente le libertà conquistate da secoli di lotte democratiche.

La violenza del fanatismo religioso ha provocato un improvviso risveglio delle nostre coscienze che vedono inaspettatamente in pericolo il nostro sistema di valori, cresciuto godendo di un lungo periodo di reciproca e pacifica convivenza e rinnegando i germi malefici che hanno portato allo scoppio della seconda guerra mondiale.

Pertanto, è naturale percepire l’istinto di difendere la nostra democrazia da questo attacco morale e politico, magari opponendoci emotivamente ed irrazionalmente al totalitarismo fanatico, con ogni mezzo possibile, purché rispettoso dei nostri principi etici e di legalità.

Invece, tutti questi eventi impongono una analisi serena e razionale, per comprendere cosa stia realmente accadendo in Europa e nel mondo, senza farsi condizionare dalla vendetta, dall’odio e dall’intolleranza.

Così ragionando, appare necessario rinforzare subito la nostra cultura democratica e tollerante, avendo fiducia e speranza sulle sue potenzialità, nonché abbandonando i sempre più diffusi atteggiamenti critici e disfattisti. Soltanto l’assunzione di un simile atteggiamento può rendere possibile la difesa della nostra democrazia, per trasmetterla intatta alla prossima generazione.

Infatti, promuovere lezioni d’intolleranza razziale e/o religiosa è un’operazione pericolosa, in quanto la diffusione di un simile messaggio può influenzare ampi settori della società, insinuandosi anche nelle sue fasce di età più giovane. Gli atteggiamenti di odio e di discriminazione sono soltanto capaci di risvegliare gli istinti più biechi, rendendo ammissibile ogni misfatto.
In momenti storici di tale delicatezza deve prevalere un atteggiamento responsabile e capace di ripensare completamente il nostro sistema di convivenza civile. Infatti, gli accadimenti che si stanno succedendo dal 2001 hanno delineato un nuovo scenario internazionale, che sta finendo per cambiare irrimediabilmente il mondo ed il modo di pensare di noi occidentali, essendo costretti a rimettere in discussione l’intero nostro sistema di relazioni tra culturale e religioni diverse. Si tratta di un’occasione unica da affrontare con speranza, poiché rappresenta l’unico modo per costruire un futuro migliore, rispetto a quello che l’odio e la xenofobia possono assicurarci.

Pertanto, la guerra e gli atteggiamenti xenofobi non sono la soluzione, in quanto la vendetta non è uno strumento di giustizia, ma soltanto uno strumento per generare altra e maggiore violenza.

Bisogna evitare di finire in una spirale di odio e violenza, per ricercare la pace del mondo attraverso una complessa, ancorché fragile, interconnessione tra le varie ideologie, culture e religioni.
Sin dagli albori della cultura occidentale, la politica, intesa nella sua accezione più nobile, si è distinta per essere il superamento di ogni violenza, nella consapevolezza della sua inutilità a raggiungere qualsiasi scopo.

Dobbiamo interessarci degli aspiranti kamikaze e guerriglieri islamici non per combatterli aprioristicamente, ma per capire quali siano le ragioni più profonde che li rendano disposti ad accettare l’idea della propria morte mediante l’innaturale atto del suicidio. Soltanto in tal modo, sarà possibile fermare costoro e la spirale di violenza che essi sovente generano. Infatti, la storia umana insegna che molto raramente sussiste una correlazione diretta e precisa tra un evento e l’altro, in quanto un numero indefinito di concause producono gli eventi della nostra vita.

Non è, quindi, possibile dividere in modo manicheo quelli che stanno con noi occidentali e quelli contro di noi, in quanto in questo scenario mondiale fluido ed orfano delle ideologie del XX Secolo non vi sono più certezze. Anzi, diventa necessario porre il dubbio alla base dello sviluppo futuro della nostra cultura. Soltanto il dubbio (supportato dalla curiosità) può generare la necessità di conoscere e comprendere le culture diverse dalla nostra.

In altri termini, la ricerca della conoscenza non deve pretendere di ottenere soluzioni univoche, chiare e precise ai problemi del mondo, ma deve ritenere utile porre (anche a se stessi) delle domande oneste, per, poi, ascoltare le risposte altrui.
Un simile atteggiamento culturale ci permetterà di uscire da consunti e banali stereotipi sul terrorismo, in quanto esso, inteso come modo di usare la violenza, può esprimersi in molteplici forme, a volte anche economiche, al punto che è impossibile arrivare ad una individuazione univoca del nemico da debellare.

In passato, i governi occidentali hanno preteso di sapere esattamente chi fossero i terroristi e come andassero combattuti. Invece, come hanno dimostrato i fatti di Parigi, anche questo stereotipo è destinato a dissolversi in un attimo. Soltanto quando la politica si ricongiungerà con l’etica, sarà possibile porre le basi per vivere in un mondo migliore.

Tutto dipenderà da come la politica reagirà a questi ultimi attentati. Come ha giustamente detto Francois Hollande, i terroristi hanno colpito al cuore la libertà e la laicità della società europea, ma non la sua ragione. Di conseguenza, bisognerà impedire che trionfino i rigurgiti anti-islamici, che tenderanno, nel breve periodo, a radicalizzarsi ed a stigmatizzare tutte le popolazioni musulmane. Sarà necessario reagire alla paura crescente di chi si sentirà minacciato, per impedire un pericoloso processo di disgregazione.

La scelta operata dai terroristi islamici di trasformare l’Europa nel loro terreno di scontro d’elezione impone a quest’ultima di muoversi unitariamente, non soltanto sotto gli assetti economici, ma anche e soprattutto politicamente. Occorre, quindi, una politica unitaria dell’immigrazione nell’Eurozona, per non pericolosamente ghettizzare le sempre più numerose minoranze stanziate negli Stati Membri dell’Unione Europea, dove tra l’altro, vivono, già due o tre generazioni di immigrati, che necessitano del rispetto della loro diversità, nell’ambito di uno spazio comune di valori condivisi e dove tutti devono convivere pacificamente.

Se non si ragiona in tal modo, queste minoranze rischiano di diventare oggetto dell’attività di proselitismo dei terroristi. Invece, la loro integrazione, comporterà la loro educazione alla democrazia, al lavoro, ai diritti e ai doveri della civile convivenza. In altri termini, essi possono diventare pienamente cittadini europei, nel rispetto delle loro singole diversità culturali e religiose.
Si tratta di una necessità di equità sociale sempre più cogente, visto l’imponente flusso migratorio proveniente dalla sponda africana del Mediterraneo. Di conseguenza, deve prevalere un intervento politico che contrasti visioni localistiche e protezionistiche, ormai pericolosamente fuori dal tempo. Soltanto se la società europea saprà condannare questi fermenti di odio e di violenza, sarà possibile contrastare e debellare il terrore.

La condanna al messaggio di odio dei terroristi deve passare anche attraverso i medesimi strumenti di propaganda finora usati dagli jihadisti. Quindi, bisognerà ricorrere a forme di mobilitazione di massa che dovranno attraversare trasversalmente proprio quei social network che hanno svolto da cassa di risonanza dei messaggi di odio e distruzione.

In questi giorni, si è riscontrato che la rete internet, attraverso Facebook, Twitter e gli altri principali social network, ha prodotto rapidamente una immediata risposta al messaggio di odio e terrore lanciato dai terroristi. Si tratta di una novità importante. Infatti, nel 2001, ai tempi dell’attentato alle Torri Gemelle, una simile reazione era impossibile a causa, sia dell’assenza delle attuali reti sociali, sia dell’assenza di consapevolezza collettiva del terrore globale.

In altri termini, la rete ha reso possibile una risposta immediata ed internazionale all’orrore, rendendo evidente come la diretta conseguenza della globalizzazione del terrorismo è stata la globalizzazione della sua condanna.

Si tratta di un atteggiamento condiviso importante ed incoraggiante, poiché la nostra società è ormai dominata dalle immagini e dalla comunicazione. E le immagini di morte che hanno visto come protagonisti i terroristi nei pressi della redazione di Chalie Hebdo sono state sopraffatte dalle coinvolgenti immagini ritraenti migliaia di persone scese spontaneamente in piazza a comunicare la loro alterità da tutto questo odio e da tutta questa violenza, indipendentemente dalle proprie rispettive opinioni politiche e religiose.

Siamo di fronte ad immagini che comunicano l’unione e la solidarietà su cui radicare un messaggio di speranza per uno sviluppo civile e tollerante dell’intera comunità mondiale.

Tale ultima affermazione trova anche riscontro nel fatto che nelle piazze vi erano molti cittadini musulmani, che sono le prime vittime morali di simili attentati. Le autorità islamiche francesi hanno avuto il coraggio di dichiarare senza ambiguità la loro condanna alla violenza, intesa anche come violenza interna alla loro religione. Soltanto in tal modo, è possibile non far ricadere su tutti i musulmani che vivono nei Paesi occidentali il sospetto di una loro possibile connivenza e probabile condivisione dei valori di odio e terrore trasmessi dagli jihadisti.

Nella medesima maniera, dovrebbe agire la politica, liberandosi da ogni atteggiamento ipocrita, come quello che permette di tollerare il fondamentalismo religioso (anche islamico) di certi paesi totalitari, soltanto in nome degli interessi economici.

In estrema sintesi, credo che stiamo vivendo un momento storico cruciale per la storia contemporanea, in quanto il mondo occidentale si trova di fronte ad un bivio. Da un lato, l’Occidente può manifestare i primi segnali di una positiva reazione collettiva all’odio ed al terrore, dall’altro, invece, può abbracciare un pensiero totalitariamente xenofobo, abbandonando il proprio destino agli istinti più bassi e segregazionisti e rinnegando tutto il retaggio della cultura della tolleranza che l’Illuminismo ci ha lasciato. Ricordo a tutti che Voltaire, nel suo celebre “Trattato sulla tolleranza”, ha rinvenuto nell’unione tra l’intolleranza e la tirannia la causa del regresso della società civile.

Dobbiamo ricordare, però, che la nostra ferma risposta a coloro che rappresentano il fanatismo deve agire nel rigoroso rispetto del principio di legalità, che è tanto importante, quanto la tutela delle libertà faticosamente conquistate nei secoli passati.

Uno dei rischi più gravi di questo attacco terroristico è che esso stimoli ulteriormente la xenofobia nei partiti estremisti europei (e non), i quali rappresentano un pericolo per la democrazia, alla stessa stregua dei fanatici islamisti.

Questa strage non deve far guadagnare aderenti alle organizzazioni ed ai gruppi che vorrebbero distruggere l’Europa e farla tornare all’epoca dei nazionalismi intolleranti e xenofobi dell’inizio del XX Secolo. L’Europa potrà fermare questa barbarie soltanto se i suoi cittadini saranno uniti in quest’ora difficile, comunicando un messaggio di tolleranza e rispetto reciproco.

Per il momento, le reazioni dell’opinione pubblica e del mondo politico ci consentono di sperare in un processo positivo. Ovviamente, tale spirito unitario e solidale deve essere quotidianamente coltivato, affinché prevalga anche in futuro.

Possiamo cominciare noi stessi, individuando insieme l’elenco di valori comuni che costituiscono il minimo comune denominatore della nostra società democratica e stigmatizzando tutti gli atti ed i fatti violenti che non possiamo subire. In seguito, bisognerà trasmettere tale humus culturale ed ideologico alle generazioni future, abituandole, sin dai primi anni del loro percorso di istruzione e formazione, alla convivenza ed alla tolleranza tra culture e religioni diverse.

Se il mondo occidentale riuscisse a perseguire tale risultato, il terrorismo scomparirebbe da solo, perché non troverebbe più alcun “terreno fertile” su cui attecchire.

Pertanto, è necessario promuovere con ogni mezzo una cultura di pace e di speranza capace di vincere la paura e di costruire ponti tra gli uomini. Infatti, l’unico bene fondamentale è la convivenza pacifica tra le persone ed i popoli, superando ogni differenza di civiltà, di cultura e di religione.

Personalmente, credo che tutto questo sia ancora possibile. Basta avere la speranza in un mondo migliore e privo di odio e diffidenza verso chi è diverso da noi.

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ISTAT: SALE ANCORA IL TASSO DI DISOCCUPAZIONE.

A novembre 2014 gli occupati in Italia sono stati 22 milioni 310 mila, in diminuzione dello 0,2% sia rispetto al mese precedente (-48 mila) sia su base annua (-42 mila). Il tasso di occupazione, pari al 55,5%, diminuisce ora di 0,1 punti percentuali in termini congiunturali e rimane invariato rispetto a dodici mesi prima. Il numero di disoccupati, pari a 3 milioni 457 mila, aumenta dell’1,2% rispetto al mese precedente (+40 mila) e dell’8,3% su base annua (+264 mila). Il tasso di disoccupazione è pari al 13,4%, in aumento di 0,2 punti percentuali in termini congiunturali e di 0,9 punti nei dodici mesi. È quanto afferma l’Istat, nel comunicato stampa dello scorso 7 gennaio.

Già nella precedente nota del 30 dicembre, l’Istituto aveva evidenziato che i dati più recenti delle forze di lavoro nel 2014 descrivevano un’occupazione sostanzialmente stabile dall’inizio dell’anno, ma con un nuovo peggioramento nel mese di ottobre (-0,2% rispetto al mese precedente). Il problema di fondo dell’occupazione in Italia nel 2014 restava – e resta tuttora – la stagnazione del mercato del lavoro. Peraltro, si prevede che l’assestamento del prezzo del petrolio ai bassi livelli attuali influirà moderatamente, in senso positivo, sulla crescita economica dei principali Paesi europei, Italia inclusa, per la quale si attende un arresto della fase di contrazione dell’economia, in presenza di segnali positivi per la domanda interna. Tuttavia, nonostante queste previsioni, l’Istat ritiene che le condizioni del mercato del lavoro in Italia rimarranno difficili con livelli di occupazione stagnanti e tasso di disoccupazione in crescita.

Rispetto all’ultimo trimestre del 2013, tra l’altro, nel 2014 si è verificato un incremento di cinque decimi di punto del tasso di disoccupazione. Il trend è dovuto alla crescita delle persone in cerca di occupazione (con un +5,8% dell’aumento tendenziale) e tra queste ad essere aumentata è stata soprattutto la quota di inoccupati, ossia di quei disoccupati in cerca della prima occupazione (+17,6%). Parallelamente, la crescita di persone in cerca di lavoro si è accompagnata ad un allungamento dei periodi di disoccupazione: l’incidenza dei disoccupati di lunga durata (quota di persone che cercano lavoro da oltre un anno) è salita nel 2014 dal 56,9% al 62,3%. E questa percentuale di soggetti, in genere considerati poco appetibili dalle aziende, costituisce un fattore di freno alla discesa della disoccupazione, soprattutto al sud.

Preoccupanti sono, inoltre, i dati relativi alla disoccupazione giovanile. Dall’ultima rilevazione dell’Istituto, risulta che i disoccupati tra i 15 ed i 24 anni sono 729 mila. L’incidenza di disoccupati sulla popolazione in questa fascia di età è pari al 12,2%, in aumento di 0,3 punti percentuali rispetto alla precedente rilevazione mensile ISTAT e di 1,1 punti su base annua. Il tasso di disoccupazione tra i 15 ed i 24 anni, ovvero la quota dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca, è pari al 43,9%, in aumento di 0,6 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 2,4 punti nel confronto tendenziale.

Il numero di individui inattivi, cioè di coloro che non sono in cerca di un’occupazione o che hanno smesso di cercare lavoro, tra i 15 ed i 64 anni diminuisce dello 0,1% rispetto rispetto all’ultimo rilievo mensile e del 2,2% rispetto all’anno precedente. Il tasso di inattività si assesta, dunque, al 35,7%, rimanendo invariato in termini congiunturali e diminuendo di 0,7 punti percentuali su base annua.

Da ultimo, si evidenzia come l’occupazione nelle grandi imprese a ottobre 2014, rispetto al mese precedente, abbia fatto registrare in termini destagionalizzati una diminuzione dello 0,2% sia al lordo sia al netto dei dipendenti in cassa integrazione guadagni (Cig), con retribuzioni lorde per ora lavorata in diminuzione dello 0,8% rispetto al mese precedente. Anche se, in termini tendenziali l’indice grezzo aumenta dello 0,4%. Invece, nel confronto con ottobre 2013 l’occupazione nelle grandi imprese diminuisce dello 0,9% al lordo della Cig e dello 0,8% al netto dei dipendenti in Cig.

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MDS
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L’IMMOBILISMO DEL MERCATO DEL LAVORO A TUTELE CRESCENTI.

di Michele De Sanctis

In psicologia del lavoro, con l’espressione job hopping ci si riferisce letteralmente alla pratica di saltare da un lavoro all’altro. Non si tratta, invero, di un comportamento negativo, ma, anzi, negli ultimi tempi, fin dai primi anni dell’università, addirittura dagli ultimi anni del liceo, a noi giovani questa pratica è stata inculcata come se fosse l’aspetto più innovativo del futuro professionale a cui stavamo per affacciarci. Il cambiamento è sempre un fattore positivo, in primis per la propria crescita professionale e nel contempo rappresenta un buon modo per mantenere alta la passione verso il proprio lavoro. I cambiamenti, infatti, aiutano ad imparare ad essere pronti a nuove sfide e nuovi scenari. Questo è quello che ci è stato detto. Ci è stato detto che per essere competitivi, dovevamo essere più flessibili dei nostri genitori. E lo siamo stati. In alcun modo un curriculum magro sarebbe stato valutato positivamente durante il processo di recruitment di un’azienda.

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Sui nostri manuali di organizzazione del lavoro abbiamo scoperto che le persone che cambiano spesso lavoro garantiscono ottime performance, fino ad ottenere una posizione lavorativa migliore anche rispetto a coloro che da anni lavorano in uno stesso ambiente. Anzi, con l’avvento della crisi, ci hanno detto che le aziende non fossero affatto restie a questo tipo di lavoratori, dal momento che la prospettiva di una persona che puntava al posto fisso non affascinava per nulla le società che in questi anni hanno selezionato piuttosto personale efficace e competente, ma anche predisposto al cambiamento. Così ci hanno detto. Il rifiuto di adattarsi a quest’elasticità lavorativa era un po’ come dichiarare di essere choosy, o mammoni. O tutt’e due le cose. Ora che Babbo Natale ci ha portato il primi due decreti attuativi del Jobs Act, il Governo italiano ha assicurato che con questa rivoluzione copernicana del mercato del lavoro si avrà più dinamismo, più agilità…ancora più flessibilità. E ciò aiuterà l’innovazione delle aziende italiane, che, quindi, potranno finalmente essere competitive. Per cui d’ora in avanti prepariamoci ad essere dinamici, perché il posto fisso non esiste più. Io, però, ho qualche dubbio. Non sul fatto che il posto fisso non esista più, né sulla maggiore flessibilità del mercato del lavoro, quanto piuttosto sul suo dinamismo. Temo, infatti, un effetto di stagnazione riflessa del mercato dovuta proprio all’introduzione del contratto a tutele crescenti, soprattutto in quei settori, terziario in testa, dove la forza lavoro risulta altamente fungibile, quindi sostituibile.

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Se, infatti, con la nuova disciplina la sigla di un nuovo contratto comporterà la perdita delle garanzie acquisite con il vecchio, perché il nuovo è a tutele crescenti, cambiare lavoro d’ora in avanti sarà un po’ come ricominciare davvero da zero, sarà come accettare delle tutele decrescenti. Altro che crescita professionale: a chi converrà correre un rischio così alto, se non davvero costretto? Accettare nuove sfide, cambiare lavoro alla ricerca di nuovi stimoli, insomma tutti quei concetti di psicologia del lavoro finora appresi, comporteranno il rischio serio, attuale e concreto di diventare più licenziabili. Perché mentre chi lascia ricomincia daccapo, chi resterà dov’è adesso conserverà, invece, i suoi diritti. Diritti crescenti.

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Il rovescio della medaglia del contratto di lavoro a tutele crescenti sarà quindi quello di disincentivare gli italiani a cambiare lavoro. E questo non è un fattore positivo, né per il lavoratore né per le aziende. I manuali di organizzazione del lavoro che ci sono stati somministrati, infatti, non raccontavano favole. Ogni qualvolta che un dipendente cambia azienda, si innesca effettivamente quella pratica virtuosa che chiamiamo job hopping: chi cambia apprende nuove informazioni o aggiorna le pregresse e trasmette nel contempo ad altri il suo know how. Si ha, così, una crescita professionale concreta e un investimento innegabile in economia della conoscenza, senza cui non possono esserci innovazione e competitività. Inoltre, chi cambia lascia libero un posto di lavoro che occuperà magari un ex collega, il quale, avanzando nelle sue mansioni, apprenderà nuove informazioni, e che, a sua volta, lascerà disponibile la propria posizione, in cui, verosimilmente, subentrerà una persona, in genere più giovane, che apporterà in azienda ulteriore refresh complessivo e conseguente tramissione reciproca di competenze e nuova conoscenza. Insomma, l’eventuale paralisi del mercato del lavoro in seguito alla riforma appena varata potrebbe comportare la concreta interruzione di questo circolo virtuoso, già peraltro gravemente compromesso dalla crisi economica.

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Ora, siccome non si vive di solo stipendio, ma è lo stipendio a darci da mangiare – comunque sia – il lavoratore sarà costretto ad accantonare le proprie ambizioni e a difendere prioritariamente i propri diritti acquisiti, rinunciando pertanto alla mobilità e rassegnandosi, anzi, aggrappandosi alla sua scrivania, sotto cui converrà piuttosto fare le radici. Sarà, infatti, altamente difficile prendere certe decisioni, anche nel caso in cui il posto migliore venisse addirittura offerto dall’azienda concorrente a quella presso cui si è assunti e dove oggi si è lavoratori di serie A, rispetto ai neoassunti di serie B. Certo, è probabile che l’analisi di questo post sia parziale e forse troppo negativa e che magari non consideri tutti gli aspetti che sicuramente il Legislatore avrà valutato prima di introdurre le nuove regole: l’analisi di fattibilità delle leggi, in fondo, serve anche a questo. Ma quanti di voi oggi sarebbero disposti a fare un salto nel buio a queste condizioni?

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CONTRIBUTO FINO A 600 EURO ALLE LAVORATRICI MADRI. MODALITÀ, TERMINI E SCADENZE.

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Pubblicate in Gazzetta Ufficiale n. 287 dello scorso 11 dicembre 2014 le misure a sostegno delle mamme lavoratrici, di cui al DM 28 ottobre 2014, per l’erogazione del fondo perduto fino a € 3.600 per l’acquisto di servizi di baby sitting.

Al termine del periodo di congedo per maternità e, comunque, entro gli 11 mesi successivi, le madri lavoratrici, sia del settore pubblico sia del settore privato, nonché quelle che risultino iscritte alla gestione separata, di cui all’art. 2, L. n.335/95, potranno fare richiesta di accesso al contributo a fondo perduto per l’acquisto di servizi di baby sitting oppure per usufruire di servizi per l’infanzia presso strutture pubbliche e private. L’intervento, introdotto con la legge 28 giugno 2012, n. 92 di riforma del mercato del lavoro, stabilisce che a beneficiare del contributo saranno anche le donne libere professioniste. Il beneficio in parola, tuttavia, non è esteso alle coltivatrici dirette, mezzadre e colone, alle artigiane, alle imprenditrici del settore commerciale, alle imprenditrici agricole a titolo principale e alle pescatrici autonome.

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La misura è dotata di risorse complessive per € 20.000.000. Il contributo per ogni singola lavoratrice viene erogato sottoforma di voucher del valore massimo di 600 euro mensili per 6 mesi (con un importo totale di € 3.600) ed è spendibile nei 6 mesi successivi al termine del congedo per maternità.

La richiesta – che deve essere inoltrata per via telematica all’INPS entro il 31 dicembre di ciascun anno 2014 e 2015 – può essere presentata anche dalla lavoratrice che abbia usufruito in parte del congedo parentale.
La graduatoria è definita tenendo conto dell’ISEE.

I voucher, per l’importo riconosciuto, saranno ritirati dalla lavoratrice presso la Sede INPS territorialmente competente individuata in base alla residenza o al domicilio temporaneo.

DM 28 ottobre 2014

MDS
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IDENTITÀ DI GENERE E RISPETTO DELLA PERSONA: ECCO I GIOCATTOLI UNISEX.

Questa notizia è una di quelle che normalmente passano in sordina sulle nostre bacheche Facebook. Noi italiani spesso guardiamo all’estero per rilevare ciò che non va a casa nostra. Ma quando lo facciamo stiamo ben attenti a selezionare ciò che vogliamo vedere. Così, critichiamo il nostro servizio postale, gli sportelli pubblici davanti a cui ci mettiamo in coda, fino all’incuria delle città in cui abitiamo e alla cattiva manutenzione delle strade su cui camminiamo o viaggiamo in macchina. Ma quasi mai ci rendiamo conto di quali e quanti passi avanti nel campo dei diritti civili si sono fatti altrove. Da noi, per esempio, si discute ancora su civil partnership alla tedesca, sì o no. Si pensa ancora che per avere un diritto non ci sia bisogno di riconoscerlo. Si nega il concetto di identità di genere, ritenendo che la percezione del sé non possa discostarsi da ciò che si è fuori: come dire che la terra sia piatta perché non se ne percepisce la rotondità. E via con le battute da bar dello sport, bullismo, sorrisetti e sfottò. Come se il bersaglio non fosse un essere umano e non avesse una sensibilità.

di Andrea Serpieri

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Nel nord Europa, quindi non a Sodoma e Gomorra, da qualche anno accade qualcosa di straordinario. Quando ero piccolo, all’asilo e a casa venivo richiamato se anziché giocare a pallone con gli altri maschietti, passavo troppo tempo con le femminucce, se anziché giocare alla guerra con i soldatini, guardavo la Dolcissima Creamy su Italia 1 o se giocavo con He-Man insieme alla mia vicina di casa che portava la sua Barbie Rockstar. E non vi dico che storie se lasciavo He-Man da solo con Skeletor per giocare con le cuginette e le loro bambole, sia pure per fare la parte di Ken. In realtà, io volevo solo giocare, non avevo alcun secondo fine e nella maggior parte dei casi non capivo il motivo del richiamo o della punizione. Ebbene, in Svezia e Danimarca, ormai da tempo, i bambini vengono lasciati liberi di giocare con quello che vogliono. Badate bene che nessuno istiga i maschi a giocare con Barbie e le femmine col Meccano. Per questa ragione, esistono perfino alcune catene di negozi di giocattoli che propongono cataloghi di giochi unisex, in cui i pregiudizi di genere vengono decostruiti, mostrando bambini e bambine giocare indiscriminatamente anche con giocattoli pensati per il sesso opposto.

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In Italia cataloghi di questo tipo non solo solleverebbero un mare di polemiche, ma farebbero indignare molti genitori, indecisi e probabilmente contrari all’idea di regalare una mitragliatrice giocattolo alla loro bambina, o un Cicciobello al figlio maschio. Tuttavia, visti i recenti fatti di cronaca con figli picchiati a sangue e costretti a fughe rocambolesche, in quanto vergogna della famiglia, forse sarebbe appena il caso di cominciare a mostrare alle future generazioni che non c’è niente di male ad allontanarsi da certi stereotipi. Gli uomini non sono solo quelli che non devono chiedere mai, quei rozzi scimpanzé machissimi e pieni di peli, dalla scorza dura e dal volto rude che il più delle volte hanno pure da puzzà, che guardano la partita di calcio in mutande e canottiera bevendo birra e ruttando liberamente come Fantozzi. E le donne non sono solo angeli del focolare, mini casalinghe destinate comunque ai fornelli. I giochi tradizionali che vediamo sugli scaffali dei nostri negozi sono ancora molto legati agli schemi sociali del passato: per quanto la Mattel con Barbie I can be faccia credere alle bambine che da grandi si possa diventare quel che si vuole, continua ancora a proporre il classico modello Fiori d’Arancio. E comunque esiste anche una I can be casalinga.

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Nei cataloghi di giocattoli svedesi e danesi, invece, è possibile vedere bambine che si divertono con una grande pistola giocattolo e bambini che giocano con una bambola. Se non mi credete, provate a cercare on line il catalogo dell’azienda svedese Toy Top, che distribuisce sia in Svezia che Danimarca per Toys R Us e BR: basta andare su Google, scrivere Toy Top catalogs e fare la ricerca per immagini, alcune delle quali sono anche qui in questo mio post. Ovviamente, neppure nella modernissima Svezia sono mancati accenni di polemica. Un paio d’anni fa circa, per esempio, l’azienda svedese Leklust propose un catalogo unisex dove un bambino travestito da Spiderman spingeva una carrozzina. Alle critiche ricevute il direttore della compagnia, Kaj Wiberg, replicò spiegando che arrivato alla veneranda età di 71 anni, era ormai perfettamente consapevole che, non solo le bimbe, ma anche i bambini giocassero con le bambole: allora, perché non aiutarli a non sentirsi diversi?

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Voi, che siete italiani, vi starete forse domandando come uno Stato possa permettere una simile corruzione di minori. Ebbene, lo Stato ne è addirittura promotore. In Svezia, per esempio, la questione della parità dei sessi si è evoluta contemporaneamente alla progressiva rivoluzione del concetto stesso di identità di genere. Nel 2008 il Governo svedese è arrivato a stanziare ben 110 milioni di corone per promuovere la parità di genere nelle scuole e per invitare gli insegnanti ad attivarsi fattivamente per combattere gli stereotipi di genere. Da noi, invece, nel 2014 gli insegnanti picchiano i loro allievi più gay. Sempre nello stesso anno fu anche proposto di eliminare il “lei” e il “lui” e di introdurre un nuovo pronome neutro. Adesso, l’italiota medio mi dirà, beh non è che dobbiamo copiare per forza gli orrori degli stranieri! Vero! Però sul fronte dei diritti civili c’è chi si ispira alla Russia di Putin, che, per quanto compagno di bunga bunga dell’ex premier, è pur sempre straniero. Ma allora avevo ragione quando dicevo che noi italiani guardiamo solo ciò che vogliamo guardare? Quand’è così, che aspettate? Chiudete questo ridicolo post e voltatevi pure dall’altra parte. Ma sì, avete ragione: continuiamo a far finta di niente. Ripetiamo insieme la storia dell’ape che impollina il fiore, che ai maschietti da grandi viene il vocione e cresce la barba, mentre alle bambine, dopo essersi sposate, succede di rimanere impollinate e ricordiamoci sempre che se non è così si è affetti da una malattia del cervello che, per fortuna, si può curare. Magari col Prozac e la preghiera di una sentinella in piedi.

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RC AUTO: STANGATA IN ARRIVO E RIFORME SUL TAVOLO DEL GOVERNO. COME CORRERE AI RIPARI!

Stando alle curve dei grafici, negli ultimi tre anni il premio per l’assicurazione RC Auto è sceso. Noi, forse, non ce ne siamo accorti, ma, mentre tra il 2004 e il 2010, questa tipologia di polizze, anno dopo anno, ha fatto registrare costanti e continui aumenti, dal 2011 non ci sono stati ulteriori rincari. È stato, infatti, il 2010 l’anno in cui i prezzi hanno raggiunto il loro picco massimo. Tuttavia, con il 2015 potrebbe arrivare una nuova stangata: a dichiararlo sono state le principali associazioni nazionali dei consumatori, che, proprio in previsione di questa probabile inversione di tendenza, hanno dato l’allarme.

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di Michele De Sanctis

La fonte che anticipa questa novità è Segugio.it, su cui troviamo i dati rilevati da Adusbef e Federconsumatori con riferimento al periodo 2004-2013. I dati mostrano, appunto, come in quest’arco temporale i costi medi delle RC Auto siano più che raddoppiati, da 391 euro nel 2004 a quasi 1250 nel 2013 (un aumento di circa 859 euro, pari al 235%). Il trend ascendente ha, tuttavia, subìto un’inversione dopo il picco del 2010. Inversione dovuta anche al ridotto utilizzo che gli italiani, a causa della crisi, hanno iniziato a fare di auto e moto per spostarsi, con conseguente calo degli incidenti e relativa discesa dei premi. E se nel 2010 abbiamo raggiunto il punto massimo finora registrato dalla curva dei costi, nel 2014 questa discesa ha toccato il punto più basso mai rilevato negli ultimi dieci anni. Ma, proprio per questo, nel 2015 tale curva è destinata a riprendere la sua salita.

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Per noi automobilisti può, allora, risultare utile verificare se è il caso o meno cambiare assicurazione. L’obiettivo non è solo il risparmio, ma anche quello di assicurarsi un livello più basso di polizza. Comunicare di voler cambiare assicurazione, in effetti, non vuol dire solo pagare meno con una nuova compagnia, ma anche riuscire a negoziare condizioni migliori col vecchio assicuratore. Per esempio, concordando delle modifiche contrattuali, si può raggiungere un massimale RC più elevato: cioè, in caso di incidenti gravi si è più tutelati. La rinegoziazione dei termini contrattuali non è ipotesi peregrina: in questo momento, infatti, le compagnie potrebbero essere disposte a concedere qualcosa in più per non perdere il vecchio cliente o per conquistarne uno nuovo. Certo, dipende sempre dal cliente…per intenderci, quel tipo di persona, che non scambia la RCA per una sorta di ammortizzatore sociale, simulando incidenti e cambiando assicuratore subito dopo essersi fatto conoscere. Un altro esempio di condizioni vantaggiose a costo zero è quella di una rivalsa più permissiva. Da qualche tempo, i tanti comparatori sul mercato (segugio.it; facile.it; cercassicurazioni.it; mybestoption.it, ad esempio) danno molta enfasi a questo tipo di aspetti. Oppure potreste ottenere qualche vantaggio con la cosiddetta formula di guida. Le formule di guida sono tre: esperta, guida a conducenti indentificati e libera. Di norma, più selettiva è la formula di guida adottata e meno si paga. Facciamo un esempio pratico per capire meglio: se sono solo io a guidare la mia macchina, ho una riduzione del premio assicurativo, ma non posso farla guidare a nessun altro.

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Un’ulteriore opportunità di risparmio arriva dal settore bancario. Gli istituti di credito si stanno spostando sempre di più sul ramo danni e dunque anche sui prodotti relativi alla RC Auto. Alcuni istituti, ad esempio, offrono polizze scontate sulla base dei chilometri percorsi. Va detto, però, che questo tipo di condizioni ormai sono praticate anche dalle altre compagnie assicurative e che, nel caso delle banche, la contropartita spesso consiste nella sottoscrizione di prodotti della banca stessa o di titoli azionari. Valutate, quindi, caso per caso se questo tipo di scelta vi convenga davvero o no.

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Sul versante normativo, nei prossimi mesi per tutti gli automobilisti e motociclisti sarà utile seguire l’attività del Governo, visto che sul tavolo del Consiglio dei Ministri è tornata la riforma del settore RC Auto, cui aveva già messo mano l’esecutivo di Enrico Letta. Ricorderete senz’altro le numerose polemiche che sul punto c’erano state tra dicembre 2013 e l’inizio dell’anno. Ebbene, seppur inizialmente stralciata dal decreto Destinazione Italia, con rinvio senza data a separata disciplina, la riforma del mercato assicurativo ora potrebbe tornare nelle vesti di decreto o all’interno del disegno di legge sulla concorrenza. Stando ai primi rumors diffusi dalla stampa, la riforma dovrebbe eliminare i tanti obblighi vigenti, a partire da quello dell’ispezione preventiva, anche se il cliente potrà comunque sottoporvi il proprio veicolo, in cambio, però, di riduzioni e sconti predeterminati sul premio. Quanto all’installazione delle cosiddette black box, le imprese potranno offrirla a carico proprio, stante, anche in questo caso, l’obbligo di ridurre il premio in misura minima prefissata e di accettare i risultati delle registrazioni come prova in giudizio. Le scatole nere potranno essere proposte anche per le moto.

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In caso di sinistro, le assicurazioni potranno avvalersi del risarcimento in forma specifica per i danni ai veicoli entro 60 giorni. In altre parole, il veicolo incidentato sarà obbligatoriamente riparato entro tale periodo, per essere poi revisionato, pena il rischio di una segnalazione al Dipartimento del Ministero dei Trasporti che si occupa di omologazioni e sicurezza stradale. Ad ogni buon conto, le compagnie assicurative non potranno in alcun caso limitare la libertà di scelta dell’assicurato per quanto concerne l’officina a cui rivolgersi per le necessarie riparazioni. A liquidare il danno sarà, però, l’assicurazione del responsabile civile: verrà, quindi, meno il meccanismo di indennizzo diretto, introdotto dal D.Lgs 209/2005. Inoltre, i nuovi contratti assicurativi dovranno specificare in maniera palese le variazioni di premio in base al meccanismo del bonus/malus.

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Da ultimo, si evidenzia che stavolta non sono stati riproposti quei punti della prima stesura del governo Letta su cui l’opinione pubblica si era maggiormente scontrata. Nulla, infatti, è stato detto circa l’obbligo di inserire nel contratto clausole che prevedano prestazioni di servizi medico-sanitari a fronte di una riduzione del premio, mentre sembra che sia definitivamente saltato il termine decadenziale di 90 giorni dalla data del sinistro per presentare richiesta di risarcimento.

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DANNI DA INSIDIE STRADALI: ECCO UN CASO IN CUI SPETTA IL RISARCIMENTO.

Per i danni da omessa manutenzione della strada a risponderne è il Comune, a meno che non venga dimostrato il caso fortuito – Corte di Cassazione Civile, sentenza 23 ottobre 2014, n. 22528.

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di Michele De Sanctis

Se il pedone scivola su un ‘cubetto instabile’ non visibile né segnalato, il Comune deve risarcire il danno. È quanto ha stabilito la IV Sezione della Suprema Corte di Cassazione con sentenza del 23 ottobre 2014, n. 22528. I giudici di Piazza Cavour nel cassare la precedente decisione d’appello, che aveva risparmiato il Comune dalla condanna, ha richiamato un ragionamento giuridico su cui si fonda un orientamento ormai pacifico sia in giurisprudenza che in dottrina. Tale ragionamento poggia sulla figura pretoria della cd. insidia stradale e del trabocchetto, per cui la Pubblica Amministrazione è tenuta a mantenere il patrimonio stradale in uno stato tale da impedire che l’utente possa subire conseguenze pregiudizievoli a causa dell’esistenza di situazioni di pericolo occulte e imprevedibili.

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Questi i fatti. In primo grado il Tribunale accoglieva la richiesta di risarcimento danni avanzata da un pedone per un sinistro occorsogli nel comune di Guardia Sanframondi. Tuttavia, tale decisione veniva rigettata in secondo grado dalla Corte di Appello di Napoli, che dava ragione al Comune.

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Per la Cassazione, al contrario, il caso doveva essere esaminato alla luce dei principi di cui all’art. 2051 c.c. (Danno cagionato da cosa in custodia). La Corte, infatti, ha dapprima richiamato una consolidata sequenza di decisioni in materia (per tutte cfr. Cass. n. 9546/2010), basata, peraltro, su una lettura costituzionalmente orientata delle norme di tutela riferite alla responsabilità civile della Pubblica Amministrazione, rispetto alla non corretta manutenzione del manto stradale e del marciapiede, che costituisce il normale percorso di calpestio dei pedoni). Successivamente il giudice ha affermato che “la presunzione di responsabilità di danni alle cose si applica, ai sensi dell’art. 2051 c.c. per i danni subiti dagli utenti dei beni demaniali, quando la custodia del bene, intesa quale potere di fatto sulla cosa legittimamente e doverosamente esercitato, sia esercitabile nel caso concreto, tenuto conto delle circostanze, della natura limitata del tratto di strada vigilato”. Questa presunzione può essere superata solo con la prova del caso fortuito che – ha rilevato la Cassazione – non sussiste nel caso in esame, dal momento che il danneggiato è caduto “in presenza di un avvallamento sul marciapiede coperto da uno strato di ghiaino, ma lasciato aperto al calpestio del pubblico, senza alcuna segnalazione delle condizioni di pericolo”.

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Per questi motivi, la Corte ha accolto il ricorso del pedone e rinviato il giudizio alla Corte di Appello di Napoli, in diversa composizione.

Di seguito in testo della sentenza Cass. n. 22528 del 23 ottobre 2014.

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Fatto e diritto

R.G. ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi avverso la sentenza della Corte d’Appello di Napoli del 28.5.2010 che ha accolto l’appello proposto dal Comune di Guardia Sanframondi in un giudizio di risarcimento danni da sinistro stradale, causato dallo scivolamento dell’attuale ricorrente, all’epoca dei fatti minore, su un cubetto instabile della pavimentazione stradale “non visibile, né segnalato”, che gli aveva causato lesioni personali alla caviglia sinistra.
Resiste con controricorso il Comune di Guardia Sanframondi.
I motivi esaminati congiuntamente sono fondati ed il ricorso va , quindi, accolto.
L’errore del ragionamento giuridico, compiuto dalla Corte di merito sta nell’avere applicato al caso in esame una giurisprudenza ormai superata basata sui caratteri dell’insidia e trabocchetto.
Questa Corte, viceversa, con una sequenza consolidata di decisioni, da Cass. 6 luglio 2006 n. 15383 a Cass. 22 aprile 2010 n. 9546 sino a recentissime pronunciate – con una lettura costituzionalmente orientata delle norme di tutela riferite alla responsabilità civile della pubblica amministrazione in relazione alla non corretta manutenzione del manto stradale e del marciapiede, che costituisce il normale percorso di calpestio dei pedoni – ha stabilito che la presunzione di responsabilità di danni alle cose si applica, ai sensi dell’art. 2051 c.c. per i danni subiti dagli utenti dei beni demaniali, quando la custodia del bene, intesa quale potere di fatto sulla cosa legittimamente e doverosamente esercitato, sia esercitabile nel caso concreto, tenuto conto delle circostanze, della natura limitata del tratto di strada vigilato. La presunzione in tali circostanze resta superata dalla prova del caso fortuito, e tale non appare il comportamento del danneggiato che cade in presenza di un avvallamento sul marciapiede coperto da uno strato di ghiaino, ma lasciato aperto al calpestio del pubblico, senza alcuna segnalazione delle condizioni di pericolo.
Le censure, unitariamente considerate, pongono in evidenza gli errori di applicazione delle norme giuridiche rispetto alla fattispecie come circostanziata, per fatto illecito e responsabilità da custodia, dovendo, viceversa, il caso essere esaminato alla luce dei principii di cui all’art. 2051 c.c..
La cassazione avviene con rinvio alla Corte di appello di Napoli in diversa composizione, con vincolo di attenersi ai principi di diritto come sopra enunciati, e ribaditi nel precedente di questa Corte del 22.4.2010 n. 9546; Cass. 15.10. 2010 n. 21329). Le spese sono rimesse al giudice del rinvio.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso, cassa e rinvia anche per le spese di questo giudizio di cassazione alla Corte di appello di Napoli in diversa composizione.

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NO, L’OMOFOBIA NON È UN’OPINIONE.

di Andrea Serpieri

Nei giorni scorsi in diverse piazze italiane sono tornate le sentinelle in piedi. Queste figure altro non sono che riedizioni stantie di un Savonarola che la stessa storia ha già condannato, donne che vivono la propria confessione come se fossero replicanti di una Giovanna d’Arco postmoderna, neo-crociati della fede che si battono contro la diffusione delle teorie di genere – strumenti occulti del demonio, con cui il male tenta di farsi strada nell’umanità. Sono, quindi, i paladini del bene, laddove il male è rappresentato da quell’amore che, come cantava Dante, ‘puote errar per male obiecto’. Il male del 2000, infatti, sono i gay. Ed ecco, allora le sentinelle farsi difensori del diritto all’omofobia. Il diritto di dire no all’altrui libertà, se questa libertà fa dispiacere a Gesù, e di recriminare, nel contempo, un razzismo inverso ai propri danni: quello di chi isola gli omofobi come tali. Quando, invece, la loro è solo difesa strenua e santa (e dunque benedetta) della famiglia naturale. Dell’amore puro tra un uomo e una donna (biologici), di quell’amore, che Dante celebrava come ‘lo naturale’, quello che pertanto ‘è sempre senza errore’.

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Lungi da me la condanna del Sommo Poeta, a cui ricorro soltanto per dimostrare la più totale inattualità delle parole con cui le sentinelle difendono le proprie opinioni. Opinioni che, piuttosto, sarebbero state adatte ai tempi dello stesso Alighieri. Meglio ancora: le sentinelle avrebbero trovato il più opportuno spazio alle proprie idee all’epoca della Santa Inquisizione, quando, in un virtuale confronto, perfino gli abitanti dell’Atene del V secolo a.c. sarebbero parsi di mentalità più aperta.

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Sorto all’indomani dell’approvazione del DL Scalfarotto dello scorso anno, questo movimento ha finora manifestato contro i diritti – ad oggi, tuttavia, solo rivendicati, ma nient’affatto riconosciuti – delle popolo LGBTQIA. Sebbene si siano sempre dichiarati aconfessionali e apartitici, le sentinelle manifestano le proprie idee con il sostegno esplicito e per nulla ininfluente delle destre e dei centristi, oltreché della stampa cattolica e delle più alte eminenze ecclesiastiche.

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Se la tesi di fondo delle sentinelle è quella di poter liberamente manifestare il proprio pensiero, BlogNomos che si è sempre occupato, per sua stessa vocazione, di diritti umani e civili e che dell’educazione alla legalità ha fatto il proprio principio ispiratore, propone a voi tutti (e a questi soggetti) una riflessione costituzionalmente orientata su tale affermazione. Invocare l’art. 21 Cost. per manifestare liberamente e legittimamente il proprio pensiero, infatti, non basta. Le norme giuridiche, a partire da quelle alla base del nostro ordinamento, costituiscono un sistema e sistematicamente, quindi, devono essere intese. L’art. 21, per esempio, è annoverato nel Titolo I della Carta, quello dedicato ai Rapporti Civili, che, sebbene contemplati dalla stessa Costituzione, devono, comunque, attendere ai cd. Principi Fondamentali, contenuti nei primi dodici articoli. Questi ultimi individuano le caratteristiche generali, i valori fondamentali, e, potrebbe dirsi, la fisionomia stessa della Repubblica Italiana. Per tale ragione, i principi fondamentali devono essere utilizzati obbligatoriamente per interpretare tutte le altre norme costituzionali, art. 21 compreso. Oltretutto, i principi fondamentali, proprio perché individuano i valori fondamentali di questo Stato, non sono modificabili, salvo l’ipotesi remota di un colpo di Stato. La Corte Costituzionale può arrivare anche ad abrogare leggi ed atti aventi valore di legge, qualora fossero in contrasto con i principi fondamentali. E la giurisprudenza costituzionale, fin da quando il Palazzo della Consulta è stato operativo, ha offerto innumerevoli sentenze, che le sentinelle farebbero forse bene a visionare. Cambiare i principi fondamentali significherebbe, quindi, cambiare il tipo di Stato. I Principi Fondamentali della Costituzione hanno, pertanto, il compito di impegnare i futuri governanti a realizzare norme che traducano in pratica quanto in esse contenuto. Per questo motivo hanno valore di ‘norme programmatiche’. Ora, all’art. 3, la Costituzione della Repubblica Italiana pone questo principio fondamentale:

“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

Dalla lettera del diritto discende che se l’art.3 è un principio fondamentale (e lo è), significa non solo che lo Stato italiano ha l’obbligo di tutelare anche i diritti degli omosessuali, ma che l’istigazione all’odio, così come perpetrata dalle sentinelle, non può essere libertà d’espressione.

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Fatto questo breve quadro sinottico sul diritto costituzionale vigente, sento il dovere (più intellettuale che morale) di contestare alle sentinelle in piedi anche la pretesa (infondata) di spacciare per scientifica e legittima la paura e l’odio che nutrono verso gay, lesbiche e transgender. Dal Rapporto Kinsey in poi, la scienza ha, peraltro, dimostrato che l’omoaffettività non è una patologia e dal 17 maggio 1990 l’omosessualità è stata depennata dal manuale diagnostico e statistico delle malattie mentali e le ricerche più recenti dimostrano come le famiglie omogenitoriali non rappresentino un rischio né per il bambino né per la società civile. Mi chiedo se i libri che le sentinelle portano in piazza rechino queste notizie o se preferiscano la più rassicurante censura…

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In verità, nonostante le sentinelle in piedi si professino pacifiche, ciò che rivendicano è il diritto di discriminare ed opprimere, invocando la negazione delle libertà per tante donne e tanti uomini che considerano ‘diversi’ solo perché assolutizzano un modello di ‘normalità’ che sentono di incarnare e che la società propone come tale. (Chi è patologico?) La loro opinione altro non è che un insulto ai diritti umani. Protestare contro l’introduzione del reato di omofobia e ridurre in questo modo a mera opinione ciò che ha condotto e conduce a tanti episodi di violenza, a tanti casi di suicidio, alle quotidiane aggressioni, agli episodi di bullismo ai danni di fragili ragazzi gay, fino alla violenza psicologica e verbale che in Italia si manifesta anche nelle dichiarazioni pubbliche di ministri come Alfano e in eurodeputati come Buonanno, significa disprezzare il valore assoluto che ogni essere umano, unico ed irripetibile, porta con sé. Significa non avere alcun rispetto proprio della ‘vita’.

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E se i nostri rappresentanti in Parlamento non saranno in grado di tutelare i propri cittadini, sarà compito dell’Unione Europea offrire una tutela all’Italia LGBT. L’Europa non ci chiede solo il pareggio di bilancio.

“Il Parlamento europeo […] ribadisce il suo invito a tutti gli Stati membri a proporre leggi che superino le discriminazioni subite da coppie dello stesso sesso e chiede alla Commissione di presentare proposte per garantire che il principio del riconoscimento reciproco sia applicato anche in questo settore al fine di garantire la libertà di circolazione per tutte le persone nell’Unione europea senza discriminazioni.”
(Risoluzione del Parlamento europeo del 26 aprile 2007 sull’omofobia in Europa, art 8).

“Il Parlamento europeo […] condanna i commenti discriminatori formulati da dirigenti politici e religiosi nei confronti degli omosessuali, in quanto alimentano l’odio e la violenza, anche se ritirati in un secondo tempo, e chiede alle gerarchie delle rispettive organizzazioni di condannarli.”
(Risoluzione del Parlamento europeo del 26 aprile 2007 sull’omofobia in Europa, art 10).

O sarà, forse, la Comunità Internazionale ad imporre all’Italia un comportamento civile? L’Articolo 2 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, ratificata dall’Italia con L. n. 848/55, contiene, infatti, due indicazioni relative alla non discriminazione in genere:

“Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del Paese o del territorio cui una persona appartiene, sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi limitazione di sovranità.”

Il successivo articolo 7 proibisce, poi, ogni forma di discriminazione:

“Tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad una eguale tutela da parte della legge. Tutti hanno diritto ad una eguale tutela contro ogni discriminazione che violi la presente Dichiarazione come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione.”

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No, decisamente l’omofobia non è una di quelle opinioni che le sentinelle possano liberamente manifestare.

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LA SAGGEZZA DEGLI PSICOPATICI… OVVERO, LE DIECI PROFESSIONI A RISCHIO FOLLIA.

Il lavoro a volte può essere causa di forte stress, tuttavia, tra i vari mestieri possibili, alcuni mettono a dura prova il nostro sistema nervoso più di altri. Se avete l’impressione che il vostro lavoro vi stia facendo letteralmente impazzire, forse non state esagerando. In effetti, potreste essere sull’orlo di una crisi di nervi. Se è così, allora prendetevi un momento di relax. Di tanto in tanto non nuoce, anzi. Concedetevi una pausa: magari approfittatene per leggere questo post.

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di Michele De Sanctis

Si intitola ‘The wisdom of psychopaths: what saints spies and serial killers can teach us about success’ l’ultimo saggio di Kevin Dutton, in cui lo psicologo, docente presso l’università di Oxford, analizza alcune professioni che rischiano di portare letteralmente alla follia. E così scopriamo che sono davvero pochi i lavori che si salvano da questo particolare ‘rischio professionale’. Stando al titolo del saggio, forse è proprio vero che santi, spie e serial killer hanno qualcosa da insegnarci sul ‘successo’. E che forse al lavoro più ci avviciniamo all’obiettivo da raggiungere, più ci allontaniamo dalla nostra salute mentale…Ma quali sono le dieci categorie maggiormente esposte?

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Per rispondere a questa domanda, Dutton ha analizzato circa cinquemila questionari in precedenza somministrati ad un campione di volontari. Le risposte, messe successivamente in relazione con la professione svolta, rivelano non solo quali siano i lavori che possono condurre all’instabilità mentale, ma anche informazioni ulteriori su patologie e cause dei nostri disturbi. Dallo studio di Dutton, infatti, apprendiamo che la più diffusa forma di malessere risulta essere la sociopatia e che l’instabilità psicologica può essere effetto di ritmi frenetici, di carichi eccessivi di responsabilità, di uno stile di vita segregante, ovvero conseguenza di un’eccessiva esposizione ad immagini cruente o di generiche frustrazioni.

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Al primo posto della classifica svettano gli amministratori delegati, seguiti da avvocati, impiegati del settore TLC, venditori, chirurghi, giornalisti e aforze dell’ordine. Ma c’è posto persino per gli uomini di Chiesa (sic!), che se la passano proprio male, peggio anche dei cuochi professionisti, che li seguono in nona posizione. Meno stressati tra i più esauriti del mercato del lavoro sono gli impiegati statali, che chiudono la classifica al decimo posto. Se quindi rientrate in una di queste dieci categorie, iniziate a preoccuparvi, perché potreste essere a un passo dalla pazzia.

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Le 10 professioni a rischio follia:

1. Ceo
2. Avvocato
3. Addetto Tv/Radio Comunicazioni
4. Commerciale
5. Chirurgo
6. Giornalista
7. Poliziotto
8. Ecclesiastico
9. Chef
10. Impiegato pubblico

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