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DAVIDE, PICCHIATO DALLA FAMIGLIA PERCHÉ GAY.

Proprio stamattina una pagina Facebook dedicata alle scienze naturali pubblicava un album fotografico, in cui si mostravano cuccioli di orso, giraffa e koala teneramente avvolti dall’abbraccio della mamma e del papà. Titolo, la famiglia: è lì che ti senti sempre al sicuro. Si trattava semplicemente di uno di quei post ‘acchiappa-like’ che ’fanno al bene al cuore’ di chi ha la pancia piena e la testa vuota, dall’animo tendenzialmente incline alla facile commozione, ma spesso irriducibile dinanzi alle devianze della società – è così che oggi (???) va di moda bollare ciò che non è conforme a mamma orsa che col marito scalda i suoi dolcissimi orsacchiotti. In effetti, la famiglia è il posto in cui dovremmo essere accettati per quello che siamo: per una legge del sangue, per l’appartenenza al nucleo, per la storia comune, per un amore che va oltre ogni comprensione. In teoria. A volte, tuttavia, i legami familiari sono deviati, malati. Talora la condanna di quella che vuole essere vista come una scelta è più forte di ogni altro sentimento. Deviato non è, però, il soggetto che a mamma orsa preferisce un daddy bear (perché, se permettete, cosa facciamo sotto le coperte sono affari nostri). Il legame familiare, in questi casi, risulta infettato dal pregiudizio, dall’odio. Soprattutto, dalla paura del diverso. Quella che leggerete tra poco è una vicenda triste, una brutta storia, una di quelle che, francamente, vorrei non accadessero più. Una vicenda, che non dovrebbe verificarsi in un Paese laico, civile e democratico. E se non ‘scalda il cuore’ di chi ha ‘voglia di tenerezze’, pazienza. Il mio intento è disturbare le coscienze altrui. Facebook, in fondo, è pieno di ‘micini coccolosi’, che non troverete mai su questa pagina, perché preferiamo perdere un like, ma conservare la dignità.

Nonostante il disgusto che ho provato nel leggerlo, quest’articolo di cronaca va, comunque, condiviso e diffuso, perché dobbiamo riflettere sugli effetti drammatici di un odio inarrestabile, che sembra diffondersi nella società italiana come un virus. E miete vittime, non solo tra gay, lesbiche e trans, ma tra tutti coloro che sono considerati diversi: tra stranieri, clochard e tossicodipendenti. En passant, voglio rivolgermi al gentile signore che sulla mia bacheca personale (parzialmente pubblica) ha commentato un link di BlogNomos con una fotina di Hitler e la scritta in maiuscolo “ALLE DOCCE”: mi sono appena lavato, se la risparmi pure, oggi; o, alla prossima, non mi limiterò a cancellare il suo ridicolo commento, ma la denuncerò per apologia e minacce, continuando a non darLe la soddisfazione di una risposta. Perché non ne è degno. Alle docce di Hitler, non ci si lavava, come io ho fatto poco fa. Si moriva. E lei è forse Dio per decidere della vita e della morte di un altro essere umano?

Tornando al tema di questo post, la storia su cui vi invito ad una profonda riflessione è quella di Davide, un ragazzo siciliano di vent’anni, picchiato e segregato in casa dalla famiglia, dopo aver confessato la sua omosessualità, affinché espiasse la vergogna arrecata a tutti quanti. La vergogna, quel sentimento nobile, che fiorisce accanto alla dignità, nella coscienza di ognuno. Ma vergognarsi dei sentimenti di un figlio fino ad infliggergli violenza fisica e psichica, non ha nulla di nobile: è ignoranza, cattiveria, cinismo e incapacità d’amare. E chi è incapace d’amare prova fastidio anche per i sentimenti altrui e non sa far altro che esprimersi con la violenza, prima arma della persona ignorante. Per il padre/carceriere di Davide sarebbe stato meglio un figlio drogato o in galera. Così il ragazzo, visto che, di fatto, in galera già c’era, lo scorso agosto, si è lanciato di notte dalla finestra, rischiando la morte, pur di fuggire via, verso la libertà. La storia, seppur triste, ha un lieto fine (lieto perché nessuno ha perso la vita). Ora, infatti, Davide vive in un’altra città, ha un lavoro e condivide un appartamento con altri ragazzi. Ogni tanto riceve un messaggio su Facebook da un’amorevole zia che gli scrive: ‘impiccati’. Secondo loro non devo esistere, racconta Davide. Tu, invece, esisti, Davide. E ne hai ogni diritto. Ricordalo sempre.

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Queste sono storie d’ordinaria follia italiana, di un piccolo mondo antico, ancora vivissimo, dove l’ipocrisia è una malattia letale e dove abbandonare le proprie radici è l’unica via di scampo. Capirete, quindi, perché, dopo che ho visto mamma orsa stamattina, ho smesso di seguire quella pagina Facebook dedicata alle scienze naturali. Davvero molto poco scientifica, direi. La fuga dalla famiglia, come quella di Davide, ancora oggi, è il solo mezzo per evitare che la tua vita diventi erba da marciapiede, calpestata da tutti. Per evitare il labirinto della loro follia, o quel tunnel a senso unico, oltre cui c’è solo il suicidio.

Vi lascio all’articolo di cronaca pubblicato da Meridionews – ed. Catania.

Andrea Serpieri

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CRONACA – Una notte di agosto un ragazzo fugge da casa. Per tre settimane padre, fratello e zii lo hanno tenuto segregato, picchiandolo più volte. La sua colpa? Essere omosessuale. «Secondo loro non devo esistere. Non a queste condizioni»

«Avevo davanti due scelte: farmi uccidere o provare a scappare». Davide ha poco più di vent’anni e un viso pulito nel quale sembra facile leggere ogni emozione. Una notte di agosto ha scelto di fuggire dalla casa nel quale è nato e cresciuto. Una casa nella quale è rimasto rinchiuso per tre settimane senza poter avere contatti con l’esterno. Si è lasciato cadere da un balcone del secondo piano, ha dormito nei campi, ha preso un treno per lasciarsi alle spalle la sua famiglia. Padre, fratello, zii per i quali ha commesso una gravissima colpa: essere omosessuale.

Davide non vuole che il suo nome venga cambiato per raccontare la sua storia. «Io sono questo», afferma scuotendo leggermente la testa, come se l’idea di usare uno pseudonimo fosse quasi inconcepibile. La sua vita, prima di questa estate, scorre tranquilla in un paesino del Palermitano. La scuola, i lavoretti, gli amici con cui uscire il sabato in città. Qualche malalingua ogni tanto racconta alla famiglia qualche storia, insinuazioni che lui puntualmente respinge. «Era l’unica cosa che dovevo tenere nascosta».

Poi una sera, al culmine dell’ennesima lite, decide di parlare chiaramente al padre. «Mi ha chiesto: “Ti droghi? Parla con me. Qualsiasi cosa sia, io ci sono”». Ma quando finalmente le labbra articolano quel pensiero celato per anni, «lui mi ha detto che era meglio che fossi drogato. Meglio la galera, una rapina in banca». Chiama così il fratello e gli zii di Davide che lo picchiano selvaggiamente, per fare espiare quella che ai loro occhi è una colpa.

“Secondo loro non devo esistere. Non a queste condizioni”

«Per tre settimane ho vissuto rinchiuso», ricorda. Difficile per il circolo palermitano di Arcigay intervenire. Il tentativo di servirsi di un cellulare per chiedere aiuto scatena nuove violenze. Lunghe giornate passate chiuso in camera, la famiglia costretta a mentire su dove si trovasse il ragazzo e perché non rispondesse al telefono. È anche il pensiero di mettere al riparo da quelle violenze gli amici che tormenta Davide. «Dovevo proteggerli – spiega – avevo paura che facessero loro qualcosa di male».

«L’unica mia idea, una fissazione, era andare via». Una sera di agosto, raccoglie qualche vestito e i pochi risparmi messi al sicuro. Lancia il borsone dal secondo piano, poi si lascia scivolare anche lui dal balcone rischiando di farsi del male. «Non mi importava, dovevo scappare». La prima notte la passa in mezzo alle campagne. «Avevo paura che mi venissero a cercare». Una volta giunto alla stazione, gli vengono in mente alcune persone conosciute durante una festa a Catania. «Ho comprato il biglietto e sono venuto qui», afferma con semplicità.

A chi chiede aiuto non racconta quanto ha appena vissuto, anche se qualche livido spicca sulla carnagione chiara. «La prima notte che ho passato a Catania ho pensato: “Come faccio a restare?”». In tasca 80 euro e una casa che non può più chiamare tale. Quando confida quanto ha appena vissuto, trova accoglienza, calore, affetto. «Sono stato fortunato. Mi rendo conto che avrei potuto fare una brutta fine. Se ne sentono tante in giro… Avrei potuto non essere vivo».

Da quei giorni sono passati pochi mesi. Davide ha un lavoro stabile, condivide un appartamento con altri fuori sede. Ogni tanto una zia lo contatta su Facebook. «Mi scrive “impiccati” – racconta – Secondo loro non devo esistere. Non a queste condizioni». Gli insulti, quelli più coloriti, non riesce quasi a ripeterli. Una sorta di pudore, un’educazione d’altri tempi, gli impedisce di riportare quelle frasi. Dopo la sua partenza, la famiglia ha solo segnalato l’allontanamento di Davide ai carabinieri, non la scomparsa. E, dal canto suo, il giovane ha deciso di non denunciare quanto subito.

“Sono stato fortunato. Mi rendo conto che avrei potuto fare una brutta fine. Avrei potuto non essere vivo”

«Con la mia famiglia non ho più contatti, ma ci siamo visti con mio padre». L’uomo non ha mai preso parte ai pestaggi, «ma ha chiamato lui mio fratello e i miei zii per farmi picchiare», precisa indurendo lo sguardo. Anche se i chilometri li dividono, le raccomandazioni sono sempre le solite: «Non frequentare persone sbagliate». Intendendo amici omosessuali. «A me non interessa». Alza gli occhi, si blocca per qualche istante. Sembra ripercorrere tutte le sofferenze che è stato costretto ad affrontare. Poi si rilassa. «Adesso ho la mia vita da vivere».

11 novembre 2014

di Carmen Validano

MERIDIONEWS Ed. Catania

NO, L’OMOFOBIA NON È UN’OPINIONE.

di Andrea Serpieri

Nei giorni scorsi in diverse piazze italiane sono tornate le sentinelle in piedi. Queste figure altro non sono che riedizioni stantie di un Savonarola che la stessa storia ha già condannato, donne che vivono la propria confessione come se fossero replicanti di una Giovanna d’Arco postmoderna, neo-crociati della fede che si battono contro la diffusione delle teorie di genere – strumenti occulti del demonio, con cui il male tenta di farsi strada nell’umanità. Sono, quindi, i paladini del bene, laddove il male è rappresentato da quell’amore che, come cantava Dante, ‘puote errar per male obiecto’. Il male del 2000, infatti, sono i gay. Ed ecco, allora le sentinelle farsi difensori del diritto all’omofobia. Il diritto di dire no all’altrui libertà, se questa libertà fa dispiacere a Gesù, e di recriminare, nel contempo, un razzismo inverso ai propri danni: quello di chi isola gli omofobi come tali. Quando, invece, la loro è solo difesa strenua e santa (e dunque benedetta) della famiglia naturale. Dell’amore puro tra un uomo e una donna (biologici), di quell’amore, che Dante celebrava come ‘lo naturale’, quello che pertanto ‘è sempre senza errore’.

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Lungi da me la condanna del Sommo Poeta, a cui ricorro soltanto per dimostrare la più totale inattualità delle parole con cui le sentinelle difendono le proprie opinioni. Opinioni che, piuttosto, sarebbero state adatte ai tempi dello stesso Alighieri. Meglio ancora: le sentinelle avrebbero trovato il più opportuno spazio alle proprie idee all’epoca della Santa Inquisizione, quando, in un virtuale confronto, perfino gli abitanti dell’Atene del V secolo a.c. sarebbero parsi di mentalità più aperta.

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Sorto all’indomani dell’approvazione del DL Scalfarotto dello scorso anno, questo movimento ha finora manifestato contro i diritti – ad oggi, tuttavia, solo rivendicati, ma nient’affatto riconosciuti – delle popolo LGBTQIA. Sebbene si siano sempre dichiarati aconfessionali e apartitici, le sentinelle manifestano le proprie idee con il sostegno esplicito e per nulla ininfluente delle destre e dei centristi, oltreché della stampa cattolica e delle più alte eminenze ecclesiastiche.

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Se la tesi di fondo delle sentinelle è quella di poter liberamente manifestare il proprio pensiero, BlogNomos che si è sempre occupato, per sua stessa vocazione, di diritti umani e civili e che dell’educazione alla legalità ha fatto il proprio principio ispiratore, propone a voi tutti (e a questi soggetti) una riflessione costituzionalmente orientata su tale affermazione. Invocare l’art. 21 Cost. per manifestare liberamente e legittimamente il proprio pensiero, infatti, non basta. Le norme giuridiche, a partire da quelle alla base del nostro ordinamento, costituiscono un sistema e sistematicamente, quindi, devono essere intese. L’art. 21, per esempio, è annoverato nel Titolo I della Carta, quello dedicato ai Rapporti Civili, che, sebbene contemplati dalla stessa Costituzione, devono, comunque, attendere ai cd. Principi Fondamentali, contenuti nei primi dodici articoli. Questi ultimi individuano le caratteristiche generali, i valori fondamentali, e, potrebbe dirsi, la fisionomia stessa della Repubblica Italiana. Per tale ragione, i principi fondamentali devono essere utilizzati obbligatoriamente per interpretare tutte le altre norme costituzionali, art. 21 compreso. Oltretutto, i principi fondamentali, proprio perché individuano i valori fondamentali di questo Stato, non sono modificabili, salvo l’ipotesi remota di un colpo di Stato. La Corte Costituzionale può arrivare anche ad abrogare leggi ed atti aventi valore di legge, qualora fossero in contrasto con i principi fondamentali. E la giurisprudenza costituzionale, fin da quando il Palazzo della Consulta è stato operativo, ha offerto innumerevoli sentenze, che le sentinelle farebbero forse bene a visionare. Cambiare i principi fondamentali significherebbe, quindi, cambiare il tipo di Stato. I Principi Fondamentali della Costituzione hanno, pertanto, il compito di impegnare i futuri governanti a realizzare norme che traducano in pratica quanto in esse contenuto. Per questo motivo hanno valore di ‘norme programmatiche’. Ora, all’art. 3, la Costituzione della Repubblica Italiana pone questo principio fondamentale:

“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

Dalla lettera del diritto discende che se l’art.3 è un principio fondamentale (e lo è), significa non solo che lo Stato italiano ha l’obbligo di tutelare anche i diritti degli omosessuali, ma che l’istigazione all’odio, così come perpetrata dalle sentinelle, non può essere libertà d’espressione.

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Fatto questo breve quadro sinottico sul diritto costituzionale vigente, sento il dovere (più intellettuale che morale) di contestare alle sentinelle in piedi anche la pretesa (infondata) di spacciare per scientifica e legittima la paura e l’odio che nutrono verso gay, lesbiche e transgender. Dal Rapporto Kinsey in poi, la scienza ha, peraltro, dimostrato che l’omoaffettività non è una patologia e dal 17 maggio 1990 l’omosessualità è stata depennata dal manuale diagnostico e statistico delle malattie mentali e le ricerche più recenti dimostrano come le famiglie omogenitoriali non rappresentino un rischio né per il bambino né per la società civile. Mi chiedo se i libri che le sentinelle portano in piazza rechino queste notizie o se preferiscano la più rassicurante censura…

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In verità, nonostante le sentinelle in piedi si professino pacifiche, ciò che rivendicano è il diritto di discriminare ed opprimere, invocando la negazione delle libertà per tante donne e tanti uomini che considerano ‘diversi’ solo perché assolutizzano un modello di ‘normalità’ che sentono di incarnare e che la società propone come tale. (Chi è patologico?) La loro opinione altro non è che un insulto ai diritti umani. Protestare contro l’introduzione del reato di omofobia e ridurre in questo modo a mera opinione ciò che ha condotto e conduce a tanti episodi di violenza, a tanti casi di suicidio, alle quotidiane aggressioni, agli episodi di bullismo ai danni di fragili ragazzi gay, fino alla violenza psicologica e verbale che in Italia si manifesta anche nelle dichiarazioni pubbliche di ministri come Alfano e in eurodeputati come Buonanno, significa disprezzare il valore assoluto che ogni essere umano, unico ed irripetibile, porta con sé. Significa non avere alcun rispetto proprio della ‘vita’.

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E se i nostri rappresentanti in Parlamento non saranno in grado di tutelare i propri cittadini, sarà compito dell’Unione Europea offrire una tutela all’Italia LGBT. L’Europa non ci chiede solo il pareggio di bilancio.

“Il Parlamento europeo […] ribadisce il suo invito a tutti gli Stati membri a proporre leggi che superino le discriminazioni subite da coppie dello stesso sesso e chiede alla Commissione di presentare proposte per garantire che il principio del riconoscimento reciproco sia applicato anche in questo settore al fine di garantire la libertà di circolazione per tutte le persone nell’Unione europea senza discriminazioni.”
(Risoluzione del Parlamento europeo del 26 aprile 2007 sull’omofobia in Europa, art 8).

“Il Parlamento europeo […] condanna i commenti discriminatori formulati da dirigenti politici e religiosi nei confronti degli omosessuali, in quanto alimentano l’odio e la violenza, anche se ritirati in un secondo tempo, e chiede alle gerarchie delle rispettive organizzazioni di condannarli.”
(Risoluzione del Parlamento europeo del 26 aprile 2007 sull’omofobia in Europa, art 10).

O sarà, forse, la Comunità Internazionale ad imporre all’Italia un comportamento civile? L’Articolo 2 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, ratificata dall’Italia con L. n. 848/55, contiene, infatti, due indicazioni relative alla non discriminazione in genere:

“Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del Paese o del territorio cui una persona appartiene, sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi limitazione di sovranità.”

Il successivo articolo 7 proibisce, poi, ogni forma di discriminazione:

“Tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad una eguale tutela da parte della legge. Tutti hanno diritto ad una eguale tutela contro ogni discriminazione che violi la presente Dichiarazione come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione.”

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No, decisamente l’omofobia non è una di quelle opinioni che le sentinelle possano liberamente manifestare.

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SE L’OMOFOBIA È PIÙ FORTE DELL’AMORE.

Capita a volte di leggere racconti di coming-out toccanti, storie di accettazione e di amore incondizionato. Altre volte questi racconti assumono sfumature tragiche e la storia che leggiamo parla di abbandoni e separazioni. Quello di cui mi accingo a parlarvi è il resoconto traumatico e doloroso di un rifiuto.

di Andrea Serpieri

Provare a spiegare a un eterosessuale come si senta un figlio gay prima di uscire allo scoperto con i suoi non è facile. Ancora più difficile – impossibile?- è tentare di farlo capire a quei tanti italiani che pensano che un diverso orientamento sessuale sia una scelta e che non vada quindi sbandierato, a quelli che credono che esista una cura per guarirne, a quelli per cui va bene a patto che chi è così non si faccia vedere in giro, a quelli che ritengono che l’istinto sessuale vada represso, a quelli che credono in Madre Natura e ai peggiori di tutti, quelli che confidano nel castigo eterno per chi sia dedito alla sodomia. Queste storie servono a loro, perché comprendano che un omosessuale non è un mostro, ma un essere umano. Queste storie non servono a fare propaganda in favore delle lobby gay, finanziate dai poteri forti. Supportare i diritti dei gay non è un atteggiamento da radical chic, ma da persona civile. Sui social network ho ultimamente letto le peggiori bestialità sui gay, alcune delle quali ho appena elencato. La peggiore, però, è quella per cui ci sarebbero problemi più importanti in Italia. Non è vero. La questione degli omosessuali in questo Paese è importante quanto la crisi economica. Perché se i gay pagano le tasse come gli altri cittadini, allora devono avere gli stessi diritti civili. Invece non è così, perché sono gay. Dunque, o parliamo solo delle cose importanti per le famiglie italiane e non facciamo più pagare le tasse ai gay, o il loro problema diventa un problema importante per tutta la nazione. Anche per i cattolici e i fascisti. È per questo che spero che il racconto che state per leggere raggiunga il maggior numero di persone: affinché dall’altra parte si intuisca, per lo meno, una parte della sofferenza che c’è nell’essere considerato dalla società un diverso. E nel sentirsi rifiutato per qualcosa che non si è scelto. Questa è la storia di Daniel.

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Daniel Ashley Pierce è un giovane ventenne della Georgia, che mercoledì scorso ha deciso di uscire allo scoperto con i suoi. Conoscendo la sua famiglia, temeva di subire delle violente ripercussioni a causa della sua rivelazione, così si è preventivamente organizzato per filmare di nascosto la tragedia. A quel punto sono iniziate le riprese del video che tutti voi potete visualizzare su YouTube a questo link.

In una mail inviata ad Huffington Post Usa, Daniel rivela, “Ho voluto assicurarmi che ci fossero prove nel caso in cui fosse accaduto qualcosa.”

Il video di Daniel è subito diventato virale. Nei suoi cinque minuti non si concentra mai sul volto dei suoi familiari, di cui, però, è possibile ascoltare la voce mentre lo aggrediscono dicendogli che la sessualità è una scelta.

“Io credo nella parola di Dio e Dio non crea nessuno in quel modo. È un percorso che si è scelto.” Dice una donna nella stanza, presumibilmente la nonna. E continua avvertendo il giovane che se sceglierà quel percorso la famiglia non lo supporterà più. Dovrà andarsene. Perché lei non può permettere alla gente di credere che giustifichi ciò che fa il nipote.

“Sei pieno di stronzate!”, dice la madre. Lui le chiede di lasciarlo restare a casa, lei si rifiuta. “Mi hai detto al telefono che non hai fatto questa scelta. Sai che non è iniziata così. Sai dannatamente bene che l’hai scelto.” Rincara la dose, poi, sostenendo che il padre ha fatto tutto il possibile per aiutarlo. L’uomo non ha nulla di cui rimproverarsi.

A questo punto, i due giungono alle mani. Anzi, è lei che picchia violentemente il figlio. L’obiettivo inizia a muoversi e si sente Daniel urlare alla donna di smettere di colpirlo. Allora un uomo, il padre, grida: “Sei un maledetto frocio!” e, alla fine del video, qualcuno apostrofa ulteriormente Daniel, definendolo ‘una vergogna’.

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Daniel, ormai fuori di casa, decide allora di sfogarsi su Facebook:
Che giornata…Pensavo che svegliarsi alle 9:48 ed arrivare al lavoro con 15 minuti di ritardo sarebbe stato il problema più grande di oggi. Ignoravo, invece, che il mio problema più grande sarebbe stato quello di essere rinnegato per sempre e cacciato dalla casa in cui ho vissuto per quasi vent’anni. E oltre al danno la beffa: mamma mi ha preso a pugni in faccia più volte, incitata da mia nonna. Sono ancora sotto shock e completamente incredulo.

La loro reazione, ha spiegato il ragazzo all’Huffngton, era prevedibile: sono molto credenti e conosceva la loro opinione sui gay. Dopo l’incidente, questa devota famiglia non ha contattato i media per dare la propria versione dei fatti, ma ha lasciato un messaggio vocale a Daniel, intimandogli di rimuovere il video dell’incidente da YouTube. Il ragazzo, peraltro, non ha denunciato l’aggressione alle forze dell’ordine. Ma il filmato, originariamente postato dal compagno di Daniel sulla community Reddit e subito rimbalzato sul sito LGBT del Nuovo Movimento dei Diritti Civili, non solo è ancora on line, ma ha, altresì, ottenuto più di 3.874.000 visualizzazioni ed oltre 31.000 commenti. La veridicità del video è stata confermata dallo zio del ragazzo, Teri Cooper, ad Advocate.com. È stata, altresì, lanciata, ad opera del suo ragazzo, una campagna GoFundMe per raccogliere i fondi necessari a coprire le spese di Daniel. In soli tre giorni, dal 27 agosto ad oggi, sono già stati raccolti circa 94.000 $, ma nemmeno un centesimo – temo – potrà compensare la perdita degli affetti familiari per questo ragazzo appena rimasto ‘orfano’.

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L’audio del video e l’impeto delle urla che ascoltiamo parlano da sé. Ho cercato di fornirvi un resoconto breve, ma il più possibile fedele, tralasciando la disputa tra nonna e nipote su verità scientifiche e dogmi religiosi. Guardatelo, non occorre conoscere la lingua per capire che qualcosa di sbagliato deve esserci nei familiari di Daniel. L’unica cosa contro natura che traspare è proprio l’aggressione di un figlio da parte di un genitore e solo perché questo figlio non è come lo si vorrebbe. Forse è vero che certe famiglie meritano soltanto menzogna. Perché far conoscere loro la nostra più intima verità significa munirli di una potente arma per distruggerci. E ciò che ci resta dopo la visione del filmato è solo tanta tristezza.

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IN BOCCA AL LUPO, DANIEL!

VIDEO: How not to react when your child tells you that he’s gay.

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AGGREDITA CON ACIDO LA CO-PRESIDENTE DELL’EUROGRUPPO LGBT.

Sabato scorso, la deputata verde al Parlamento Europeo Ulrike Lunacek, militante e sostenitrice dei diritti della comunità LGBT europea, è stata vittima di un’aggressione con acido, che solo fortuitamente non ha avuto conseguenze drammatiche. L’episodio si è verificato durante il Vienna Pride. A rivelarlo è il sito dell’eurogruppo di cui la Lunacek è co-presidente, The Intergroup on LGBT Rights.

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Il vicepresidente dell’Intergroup on LGBT Rights, l’olandese Sophia in ‘t Veld, ha dichiarato di essere rimasta scioccata e disgustata da questo attacco. “Vorrei che questi episodi fossero ormai legati al passato, invece ancora nel corso dell’ultimo anno un gay su quattro è stato aggredito o minacciato da gruppi omofobi, come rilevato da un’inchiesta condotta dall’Agenzia UE per i Diritti fondamentali.”

“Dobbiamo prendere quest’episodio come un segnale grave: gli omofobi sono pronti a fare qualsiasi cosa, ad arrivare perfino ad attacchi diretti, come la violenza personale, pur di imporre le proprie opinioni. I leader politici e religiosi devono mostrare più responsabilità, e parlare con forza contro l’odio omofobico e la violenza di genere, piuttosto che accettarlo tacitamente o addirittura supportarlo.”

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Messaggi di solidarietà sono arrivati anche dagli esponenti di Green Italia Verdi Europei. “Questo ennesimo episodio di razzismo omofobo rende ancora più urgente mettere la lotta all’omofobia nell’agenda delle priorità dell’Europa. L’obiettivo è tanto più importante per l’Italia, uno dei Paesi con la legislazione più arretrata su questo tema. Per questo ci auguriamo che il Parlamento decida finalmente di occuparsi del problema, approvando rapidamente la legge sull’omofobia e sciogliendo anche il nodo delle unione civili tra omosessuali”. Così dichiarano Monica Frassoni, co-presidente del Partito Verde Europeo, e Roberto Della Seta, di Green Italia Verdi Europei.

“È inaccettabile – aggiungono – che il veto di pochi politici della maggioranza tenga il nostro Paese in questo stato di vistosa arretratezza in una materia così decisiva: in Parlamento c’è una larga maggioranza favorevole a norme chiare, che riconoscano i diritti delle persone omosessuali, bisessuali e trans gender. È ora il momento di farla valere.”

A.S.
REDAZIONE
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IL CASO DELLA DRAG QUEEN LICENZIATA.

Ricordate il caso ‘Lady Limoncella’, la drag queen del teramano che circa quattro anni fa fu licenziata dopo aver partecipato ad uno show serale di un locale omosessuale del litorale abruzzese? Lei sosteneva che si fosse trattato di un caso di discriminazione. Ma il suo ex datore di lavoro aveva smentito sostenendo che si trattasse, piuttosto, di licenziamento per giusta causa, legittimo poiché la drag, in quel periodo, risultava assente per malattia. Ebbene, il Tribunale di Teramo ha prodotto la sentenza di primo grado. Vediamo cos’ha stabilito il giudice.

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di Andrea Serpieri

Licenziamento per giusta causa. È questo il verdetto relativo al caso ‘Lady Limoncella’, al secolo Giuseppe Starace, secondo il giudice del lavoro Maria Rosaria Pietropaolo. Tuttavia, seppur legittimo, il magistrato non ha esitato a definire le modalità con cui il licenziamento è stato comunicato ed attuato discriminatorie e perciò lesive della dignità umana. La sentenza si è basata principalmente sulla normativa e sulla giurisprudenza comunitarie in materia di diritto antidiscriminatorio e antivessatorio. Il giudice ha ritenuto «che tali fatti al di là della loro incidenza sulla persistenza del rapporto di lavoro abbiano comunque rilevanza sul piano di tutela dell’integrità fisica e psichica del lavoratore dipendente, nonché del rispetto del generale obbligo del neminem laedere, con particolare riferimento al diritto all’intangibilità della sfera personale e alla libertà di esprimere la propria personalità in contesti estranei al luogo di lavoro».
Sostiene, dunque, il magistrato che Starace abbia sbagliato ad esibirsi durante un periodo in cui era assente dal lavoro per motivi di malattia «perchè ha, di fatto, pregiudicato e, comunque, ritardato la guarigione e il rientro in servizio, in aperta violazione degli obblighi preparatori e strumentali rispetto alla corretta esecuzione del contratto. La partecipazione del ricorrente allo spettacolo integra grave violazione dei doveri generali di buona fede e correttezza e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà». E quindi il licenziamento è da ritenersi legittimo «in quanto proporzionato all’illecito disciplinare commesso». Ciononostante, nella sentenza si sottolinea come «le modalità con cui la società è pervenuta a tale risultato» siano «censurabili, in quanto il comportamento di fatto tenuto dalla società e, comunque, ad essa riferibile evidenzia un atteggiamento non rispettoso della dignità del lavoro in quanto incentrato sulla valorizzazione di aspetti attinenti alle abitudini e al modo di essere di ogni persona, estranei al rapporto di lavoro». Per tale ordine di ragioni, il giudice ha disposto un risarcimento danni di 8 mila euro e annullato le lettere di dimissioni presentate da Starace in quanto prodotte «in un stato di ridotta capacità di discernimento e volizione sul quale hanno indubbiamente inciso i discorsi che hanno accompagnato la lettera di contestazione. Il timore del ricorrente che tale vicenda potesse giungere a conoscenza della madre dimostra, implicitamente, che i responsabili dell’azienda hanno fatto leva sull’unico aspetto che avrebbe potuto creare, secondo la morale corrente, un qualche imbarazzo o discredito sulla persona del ricorrente, vale a dire quello relativo all’esibizione tenuta in qualità di drag queen». E inoltre: «L’atteggiamento di censura disciplinare, nella specie oggettivamente connotato da subdoli pregiudizi moralistici o, comunque, non corretto da parte dell’azienda si palesa anche nel tenore letterale della comunicazione di licenziamento, nella quale risulta del tutto gratuito il riferimento a concetti estranei al rapporto di lavoro, quale quello dell’etica morale e del costume, evidentemente riferito alle tendenze personali del ricorrente rilevanti esclusivamente nella sfera del privato».
Ora il caso passerà alla Corte d’Appello, a cui l’avvocato Sigmar Frattarelli, difensore di Starace, ha fatto ricorso per ottenere il reintegro.

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ROMA PRIDE 2014: CI VEDIAMO FUORI!

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“Guardateci bene. Guardateci il viso. Non è quello di chi chiede qualcosa, ma di chi sa cosa ci spetta di diritto. Non il viso di chi è stanco di lottare, ma quello di chi non si fermerà finché la storia non ci avrà dato ragione. Perché lo farà, di questo siamo certi. Perché la storia noi la facciamo tutti i giorni: in famiglia, a scuola, sul lavoro, in piazza. La facciamo sfidando i pregiudizi con l’intelligenza, la gioia, il coraggio. L’amore. Così sappiamo che arriverà un giorno in cui ogni diversità non sarà tollerata, ma celebrata. Ogni genere rispettato, ogni famiglia protetta, ogni individuo tutelato. E quel giorno no, non sarà solo bello poter dire “noi c’eravamo, ci siamo sempre stati”. Sarà molto di più. Sarà giusto. E sarà un vero orgoglio: il nostro”.

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È questo l’appello che si legge sulla pagina Facebook del Roma Pride.

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Siamo alla vigilia della Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia, che si celebrerà come tutti gli anni domani 17 maggio 2014 in tutto il mondo, nel giorno in cui cade la ricorrenza della rimozione dell’omosessualità dalla lista delle malattie mentali nella classificazione internazionale delle malattie pubblicata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, avvenuta nel 1990. Soltanto 24 anni fa.

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Intanto a Roma, proprio in queste ore, è partita la campagna per la giornata dell’orgoglio LGBT, in programma il prossimo 7 giugno.
‘Ditelo con un fiore…’ recitava un vecchio slogan. Adesso, basta! Te lo dico urlando, a muso duro e senza paura. So quali sono i miei diritti e so che tu sei solo un razzista.

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CI VEDIAMO FUORI! È così che urla lo slogan ideato dai ragazzi di CondividiLove, con 100 volti appartenenti alla comunità LGBT, tutti segnati dal ‘war painting’ arcobaleno. Cento volti volti arrabbiati, fieri e coraggiosi che guardano diretti gli occhi dei loro interlocutori e li chiamano a raccolta, per un impegno concreto e un’azione comune.

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Era il giugno del 1994 quando a Roma sfilò il primo corteo italiano del Gay Pride. Il 7 giugno 2014 la comunità LGBT si ritroverà ancora una volta FUORI, per le strade di Roma, per celebrare i suoi 20 anni di storia appena trascorsi e iniziare a scrivere il prossimo futuro. Perché dopo 20 anni di Pride, la battaglia contro i pregiudizi è ancora più che attuale e stavolta la battaglia non riguarderà solo i ‘diversi’, ma tutta la società italiana. Perché non c’è il diverso, ci sono soltanto esseri umani.

Andrea Serpieri

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UNA BRUTTA STORIA DI POLITICA E TRANSFOBIA.

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di Andrea Serpieri

Fino a quando (e fino a che punto) la più becera politica italiana dovrà somministrarci altri episodi di intolleranza, di cui, francamente, faremmo volentieri a meno? Questa è la storia di Laura Matrone, una splendida quarantenne, operatrice sociale, attualmente in lizza per le elezioni a Castel Volturno, provincia di Caserta, con il candidato sindaco PD Dimitri Russo. Russo si presenta con cinque donne nella lista civica “Cento volti per la svolta” e sei donne nel PD. Ma per qualcuno le donne sono di meno, perché Laura è nata uomo e pertanto non sarebbe “donna abbastanza” da soddisfare le quote rosa. Insomma, Laura non sarebbe una “vera” donna! A rivelare questa ‘verità nascosta’ all’elettorato di Castel Volturno è stato il candidato sindaco per Forza Italia (il partito delle libertà) Cesare Diana, il quale sostiene che la candidatura di Laura violi le norme sulla parità e quindi le liste di Russo andrebbero escluse dalla competizione politica.
In realtà, non c’è alcuno scoop, perché Laura non nasconde a nessuno il suo passato e soprattutto perché giuridicamente Laura Matrone è una donna “vera”, uso questo aggettivo per farmi comprendere anche da quelle persone che proprio non riescono a vedere il mondo in modo più fluido delle definizioni che usano: gay, etero, maschio, femmina…è così importante? È importante sapere se una trans abbia subito un’operazione o meno? A parte il fatto, poi, che sarebbero affari suoi, anche quando si mette in politica, perché l’essere stata uomo incide sulla sua condotta morale solo per le menti più bigotte. E ipocrite.

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In ogni caso, la candidata del PD non c’è stata a questo linciaggio pubblico e su La Repubblica, rivolgendosi all’avversario forzista, precisa: “L’hanno informato male. Sono una donna a tutti gli effetti dal 2002”.
Nell’intervista Laura Matrone si racconta, descrive i punti del suo gruppo in vista delle prossime elezioni e, sull’episodio di transfobia di cui è stata vittima, dice: “Volevano tentare di far ricusare la lista per mancanza di quote femminili, poi si sono accorti in tempo dell’errore e hanno desistito”.
“Sono Laura, sono una persona. Non c’è bisogno di mettere continuamente un timbro dietro le spalle per dire chi ero. Sono una persona. Con una faccia, con due gambe, due braccia. Mi sono sposata e separata legalmente. Sono una donna normalissima che non ha mai avuto nessuna difficoltà di inserimento nella vita sociale. Ho insegnato arti marziali alla Nato. Sono stata due volte campionessa mondiale di taekwondo e undici volte campionessa europea. Ma dal 1990 faccio spettacolo, mi occupo di canto, teatro, televisione, di pubbliche relazioni”.
Sulla sua vicenda personale che l’ha portata ad essere la donna bellissima che è oggi, riferisce: “Sono originaria di Napoli, ma vivo a Castel Volturno da quando avevo 14 anni. Nel 2002 mi sono operata e ho cambiato i connotati all’anagrafe. Ho fatto il primo intervento per cambiare sesso a Napoli tramite l’Asl, gratuitamente. Lo consente una legge del 1984. La mia famiglia all’inizio è stata un po’ titubante. I miei genitori all’inizio non capivano. Appartengono ad un’altra generazione. Però poi i miei familiari me li sono ritrovati sempre al mio fianco, specie mia sorella, mio fratello e i miei nipoti”.

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A questo punto, io mi chiedo: ma se per esempio Laura non fosse stata operata – o avesse deciso di non farlo proprio – non sarebbe stato, comunque, etico considerarla una donna a tutti gli effetti? In fondo, lei è così che si sentiva, anche prima dell’operazione. Eppure, lo Stato italiano, che nella Costituzione riconosce i diritti e l’uguaglianza di tutti e si impegna a rimuovere gli ostacoli che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese, con la L. 164/82 ha stabilito che si possa chiedere il cambio di sesso all’anagrafe solo dopo la riassegnazione genitale. Forse sarebbe il caso di cambiare questa norma, giusto per riconoscere il terzo sesso anche qui? Che piaccia o no, esiste e non può essere semplicemente negato sulla carta, per continuare a far finta che non ci sia. Cosa che, peraltro, certi benpensanti potrebbero fare tranquillamente, se magari smettessero di interessarsi delle altrui preferenze sessuali e ci lasciassero vivere in pace. Gay, etero, uomini, donne o qualunque cosa vogliate essere. Siatelo! La nostra felicità è un diritto non scritto che per natura preesiste alle norme di diritto positivo.

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L’INDIA RICONOSCE IL «TERZO SESSO».

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di Andrea Serpieri

Con una sentenza rivoluzionaria, la Corte Suprema indiana ha riconosciuto lo scorso 14 aprile il diritto dei transessuali di essere considerati come «terzo sesso» e di godere degli stessi diritti degli altri cittadini sanciti dalla Costituzione.

Un ver­detto dalla por­tata sto­rica. Riconoscendo, infatti, alla comunità tran­sgen­der indiana lo sta­tus di «terzo genere ses­suale» davanti alla legge, la Corte ha effettuato una decisa presa di posi­zione desti­nata a modificare le abominevoli con­di­zioni di vita di tutti i trans del Paese, finora costretti a con­durre esi­stenze ai mar­gini della società e dell’umana dignità, vit­time di vio­lenze e discri­mi­na­zione, borderline sempre, in ogni aspetto della vita quotidiana. Quest’ostracismo era conseguenza di una legge del 1871, risalente al periodo coloniale, che li considerava come “criminali”.

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La sezione della mas­sima Corte indiana, però, ha ora sta­bi­lito che i transessuali debbano poter godere dei mede­simi diritti garan­titi dalla Costi­tu­zione al resto della popo­la­zione e saranno con­si­de­rati come una delle Other Bac­k­ward Class (Obc), ossia uno di quei gruppi sociali che godono di misure gover­na­tive ad hoc in ambito lavo­ra­tivo e sco­la­stico.
Accogliendo un ricorso collettivo presentato due anni fa, i giudici hanno affermato che «è diritto di ogni essere umano scegliere il proprio genere sessuale». I transessuali, o “Hijra” come sono chiamati in hindi, saranno, pertanto, liberi di identificarsi in una terza categoria che non è né quella di maschio né femmina. Con questo verdetto, l’India diventa uno dei pochi Paesi al mondo a prevedere il «terzo genere». A distanza di pochi giorni dall’omologo riconoscimento avvenuto anche nel sistema giuridico australiano.

Si stima che in India ci siano dai 3 ai 5 milioni di “Hijra”, un’ampia categoria che comprende dai travestiti ai castrati, brutale pratica che ancora sopravvive. Molti di loro sono costretti a prostituirsi o a vivere delle elemosine raccolte durante feste di matrimonio e varie celebrazioni, in cui sono considerati di buon auspicio.

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«Rico­no­scere ai tran­sgen­der lo sta­tus di terzo genere ses­suale non è una que­stione medica o sociale, ma ha a che fare coi diritti umani» ha dichia­rato il giu­dice KS Rad­ha­kri­sh­nan al momento del ver­detto, spe­ci­fi­cando che «anche i tran­sgen­der sono cit­ta­dini indiani ed è neces­sa­rio garan­tire loro le mede­sime oppor­tu­nità di cre­scita». Le con­se­guenze della sen­tenza, che invita il Governo cen­trale e quelli locali ad ade­guarsi alla novità, si riper­cuo­te­ranno su una serie di aspetti della vita di tutti i giorni: l’opzione «tran­sgen­der» sarà inse­rita nei moduli da com­pilare per i docu­menti d’identità, saranno creati bagni pub­blici a loro riservati e la con­di­zione di “Hijra” verrà tute­lata nelle strut­ture ospe­da­liere nazio­nali con reparti appo­siti, esclu­dendo l’obbligo di sce­gliere tra uno dei due sessi per poter acce­dere alle cure medi­che. Inol­tre, in virtù dell’appartenenza alle Obc, il governo dovrà stan­ziare un deter­mi­nato numero di posti ad hoc nei luo­ghi d’impiego sta­tali, nelle scuole pri­ma­rie e nelle uni­ver­sità, secondo il sistema delle cd. ‘reser­va­tions’, ovvero delle quote riservate dal Governo alle Obc, considerate una sorta di ‘categoria protetta’.

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La sentenza rianima la speranza della battaglia della comunità Lgbt (lesbiche, gay, bisessuali e transessuali) indiana, diretta ad ottenere l’abolizione dell’odioso vecchio ed obsoleto articolo 377 del Codice Penale che vieta il ‘sesso contro natura’ come la sodomia e la fellatio. Rovesciando, infatti, una precedente decisione di una corte inferiore del 2009, lo scorso dicembre la Corte Suprema aveva reintrodotto la disposizione in base alla quale i rapporti tra omosessuali sono illegali. A inizio mese, tuttavia, la stessa Corte ha accet­tato di con­si­de­rare una «sen­tenza ripa­ra­trice» e oggi, con questa sentenza, si spera in un prossimo passo in difesa dei diritti umani nel Paese, di un’evoluzione delle politiche di genere, in accordo con i principi di tolleranza e rispetto. La speranza è, quindi, quella di una futura conquista dei pieni diritti civili da parte della comunità indiana gay lesbo e trans.

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PAPA FRANCESCO? SOLO MARKETING, MA È SEMPRE LA VECCHIA CHIESA.

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di Andrea Serpieri

“Gli orrori della manipolazione educativa che abbiamo vissuto nelle grandi dittature genocide del secolo XX non sono spariti.” Questo è quanto ha ricordato il Papa nell’udienza ai delegati dell’Ufficio Internazionale Cattolico dell’Infanzia, voluto da Pio XII in difesa dell’infanzia, all’indomani del II conflitto mondiale.
Per chi aveva voluto vedere nella figura di Francesco un nuovo Papa buono aperto alla modernità, l’udienza della scorsa settimana si è rivelata una grande delusione. Adesso è finalmente evidente a tutti gli italiani ciò che alla popolazione omosessuale del resto del mondo non era sfuggito: ossia, che la precedente apertura ai gay era stata soltanto il frutto di un’interpretazione superficiale, quando non anche sviata appositamente per ragioni legate piuttosto al rilancio dell’oscura immagine di Santa Romana Chiesa. Un’operazione di marketing, in altre parole. Bergoglio, infatti, aveva solo teso una mano ai fratelli che si sono persi per aiutarli a ritrovarsi nel popolo di Dio. Tradotto: gli omosessuali hanno peccato, ma chi sono io per non perdonarli e riaccoglierli (se ravveduti) nella casa del Signore?

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Chi si era illuso in una nuova era del cattolicesimo dovrà definitivamente ricredersi, perché Bergoglio non solo ha tenuto a precisare con chiarezza che le coppie gay non costituiscono una famiglia, ma ha anche bocciato nettamente le iniziative contro l’omofobia nelle scuole. Peraltro, facendo sue le stesse parole tanto di moda tra alcuni gruppi omofobi di espressione cattolica. E con tanto di accusa di nazifascismo e dittatura del pensiero unico! Proprio come usano certi movimenti costituitisi contro il DDL Scalfarotto, come, per esempio, fa il movimento denominato ‘Sentinelle in Piedi’.
Il Papa dovrebbe, però, ricordare che tra le vittime delle dittature del XX secolo ci sono stati anche i gay e che l’accusa di voler imporre a tutti i costi le proprie opinioni è semplicemente ridicola. Qui si parla di diritti civili, non di opinioni. E quanto all’imposizione di un credo, farebbe meglio a ripassare il capitolo di storia sulle crociate contro gli eretici.

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Ad ogni buon conto, vi riportiamo le sue parole:
“Occorre ribadire il diritto dei bambini a crescere in una famiglia, con un papà e una mamma capaci di creare un ambiente idoneo al suo sviluppo e alla sua maturazione affettiva. Ciò comporta al tempo stesso sostenere il diritto dei genitori all’educazione morale e religiosa dei propri figli. E a questo proposito vorrei manifestare il mio rifiuto per ogni tipo di sperimentazione educativa con i bambini. Con i bambini e i giovani non si può sperimentare. Gli orrori della manipolazione educativa che abbiamo vissuto nelle grandi dittature genocide del secolo XX non sono spariti; conservano la loro attualità sotto vesti diverse e proposte che, con pretesa di modernità, spingono i bambini e i giovani a camminare sulla strada dittatoriale del pensiero unico”.
Ma l’attacco del Papa buono non si è limitato solo agli omosessuali. Bergoglio ha anche lanciato i suoi solenni strali contro la Corte Costituzionale, dopo la recente sentenza di incostituzionalità che ha investito il divieto alla fecondazione eterologa previsto dalla legge 40/04. Un’altra grave ingerenza del Vaticano negli affari di uno Stato (teoricamente) laico, l’Italia. “Ferma opposizione a ogni diretto attentato alla vita, specialmente innocente e indifesa. Il nascituro nel seno materno è l’innocente per antonomasia”, è questo quanto ha dichiarato Francesco.
Altro che libero Stato in libera Chiesa! Purtroppo i Patti Lateranensi ci hanno lasciato questa pesante eredità. E se a causa della storica complicità della politica italiana, il capo della Santa Sede si permette ancora oggi una simile ingerenza negli affari interni della nostra Repubblica, ad avere un problema qui non sono solo i gay e le lesbiche, o le coppie sterili, ma tutti i cittadini italiani.

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Nel nome del plagio, colpevole di essere diverso. Il caso Braibanti.

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Si è spento lo scorso 6 aprile, a 91 anni, Aldo Braibanti, artista, poeta e scrittore piacentino. Negli anni ’60 divenne famoso per l’accusa di plagio rivoltagli dai familiari di Giovanni Sanfratello, compagno di Braibanti che da Piacenza lo aveva seguito, quando questi si era trasferito a Roma.
Secondo il padre del ragazzo, Braibanti aveva “sottomesso” alla sua volontà il giovane figlio, plagiandolo e imponendogli il suo stile di vita. Braibanti fu quindi condannato per plagio, reato previsto dal codice Rocco, rimasto in vigore fino al 1981 quando il Giudice delle Leggi ne dichiarò l’incostituzionalità. “Il giovane Sanfratello – dichiarò il P.M. durante il processo – era un malato, e la sua malattia aveva un nome. “Aldo Braibanti! Quando appare lui tutto è buio”. Il “caso Braibanti” è stato il primo e unico di condanna per plagio. Ma il reato che si voleva, in realtà, ascrivere a carico di Braibanti era la sua omosessualità. Il caso Braibanti costituisce, ancora oggi, una delle vicende giudiziarie più oscure ed infamanti della nostra storia.

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Braibanti era diverso. Intellettuale avanguardista, così diverso dagli artisti dell’epoca. Diverso politicamente, né a sinistra, né a centro né con la destra reazionaria. Dalla rubrica “Il Caos” di una copia del 1968 del quotidiano “Il Tempo”, Pasolini rilevava come quello di Braibanti fosse un caso di intellettuale che aveva rifiutato precocemente l’autorità che gli sarebbe provenuta dall’essere uno scrittore dell’egemonia culturale comunista, ma che poi aveva altresì rifiutato l’autorità di uno scrittore creato dall’industria culturale. Nel medesimo articolo, si legge che il suo delitto fu quello di assecondare la sua debolezza. Ma questa debolezza egli se l’era scelta e voluta, rifiutando qualsiasi forma di autorità: autorità, che, come autore, in qualche modo, gli sarebbe venuta naturalmente, a patto che egli avesse accettato, anche in misura minima, una qualsiasi idea comune di intellettuale: o quella comunista o quella borghese o quella cattolica, o quella, semplicemente, letteraria. E questa debolezza era conseguenza della sua solitudine. Una debolezza scontata che egli pagò con l’accusa, pretestuale, di plagio e la successiva condanna. Vero è che dalla sua debolezza gli derivava un’altra autorità: la sua. Autorità, dunque, più pericolosa di tutte, perché indipendente, autonoma, fuori dagli schemi e da qualunque categoria.

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Sì, Braibanti era diverso. Da tutti, anche come uomo. E quella che Pasolini chiamava “debolezza” al tempo in cui scriveva, era, invece, la sua forza. La stessa forza che apparteneva a Pasolini, in fondo. Quella diversità che ti spinge oltre il comune sentire, che ti consente di percepire la realtà e raccontarla con modulazioni tanto peculiari quanto estranee alla società di massa. Che ti rende inevitabilmente solo. Sempre. Comunque. E inevitabilmente diverso, per quanti sforzi tu possa fare.
La principale condanna di Braibanti, perciò, non è stata il carcere. Ma la solitudine cui è stato relegato dopo, l’isolamento intellettuale che l’ha accompagnato fino alla morte. L’emarginazione: la condanna che gli italiani piccolo-borghesi impongono alla diversità per sentirsi tranquilli, davanti a ogni forma di scandalo, se questo scandalo ha dietro una qualsiasi forma di opinione pubblica o di potere. Così avvertiva lo stesso Pasolini, perché essi riconoscono subito, in tale scandalo, una possibilità di istituzionalizzazione, e, con questa possibilità, essi fraternizzano. Del resto, quante volte sentiamo gente dichiarare la propria tolleranza verso i gay, purché non si facciano vedere?
E allora processo sia. E processo fu. All’omosessuale, nel nome del plagio. L’obiettivo era distruggere Braibanti per dimostrare al Paese quanto sbagliato fosse accettare la propria diversa identità sessuale.

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Anche il capo d’accusa rientrava nel tipico schema attraverso cui la cattolicissima società italiana condanna da anni una parte cospicua dei suoi cittadini. Veniva, infatti, invocato l’art. 603 c.p., il plagio, per censurare, invece, la condotta tenuta dalla coppia Braibanti-Sanfratello. Tant’è che mai, in nessun’occasione, l’Italia bigotta dell’epoca riuscì a rilevare che il processo fosse un’istruttoria contro l’omosessualità. I gay vanno condannati prima di tutto col silenzio. Ancora oggi. Nel nostro Paese, dove l’omosessualità non costituisce reato, il Legislatore continua a far finta che i gay non esistano, condannandoli all’isolamento, alla solitudine e a un silenzio rumoroso che, necessariamente, conduce alla negazione dei loro diritti positivi e naturali. In primis, quello di esistere come soggetti giuridici titolari degli stessi diritti civili degli altri cittadini. A Braibanti, infatti, non venne contestata la relazione con Sanfratello, non era giuridicamente possibile né socialmente accettabile. Gli venne, invece, contestato d’essere frustrato in quanto basso e ‘stortignaccolo’, d’essere un buono a nulla perché artista e, in quanto artista, corruttore d’anime. Tra i testimoni chiamati in aula ci furono i piacentini Piergiorgio e Marco Bellocchio, e il musicista Sylvano Bussotti. A quest’ultimo che la Corte ebbe a chiedere: “Lei è omosessuale?”. La domanda fece scalpore, poiché fu uno dei rari passaggi processuali in cui si accennò all’omosessualità. In un saggio intitolato “Il Processo Braibanti”, edito nel 2003 per i tipi dell’editore Silvio Zamorani, lo studioso Gabriele Ferluga rileva, appunto, come questo tema, all’epoca, fosse cassato con imbarazzo anche dall’intellettualità di sinistra che, pure, difendeva Braibanti. Uniche eccezioni, Pasolini, Moravia, Umberto Eco e Dacia Maraini, che del caso Braibanti fece un racconto, e i radicali.

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Cattolici nel DNA, noi italiani cresciamo tutti con lo spettro del peccato e della sua espiazione, perché ci insegnano da piccoli che è sbagliato assecondare le nostre pulsioni. Ma la realtà è che peccato sarebbe sprecare un’esistenza, non amare, vivere un inferno terreno per la promessa di un paradiso oltre la vita. Peccato è l’imposizione all’altro delle proprie ragioni e del proprio credo. Peccato è condannare un amore, bollandolo come diverso, innaturale, sporco. Criminale, perciò, non fu la relazione che Braibanti ebbe con Sanfratello, ma il processo che lo condannò. Ad essere sporche erano le anime di quelli che giudicarono la storia di Aldo e Giovanni.

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Allora mi chiedo: se la società moderna ha chiesto che la Chiesa dopo secoli di storia rivedesse le posizioni assunte ai tempi della Santa Inquisizione, non sarebbe etico pretendere dalla Repubblica Italiana un’ammissione di colpa, sia pur postuma, per questo processo farsa? Con Sent. n. 96/1981, la Corte Costituzionale ha ‘cancellato’ il plagio dall’ordinamento giuridico italiano. Braibanti non ottenne neppure la revisione del processo. A 33 anni da quella sentenza di incostituzionalità, malgrado il tentativo nel 2005 di alcuni esponenti di AN di reintrodurre questo delitto, unico nel quadro giuridico europeo, è necessaria una presa di coscienza collettiva. L’Italia non è diversa dalla Russia, solo più discreta. Ieri come oggi.
Bisogna, invece, restituire dignità alla memoria di Braibanti, per l’inferno subito a causa dell’imputazione di un reato che, nell’Italia democratica, è esistito solo per lui, che per quell’ingiustizia ha ottenuto solo un parziale riconoscimento, quando, nel 2006, il governo Prodi, viste le sue condizioni economiche, gli ha concesso il vitalizio della legge Bacchelli. Una revisione almeno morale di quel giudizio è un’azione necessaria per interrompere l’iniqua e vergognosa damnatio memoriae subita da lui e dalle sue opere. Nulla ripagherà ormai Aldo del carcere scontato e dell’onta subita, durante il dibattimento, dalla magistratura e dalla stampa. Ma il suo riscatto (dopo il suo sacrificio) servirebbe oggi alla società civile che lo ha condannato, a quella parte che ancora si ostina a non vedere, a non capire. L’educazione alla legalità di un popolo è innanzitutto una lezione di rispetto. Una lezione per orientare tutti gli italiani verso quella tolleranza che ispirò i Costituenti dello stesso Stato che distrusse la vita di Aldo Braibanti.

Andrea Serpieri per

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