CASSAZIONE SHOCK: ATTENUANTI PER STUPRO ALL’UOMO CHE VIOLENTAVA LA MOGLIE SOTTO L’INFLUENZA DELL’ALCOL.

di Michele De Sanctis

Pur se la violenza sessuale è stata completa, è lecito concedere l’attenuazione della pena. È questo quanto è stato recentemente deciso dalla Terza Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione, con Sentenza n. 39445 depositata lo scorso 25 settembre (udienza del primo luglio). La Corte ha annullato (con rinvio) la precedente decisione della Corte di Appello di Venezia, che condannava un uomo per violenze ripetute sulla moglie, confermando, peraltro, il giudizio di I grado. Avverso la sentenza di II grado, l’imputato aveva presentato ricorso in Cassazione, sostenendo che andava valutata la ‘qualità’ del gesto (e segnatamente il grado di coartazione, il danno arrecato e l’entità della compressione), più che la ‘quantità’ della violenza fisica esercitata.

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Infatti, i giudici veneziani nel condannarlo per stupro e maltrattamenti in famiglia, avevano negato la concessione di attenuanti alla pena, rilevando che una violenza sessuale non è mai un “fatto di minore gravità”. Tuttavia, a giudizio degli Ermellini, non può negarsi tale concessione, anche in un caso come quello di specie, in cui la violenza perpetrata ai danni della vittima è stata completa, dal momento che la “tipologia” dell’atto sarebbe “solo uno degli elementi indicativi dei parametri”, in base a cui stabilire la gravità della violenza e non costituirebbe, dunque, un elemento “dirimente”.

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In particolare, la Suprema Corte ha sottolineato che “così come l’assenza di un rapporto sessuale ‘completo’ non può, per ciò solo, consentire di ritenere sussistente l’attenuante, simmetricamente la presenza dello stesso rapporto completo non può, per ciò solo, escludere che l’attenuante sia concedibile, dovendo effettuarsi una valutazione del fatto nella sua complessità”. Nel caso di specie, la decisione dei giudici d’appello risulta viziata, in quanto sarebbe “mancata ogni valutazione globale”, in particolare “in relazione al fatto che le violenze sarebbero sempre state commesse sotto l’influenza dell’alcol”.

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Davvero singolare, in realtà, risulta la valutazione della commissione di un reato in stato di ebbrezza quale circostanza meritevole di valutazione ai fini della concessione dell’attenuazione della pena, ove, per altri reati, la stessa è, invece, una circostanza aggravante. Né lo stato di alterazione psichica procuratosi dall’aggressore può considerarsi alla stregua di un’attenuante generica ex art. 62bis cp, ossia come una di quelle circostanze indeterminate e non tipizzate, che il giudice può prendere in considerazione quando le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena. Tuttavia, lo stato di ebbrezza dell’aggressione non è il solo parametro di riferimento. La Corte, a tal proposito, rileva che “ai fini della concedibilità dell’attenuante di minore gravità, assumono rilievo una serie di indici, segnatamente riconducibili, attesa la ‘ratio’ della previsione normativa, al grado di coartazione esercitato sulla vittima, alle condizioni fisiche e mentali di quest’ultima, alle caratteristiche psicologiche, valutate in relazione all’età, all’entità della compressione della libertà sessuale ed al danno arrecato alla vittima anche in termini psichici”.
Se così non fosse, – prosegue la Corte – si verrebbe a riprodurre la “vecchia distinzione, ripudiata dalla nuova disciplina, tra ‘violenza carnale’ e ‘atti di libidine’ che lo stesso legislatore ha ritenuto di non focalizzare preferendo attestarsi sulla generale clausola di ‘casi di minore gravità’”.

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Il problema, però, è che per mezzo di questa clausola, il reato in parola, a prescindere dalla fattispecie in esame, sembra uscire in qualche misura ‘derubricato’. Come se l’analisi formale delle parole del Legislatore avesse scoperto che la norma, in realtà, prevede una sorta di bonus per tutti quei rispettabili padri di famiglia, che, nel chiuso delle pareti domestiche, in preda ai fumi dell’alcol, sono soliti picchiare e violentare la moglie. In effetti, per come è impostato il ricorso dell’aggressore, che la Cassazione ha accolto, si è quasi portati a pensare che l’ebbrezza fosse addirittura propedeutica alla violenza. Se così fosse, tuttavia, le attenuanti non sarebbero concedibili: la fattispecie si configurerebbe come ‘actio libera in causa’, ossia come quel fenomeno (giuridicamente rilevante) che si verifica quando un soggetto si ponga in stato di incoscienza al fine di commettere un reato o di procurarsi una scusante. In tal caso, infatti, viene applicata la pena anche se chi ha commesso il fatto era in stato di incapacità di intendere e di volere al momento della consumazione del reato. Ma dobbiamo sempre ricordare che la Corte di Cassazione non giudica i fatti nel loro merito. La Corte, piuttosto, ha precisato che la circostanza attenuante “deve considerarsi applicabile tutte quelle volte in cui – avuto riguardo ai mezzi, alle modalità esecutive ed alle circostanze dell’azione – sia possibile ritenere che la libertà sessuale della vittima sia stata compressa in maniera non grave”. E questo vale anche nel caso di specie.

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La Corte di Appello di Venezia, per negare l’attenuante, aveva fatto riferimento soltanto “ai plurimi rapporti sessuali completi ottenuti con la violenza e senza il minimo rispetto della dignità e libertà di determinazione della donna”. L’attenuante, però, può essere applicata tutte le volte in cui è possibile ritenere “che la libertà sessuale della vittima sia stata compressa in maniera non grave”. Per la Cassazione, infatti, è necessaria “una disamina complessiva, con riferimento alla valutazione delle ripercussioni delle condotte, anche sul piano psichico, sulla persona della vittima”: i giudici, in casi come quello esaminato, non possono fare come i magistrati della Corte di Appello di Venezia che si sono piuttosto “limitati” a “descrivere il fatto contestato, necessariamente comprensivo, per la stessa definizione normativa, di violenza, senza tuttavia analizzarne, come necessario, gli effetti”.
Il caso viene, quindi, rinviato ad altra sezione della Corte di Appello del Capoluogo lagunare.

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CASSAZIONE: MARITO MAMMONE, MATRIMONIO NULLO.

La mamma è sempre la mamma. In Italia, poi, più che altrove, quest’affermazione trova piena conferma negli usi e costumi di una società che non si è mai posta troppe domande quando un giovane di trent’anni, benché occupato e senza particolari problemi economici, sceglieva di restare a casa. Meno ancora se ne pone adesso, in tempi di magra, in cui anche coloro i quali vorrebbero emanciparsi sono, invece, costretti a stare da mamma, oltre il limite della decenza, a causa del lavoro che non c’è o non è pagato a sufficienza. Ma, se il legame con la madre diventa patologico, non è questione di congiuntura economica: qualcosa non va. Anzi, c’è il serio rischio che un’eventuale vita di coppia possa risultarne seriamente compromessa.

di Michele De Sanctis

Un legame troppo intenso di dipendenza del marito dalla propria figura materna, tale da generare problematiche di natura sessuale, contestualmente ad “un comportamento anaffettivo e indifferente nei confronti” della moglie ignara di una simile ‘patologia’ accusata dal consorte, può essere causa di annullamento del matrimonio concordatario, anche ai fini della nullità di quello civile. È quanto afferma la Suprema Corte di Cassazione, I Sez. Civ., con sentenza n. 19691 del 18 settembre 2014, ammettendo la nullità del matrimonio concordatario di una coppia di coniugi mantovani ritrovatasi in tale situazione non appena iniziata la nuova vita coniugale.

La Corte d’Appello di Brescia, contro la cui decisione era stato proposto ricorso dinanzi al Giudice di Legittimità, aveva esaminato nel 2012 una richiesta di delibazione di una sentenza resa dal Tribunale Ecclesiastico Regionale Lombardo nel 2010, che, a sua volta, aveva considerato rilevante l’accertamento di una patologia a carico di uno dei coniugi (un legame morboso con la madre) ai fini della dichiarazione di nullità del matrimonio concordatario celebrato nel 2007.

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Secondo i Giudici Ecclesiastici, l’uomo aveva sviluppato una vera e propria dipendenza dalla figura materna tale da impedirgli di adempiere anche le minime manifestazioni d’affetto nei confronti della moglie – e necessarie a preservare l’equilibrio psicofisico della coppia. Comportamento che, nella decisione assunta secondo il diritto canonico, integrerebbe un patologia (di cui lo stesso soggetto afflitto, fin dalle prime manifestazioni, ignorava l’esistenza). Più esattamente, il Tribunale Ecclesiastico, sottoponendo i coniugi a test e perizie, era arrivato alla conclusione che l’uomo, a causa del particolare rapporto di dipendenza dalla madre, aveva sviluppato una “patologia produttiva dell’incapacità ad assumere l’obbligo di quella minima integrazione psico-sessuale che il matrimonio richiede, con la conseguenza di un comportamento anaffettivo e indifferente nei confronti” della compagna. Legittima, dunque, la richiesta di dichiarare la nullità del matrimonio. Aspetto da non sottovalutare ai fini dell’esame di questa sentenza è che la richiesta di nullità era stata fatta dal marito, non dalla moglie.

Tale nullità veniva successivamente riconosciuta, in fase delibativa, dal giudice italiano, nella specie, la Corte d’appello territorialmente competente. Brevemente, per i non addetti ai lavori, si chiarisce che la delibazione è una procedura giudiziaria con cui in un determinato Paese si riconosce un provvedimento giudiziario emesso da un’Autorità straniera. Lo stesso vale per il riconoscimento delle decisioni prese dai Tribunali Ecclesiastici, posto che quello canonico è un diritto di un altro Stato, il Vaticano. Il procedimento in questione si instaura in Corte d’Appello.

In seguito a tale decisione, la donna si opponeva al riconoscimento del Giudice Civile, sostenendo che l’uomo era perfettamente consapevole delle turbe che lo affliggevano ed era soltanto lei ad essere all’oscuro degli effetti negativi del legame morboso del marito con sua suocera. Secondo la ricorrente, dunque, il matrimonio era perfettamente valido, con la conseguenza di aver diritto, quale effetto della separazione, all’assegno di mantenimento.

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I Giudici di Piazza Cavour, tuttavia, nel motivare la propria decisione, rilevavano come, nel decidere sulla delibazione, il giudice italiano non possa sindacare nel merito le valutazioni operate dal Tribunale Ecclesiastico, o da qualunque altra Autorità Giudiziaria straniera. Pertanto, la Corte rigettava il ricorso della moglie, evidenziando, peraltro, che “in un caso come quello in esame in cui l’altro coniuge ha determinato con la sua incapacità derivante da una patologia psichica, la invalidità del matrimonio concordatario si pone, sia pure ex post, una questione di effettività e validità del consenso che prevale sulla tutela dell’affidamento riposto dal coniuge inconsapevole al momento della celebrazione del matrimonio”. La Cassazione, inoltre, ha precisato che “la giurisprudenza ha da tempo affermato che la delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa di nullità del matrimonio concordatario per ‘incapacitas assumendi onera coniugalia’ di uno dei coniugi non trova ostacolo nella diversità di disciplina dell’ordinamento canonico rispetto alle disposizioni del codice civile in tema di invalidità del matrimonio per errore essenziale su una qualità personale del consorte e precisamente sulla ritenuta inesistenza in quest’ultimo di malattie (fisiche o psichiche) impeditive della vita coniugale poichè questa diversità non investe un principio essenziale dell’ordinamento italiano, qualificabile come limite di ordine pubblico”. In riferimento alla richiesta di nullità da parte del marito, invece che dalla moglie, poi, gli Ermellini proseguono chiarendo che nell’ordinamento italiano non esiste “un principio di ordine pubblico secondo il quale il vizio che inficia il matrimonio possa essere fatto valere solo dal coniuge il cui consenso sia viziato” e quindi sia il marito che la moglie avrebbero potuto chiedere la dichiarazione di nullità.

In definitiva, a detta della Corte di Cassazione, “non esistono ostacoli” al riconoscimento dell’efficacia della sentenza di nullità di questo sfortunato matrimonio, così come emessa dal Tribunale Ecclesiastico. Pertanto, alla donna, che, in conseguenza dell’intervenuto annullamento del matrimonio, ha, comunque, facoltà di chiedere risarcimento danni, non resta che aspettare l’esito (e sperare che sia positivo) della causa civile dinanzi al Tribunale di Mantova contro il suo ‘ex’ – che, in verità, non può più considerare neppure come il suo ex marito. Nel frattempo, tuttavia, è stata condannata a sborsare 6.200 euro di spese processuali.

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Dunque, d’ora in avanti, state sempre in campana, ragazze: prima di sposarlo, cercate di capire bene se contate più voi o sua madre. Perché se è uno di quelli che ‘mamma fa così’, ‘mamma dice questo’, ‘mamma preferisce quello’, fuggite da lui prima ancora di arrivare all’altare. L’avvertimento vale per tutte, sia che siate in procinto di pronunciare il vostro ‘sì’ in Chiesa sia che vogliate sposarvi in Comune: i vizi della volontà sono contemplati anche dal nostro Codice Civile e una patologia del genere, con il giusto avvocato, volete che non renda il vostro mammone incapace di intendere e volere al momento della firma? E soprattutto ricordate: un cocktail solitario nel peggior bar della città, uno speed date tra single disperati, uno streap club per insospettabili signore un po’ agée, o, peggio, una serata con le fiction di Rai e Mediaset sono pur sempre esperienze meno tristi di un matrimonio con un uomo patologicamente legato a sua madre. Tanto più se il rischio che correte non è solo quello di restare senza marito, ma pure a mani vuote. Ma soprattutto perché con uomo così, figuriamoci la suocera…

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La disciplina vigente del lavoro accessorio

di Germano De Sanctis

Il dato normativo.

La fattispecie lavorativa del lavoro accessorio è stata introdotta nell’ordinamento giuslavoristico italiano dagli artt. 70-74, D.Lgs. 10.09.2003, n. 276, con la chiara intenzione di regolamentare e di garantire tutele previdenziali ed assicurative al alcune tipologie di attività lavorative occasionali, sovente svolte ai limiti della legalità e non facilmente riconducibili, né al lavoro subordinato, né, tanto meno, a quello autonomo.
Nel corso degli anni, l’istituto in questione è stato oggetto di diverse novelle legislative. In ultimo, esso è stato riformato dalla Legge 28.06.2012, n. 92 (c.d. Riforma Fornero) e dall’art. 7, D.L. 28.06.2013, n. 76, convertito in legge, con modificazioni, dalla Legge 9.8.2013, n. 99. Tale novella legislativa ha apportato una radicale trasformazione della disciplina originaria del lavoro accessorio, generando una serie di conseguenze applicative (probabilmente non completamente tutte previste dal legislatore), che rischiano di stravolgere il mercato del lavoro a carattere stagionale.
Pertanto, soffermeremo la nostra attenzione sullo “stato dell’arte” dell’istituto del lavoro accessorio, evidenziando le caratteristiche peculiari e le eventuali criticità della disciplina vigente.

La nozione e l’ambito di applicazione del lavoro accessorio.

Ai sensi dell’art 70, comma 1, D.Lgs. n. 276/2003 (così come modificato dalla Legge n. 92/2012), per prestazioni di lavoro accessorio si intendono attività lavorative di natura meramente occasionale che non danno luogo, con riferimento alla totalità dei committenti, a compensi superiori ad € 5.000 nel corso di un anno solare, annualmente rivalutati sulla base della variazione dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai e degli impiegati intercorsa nell’anno precedente. Fermo restando il limite complessivo di € 5.000 nel corso di un anno solare, nei confronti dei committenti imprenditori commerciali o professionisti, le attività lavorative di cui al presente comma possono essere svolte a favore di ciascun singolo committente per compensi non superiori a € 2.000 euro, rivalutati annualmente ai sensi del presente comma.
Si evidenzia il fatto che la novella legislativa del lavoro accessorio ha abrogato l’elenco tassativo dei di lavori e delle categorie soggettive compatibili con tale istituto, apponendo limiti di applicazione dell’istituto di carattere meramente economico. Appare evidente come tale scelta legislativa, unitamente all’ambiguità della definizione di “accessorietà“, ridefinisca radicalmente l’ambito di applicazione dell’istituto in questione.
Pertanto, alla luce della nuova definizione fornita dal legislatore, le prestazioni di lavoro accessorio sono attività lavorative, svolte senza l’instaurazione di un rapporto di lavoro e rispetto alle quali non vengono erogati, con riferimento alla totalità dei committenti, compensi attualmente superiori ad € 5.050 netti per l’anno 2014 (a seguito della citata rivalutazione annuale) nel corso di un anno solare.
Inoltre, è importante evidenziare che tali attività devono essere svolte direttamente a favore dell’utilizzatore della prestazione e senza il tramite di intermediari (cfr., Circ. INPS, n. 88/2009; Circ. INPS, n. 49/2013).
Le attività lavorative accessorie possono essere rese nella generalità dei settori produttivi, fatte alcune debite eccezioni per il settore agricoltura. Infatti, come visto, l’art. 70, comma 1, D.Lgs. n. 276/2003 rende possibile sempre e comunque l’attivazione di un contratto di lavoro accessorio, tenendo conto esclusivamente di un limite di carattere economico. Tale limite economico (lo si ricorda, pari ad € 5.050 netti per l’anno 2014 ed ad € 5.000 netti per l’anno 2013) deve essere riferito al compenso massimo che il lavoratore accessorio può percepire, nel corso di un anno solare, indipendentemente dal numero dei suoi committenti (cfr., Circ. Min. Lav. n. 4/2013; Lett. Circ. Min. Lav., 22.04.2013, prot. n. 37/0007258).
Inoltre, si precisa che anche i lavoratori subordinati a tempo pieno possono svolgere prestazioni accessorie nei limiti previsti (cfr., Nota Min. Lav. n. 46/2010), ad eccezione dell’impossibilità di svolgere prestazioni di lavoro accessorio presso lo stesso datore di lavoro presso il quale il si è già impiegati come lavoratore subordinato (cfr., Nota Min. Lav. n. 46/2010; Circ. INPS n. 49/2013).

La natura e la legittimità delle prestazioni di lavoro accessorio.

Ai fini della riconducibilità del rapporto nell’ambito del lavoro accessorio, rileva unicamente il rispetto del requisito del rispetto dei limiti quantitativi massimi consentiti annualmente al compenso percepito.
Infatti, se la prestazione lavorativa risulta erogata nel rispetto di tali limiti, il Ministero del Lavoro ha chiarito che il proprio personale ispettivo non può entrare nel merito delle modalità di svolgimento della prestazione. Infatti, la verifica della legittimità del ricorso al lavoro accessorio deve essere effettuata esclusivamente sulla base dei limiti di carattere economico, poiché anche l’occasionalità delle prestazioni di lavoro accessorio non assume alcuna valenza ai fini della legittima attivazione dell’istituto (cfr., Circ. Min. Lav., n. 35/2013).
Di conseguenza, in presenza del rispetto dei presupposti legali d’instaurazione del rapporto di lavoro accessorio, qualunque prestazione lavorativa corrisposta con un compenso compreso nei limiti economici previsti deve essere intesa come occasionale e accessoria, anche se presso lo stesso datore di lavoro sono presenti lavoratori che svolgono la medesima prestazione pur essendo titolari di un contratto di lavoro subordinato (cfr., Lett. Circ. Min. Lav., 22.04.2013, prot. n. 37/0007258).

L’individuazione dei prestatori di lavoro accessorio.

Attualmente, non esistono particolari limitazioni soggettive per essere prestatori di lavoro accessorio. Tuttavia, esistono alcune precisazioni relativamente ad alcune categorie. Esaminiamole sinteticamente:

  • i pensionati: essi possono beneficiare del lavoro accessorio, purché titolari di trattamenti di anzianità o di pensione anticipata, pensione di vecchiaia, pensione di reversibilità, assegno sociale, assegno ordinario di invalidità e pensione agli invalidi civili, nonché tutti gli altri trattamenti compatibili con lo svolgimento di qualsiasi attività lavorativa (cfr., Circ. INPS. n. 49/2013);
  • gli studenti: nel rispetto dell’obbligo scolastico, è consentito agli studenti regolarmente iscritti a un ciclo di studi presso un istituto scolastico di qualsiasi ordine e grado prestare lavoro accessorio durante i periodi di vacanza;
  • i disoccupati e gli inoccupati: non vi è nessuna preclusione nei loro confronti (cfr., Circ. INPS. n. 49/2013);
  • i soggetti svantaggiati: in presenza di specifiche categorie di soggetti correlate allo stato di disabilità, di detenzione, di tossicodipendenza o di fruizione di ammortizzatori sociali per i quali è prevista una contribuzione figurativa, utilizzati nell’ambito di progetti promossi da amministrazioni pubbliche, un apposito decreto del Ministro del Lavoro può stabilire le condizioni, le modalità e gli importi dei buoni orari (cfr., art. 72, comma 4-bis, D.Lgs., n. 276/2003).

I committenti del lavoro accessorio.

L’art. 70, comma 1, D.Lgs. n. 276/2003 individua i committenti del lavoro accessorio negli imprenditori commerciali e nei professionisti. Esaminiamo meglio il significato di tali due termini:

  • gli imprenditori commerciali: con tale termine s’intende qualsiasi soggetto, persona fisica o giuridica, che opera su un determinato mercato. L’attributo “commerciali” non circoscrive minimamente l’ambito settoriale dell’attività di impresa alle attività di intermediazione nella circolazione di beni (cfr., Circ. Min. Lav. n. 18/2012; Circ. Min. Lav. n. 4/2013);
  • i professionisti: ai sensi dell’art. 53, comma 1, D.P.R. n. 917/1986 (c.d. TUIR), s’intendono come redditi di lavoro autonomo quelli che derivano dall’esercizio di arti e professioni. Tale norma si applica nei confronti, sia degli iscritti agli ordini professionali (ancorché assicurati presso una cassa diversa da quella del settore specifico dell’ordine), sia dei titolari di partita IVA (non iscritti alle casse ed assicurati presso la Gestione Separata INPS).

Il pagamento delle prestazioni di lavoro accessorio mediante voucher.

Il committente di una prestazione di lavoro accessorio è obbligato all’acquisto preliminare di uno o più voucher presso i rivenditori autorizzati (sedi INPS, banche, uffici postali, tabaccai). Una volta che sia stata svolta la prestazione, verrà corrisposto il compenso al lavoratore accessorio mediante la consegna di tali voucher.
Successivamente, il lavoratore accessorio deve presentare tali voucher per l’incasso presso uno dei concessionari del servizio. Sono previsti voucher telematici e voucher cartacei. Il voucher non è integrabile con somme di denaro, neanche a titolo di rimborso spese forfettarie (cfr., Nota INAIL, n. 6464/2010). I buoni cartacei sono disponibili singolarmente (attualmente il prezzo di acquisto è di € 10), ovvero in carnet multipli da 2 e 5 buoni (del valore, rispettivamente di € 20 e di € 50).
Si precisa che il valore nominale del voucher è stabilito tenendo conto della media delle retribuzioni rilevate per le attività lavorative affini a quelle di lavoro accessorio, nonché del costo di gestione del servizio (cfr., art. 72, comma 2, D.Lgs., n. 276/2003).
La quantificazione del compenso del lavoratore accessorio è di natura oraria ed è ancorato alla durata della prestazione medesima. In tal modo, si evita il rischio che un voucher del valore di € 10 euro possa essere utilizzato per compensare prestazioni effettuate in diverse ore. La prassi ministeriale ha previsto la possibilità di remunerare una prestazione lavorativa in misura superiore rispetto a quella prevista dal legislatore, erogando più voucher per una singola ora di lavoro (cfr., Circ. Min. Lav., n. 4/2013).
Il compenso in questione è esente da qualsiasi imposizione fiscale e non incide sullo stato di disoccupato od inoccupato del prestatore di lavoro accessorio. Le prestazioni di lavoro accessorio non danno diritto all’erogazione di prestazioni di malattia, di maternità , di disoccupazione né all’assegno per il nucleo familiare (cfr., Circ. INPS, n. 104/2008; Circ. INPS, n. 76/2009). Tali forme di esenzione hanno favorito forme di eversione, che hanno completamente stravolto le intenzioni del legislatore. Infatti, nel tempo, l’istituto del lavoro accessorio, nato per favorire la regolarizzazione dei lavoro occasionali, è stato utilizzato anche utilizzato per occultare forme di lavoro subordinato (specialmente a tempo determinato). I vantaggi sono molteplici e non solo per il datore di lavoro.
Siffatta situazione di tendenziale favore all’eversione è stata anche favorita dall’esiguità economica della prestazione, che può essere facilmente aggirata a causa dell’assenza di un sistema di verifica efficace del rispetto dei limiti economici dei compensi.

Il carattere eccezionale del lavoro accessorio.

Alla luce di quanto detto finora, appare evidente come il lavoro accessorio sia un istituto giuridico difficilmente inquadrabile nell’ordinamento giuslavoristico italiano. Infatti, la decisione del legislatore di estendere il suo ambito di applicazione a qualsiasi tipologia di prestazione (abbandonando il previgente requisito dell’occasionalità) lo ha liberato dal vincolo operativo strettamente collegato alle sole prestazioni lavorative non continuative a carattere prevalentemente autonomo, per ancorarlo al solo criterio economico, prescindendo completamente dalla qualificazione del rapporto di lavoro.
In altri termini, la novella legislativa ha consentito di disciplinare nell’ambito del lavoro accessorio, sia rapporti di lavoro sostanzialmente subordinati, sia rapporti di lavoro a carattere prevalentemente autonomo e/o parasubordinato. Pertanto, si è in presenza di una disciplina eccezionale che pone enormi problemi di compatibilità con il diritto del lavoro vigente e che sicuramente provocherà non pochi interventi ermemeneutici da parte della giurisprudenza.
Ovviamente, tali criticità sono principalmente evidenti nei casi in cui si riscontreranno prestazioni di lavoro accessorio che, seppur rientranti nei limiti economici normativamente prescritti, risulteranno connotate da chiari elementi di subordinazione.
Si tratta di un tema particolarmente delicato, in quanto l’eccezionalità in esame permette di derogare al sistema di tutela dei diritti riconosciuti ai lavoratori subordinati. Si pensi, a titolo esemplificativo, ai diritti alle prestazioni per malattia, maternità, disoccupazione ed assegni familiari, oppure alle tutele riconosciute dalla contrattazione collettiva, oppure obblighi posti in capo al datore di lavoro, fino alle norme sull’orario di lavoro, sui contributi previdenziali ed, last, but non least, all’applicazione dello Statuto dei Lavoratori.

Il lavoro occasionale non è un “tipo” di contratto di lavoro autonomo o subordinato.

L’eccezionalità poc’anzi rilevata si riverbera anche sul fatto che il lavoro accessorio non è ascrivibile nel novero dei vari tipi di contratti di lavoro autonomo o subordinato attualmente riconosciuti dall’ordinamento giuslavoristico italiano.
Tale affermazione trova riscontro anche nel dato normativo, ove, riferendosi al lavoro accessorio, il legislatore ha mai usato il termine “contratto”, ma quello decisamente più generico di “prestazioni di lavoro accessorio”.
Inoltre, la fattispecie del lavoro accessorio è completamente priva degli elementi essenziali del contratto previsti dall’art. 1321 c.c.. In particolare, non vi è alcun accordo contrattuale tra le parti finalizzato alla costituzione di uno specifico rapporto giuridico.
Quest’ultima considerazione è confermata dalla disciplina del lavoro accessorio contenuta nell’art. 72 D.Lgs. n. 276/2003. Dall’esame di siffatta norma, emerge chiaramente come il legislatore abbia qualificato gli adempimenti richiesti al committente circa l’acquisto dei voucher o la comunicazione preventiva all’INPS/INAIL come meri atti unilaterali del committente. Infatti, non è prevista alcuna accettazione della proposta contrattuale da parte del prestatore di lavoro accessorio, il quale si limita a ricevere tacitamente i voucher per le prestazione lavorative effettuate e, di conseguenza, a rapporto già costituito.
Appare importante evidenziare come proprio la mera accettazione dei voucher come compenso da parte del prestatore di lavoro accessorio ponga diversi problemi interpretativi circa la qualificazione del rapporto di lavoro in questione. Infatti, sussiste un chiaro problema ermeneutico relativamente al livello di tutele riconoscibili al lavoratore accessorio, in quanto non si può automaticamente escludere l’applicabilità a quest’ultimo di tutti i diritti riconosciuti ai lavoratori subordinati dalle disposizioni di legge e dai contratti o accordi collettivi (cfr., art. 2113 c.c.). A tal proposito, come è noto, la dottrina prevalente e la giurisprudenza consolidata hanno sempre sostenuto la tesi della natura contrattuale del rapporto di lavoro, in quanto, in tal modo, è stato possibile affrontare molti problemi di difficile soluzione. Pertanto, oggigiorno, è possibile definire il contratto di lavoro come un contratto oneroso a prestazioni corrispettive, la cui causa è rinvenibile dallo sinallagma intercorrente tra lavoro e retribuzione secondo un vincolo di reciprocità (cfr., art. 2094 c.c.). Tuttavia, dato che, come detto poc’anzi, il lavoro accessorio non è qualificabile come un “tipo” di contratto di lavoro, bisognerà verificare, caso per caso, quale tipologia contrattuale (autonoma, subordinata, o parasubordinata) sia stata effettivamente posta in essere tra le parti. Di conseguenza, qualora risulti incontestabile che la prestazione accessoria si sia svolta nel caso concreto con tutti i caratteri qualificanti del lavoro subordinato, il prestatore di lavoro accessorio potrà proporre l’accertamento giudiziale della effettiva natura subordinata del rapporto posto in essere, al fine di ottenere il riconoscimento dei propri diritti di lavoratore subordinato.

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La natura italiana dell’impresa non rende italiano il prodotto realizzato altrove: così il Tar Campania boccia la delocalizzazione delle imprese.

di Michele De Sanctis

A causa della crisi, di una certa stasi del mercato interno e della poca attrattività rispetto ai competitor stranieri – specie quelli al di fuori dell’Eurozona – oltreché per un eccessivo costo del lavoro a fronte di una pesante pressione fiscale, sono stati molti gli imprenditori italiani che negli ultimi tempi hanno tentato di far fronte alla congiuntura economica delocalizzando la propria azienda. Per delocalizzazione si intende il trasferimento della produzione di beni e servizi in altri Paesi, solitamente in via di sviluppo o in transizione. In senso stretto, ci si riferisce ad uno spostamento della produzione da imprese poste sul territorio di un determinato Paese ad altre localizzate all’estero. La produzione ottenuta in seguito a questo spostamento dell’attività non è venduta direttamente sul mercato, ma viene acquisita dall’impresa che opera nel Paese di origine per essere poi venduta sotto il proprio marchio. Dal punto di vista economico e sociale, questa pratica è stata – ed è tuttora – oggetto di un aspro dibattito tra chi la considera un importante strumento competitivo e chi, invece, ne evidenzia gli aspetti critici. Il timore principale di alcuni analisti è, infatti, che la delocalizzazione possa impoverire l’economia nazionale, con perdita di posti di lavoro e valore aggiunto. Sotto un profilo sociale, va, poi, considerato che l’effetto immediato della delocalizzazione di un’azienda è il dramma della disoccupazione per chi viene licenziato e dell’inoccupazione per chi nel mercato del lavoro, in assenza di siti produttivi, proprio non riesce ad entrarci.

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Da un punto di vista giuridico, rilevano diversi aspetti di notevole impatto non solo sul diritto privato e commerciale, ma con talune ripercussioni anche in riferimento al diritto pubblico e amministrativo. Si tratta di aspetti per lo più legati alla libera circolazione delle merci e alla regolazione dei mercati e della concorrenza, la cui disciplina è fortemente influenzata dal diritto comunitario. Proprio in relazione al tema della concorrenza tra imprese europee e delocalizzate, si è pronunciato di recente il Tar Campania, con la sentenza n. 4695/2014 (depositata in data 3 settembre 2014).

Questi i fatti: un’impresa italiana, delocalizzata in Cina, aveva risposto a un bando di gara avente ad oggetto “l’affidamento della fornitura di materiale acquedottistico”. L’azienda in questione, che in un primo momento risultava aggiudicatrice della gara, veniva successivamente esclusa. In seguito all’intervenuta revoca dell’aggiudicazione, ricorreva dinanzi al G.A., impugnando gli atti presupposti e consequenziali della procedura d’appalto. Da questi si evinceva che l’esclusione della ricorrente era stata disposta in virtù della dichiarazione di produrre la totalità dei materiali oggetto dell’appalto nella Repubblica Popolare Cinese, senza, peraltro, indicare né la sede di produzione né alcun sito produttivo all’interno della Comunità Europea. La norma che rileva in tale circostanza è l’art. 234, co. 2, d.lgs. 163/2006, che prescrive un limite in capo ai concorrenti provenienti da Paesi cd. terzi: parte dei prodotti originari di questi operatori non deve, infatti, superare il 50% del valore totale dei prodotti che compongono l’offerta di gara.

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Nel rigettare il ricorso, il Tar ha evidenziato come l’art. 234 del Codice degli Appalti definisca in via prioritaria il concetto di Paese terzo, quale Paese estraneo alla Comunità Europea, con cui gli Stati membri non abbiano concluso convenzioni e accordi, multilaterali o bilaterali, tali che assicurino un accesso comparabile ed effettivo delle imprese della Comunità alle gare indette da questi Paesi. La ‘ratio’ di questa previsione (che pone una disciplina speciale, circoscritta ai soli appalti di forniture), risiede nell’esigenza di garantire che l’apertura del mercato degli appalti comunitari a tali Paesi terzi avvenga nel rispetto della condizione di reciprocità, utilizzando quest’ultima come mezzo di discrimine ai fini dell’accesso al mercato unico europeo da parte di operatori esterni all’UE. L’obiettivo è quello di garantire a tutti gli operatori economici un trattamento uniforme: l’ingresso di nuovi soggetti alle commesse pubbliche viene, pertanto contemperato con l’esigenza di assicurare le condizioni minime di tutela della ‘par condicio’ per le imprese comunitarie che partecipano alle procedure di gara. Ciò spiega l’introduzione, su impulso comunitario, di una disciplina speciale che si fonda sulla stipulazione o meno tra CE e i suddetti Paesi terzi, di accordi che garantiscano un accesso comparabile ed effettivo delle imprese comunitarie agli appalti indetti anche in tali Paesi.

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A nulla è servita la tesi difensiva della ricorrente, secondo cui la Repubblica Popolare Cinese avrebbe in passato sottoscritto con l’UE determinati accordi internazionali. Il G.A., di contro, rilevava che tali accordi sono carenti del requisito della reciprocità richiesto dalla norma “Non risulta, infatti, che tale Repubblica abbia concluso un altro accordo internazionale che possa garantire agli operatori economici della CE un effettivo accesso al settore degli appalti di quel Paese con piena reciprocità e dignità giuridica”. Il Tar ha, quindi, affermato che solo con l’adesione al GPA – General Procurement Agreement (accordo pluriennale sugli appalti pubblici siglato nell’ambito dell’OMC) è consentita l’apertura del proprio mercato degli appalti pubblici con piena reciprocità e dignità giuridica nei confronti delle imprese UE, come previsto dall’art. 234 del Codice degli Appalti (cfr. T.A.R. Lazio, sez. I, 2.07.2007, n. 5896).

Nella stessa pronuncia, oltreché chiarire la definizione di Paese terzo, rilevante sotto il profilo soggettivo, il Tribunale Amministrativo campano, si è poi concentrato sul profilo oggettivo dei prodotti. Fondamentale, infatti, è valutare l’origine delle produzioni che compongono l’offerta. L’accertamento in parola si basa sul Codice Doganale (Regolamento CEE n. 2913/92 del 12 ottobre 1992), il quale, all’art. 23, stabilisce che “sono originarie di un Paese le merci interamente ottenute in tale Paese” e, ancora, all’art. 24, dispone che “una merce alla cui produzione hanno contribuito due o più Paesi è originaria del Paese in cui è avvenuta l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, economicamente giustificata ed effettuata in un’impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo od abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione”.

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Il G.A. ha, infine, affermato che con l’art. 234 d.lgs 163/2006 ss.mm.ii (che, peraltro, recepisce il contenuto delle Direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), il Legislatore ha istituito un sistema di preferenza comunitario basato non tanto sulla nazionalità degli offerenti, determinata dal luogo in cui è ubicata la sede legale e amministrativa (nel caso di specie, italiana ma con delocalizzazione integrale della produzione), quanto piuttosto sull’origine dei prodotti. Pertanto, al fine di determinare il campo di applicazione della norma, ciò che rileva è il luogo di produzione del bene e, di conseguenza, la sede dello stabilimento in cui esso viene realizzato, che, di per sé, può non coincidere con il luogo in cui è ubicata la sede legale o amministrativa dell’impresa (cfr. Tar Campania, Napoli, sez. IV, 27.03.2014, n. 1848/2014; Tar Friuli Venezia Giulia, Trieste, sez. I, 15.02.2010, n. 131).

Al di là del caso in esame, si evidenzia che l’art. 234 del Codice degli Appalti non solo prevede al comma 2 la possibilità per le stazioni appaltanti di respingere un’offerta contenente, per oltre la metà del proprio valore, prodotti originari di Paesi terzi. La norma prevede, altresì, un vero e proprio obbligo di operare in tal senso, quando, come disposto dal successivo comma 3, la differenza di prezzo tra un’offerta con le caratteristiche sopra descritte e una che non le presenti sia inferiore al 3%. Tali criteri vengono, peraltro, ribaditi anche dall’AVCP (ora confluita nell’ANAC) nel ‘Libro verde sulla modernizzazione della politica dell’UE in materia di appalti pubblici’, nella sezione dedicata all’accesso dei Paesi terzi al mercato UE.

In definitiva, la natura italiana dell’impresa non rende italiano il prodotto realizzato altrove, anche se la produzione viene effettuata in proprio da soggetto italiano, essendo necessario scindere il profilo soggettivo del produttore da quello oggettivo dell’origine del prodotto, cui fa riferimento l’art. 234 del d.lgs. 163/2006.

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LA RIFORMA DEL PROCESSO CIVILE IN SINTESI.

È stato pubblicato in G.U.R.I. dello scorso 12 settembre il d.l. 123/2014, con cui il Governo intende smaltire l’arretrato degli Uffici Giudiziari italiani. A distanza di due settimane dal via libera del Consiglio dei Ministri, è arrivato, dunque, il primo testo della riforma della giustizia civile, sotto forma di decreto legge, che dovrà adesso seguire il normale iter parlamentare di conversione. In realtà, il decreto in questione costituisce solo una parte della riforma della giustizia voluta dal Governo Renzi. L’intero pacchetto prevede, infatti, ulteriori interventi, alcuni regolati con decreto legge e altri con disegno di legge delega, in materia penale, oltreché una serie di disposizioni relative all’ordinamento giudiziario. Analizziamo in questa sede i punti principali degli interventi sul processo civile previsti dal d.l. 123/2014.

di Michele De Sanctis

POSSIBILITÀ DI SPOSTARE IL PROCEDIMENTO DAL CONTENZIOSO CIVILE A QUELLO ARBITRALE. Nelle cause civili pendenti sia in primo che secondo grado, le parti potranno richiedere congiuntamente di promuovere un procedimento arbitrale (già regolato dalle disposizioni ordinarie contenute nel codice di procedura civile ed espressamente richiamate dal decreto). Facoltà esclusa, tuttavia, per due materie di una certa rilevanza: le liti sui diritti indisponibili e le cause del lavoro. Quanto agli effetti, il lodo arbitrale avrà la stessa forza di una sentenza.

PROCEDURA NEGOZIALE ASSISTITA. Si tratta di una procedura di conciliazione tra le parti effettuata con l’assistenza di un avvocato e volta al raggiungimento di un accordo che eviti il giudizio, consentendo, peraltro, una rapida formazione di un titolo esecutivo stragiudiziale. La relativa convenzione dovrà avere forma scritta perché sia efficace. Non si tratta solo di una facoltà, poiché in taluni casi (liti in materia di risarcimento danni da circolazione stradale e nautica o nelle richieste di pagamento fino a € 50.000) il preventivo tentativo di conciliazione viene previsto come condizione di procedibilità, senza cui non sarà, pertanto, possibile adire il giudice.

NEGOZIAZIONE ASSISTITA NELLE CAUSE DI SEPARAZIONE E DIVORZIO. La procedura di conciliazione appena illustrata ha una forte ricaduta nel diritto di famiglia, dal momento che, anche in tema di separazione personale, di cessazione degli effetti civili o di scioglimento del matrimonio (nei casi di avvenuta separazione personale), di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio, il decreto prevede la facoltà di ricorrere alla negoziazione, assistita da un avvocato o meno. I coniugi, infatti, oltre ad avere la facoltà di ricorrere alla procedura di conciliazione co-gestita con l’assistenza di un legale, potranno, in alternativa, recarsi semplicemente al cospetto di un ufficiale dello stato civile per formalizzare l’intesa raggiunta. Si tratta, dunque, di un’importante semplificazione dei procedimenti di separazione e divorzio, che renderà l’Italia uno dei Paesi europei, in cui lo scioglimento del matrimonio sarà più rapido.

DICHIARAZIONI RESE AL DIFENSORE. La riforma prevede la possibilità di raccogliere direttamente da terzi dichiarazioni utili sul procedimento giudiziario in corso per accelerare e razionalizzare la fase istruttoria. Il legale potrà, infatti, sentire testimoni al di fuori del processo. L’intervento in parola risulta, peraltro, complementare all’ampio spazio concesso dalla riforma alla risoluzione stragiudiziale delle controversie. In pratica, si introduce una specifica norma mediante cui si realizza la tipizzazione delle dichiarazioni scritte rese al difensore, quali fonti di prova che la parte può produrre in giudizio sui fatti rilevanti che ha l’onere di provare.

PASSAGGIO DAL RITO ORDINARIO AL RITO SOMMARIO. Nelle cause meno complesse e per la cui decisione è idonea un’istruttoria semplice, si affida al giudice unico, nelle materie di sua competenza, la possibilità di convertire d’ufficio il procedimento dal rito ordinario di cognizione al rito sommario, con ordinanza non impugnabile – e previo contraddittorio anche mediante trattazione scritta.

RIDUZIONE DEI TERMINI DI SOSPENSIONE FERIALE DEI PROCEDIMENTI. Nonostante l’opposizione ricevuta dalla magistratura sul punto, il decreto stabilisce che il periodo interlocutorio di sospensione feriale nei Tribunali sia compreso dal 6 agosto al 31 agosto (anziché dal 1 agosto al 15 settembre). Mentre si prevede la riduzione delle ferie dei magistrati da 45 a 30 giorni.

MODIFICA AL REGIME DELLA COMPENSAZIONE DELLE SPESE E INTERESSI SULLE SPESE DI LITE. Chi perde è tenuto a rimborsare le spese del processo. Il decreto se da una parte tenta di scoraggiare le cd. liti temerarie, dall’altra appronta una limitazione a certe condotte processuali meramente dilatorie. Nel primo caso, riduce i margini di discrezionalità delle Autorità Giudiziarie in ordine alla compensazione delle spese di lite, di cui, nonostante le modifiche restrittive introdotte negli ultimi anni, nella pratica si continuava a fare larghissimo uso, specie se una delle parti in causa era un’Amministrazione Pubblica. La soccombenza, adesso, assume un suo naturale e rilevante costo, incrementato, peraltro, dall’attribuzione di un tasso d’interesse nel corso dei procedimenti di cognizione pari a quello per i ritardi nelle transazioni commerciali. Quest’ultima disposizione dovrebbe, peraltro, disincentivare le pratiche dilatorie.

ESECUZIONE FORZATA. In fase esecutiva si consente l’accesso telematico degli Uffici Giudiziari alle banche dati delle P.A. per individuare con esattezza l’ammontare dei beni aggredibili del debitore soccombente in giudizio. L’intervento in materia di ricerca dei beni da pignorare è finalizzato a migliorare l’efficienza dei procedimenti di esecuzione mobiliare presso il debitore e presso terzi in linea con i sistemi ordinamentali di altri Paesi europei. La via seguita è evidentemente quella di implementare i poteri di ricerca dei beni da parte dell’Ufficiale Giudiziario, colmando così la ‘asimmetria informativa’ tra creditore e debitore in riferimento agli asset patrimoniali di quest’ultimo. Al creditore spetta trasmettere in Cancelleria per via telematica la nota di iscrizione a ruolo, unitamente all’atto di pignoramento, al titolo esecutivo e al precetto. Ulteriori provvedimenti in materia di esecuzione sono l’eliminazione dei casi in cui la dichiarazione del terzo debitore sia resa in udienza e l’obbligo di ordinare la liberazione dell’immobile con la pronuncia di ordinanza di vendita.

COMPETENZA TERRITORIALE DEL GIUDICE DELL’ESECUZIONE. Il decreto stabilisce che, per tutti i soggetti diversi dalle Pubbliche Amministrazioni, la competenza per i procedimenti di espropriazione forzata di crediti verrà radicata presso il Tribunale del luogo di residenza, domicilio, dimora o sede del debitore.

INFRUTTUOSITÀ DELL’ESECUZIONE. Viene, infine, introdotta una fattispecie di chiusura anticipata del processo esecutivo per infruttuosità (art. 164-bis disp. att. c.p.c.) nel caso in cui risulti che le pretese dei creditori non possano più conseguire un ragionevole soddisfacimento, tenuto altresì conto dei costi necessari ai fini della prosecuzione della procedura di esecuzione forzata, delle probabilità di liquidazione del bene e del presumibile valore di realizzo.

Clicca qui per leggere il testo del Decreto legge

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MOLESTIE SU FACEBOOK: PER LA CASSAZIONE IL SOCIAL NETWORK VA CONSIDERATO ‘LUOGO APERTO AL PUBBLICO’.

di Michele De Sanctis

La Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione con Sentenza n. 37596 ha affermato che, ai fini della configurabilità del reato di molestie o disturbo alle persone, di cui all’art. 660 c.p., la piattaforma sociale Facebook va considerata alla stregua di un luogo aperto al pubblico, in quanto luogo ‘virtuale’ aperto all’accesso di chiunque utilizzi la rete.

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Pertanto, l’invio di messaggi molesti mediante l’uso di Facebook integra la fattispecie descritta dall’art. 660 c.p., che sanziona «chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo». Il contravventore è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda fino a euro 516.

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Nel caso di specie, vittima del reato in parola era una donna, all’epoca dei fatti, nel 2008, caporedattore di una testata locale toscana, che aveva ricevuto ripetuti e continui apprezzamenti volgari e a sfondo sessuale sia presso gli uffici del quotidiano per cui lavorava, che sul proprio account Facebook. Sul social, il molestatore aveva, peraltro, celato la propria identità con un falso profilo.

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In un primo momento il Tribunale di Livorno aveva assolto l’imputato con la formula “il fatto non sussiste” quanto ai fatti commessi presso gli uffici del giornale, escludendo che una redazione fosse luogo pubblico, e con la formula “il fatto non è previsto dalla legge come reato” quanto ai fatti «commessi utilizzando l’indirizzo di posta elettronica». Tuttavia, la Corte di Appello di Firenze, riformando la decisione di primo grado, rilevava come la redazione di un quotidiano fosse paragonabile a un luogo aperto al pubblico, in quanto frequentato dai dipendenti del giornale stesso oltreché da eventuali soggetti estranei che ivi portano notizie o chiedono la pubblicazione di annunci. Quanto poi alla condotta realizzata mediante i messaggi inviati sotto pseudonimo tramite la chat di Facebook al profilo della vittima, il Giudice di II grado, ritenendo che tale comportamento integrasse il reato di cui all’art. 660 c.p., evidenziava come il profilo della vittima sul social network costituisse una community aperta «evidentemente accessibile a chiunque».

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L’imputato, a questo punto, ricorreva in Cassazione per chiedere l’annullamento della sentenza di secondo grado per violazione dell’art. 660 c.p., con riguardo alla nozione di luogo aperto al pubblico accolta in sede di gravame. In particolare, quanto alla condotta posta in essere su Facebook, rilevava l’imputato che l’invio dei messaggi era avvenuto tramite la chat privata del social network e non sul diario e che ciò escludesse l’analogia con altri luoghi aperti al pubblico. In verità, l’invio dei messaggi tramite la chat di Facebook lascerebbe, piuttosto, propendere per l’assimilabilità della comunicazione telematica alla comunicazione telefonica (l’altra modalità di realizzazione delle molestie di cui all’art 660 c.p.), ma resterebbero dei profili da chiarire per quanto concerne i principi di tassatività e legalità. Tuttavia, poiché il gravame aveva liquidato il caso come molestia in luogo aperto al pubblico, secondo gli Ermellini il ricorso non risulta manifestamente infondato, per difetto della sentenza di II grado nella sua base fattuale, laddove si fa riferimento all’invio di messaggi su un profilo evidentemente accessibile a tutti, trascurando, invece, la fattispecie concreta dell’invio tramite chat privata.

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A prescindere dalle risultanze del caso di specie, ciò che più rileva e che merita di essere commentato, ancorché non si tratti di una decisione delle Sezioni Unite, è tuttavia l’estensione da parte dei Giudici della I Sez. della Cassazione del concetto di luogo aperto al pubblico in riferimento al social network. Infatti, la Corte, ritiene «innegabile che la piattaforma sociale Facebook (disponibile in oltre 70 lingue, che già nel 2008 contava più di 100 milioni di utenti) rappresenti una sorta di piazza immateriale che consente un numero indeterminato di accessi e visioni, rese possibili da una evoluzione scientifica che il Legislatore non era arrivato ad immaginare. Ma che la lettera della legge non impedisce di escludere dalla nozione di luogo e che, a fronte della rivoluzione portata alle forme di aggregazione e alle tradizionali nozioni di comunità sociale, la sua ratio impone, anzi, di considerare».

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In definitiva, la molestia sul diario di Facebook integra la contravvenzione di cui all’art. 660 c.p. (lo stesso potrebbe, forse, dirsi anche per l’invio di messaggi molesti via Facebook, se fosse possibile assimilarli alla molestia telefonica). E quindi, nel caso di specie, il giudice di rinvio avrebbe dovuto riformare il proprio giudizio, non censurando la molestia nella chat di Facebook come se fosse stata fatta in luogo pubblico, perché è solo la bacheca ad essere assimilata a un’agorà, non anche la mailbox. Avrebbe, perché la sentenza di appello per il caso finora illustrato è stata cassata, ma senza rinvio per intervenuta prescrizione del reato contravvenzionale contestato.

Cassazione Penale, Sez. I, 12 settembre 2014 (ud. 11 luglio 2014), n. 37596 Presidente Chieffi, Relatore Di Tommasi

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AMMORTIZZATORI SOCIALI: ECCO I NUOVI CRITERI DI CONCESSIONE.

Con Circolare n. 19 dello scorso 11 settembre 2014, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha chiarito quali siano i nuovi criteri di concessione degli ammortizzatori sociali in deroga.

di Michele De Sanctis

Emanata a firma del neo Direttore Generale della Direzione Ammortizzatori Sociali, Ugo Menziani, la Circ. 19/2014 fornisce delucidazioni sul contenuto del Decreto Interministeriale n. 83473 datato 01/08/2014, inerente ai criteri di concessione degli ammortizzatori sociali in deroga alla normativa vigente: fattispecie contemplate, termini di presentazione delle istanze, causali di concessione, limiti di durata, tipologie di datori di lavoro e lavoratori beneficiari.

Tra le principali novità previste dal Legislatore, si chiarisce che la diversa durata dei trattamenti (che, per tutte le imprese aventi diritto, si riducono dagli 11 mesi del 2014 ai 5 mesi previsti per il 2015) potrà ritenersi applicabile solo in seguito alla stipula di accordi successivi alla data di pubblicazione del Decreto in questione, vale a dire dopo il 04/08/2014.

Si tratta, comunque, di disposizioni che – lo ricordiamo – resteranno in vigore solo fino alla fine del 2016, quando interverrà la relativa abrogazione ad opera della riforma Fornero.

La circolare chiarisce anche l’obbligo, posto a carico dell’INPS dall’art 5 del Decreto Interministeriale in parola, relativo al “monitoraggio” mensile che dovrà essere effettuato sulle domande presentate, le prestazioni corrisposte e i flussi finanziari correnti e prevedibili (il cd. tiraggio). In particolare, la nota ministeriale specifica che i dati raccolti dall’Istituto saranno contestualmente comunicati al Ministero del Lavoro – Direzione Generale Ammortizzatori Sociali e alla Direzione Generale Tutela Condizioni di Lavoro – e al MEF, oltreché alla Regione o Provincia Autonoma interessate, limitatamente alle prestazioni riconosciute per il tramite delle stesse.

Quanto al campo di applicazione, la circolare in argomento ribadisce che gli ammortizzatori in deroga riguardano solo le imprese di cui all’articolo 2082 c.c.; restano, quindi, esclusi gli studi professionali e, di fatto, tutti gli altri datori di lavoro non esercenti attività di impresa. Tuttavia, rientrano nel novero dei destinatari i “piccoli imprenditori”, quali gli artigiani, i piccoli commercianti ed i coltivatori diretti.

I lavoratori beneficiari sono, peraltro, quei lavoratori subordinati, operai, impiegati, quadri, apprendisti, lavoratori somministrati, che siano in possesso di un’anzianità lavorativa di almeno 12 mesi, svolta presso l’impresa richiedente il trattamento. Risultano, dunque, esclusi, dall’intervento in deroga, i lavoratori per i quali sussistono i requisiti per accedere alle diverse prestazioni, di analoga finalità, previste dalla normativa vigente: trattamenti di mobilità ordinaria, indennità Aspi e miniAspi, indennità di disoccupazione agricola, Cig ordinaria e Fondi di Solidarietà.

CLICCA QUI PER VISUALIZZARE LA CIRC. 19/2014

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Per la Cassazione l’acquirente di un computer non ha l’obbligo di accettare il sistema operativo preinstallato e può chiederne il rimborso

di Germano De Sanctis

La Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione, con la sentenza 11.09.2014, n. 19161, ha dichiarato che l’acquisto di un computer da parte di un privato non comporta anche l’obbligo di utilizzo del sistema operativo o di altro software preinstallato da parte del produttore. In estrema sintesi, la Suprema Corte ha riconosciuto il diritto del consumatore ad ottenere il rimborso per la sola parte del prezzo relativa alla licenza d’uso del programma informatico non negoziato con il venditore, qualora egli intenda installare un software alternativo e concorrente.

Nello specifico, la sentenza in questione è intervenuta sul tema delle politiche commerciali di vendita abbinata hardware/software dei computer, riconoscendo il diritto dell’acquirente di installare i programmi, senza essere essere vincolato, né, tanto meno, economicamente gravato di costi indebiti dalle scelte produttive del produttore della macchina.

La controversia, seppur di scarso impatto economico (i tre gradi di processo vertono sulla restituzione di 140 euro corrispondenti al costo stimato del sistema operativo Microsoft Windows XP Home Edition e del software applicativo Microsoft Work 8 forniti insieme ad un notebook Hp acquistato nel dicembre 2005) è rilevante dal punto di vista civilistico, per quanto concerne l’interpretazione fornita relativamente alla volontà negoziale delle parti coinvolte.

Venendo all’esame del caso di specie, un consumatore si è inizialmente rivolto al Tribunale di Firenze, dopo aver acquistato un computer portatile Hewlett Packard ed essere stato costretto ad attivare la licenza d’uso del pacchetto Microsoft. Alla base della sua citazione in giudizio vi era il diniego da parte del produttore della sua richiesta di rimborso del prezzo relativo al costo di Windows, in quanto le condizioni contrattuali rendevano possibile il predetto imborso soltanto in caso di restituzione, sia del notebook, che del software preinstallato.
In seguito, in opposizione alla sentenza di appello favorevole al consumatore, la società informatica produttrice del computer ha presentato ricorso in Cassazione, asserendo che non è possibile restituire il software, ottenendone il relativo rimborso e trattenendo il solo hardware, in quanto sussisterebbe l’unitarietà dell’acquisto del pacchetto hardware/software.

Tale ricorso è stato rigettato, in quanto i giudici della Suprema Corte hanno interpretato una specifica clausola contrattuale contenuta nel contratto di licenza con l’utente finale relativo all’utilizzo del software del sistema operativo Microsoft Windows preinstallato ed hanno concluso che l’integrazione tra software e hardware non si basa su un’esigenza di natura tecnologica, ma unicamente commerciale e, pertanto, non sussistono ostacoli tali da impedire la considerazione frazionata dei due prodotti.

La sentenza in esame afferma anche che l’oggetto del contratto di vendita in questione può essere soltanto il computer portatile acquistato dal consumatore, poiché esso è l’unico bene oggetto del contratto e soltanto su di esso è possibile riscontrare il perfezionamento dell’accordo negoziale.
I giudici di legittimità hanno trovato riscontro a tale interpretazione anche nel regolamento contrattuale predisposto dal produttore del computer in questione, il quale, a fronte dell’acquisto dell’hardware, ha previsto soltanto un mera sottoscrizione della licenza d’uso dei programmi proprietari preinstallati.

La Cassazione, confermando il giudizio già espresso nel corso dei due gradi del giudizio di merito, ha riscontrato l’esistenza di due distinte vicende negoziali, l’una relativa al computer e l’altra concernente il programma informatico proprietario preinstallato. In altri termini, hardware e software sono da intendersi come due beni distinti e strutturalmente scindibili, oggetto di due diverse tipologie negoziali.
Pertanto, sussiste un vero e proprio sdoppiamento di oggetto e negozio e soltanto sul primo fenomeno contrattuale, cioè, l’acquisto del computer, è possibile affermare che si è regolarmente formato il consenso. Al contrario, la Corte di Cassazione ha riscontrato che non è intercorso alcun rapporto contrattuale tra il produttore del software e l’acquirente del notebook, poiché si è in presenza soltanto di licenze economiche e licenze di vendita che vengono trattate, a monte della grande distribuzione, in virtù di accordi commerciali su vasta scala, direttamente stipulati tra la casa produttrice del software e le principali case produttrici dell’hardware.
La Suprema Corte ha rilevato che il rapporto commerciale instaurato tra il produttore del computer e la società produttrice del software non coinvolge minimamente il consumatore, il quale, invece, esercita la sua libertà di scelta contrattuale di acquistare un determinato computer, valutando esclusivamente le caratteristiche tecniche dell’hardware, anche in ragione del fatto che quest’ultimo assume obiettivamente una assoluta preponderanza nel valore economico del computer medesimo al momento della formazione del prezzo finale di mercato del bene informatico genericamente inteso.

Pertanto, non è possibile sostenere la tesi dell’unitarietà del contratto hardware/software (simul stabunt, simul cadent), in quanto non sussistono adeguati elementi volti a dimostrare che i due contratti in oggetto siano stati voluti dalle parti contraenti nell’ambito di una combinazione strumentale volta a realizzare uno scopo pratico unitario.
Anzi, secondo la Cassazione l’acquisto del computer non implica l’obbligo di accettare il sistema operativo, pena lo scioglimento della vendita e l’azzeramento dell’intera operazione contrattuale. Di conseguenza, il consumatore che acquista un computer con un sistema operativo preinstallato di serie ha diritto al rimborso del costo del software, anche quello applicativo, se non clicca sull’accettazione della licenza d’uso, trattenendo, in tal caso, il solo hardware, per, poi, avere diritto al rimborso per software proprietario preinstallato non accettato.

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VIETATO SPIARE LA MOGLIE! E SE SCOPRI CHE È INFEDELE, MEGLIO NON RACCONTARLO IN GIRO.

La moglie fedifraga, sorpresa dal marito mediante l’uso di un apparecchio di videoregistrazione, può invocare l’applicazione dell’art. 615 bis c.p., che punisce chiunque, mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, si procura indebitamente notizie o immagini relative alla vita privata altrui nella sua dimora. È, pertanto, illecita l’acquisizione delle prove dell’avvenuto adulterio con tali modalità. Né è consentito rivelare ad altri le informazioni apprese. Scoprire con tali mezzi un tradimento e raccontarlo non vi risparmierà, quindi, da un’accusa per diffamazione.
A scanso di equivoci, però, chiariamo subito che lo stesso vale se è il marito infedele ad essere spiato dalla moglie…

di Michele De Sanctis

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Con sentenza n. 35681/2014, la Suprema Corte di Cassazione ha confermato la decisione del Giudice di Pace di Senorbì del 10 maggio 2013, che aveva condannato per diffamazione (art. 595 c.p.) un marito, poiché, parlando con una coppia di conoscenti, aveva insinuato il tradimento della sua ex moglie. Il ricorso dinanzi al giudice di legittimità era incentrato su una presunta mancata considerazione da parte del G.d.P. dello stato d’ira dell’imputato, che aveva appena scoperto il tradimento della moglie per mezzo di un dispositivo di registrazione da lui installato in cucina. Il capo d’accusa non era, del resto, la registrazione in sé, bensì, la diffamazione che era seguita alla visione delle immagini catturate dal marito tradito.

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Leggi anche: L’INSULTO SU FACEBOOK È DIFFAMAZIONE, ANCHE SE LA VITTIMA RESTA ANONIMA. LO DICE LA CASSAZIONE.

Nel nostro ordinamento giuridico, a differenza di altri Paesi di Civil Law, perché possa escludersi il reato di diffamazione, non è necessario che quanto asserito non sia falso. Il delitto in parola, da noi, si consuma al ricorrere di questi tre elementi essenziali: l’offesa all’onore o al decoro di qualcuno, la comunicazione con più persone e l’assenza della persona offesa. Tuttavia sono previste delle cause di giustificazione, tra le quali è contemplato anche lo stato d’ira. Proprio per questo, la circostanza che quanto dichiarato dal marito non fosse falso, nel ricorso da questi presentato, rilevava non quale causa di esclusione del reato di diffamazione, ma quale presupposto dello stato di collera ingeneratosi nello stesso. O meglio, a provocarlo era stata la visione del filmato, che, in quanto tale, non poteva non corrispondere alla realtà. Veniva, pertanto, impugnata una presunta violazione di legge in sede di merito e il vizio di motivazione con riguardo all’esclusione della causa di non punibilità di cui all’art. 599, comma 2 c.p. Secondo il ricorrente, infatti, l’istruttoria espletata in sede di giudizio di merito aveva dimostrato come l’uomo avesse agito in stato d’ira determinato dalla scoperta, per mezzo delle videoregistrazioni, del tradimento della moglie. Per tale motivo, illegittima da parte del Giudice di Pace era stata l’esclusione di tale esimente e inadeguata la spiegazione fornita, secondo cui, poiché la prova del tradimento era stata illegittimamente acquisita (pur essendo stata fatta dal marito all’interno nell’abitazione coniugale), non era declamabile, cioè spendibile, in sede giudiziaria.

IMG_3698.JPGLa locandina del film ‘Io so che tu sai che io so’ con Alberto Sordi e Monica Vitti, in cui un marito scopre il tradimento della moglie per caso, guardando le riprese fatte alla donna a causa di un errore commesso da un investigatore privato.

I giudici di Piazza Cavour, però, hanno rigettato il ricorso dell’uomo e ravvisato la correttezza del giudizio di merito, richiamando proprio il principio dell’inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione di divieti di legge (ex art. 191 c.p.c.) e, soprattutto, quello dell’inviolabilità del diritto alla riservatezza del coniuge o del familiare convivente, confermando, peraltro, il proprio pacifico orientamento su questioni analoghe (cfr. Cass. Sent. n. 12698/2003). Infatti, la sanzione prevista dall’art. 615 bis c.p., che censura le interferenze illecite nell’altrui vita privata, non consente l’ammissione delle immagini registrate (illecitamente) dal marito, quale prova dello stato psicologico in cui versava. Sarebbe come rendersi colpevole di qualcosa e poi invocare quale esimente lo stato psicologico conseguente alla commissione di un altro reato. Perché la registrazione della moglie, a sua insaputa, è un reato. Quanto poi al principio di inviolabilità del diritto alla riservatezza del coniuge, la Corte ha più volte ribadito che i doveri di solidarietà derivanti dal matrimonio non sono incompatibili con il diritto alla riservatezza di ciascuno, ma ne presuppongono, anzi, l’esistenza, poiché la solidarietà si realizza solo tra persone che si riconoscono piena e pari dignità. Ciò vale anche nel caso di infedeltà del coniuge, poiché la violazione dei doveri di solidarietà coniugale non è sanzionata dalla perdita del diritto alla riservatezza. (cfr. Cass Sez. V 23 maggio 1994 n. 198994).

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Pertanto, il marito non solo non può lamentare il mancato riconoscimento dello stato d’ira, quale scriminante nei delitti contro l’onore, ma deve, altresì, ritenersi fortunato, perché condannato solo per diffamazione, visto che la sua attività ‘investigativa’ lo rendebbe addirittura passibile di querela per il reato di interferenze illecite nella vita privata ai sensi dell’art. 615 bis del codice penale. E di questo deve ringraziare proprio la moglie infedele, poiché il delitto in questione – se commesso da un privato cittadino, come nel caso di specie – è punibile solo a querela della persona offesa. Ma, a quanto pare, la signora ha avuto la ‘bontà’ di limitarsi alla sola diffamazione.

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Leggi anche: L’OFFESA A TERZI VIA SMS NON È DIFFAMAZIONE: LO DICE LA CASSAZIONE.

È, quindi, evidente che non c’è scusa che tenga: spiare il proprio partner è un reato. Evitatelo, perché rischiate dai sei mesi ai quattro anni. Che riusciate a farla franca o meno, non sentitevi migliori di chi ha tradito la vostra fiducia. Violare l’intimità del partner non è poi tanto diverso, a parte il fatto che l’infedeltà non costituisce reato e le interferenze illecite nella vita privata, invece, sì.

Cass. Sent. n. 35681/2014

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IPOTECHE: ISCRIZIONE NONOSTANTE SGRAVIO FISCALE, CASSAZIONE CONDANNA LA SOCIETÀ DI RISCOSSIONE.

di Michele De Sanctis

Società di riscossione condannata a pagare le spese di giudizio per aver iscritto un’ipoteca nonostante l’intervenuto sgravio del credito da parte del Fisco, senza quindi una preventiva verifica della pretesa tributaria.

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È quanto hanno stabilito i Giudici di Piazza Cavour con ordinanza n. 16948 dello scorso 24 luglio, respingendo il ricorso promosso da Serit Sicilia SpA per la cassazione di una sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Sicilia, che, non accogliendo l’appello della stessa Serit avverso la decisione della Commissione Tributaria Provinciale di Messina, aveva attribuito la responsabilità della lite alla società di riscossione, anche ai fini della regolazione delle spese. Il primo motivo di ricorso denunciava il vizio di omessa insufficiente e contraddittoria motivazione della circostanza che lo sgravio fosse stato comunicato all’agente della riscossione con flusso telematico successivo alla data di iscrizione dell’ipoteca. Il secondo motivo denunciava, invece, la violazione dell’art. 15, comma 2, L. n. 59/97, censurando la sentenza gravata per aver trascurato il disposto, ivi contenuto, in base a cui gli atti, dati e documenti formati dalla pubblica amministrazione e da privati con strumenti informatici o telematici,nonché la loro archiviazione e trasmissione con strumenti informatici sono validi e rilevanti a tutti gli effetti di legge.

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Tuttavia, la Cassazione, non ha ritenuto viziata la formulazione del primo e secondo grado di giudizio, secondo cui, dal momento che lo sgravio è un atto telematico, il concessionario, prima di procedere all’iscrizione ipotecaria, avrebbe dovuto controllarne la tempestività mediante l’uso del terminale allo stesso accessibile. Secondo gli Ermellini tale affermazione si articola in un implicito giudizio di fatto, per il quale l’agente di riscossione poteva conoscere lo sgravio utilizzando il terminale a sua disposizione. Situazione sufficiente, questa, ad escludere la non conoscenza dell’avvenuto sgravio ad opera dell’Agenzia delle Entrate, indipendentemente dall’eventuale ricezione per flusso telematico di idonea comunicazione ex art. 15, co. 2, L. 59/97.

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Per questi motivi, il ricorso della società di riscossione viene rigettato, con conseguente condanna a rifondere al contribuente le spese del giudizio di legittimità.

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