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L’IMMOBILISMO DEL MERCATO DEL LAVORO A TUTELE CRESCENTI.

di Michele De Sanctis

In psicologia del lavoro, con l’espressione job hopping ci si riferisce letteralmente alla pratica di saltare da un lavoro all’altro. Non si tratta, invero, di un comportamento negativo, ma, anzi, negli ultimi tempi, fin dai primi anni dell’università, addirittura dagli ultimi anni del liceo, a noi giovani questa pratica è stata inculcata come se fosse l’aspetto più innovativo del futuro professionale a cui stavamo per affacciarci. Il cambiamento è sempre un fattore positivo, in primis per la propria crescita professionale e nel contempo rappresenta un buon modo per mantenere alta la passione verso il proprio lavoro. I cambiamenti, infatti, aiutano ad imparare ad essere pronti a nuove sfide e nuovi scenari. Questo è quello che ci è stato detto. Ci è stato detto che per essere competitivi, dovevamo essere più flessibili dei nostri genitori. E lo siamo stati. In alcun modo un curriculum magro sarebbe stato valutato positivamente durante il processo di recruitment di un’azienda.

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Sui nostri manuali di organizzazione del lavoro abbiamo scoperto che le persone che cambiano spesso lavoro garantiscono ottime performance, fino ad ottenere una posizione lavorativa migliore anche rispetto a coloro che da anni lavorano in uno stesso ambiente. Anzi, con l’avvento della crisi, ci hanno detto che le aziende non fossero affatto restie a questo tipo di lavoratori, dal momento che la prospettiva di una persona che puntava al posto fisso non affascinava per nulla le società che in questi anni hanno selezionato piuttosto personale efficace e competente, ma anche predisposto al cambiamento. Così ci hanno detto. Il rifiuto di adattarsi a quest’elasticità lavorativa era un po’ come dichiarare di essere choosy, o mammoni. O tutt’e due le cose. Ora che Babbo Natale ci ha portato il primi due decreti attuativi del Jobs Act, il Governo italiano ha assicurato che con questa rivoluzione copernicana del mercato del lavoro si avrà più dinamismo, più agilità…ancora più flessibilità. E ciò aiuterà l’innovazione delle aziende italiane, che, quindi, potranno finalmente essere competitive. Per cui d’ora in avanti prepariamoci ad essere dinamici, perché il posto fisso non esiste più. Io, però, ho qualche dubbio. Non sul fatto che il posto fisso non esista più, né sulla maggiore flessibilità del mercato del lavoro, quanto piuttosto sul suo dinamismo. Temo, infatti, un effetto di stagnazione riflessa del mercato dovuta proprio all’introduzione del contratto a tutele crescenti, soprattutto in quei settori, terziario in testa, dove la forza lavoro risulta altamente fungibile, quindi sostituibile.

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Se, infatti, con la nuova disciplina la sigla di un nuovo contratto comporterà la perdita delle garanzie acquisite con il vecchio, perché il nuovo è a tutele crescenti, cambiare lavoro d’ora in avanti sarà un po’ come ricominciare davvero da zero, sarà come accettare delle tutele decrescenti. Altro che crescita professionale: a chi converrà correre un rischio così alto, se non davvero costretto? Accettare nuove sfide, cambiare lavoro alla ricerca di nuovi stimoli, insomma tutti quei concetti di psicologia del lavoro finora appresi, comporteranno il rischio serio, attuale e concreto di diventare più licenziabili. Perché mentre chi lascia ricomincia daccapo, chi resterà dov’è adesso conserverà, invece, i suoi diritti. Diritti crescenti.

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Il rovescio della medaglia del contratto di lavoro a tutele crescenti sarà quindi quello di disincentivare gli italiani a cambiare lavoro. E questo non è un fattore positivo, né per il lavoratore né per le aziende. I manuali di organizzazione del lavoro che ci sono stati somministrati, infatti, non raccontavano favole. Ogni qualvolta che un dipendente cambia azienda, si innesca effettivamente quella pratica virtuosa che chiamiamo job hopping: chi cambia apprende nuove informazioni o aggiorna le pregresse e trasmette nel contempo ad altri il suo know how. Si ha, così, una crescita professionale concreta e un investimento innegabile in economia della conoscenza, senza cui non possono esserci innovazione e competitività. Inoltre, chi cambia lascia libero un posto di lavoro che occuperà magari un ex collega, il quale, avanzando nelle sue mansioni, apprenderà nuove informazioni, e che, a sua volta, lascerà disponibile la propria posizione, in cui, verosimilmente, subentrerà una persona, in genere più giovane, che apporterà in azienda ulteriore refresh complessivo e conseguente tramissione reciproca di competenze e nuova conoscenza. Insomma, l’eventuale paralisi del mercato del lavoro in seguito alla riforma appena varata potrebbe comportare la concreta interruzione di questo circolo virtuoso, già peraltro gravemente compromesso dalla crisi economica.

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Ora, siccome non si vive di solo stipendio, ma è lo stipendio a darci da mangiare – comunque sia – il lavoratore sarà costretto ad accantonare le proprie ambizioni e a difendere prioritariamente i propri diritti acquisiti, rinunciando pertanto alla mobilità e rassegnandosi, anzi, aggrappandosi alla sua scrivania, sotto cui converrà piuttosto fare le radici. Sarà, infatti, altamente difficile prendere certe decisioni, anche nel caso in cui il posto migliore venisse addirittura offerto dall’azienda concorrente a quella presso cui si è assunti e dove oggi si è lavoratori di serie A, rispetto ai neoassunti di serie B. Certo, è probabile che l’analisi di questo post sia parziale e forse troppo negativa e che magari non consideri tutti gli aspetti che sicuramente il Legislatore avrà valutato prima di introdurre le nuove regole: l’analisi di fattibilità delle leggi, in fondo, serve anche a questo. Ma quanti di voi oggi sarebbero disposti a fare un salto nel buio a queste condizioni?

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Pillole di Jobs Act. I casi in cui è opportuno motivare un’assunzione con contratto di lavoro a tempo determinato

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di Germano De Sanctis

 

La Legge n. 78/2014 (di conversione, con modificazioni, del D.L. n. 34/2014, il quale, come è noto, è uno dei due pilastri del Jobs Act) ha abolito l’obbligo generale ex art. 1, comma 1, D.Lgs. n. 368/2001 di precisare le ragioni di carattere tecnico, organizzativo, produttivo o sostitutivo per tutti i contratti di lavoro a tempo determinato.

Tuttavia, bisogna evidenziare che, in alcuni casi, permane l’opportunità di prevedere una motivazione per giustificare la decisione del datore di lavoro di procedere all’assunzione di un lavoratore con contratto di lavoro a tempo determinato.
Tale opportunità di motivazione risiede nel fatto che, in specifiche fattispecie, la normativa vigente riconosce in capo al datore di lavoro delle ben determinate agevolazioni come diretta conseguenza dell’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo determinato.

Innanzi tutto, la predetta opportunità è rinvenibile in tutti i contratti di lavoro a tempo determinato connessi alle attività c.d. “stagionali”. Infatti, per tali contratti, la motivazione permette di:

  • non computare il periodo di lavoro stagionale a tempo determinato nei 36 mesi complessivi di lavoro massimo ex art. 1, comma 1, D.Lgs. n. 368/2001 che possono intercorrere tra un datore di lavoro ed un lavoratore;
  • godere dell’esenzione dal limite massimo del 20% di lavoratori a tempo determinato rispetto alla forza lavoro complessiva ex art. 1, comma 1, D.Lgs. n. 368/2001 (cf., art. 10, comma 7, D.Lgs. n. 368/2001);
  • usufruire dell’esenzione dalle previsioni in materia di scadenza del termine e di successione dei contratti ex art. 5, D.Lgs. n. 368/2001, in virtù di espresse previsioni contenute nella contrattazione collettiva (come, ad esempio, quelle contenute nel CCNL Alimentari);
  • non pagare il contributo INPS maggiorato dell’1,4%.

Inoltre, sussiste l’opportunità di ricorrere alla motivazione in presenza di tutte quelle prescrizioni normative che consentono di non rispettare le regole del contratto a tempo determinato “classico” ex D.Lgs. n. 368/2001. Ad esempio, basti pensare ai casi del:

  • contratto di lavoro a tempo determinato intermittente (cfr., artt. 33 e 34, comma 2-bis, D.Lgs. n. 276/2003);
  • contratto di lavoro a tempo determinato in mobilità (cfr., art. 8, comma 2, Legge n. 223/1991).

Infine, vi è l’opportunità di motivare tutti i contratti di lavoro a tempo determinato stipulati per fini sostitutivi. In tali casi, la motivazione permette:

  • l’esenzione dal limite massimo del 20% di lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo determinato per ragioni di carattere sostitutivo rispetto alla forza lavoro complessiva ex art. 1, comma 1, D.Lgs. n. 368/2001, qualora ricorra l’ipotesi contenuta nell’art. 10, comma 7, D.Lgs. n. 368/2001;
  • il godimento dello sgravio contributivo del 50% sui contributi a carico del datore di lavoro ex art. 4, comma 3, D.Lgs. n. 151/2001, spettante alle imprese con meno di 20 dipendenti che assumono con contratto di lavoro a tempo determinato in sostituzione di lavoratrici assenti a seguito di maternità;
  • l’esenzione dal pagamento del contributo INPS maggiorato dell’1,4% per i mesi di attività.

 

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Il 43,3% dei giovani italiani è disoccupato

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di Germano De Sanctis

Gli ultimi dati ISTAT relativi al mercato del lavoro nei primi tre mesi del 2014 hanno suscitato un’enorme preoccupazione. Infatti, tre milioni e mezzo di italiani sono in cerca di un’occupazione, portando il tasso di disoccupazione alla cifra record del 12,6% (peraltro, invariato rispetto al mese precedente, ma in aumento dello 0,6% nei dodici mesi). Inoltre, se ci limita ad analizzare il tasso di disoccupazione tra i giovani di età compresa tra i 15 ed i 24 anni, quest’ultimo dato raggiunge la percentuale drammatica del 43,3% (tra l’altro, in aumento dello 0,4% rispetto al mese precedente e del 4,5% su base annua).

Si tratta di una sequenza di dati negativi sul mercato del lavoro che non si era più registrata fin dal lontano 1977. Tra l’altro, il dato statistico è aggravato dal fatto che esso rileva una ancor più profonda spaccatura dell’andamento del mercato del lavoro tra l’Italia Settentrionale ed il Mezzogiorno. Infatti, i primi dati disponibili (anche se non ancora non ancora depurati dai giorni di mancato lavoro) fanno emergere il fatto che, nel primo trimestre dell’anno, a fronte di un tasso medio nazionale di disoccupazione giovanile pari (come visto) al 43,3% (cioè 739.000 giovani tra 15 e 24 anni che cercano lavoro), tale dato, se riferito soltanto al Mezzogiorno, si eleva fino al 60,9%.
Bisogna anche evidenziare che dal calcolo del tasso di disoccupazione sono esclusi i giovani inattivi, cioè coloro che non sono occupati e non cercano lavoro, ad esempio, perché impegnati negli studi. Attualmente, il numero di giovani inattivi è pari a 4.405.000, in aumento dello 0,3% nel confronto congiunturale (+14.000) e dello 0,2% su base annua (+11.000).
In particolare, il tasso d’inattività dei giovani tra 15 e 24 anni risulta attestarsi alla percentuale record del 73,6%, segnando una crescita dello 0,3% nell’ultimo mese e dello 0,7% nei dodici mesi.

Inoltre, si deve anche evidenziare che, ad aprile 2014, sono risultati occupati soltanto 898.000 giovani tra i 15 e i 24 anni, evidenziando un calo dell’1,8% rispetto al mese precedente (-16.000) e del 9,2% su base annua (-91.000).
Di conseguenza, il tasso di occupazione giovanile si è attestato al 15,0%, diminuendo dello 0,3% rispetto al mese precedente e dell’1,4% nei dodici mesi.
Il numero di giovani disoccupati, pari a 685.000, è in diminuzione dello 0,2% nell’ultimo mese, ma in aumento del 6,3% rispetto a dodici mesi prima (+41.000).
L’incidenza dei giovani disoccupati tra 15 e 24 anni sul totale dei giovani della stessa classe di età è pari all’11,4%. Tale incidenza risulta invariata nell’ultimo mese ed in aumento dello 0,8% rispetto allo scorso anno.

Si tratta di cifre allarmanti, che hanno sollevato un coro di dichiarazioni preoccupate da parte di tutte le organizzazioni sindacali e datoriali, anche alla luce dei recenti dati sulla debole crescita del nostro sistema produttivo.

Tale quadro è ulteriormente aggravato da fatto che la percentuale record del 43,3% (la quale interessa l’intera platea dei giovani italiani di età compresa tra i 15 ed i 24 anni) si affianca e, soltanto in parte, racchiude al suo interno i circa 2.000.000 di scoraggiati (i quali, ormai, non cercano neanche di trovare un’occupazione) ed i circa 2.442.000 NEET (cioè, i giovani di età compresa tra i 15 ed i 29 anni che non studiano, non lavorano e non fanno formazione, il cui dato statistico è in in crescita del 4,8% cento rispetto allo scorso anno).
In altri termini, il nostro mercato del lavoro è fermo e sarà importante capire, dall’esame prossime rilevazioni statistiche, se il Jobs Act sarà in grado di produrre effetti positivi sui flussi occupazionali.

Il tasso di disoccupazione giovanile al 43,43% rimane ugualmente preoccupante anche se lo si paragona con quello analogo di altri Stati membri dell’Unione Europea che hanno problemi occupazionali analoghi. Infatti, sebbene il nostro dato sulla disoccupazione giovanile sia migliore di quello registrato in Croazia, Grecia e Spagna, al contempo, bisogna evidenziare che, in tali Paesi, la disoccupazione giovanile è in calo, mentre in Italia continua inesorabilmente a crescere.

L’Unione Europea non può ignorare questa situazione di profonda difficoltà di un’intera generazione che dovrebbe essere la culla della futura classe dirigente del Vecchio Continente ed, invece, si trova relegata ai margini del mercato del lavoro, senza poter costruire un percorso professionale, capace di garantire, da un lato, un’adeguata gratificazione individuale, ma, dall’altro, fornire un’indispensabile iniezione di idee ed energie fresche, sempre più necessarie per garantire un modello di sviluppo competitivo per l’economia europea del XXI Secolo.

Tale preoccupazione è ulteriormente rafforzata dalla considerazione che il tasso disoccupazione giovanile ha una curva disomogenea tra i vari Stati membri. Infatti, bisogna riscontrare che, a fronte dei Paesi dell’area mediterranea (ad esempio, Italia, Spagna, Croazia e Grecia), ove la disoccupazione giovanile è particolarmente forte, vi sono territori dell’Europa continentale, dove il fenomeno è molto più circoscritto (ad esempio, Germania ed Austria), se non, addirittura, completamente assente (ad esempio, la Baviera).
Siamo di fronte ad una marcata disomogeneità nelle condizioni del mercato del lavoro all’interno dei singoli Paesi europei, che sta producendo un sempre più marcato dumping sociale, il quale, se non adeguatamente contrastato, minerà irrimediabilmente la coesione territoriale all’interno dell’Unione Europea, tradendo, in tal modo, una delle direttrici su cui di fonda l’istituzione comunitaria in questione.

Pertanto, l’Unione Europea ha l’obbligo di attivare politiche capaci di omogeneizzare e favorire le condizioni di accesso al mercato del lavoro riservate ai giovani, specialmente, con particolare riferimento a quegli Stati membri, come l’Italia, che, in passato avevano una parte dei loro territori (cioè, le Regioni dell’Italia settentrionale) capace di assicurare gli stessi tassi di occupazione giovanile delle zone più evolute d’Europa e che, oggi, hanno perso ogni capacità di promozione e tutela dell’occupazione giovanile. Si tratta della decadenza di territori che, in precedenza, partecipavano fattivamente allo sviluppo dell’intera economia continentale e che attualmente si sono ridotti ad essere bacini produttivi in sofferenza e bisognosi di sussidi occupazionali sempre più ingenti, con evidenti ricadute negative sull’andamento della spesa pubblica dei singoli Stati membri.

Attualmente, l’Unione Europea ha avviato il noto programma comunitario denominato “Garanzia Giovani”. Tuttavia, la Garanzia Giovani non può essere l’unica forma d’intervento posta in essere dalle istituzioni comunitarie per contrastare questo dilagante e preoccupante fenomeno che sta, come detto, minando alle basi l’Unione Europea stessa.
In primo luogo, la Garanzia Giovani ha una dotazione finanziaria modesta, essendo stati stanziati per tutti gli Stati membri circa 6 miliardi di Euro da spendere nell’arco di un biennio.
Inoltre, la Garanzia Giovani è un fondo strutturale e, come tale, ha notevoli costi amministrativi, rispetto al valore economico dei servizi erogati ai beneficiari (cioè i giovani e le imprese) e che incidono significativamente sulla dotazione finanziaria complessiva poc’anzi indicata, riducendo sensibilmente la quota di risorse da destinare esclusivamente alle azioni dirette.
A fronte di queste considerazioni di carattere generale, bisogna anche aggiungere la considerazione che l’Italia (intesa come sistema-Paese) non si è mai distinta (salvo le dovute, ma sporadiche, eccezioni) per la sua capacità di saper spendere efficacemente le risorse dei fondi strutturali comunitari, sia non spendendo tutte le risorse finanziarie assegnatele, sia disperdendole in una moltitudine di piccoli progetti, talvolta anche privi di qualsiasi coerenza sistemica con gli obiettivi di programmazione.

Per cominciare ad contrastare seriamente la disoccupazione giovanile in Europa bisogna, innanzi tutto, avere la consapevolezza dell’inutilità di ogni politica di coesione avente una dimensione esclusivamente nazionale.
Una prima opzione d’intervento comunitaria è rinvenibile nella risoluzione del noto problema della tassazione del lavoro, la quale risulta essere fortemente disomogenea, poiché ogni Stato membro gode di una sua regolamentazione tributaria in materia. Ad esempio, l’Italia è la Nazione europea con il più al tasso di imposizione fiscale sul lavoro (circa quattro volte superiore alla media comunitaria). Un sistema di tassazione sul lavoro omogeneo per tutti gli Stati membri permetterebbe ai giovani europei di godere di un’offerta di lavoro non condizionata da carichi fiscali disomogenei e permetterebbe una immediata armonizzazione delle politiche di coesione.
Analogamente le risorse comunitarie potrebbero essere utilizzate per armonizzare e facilitare l’accesso al credito a favore di tutte le imprese, con particolare riferimento alle quelle di piccole e medie dimensioni.

In estrema sintesi, per aiutare i giovani a trovare lavoro, bisogna intervenire con politiche strutturali comunitarie, capaci di favorire la creazione di posti di lavoro, piuttosto che sostenerne la mera ricerca, poiché nessuna ricerca di lavoro può avere esito positivo se non si sostiene l’economia continentale nell’incrementare la propria capacità produttiva e la propria redditività, con conseguente esigenza, da parte dei datori di lavoro, ad assumere nuove unità di personale giovane ed adeguatamente formato ed istruito.

 

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Jobs Act breaking news. Il D.L. n. 34/2014 è diventato legge.

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di Germano De Sanctis

Nel corso della giornata del 15 maggio, la Camera dei Deputati ha definitivamente approvato il D.L. n. 34/2014, con 279 voti favorevoli, 143 contrari e 3 astenuti.

Come è noto, la nuova legge contiene importanti novità in materia di contratti a tempo determinato e di apprendistato.

In particolare, la legge in questione ha fissato in trentasei mesi da durata dei contratti a tempo determinato senza causale, prevedendo, al contempo, un massimo di cinque proroghe. Rispetto al testo varato in prima lettura dalla Camera dei Deputati, il testo definitivo si contraddistingue per la modifica apportata al sistema sanzionatorio previsto in caso di sforamento del tetto del 20% di contratti di lavoro a tempo determinato rispetto al totale della forza lavoro. Infatti, inizialmente, la legge prevedeva l’obbligo d’assunzione a favore dei lavoratori interessati dallo sforamento in questione. Invece, la versione definitiva della legge ha eliminato tale obbligo, prevedendo, in sua sostituzione, il pagamento da parte dei datori di lavoro di una sanzione amministrativa ammontante tra il 20% ed il 50% della retribuzione del lavoratore.

Invece, per quanto concerne gli apprendisti, si evidenzia che il previsto obbligo di stabilizzarne almeno il 20% prima di assumerne di nuovi sussiste soltanto in capo ai datori di lavoro con oltre 50 dipendenti. Inoltre, il testo definitivo ha ripristinato la formazione pubblica degli apprendisti, seppur ponendo qualche paletto.

Il testo della legge in questione è consultabile al seguente indirizzo:

http://www.camera.it/leg17/465?area=25&tema=1055&Il+Jobs+act+(decreto-legge+n.34%2F2014)

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Pillole di Jobs Act. Le modifiche apportate all’apprendistato In sede di conversione del D.L. n. 34/2014


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di Germano De Sanctis

Nel corso della giornata del 7 maggio, il Senato ha approvato il testo di conversione del D.L. n. 34/2014 (c.d. “Decreto Lavoro”), dopo una giornata di lavori parlamentari molto turbolenta, durante la quale la seduta è stata sospesa per ben due volte.
Alla fine, il Governo Renzi ha chiesto il suo ottavo voto di fiducia ed il Decreto Lavoro è stato approvato con 158 voti favorevoli e 122 «voti contrari, confermando confermato l’impianto novellatorio già  definito durante l’esame in sede referente dalla Commissione Lavoro del Senato.
Ora, a seguito alle nuove modifiche concordate fra Governo e maggioranza, il testo riapproderà, il 12 maggio, alla Camera dei Deputati, dove, entro il 19 maggio, dovrà ottenere l’approvazione definitiva, pena la decadenza del D.L. n. 34/2014.
Venendo all’esame del testo approvato, emerge subito l’importanza delle modifiche introdotte in materia di apprendistato. Segnatamente si evidenziano l’obbligo di stabilizzare il 20% cento degli apprendisti prima di assumerne altri sarà valido solo per i datori di lavoro con cinquanta e più dipendenti (prima erano trenta). Invece, per quanto concerne la formazione, viene nuovamente reintrodotto l’obbligo di formazione pubblica, dando alla Regione quarantacinque giorni di tempo per comunicare al datore di lavoro le modalità di svolgimento dell’offerta formativa pubblica. Inoltre, vi è l’obbligo d’indicare le sedi e il calendario, con la possibilità anche di avvalersi delle imprese e delle loro associazioni che si siano dichiarate disponibili. Per la formazione «on the job» viene reinserito il piano formativo individuale scritto, ma con modalità semplificate.
Fatta questa breve e sintetica premessa, esaminiamo nel dettaglio tutte le novità introdotte in materia.

La stabilizzazione degli apprendisti

Probabilmente, l’innovazione più significativa consiste nell’obbligo dalla stabilizzazione del 20% degli apprendisti per poter stipulare nuovi contratti. Si tratta di un obbligo vincolante per tutti i datori di lavoro con più di 50 dipendenti. Si evidenzia che tale soglia è stata innalzata rispetto alla previsione licenziata dalla Camera dei Deputati che coinvolgeva tutti i datori di lavoro con almeno 30 dipendenti.
Siamo di fronte alla terza modifica del testo originario contenuto nel D.L. n. 34/2014, il quale aveva abrogato l’art. 2, comma 1, lett. i), D.Lgs. n. 167/2011 e l’art. 2, commi 3-bis e 3-ter, D.Lgs. n. 167/2011 e l’art. 1, comma 19, Legge n. 92/2012, eliminando, in tal modo, le percentuali di stabilizzazione relative ai rapporti di apprendistato cessati nei ventiquattro mesi precedenti fissate dalla legge (percentuale del 50% per i datori di lavoro dimensionati sopra i nove dipendenti che si abbassava al 30% nei primi trentasei mesi di applicazione della Legge n. 92/2012) o dei contratti collettivi, in applicazione del citato art. 2, comma 1, lett. i), D.Lgs. n. 167/2011.
Adesso, invece, seguito dei lavori parlamentari fin qui svolti, la norma in questione risulta essere stata parzialmente reintrodotta. Infatti, fatta salva la possibilità per la contrattazione collettiva nazionale d’individuare maggiori o minori limiti, esclusivamente per i datori di lavoro che occupano almeno cinquanta dipendenti, l’assunzione di nuovi apprendisti è subordinata alla prosecuzione a tempo indeterminato di almeno il 20% dei rapporti di apprendistato, stipulati nei trentasei mesi precedenti.
Alla luce di questa nuova formulazioni è possibile effettuare alcune considerazioni di carattere applicativo.
In primo luogo, l’obbligo in questione concerne riguarda soltanto i datori di lavoro che, al momento dell’assunzione dell’apprendista, hanno in organico almeno cinquanta dipendenti. La norma non specifica la natura giuridica del legame contrattuale (lavoro subordinato od atipico) che lega il datore di lavoro ai suoi dipendenti. Tuttavia è possibile affermare che, nel calcolo delle cinquanta unità lavorative, non devono essere ricompresi quelle figure lavorative per le quali sussiste una specifica esclusione a norma di legge. Pertanto, non rientrano nel computo in questione:

  1. gli apprendisti (cfr., art. 7, comma 3, D.Lgs. n. 167/2011);
  2. i lavoratori somministrati alle dipendenze dell’Agenzia per il Lavoro ed utilizzati dal datore di lavoro che assume l’apprendista (cfr., art. 22, commi 1 e 2, D.Lgs n. 276/2003);
  3. i lavoratori provenienti da lavori socialmente utili (cfr., art. 7, D.Lgs. n. 81/2000);
  4. i lavoratori assunti con contratto di reinserimento (cfr., art. 20, Legge n. 223/1991).

Invece, i lavoratori a tempo parziale devono essere calcolati “pro quota” all’orario di lavoro completo deducibili dal CCNL (cfr., art. 6, D.Lgs. n. 61/2000).
In secondo luogo, devono essere esclusi dal computo dei rapporti di apprendistato non trasformati e riferiti ai trentasei mesi precedenti, tutti i contratti di apprendistato che sono stati risolti anticipatamente per giusta causa o per giustificato motivo, per dimissioni, o per mancato superamento del periodo di prova.
Infine, come già accennato, la contrattazione collettiva nazionale può intervenire sulle percentuali di stabilizzazione unicamente per i datori di lavoro che occupino almeno cinquanta dipendenti. Tale previsione dovrebbe comportare l’abrogazione tacita delle disposizioni contrattuali che prevedevano percentuali, anche maggiori, di stabilizzazione anche per le piccole imprese (come, ad esempio, alla percentuale dell’80% prevista nei settori del commercio e del turismo).

Il piano formativo nell’apprendistato professionalizzante

La formulazione originaria dell’art. 2 D.L. n. 34/2014 aveva abrogato l’obbligo della forma scritta per la redazione del piano formativo dell’apprendistato professionalizzante. Siffatta scelta legislativa ha suscitato molte critiche, in quanto non teneva conto degli adempimenti successivi imposti al datore di lavoro (come la compilazione del libretto formativo, la certificazione delle competenze, etc.), delle verifiche ispettive e degli eventuali contenziosi giudiziari.
Adesso il Senato ha confermato la scelta, già operata in sede di prima lettura del D.L. n. 34/2014 alla Camera dei Deputati, di reintrodurre l’obbligo della forma scritta, prevedendo, al contempo, la descrizione del piano formativo individuale, redatto in forma sintetica sulla base di moduli e formulari stabiliti sia dalla contrattazione collettiva che dagli Enti bilaterali.
Si evidenzia che la novella operata impone l’obbligo di allegare il piano formativo individuale al contratto di apprendistato al momento della sua stipulazione, generando una sostanziale novità rispetto alla disciplina originaria del D.Lgs. n. 167/2011, in virtù della quale il piano formativo in questione poteva essere redatto dal datore di lavoro nei trenta giorni successivi all’assunzione.

La formazione trasversale e di base

La frase, un po’ ambigua, contenuta nel D.L. n. 34/2014 che poteva essere letta come riferibile al datore di lavoro o, al contrario, come mancata offerta, volontaria, della Regione, è stata riscritta anche in una logica finalizzata a prevenire possibili ricorsi alla Corte Costituzionale, atteso che le Regioni hanno competenza primaria in materia di formazione, secondo la previsione contenuta nell’art. 117 Cost..
Ora, le Regioni hanno quarantacinque giorni di tempo, decorrenti dal momento in cui è stata effettuata la comunicazione di assunzione, per poter provvedere a comunicare al datore di lavoro le modalità di fruizione delle competenze trasversali e di base (c.d. offerta formativa pubblica), anche con riferimento alle sedi e al calendario delle attività previste, avvalendosi anche dei datori di lavoro e delle loro associazioni che si siano dichiarate disponibili, ai sensi delle Linee Guida adottate dalla Conferenza Stato-Regioni del 20 febbraio 2014.
Trascorso tale termine, il datore di lavoro non è tenuto ad integrare la formazione tecnica svolta all’interno della propria struttura. A tal fine, si sottolinea che la novella precisa il fatto che il predetto termine decorre dal giorno in cui è stata effettuata la comunicazione obbligatoria on line al Centro per l’Impiego ex art. 9-bis, comma 2, Legge n. 608/1996 (che, come è noto, ha natura pluriefficace).

Il pagamento delle ore di formazione nell’apprendistato di primo livello

Relativamente all’apprendistato per l’acquisizione di una qualifica o di un diploma professionale, si sottolinea il fatto che il Senato, confermando le scelte operate dalla camera dei deputati, ha statuito che, vista la componente formativa tipologia contrattuale, è riconosciuta una retribuzione che tenga conto delle ore effettivamente prestate, nonché delle ore di formazione nella misura del 35% del relativo monte ore complessivo.
Di conseguenza, la percentuale del 35% per le sole ore di formazione deve essere considerata una percentuale minima, mentre per le altre, essendo lavorative, tale percentuale sarà al 100% rispetto a quella prevista dalla contrattazione nazionale per quanto concerne l’acquisizione della relativa qualifica (si ricorda che, in genere, sono previsti due livelli contrattuali in meno rispetto al lavoratore qualificato).

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Pillole di Jobs Act. La disciplina del lavoro a tempo determinato contenuta nel testo del D.L. 34/2014 emendato dal Governo in sede di conversione al Senato

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 di Germano De Sanctis

Nel corso della giornata del 2 maggio, il Governo e la sua maggioranza hanno raggiunto un accordo sulla conversione del D.L. n. 34/2014 (c.d. “Decreto Lavoro”) al Senato. Tale accordo consiste nella presentazione da parte del Governo di otto emendamenti che mettono al sicuro l’iter parlamentare del decreto legge in questione.
Il nuovo testo emendato, deve essere votato dal Senato al massimo entro il prossimo 19 maggio e non dovrebbe essere sottoposto al voto di fiducia come, invece, è avvenuto alla Camera dei Deputati, anche se, a fini ostruzionistici, sono stati già presentati centinaia di emendamenti da parte delle opposizioni. I tempi sono stretti, in quanto, successivamente, il D.L. n. 34/2014 dovrà essere riesaminato in questa sua nuova versione dalla Camera dei Deputati ed convertito in legge nel termine sopra indicato.
Per quanto concerne il lavoro a tempo determinato, gli emendamenti governativi liberalizzano il ricorso a siffatta tipologia contrattuale, rispetto al testo approvato alla Camera dei Deputati, in quanto sono state inserite alcune significative modifiche che meritano di essere esaminate nel dettaglio. Tuttavia, l’impianto originario dell’istituto in esame non viene stravolto, non costituendo la novella in questione un ritorno alla versione originale del Decreto Lavoro.

Il preambolo

Il nuovo art. 1, comma 1, D.Lgs. n. 368/2001 contiene una frase programmatica che incide minimamente sul piano sostanziale sulla disciplina generale dei contratti a tempo determinato. Anzi, essa appare anche all’interprete meno avveduto come una sorta a di giustificazione delle modifiche introdotte nell’ambito di un quadro normativo che conferma il ruolo di forma comune del rapporto di lavoro svolto dal contratto a tempo indeterminato.
Infatti, il legislatore ha evidenziato il fatto che, essendo le nuove disposizioni normative sono emanate in un momento di cronica crisi occupazionale e nell’attesa del disegno di legge delega di riordino delle tipologie contrattuali, si è perseguito lo scopo di favorire le opportunità di ingresso nel mercato del lavoro.

La conferma della durata massima di trentasei mesi del contratto a tempo determinato senza la specificazione della causale

Innanzi tutto, si evidenzia che è rimasta invariata la questione della durata massima di trentasei mesi del contratto a tempo determinato senza la specificazione della causale, così come è stato confermato il limite massimo di cinque proroghe (a fronte delle otto previste nella versione originaria) del contratto in questione.
Si evidenzia che il predetto tetto massimo di trentasei mesi (comprensivi di eventuali proroghe) per il contratto di lavoro a tempo determinato “acausale” vale anche per il contratto di somministrazione a tempo determinato.
In altri termini, viene confermata l’acausalità generalizzata entro un arco temporale di trentasei mesi, presente fin dalla versione originaria del D.L. n. 34/2014. Si tratta di una scelta operata dal legislatore e finalizzata ad eliminare qualsiasi potenziale contenzioso legato alle motivazioni del contratto di lavoro a termine. Infatti, si tratta di una notevole semplificazione per i datori di lavoro, i quali, al momento di procedere ad una assunzione a tempo determinato, non devono più, come in precedenza, indicare le ragioni tecnico, produttive ed organizzative, poste alla base della loro decisione datoriale.
Tuttavia, è bene precisare che l’acausalità non è un obbligo, ma una facoltà. Pertanto, il datore di lavoro è ancora libero d’indicare nel contratto di lavoro a tempo determinato una ragione giustificatrice, ma, in sede di eventuale contenzioso, dovrà dimostrarne la validità che, a differenza di prima, non deriva dalla legge, bensì dalla negoziazione individuale.

La nuova sanzione pecuniaria concernente i rapporti di lavoro a tempo determinato eccedenti la quota massima consentita

La principale novità introdotta in sede di conversione del D.L. n. 34/2014 al Senato concerne l’eliminazione dell’obbligo di assumere i lavoratori a tempo determinato eccedenti la misura massima del 20% dei lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato da parte del datore di lavoro interessato.
Tale obbligo è sostituito con una sanzione pecuniaria a carico del datore di lavoro che supera la predetta quota. Essa ammonta al 20% dello stipendio del primo contratto a tempo determinato stipulato in eccedenza rispetto al predetto limite massimo, imputando tale percentuale a tutta la durata del rapporto di lavoro in questione. La sanzione in questione è aumentata fino al 50% per i contratti successivi.
Relativamente alla quota massima consentita sono previste due precisazioni:

  1. i datori di lavoro che hanno alle proprie dipendenze fino a cinque dipendenti, costoro possono stipulare un solo contratto a tempo determinato. Quando si parla di datori di lavoro con un organico di lavoratori subordinati a tempo indeterminato fino a cinque unità, si deve intendere che tale numero sia compreso tra zero e cinque;
  2. gli enti di ricerca rimangono esclusi dall’obbligo di rispettare il tetto massimo del 20%.

Il mondo sindacale ha subito espresso la sua contrarietà a tale novella sanzionatoria, ritenendola dannosa nell’ottica della stabilizzazione dei rapporti di lavoro. Invece, le associazioni dei datori di lavoro, pur apprezzando la modifica introdotta, hanno chiesto una riduzione dell’ammontare della sanzione prevista.

La comminazione della nuova sanzione pecuniaria

Ai fini della comminazione della sanzione in questione, si sottolinea il fatto che il computo deve essere effettuato tenendo conto del personale in forza alla data del 1° gennaio dell’anno di assunzione del lavoratore a tempo determinato interessato. Pertanto, è fondamentale capire come calcolare la percentuale del 20%.
Innanzi tutto, essa che si riferisce ai soli contratti a tempo determinato e non anche ai contratti di somministrazione.
Abbiamo appena detto che che la base di calcolo è rappresentata dal numero dei lavoratori assunti a tempo indeterminato (compresi i dirigenti) ed in forza alla data del 1° gennaio dell’anno cui si riferisce l’assunzione. Di conseguenza, il conteggio dei possibili “assumendi” diventa abbastanza facile.
Fatta questa premessa, bisogna escludere dalla base di computo tutte quelle tipologie lavorative, che l’ordinamento giuslavoristico esclude dal computo per l’applicazione degli istituti contrattuali o legali:

  1. i lavoratori somministrati, essendo costoro assunti da un’Agenzia per il Lavoro;
  2. gli apprendisti, in virtù dell’espressa previsione contenuta nell’art. 7, comma 3, D.Lgs. n. 167/2011;
  3. gli assunti con contratto di reinserimento ex art. 20 Legge n. 223/1991;
  4. i lavoratori provenienti da esperienze di lavori socialmente utili o di pubblica utilità ex art. 7, comma 7, D.Lgs. n. 81/2000.

Inoltre, bisogna ricordare il fatto che l’art. 6 D.Lgs. n. 61/2000 impone di calcolare i lavoratori a tempo parziale “pro quota” rispetto all’orario contrattuale pieno.
Va, peraltro, ricordato che, ai sensi dell’art. 10, comma 7, D.Lgs. n. 368/2001, i seguenti contratti a tempo determinato non rientrano nei limiti del contingentamento:

  1. quelli stipulati nella fase di avvio di nuove attività per i periodi definiti dai contratti collettivi nazionali di lavoro anche in misura non uniforme con riferimento sia ad aree geografiche che a comparti merceologici;
  2. quelli per ragioni di carattere sostitutivo o di stagionalità (cfr., D.P.R. n. 1525/1963);
  3. quelli per specifici spettacoli, ovvero quelli per specifici programmi radiofonici o televisivi;
  4. quelli con lavoratori di età superiore ai 55 anni.

Sono, altresì, esclusi dall’ambito di applicazione del predetto tetto massimo del 20%, in quanto non disciplinati dal D.Lgs. n. 368/2001 ed oggetto di specifiche normative, i seguenti contratti di lavoro a tempo determinato:

  1. i contratti di lavoro temporaneo di cui alla Legge n. 196/1997 (cfr., art. 10, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 368/2001);
  2. i contratti di formazione e lavoro (cfr., art. 10, comma 1, lett. b), D.Lgs. n. 368/2001);
  3. i rapporti di apprendistato, nonché le tipologie contrattuali legate a fenomeni di formazione attraverso il lavoro che, pur caratterizzate dall’apposizione di un termine, non costituiscono rapporti di lavoro (cfr., art. 10, comma 1, lett. c), D.Lgs. n. 368/2001);
  4. i richiami in servizio del personale volontario del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, che ai sensi dell’art. 6, comma 1, D.Lgs. n. 139/2006, non costituiscono rapporti di impiego con l’Amministrazione (cfr., art. 10, comma 1, lett. c-bis), D.Lgs. n. 368/2001);
  5. ferme restando le disposizioni di cui agli artt. 6 e 8 D.Lgs. n. 368/2001, i rapporti instaurati ai sensi dell’art. 8, comma 2, Legge n. 223/1991 (cfr.,art. 10, comma 1, lett. c-ter), D.Lgs. n. 368/2001);
  6. i contratti stipulati con gli operai a tempo determinato nel settore agricolo, secondo la definizione fornita dall’art. 12, comma 2, D.Lgs. n. 375/1993 (cfr., art. 10, comma 2, D.Lgs. n. 368/2001);
  7. i contratti di durata non superiore a tre giorni per l’esecuzione di servizi speciali, nei settori del turismo e dei pubblici esercizi (cfr., art. 10, comma 3, D.Lgs. n. 368/2001);
  8. i contratti stipulati con i dirigenti, il cui contratto a tempo determinato può avere una durata non superiore a cinque anni (cfr., art. 10, comma 4, D.Lgs. n. 368/2001);
  9. i contratti per il conferimento di supplenze, sia del personale docente, che ATA (cfr., art. 10, comma 4-bis, D.Lgs. n. 368/2001);
  10. i contratti stipulati con i lavoratori alle dipendenze di datori di lavoro che esercitano il commercio di import – export ed all’ingrosso di prodotti ortofrutticoli (cfr. art. 10, comma 5, D.Lgs n. 368/2001);

La forma scritta del contratto a tempo determinato

Ai sensi dell’art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 368/2001, così come modificato dal D.L. n. 34/2014, l’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta, direttamente od indirettamente, da atto scritto. Tale previsione non ha subito modifiche nell’ultimo passaggio al Senato.
Tale previsione cancella il previgente riferimento alle ragioni specifiche che hanno comportato la stipula del contratto a tempo determinato. Ne deriva che il termine non debba discendere direttamente da un fatto negoziale espresso, ma può essere rilevato, anche induttivamente, da clausole contrattuali sottoscritte dalle parti indicanti una determinata attività avente durata predeterminata. Di conseguenza, qualora la scrittura risulti mancante, è ammissibile, in sede di giudizio, la prova testimoniale ex art. 2725 c.c., con le limitazioni individuate dall’art. 2724, comma 3, c.c., il quale stabilisce che la prova per testimoni è ammessa unicamente nel caso in cui il contraente, senza sua colpa, abbia perduto il documento che gli forniva la prova.

Le proroghe

La novella operata all’art. 4, comma 1, D.Lgs. n. 368/2011 ha rappresentato uno dei punti più controversi della riforma in questione.
La versione originaria di tale norma prevedeva una sola proroga di durata anche superiore al contratto iniziale, purché supportata da condizioni oggettive per la quale erano necessari il consenso del lavoratore e lo svolgimento della medesima attività lavorativa.
Come è noto, la versione approvata dal Governo del D.L. n. 34/2014 prevedeva un limite massimo di ben otto proroghe, eliminando, al contempo, ogni riferimento alle condizioni oggettive e con il semplice consenso del lavoratore, purché l’attività svolta fosse sempre la stessa. Si trattava di un numero di proroghe veramente notevole e superiore anche al limite delle sei proroghe previsto dal CCNL di riferimento per i lavoratori in somministrazione.
Il rischio di eccessiva flessibilità a svantaggio del lavoratore ha suggerito, in sede di conversione del decreto legge alla la Camera, di ridurre a cinque il numero di proroghe nell’arco dei trentasei mesi a prescindere dai rinnovi. In altre parole, significa che gli stessi, non saranno più correlati ai singoli rapporti a tempo determinato ma costituiranno una sorta di “bonus” spendibile in uno o più contratti. Una volta esaurito tale beneficio, non sarà più possibile utilizzarlo, restando comunque la possibilità di stipulare un nuovo contratto rispettando il periodo di latenza tra quello cessato e quello nuovo che è di dieci o venti giorni a seconda che il precedente rapporto abbia avuto una durata fino a sei mesi o superiore. Si ricorda la possibilità da parte della contrattazione collettiva (anche aziendale: cfr., art. 4, comma 3, D.Lgs. n. 368/2001) di ridurre od eliminare tali periodi di latenza, con la conseguenza che si potrà procedere al rinnovo nel rispetto delle previsioni dettate dalla pattuizione collettiva.
Fatta questa debita premessa, bisogna evidenziare che, ormai, la proroga è unicamente correlata al consenso del lavoratore ed alla stessa attività.
Per quel che concerne il consenso del lavoratore, esso deve essere rilasciato senza alcuna particolarità formale di espressione, potendo ritenersi ritenersi acquisito anche per “facta concludentia”, così come accade, ad esempio, in caso continuazione dell’attività. Ovviamente, sarà onere del datore di lavoro provvedere a comunicare la proroga attraverso la comunicazione telematica al Centro per l’Impiego entro i cinque giorni successivi all’evento. Il mancato rispetto di tale termine è sanzionato con una sanzione amministrativa pecuniaria compresa tra € 100 e € 500, diffidabile ex art. 13, D.Lgs. n. 124/2004 (cfr., art. 4-bis, comma 5, D.Lgs. n. 181/2000, sanzionabile ex art. 19, comma 3, D.Lgs. n. 276/2003).
Venendo, invece, al significato da attribuire alla dicitura “stessa attività”, si evidenzia che è necessario attenersi al senso letterale, in quanto ogni altra interpretazione potrebbe generare contenziosi giudiziari, tra l’altro, facilmente risolvibili da parte del datore di lavoro, attraverso la stipulazione, ovviamente, nel rispetto del periodo di latenza, di un nuovo contratto di lavoro a tempo determinato, riportando l’indicazione specifica delle mansioni parzialmente diverse.

La sommatoria dei trentasei mesi

Con una disposizione di chiarimento apportata all’interno dell’art. 5, comma 4 –bis, D.Lgs. n. 368/2001, la Camera dei Deputati ha esplicitato le modalità di computo del limite dei trentasei mesi, superati i quali, se il contratto a termine prosegue senza soluzione di continuità, esso si trasforma in contratto di lavoro a tempo indeterminato. Ai fini del presente calcolo, si deve tenere conto, oltre che ai periodi di lavoro a tempo determinato effettuati mediante tale tipologia contrattuale, anche dei periodi di missione svolti in regime di contratto di somministrazione a tempo determinato con mansioni equivalenti ex art. 20 D.Lgs. n. 276/2003.
Si ricorda che il limite dei trentasei mesi (derogabile dalla contrattazione collettiva anche di secondo livello) è superabile soltanto attraverso la stipulazione di un nuovo contratto a tempo determinato in deroga assistita (cioè, sottoscritto dal lavoratore con l’assistenza di un rappresentante sindacale), stipulato avanti ad un funzionario della Direzione Territoriale del Lavoro per una durata stabilita dagli accordi collettivi (anche aziendali).

I diritti di precedenza

Gli emendamenti governativi presentati al Senato hanno fatto salvi i commi 4-quater, 4-sexies e 4-septies dell’art. 5, D.Lgs. n. 368/2001, introdotti in sede di conversione alla Camera dei Deputati. In virtù del contenuto di tali commi, il diritto di precedenza è riconosciuto nei confronti delle seguenti tipologie di lavoratori:

  1. i lavoratori che in esecuzione di uno o più contratti a termine superino i sei mesi hanno un diritto di precedenza nel caso in cui il datore di lavoro intenda assumere a tempo indeterminato un lavoratore per le mansioni già espletate da tali lavoratori. Il diritto in questione deve essere fatto valere con richiesta al datore di lavoro (preferibilmente, in forma scritta) entro i sei mesi decorrenti dalla cessazione del rapporto, con l’avvertenza che tale diritto si estingue entro un anno dalla data di cessazione del rapporto di lavoro (cfr., art. 5, commi 4-quater e 4-sexies, D.Lgs. n. 368/2001);
  2. i lavoratori stagionali hanno un diritto di precedenza per un successivo lavoro stagionale, con l’avvertenza che tale diritto deve essere fatto valere mediante richiesta al datore di lavoro da presentarsi (preferibilmente, in forma scritta) entro i tre mesi successivi decorrenti dalla fine del rapporto, con l’avvertenza che tale diritto si estingue entro un anno dalla data di cessazione del rapporto di lavoro (cfr., art. 5, commi 4-quinquies e 4-sexies, D.Lgs. n. 368/2001);
  3. le lavoratrici in congedo obbligatorio per maternità pari a cinque mesi (di norma, due mesi prima e tre mesi dopo il parto) intervenuto nell’esecuzione di un contratto di lavoro a tempo determinato (di durata superiore a sei mesi) presso il medesimo datore di lavoro, godono di un diritto di precedenza che tiene conto di tale periodo di congedo ai fini della determinazione del periodo di attività lavorativa utile a conseguire il diritto di precedenza per una assunzione a tempo indeterminato alle poc’anzi esaminate condizioni previste dall’art. 5, comma 4-quater, D.Lgs. n. 368/2001 entro i successivi dodici mesi, con riferimento alle mansioni già espletate in esecuzione dei precedenti rapporti a tempo determinato (cfr., art. 5, commi 4-quater e 4-sexies, D.Lgs. n. 368/2001).

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Pillole di Jobs Act. Le principali novità del testo di conversione del D.L. n. 34/2014 approvato dalla Camera dei Deputati

 

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Nel corso della seduta del 24 aprile, la Camera dei Deputati ha approvato con 263 voti favorevoli e 161 voti contrari il testo di legge di conversione del D.L. n. 34/2014 (il quale, come è noto, è, unitamente al disegno di legge delega, è uno dei due pilastri del Jobs Act), dopo che il Governo aveva posto la questione di fiducia. Adesso, il testo in questione deve essere approvato dal Senato entro il prossimo 20 maggio.

Ma la maggioranza non è compatta ed al suo interno si discute in modo animato su alcuni punti più controversi. Tra essi è annoverabile, innanzi tutto, l’obbligo di non superare il tetto del 20 per cento nell’introduzione di contratti a tempo determinato, pena l’assunzione della quota eccedente a tempo indeterminato. Sempre in materia di contratti a termine il dibattito rimane acceso sulle previsione di sole cinque proroghe massime previste nei tre anni dei contratti a termine, mentre per i rinnovi contrattuali non sono stati previsiti limiti.
Inoltre, risulta molto problematica la norma sulla formazione pubblica obbligatoria per l’apprendistato, in quanto il testo in questione prevede che le Regioni debbano fornire il servizio entro quarantacinque giorni ed, in caso di loro inadempienza, le imprese saranno esonerate da tale obbligo.

Esaminiamo tutte le novità introdotte nel testo di conversione.

Contratti a tempo determinato

Rispetto alla Legge n. 92/2012 (c.d. Legge Fornero), il testo di conversione del D.L. n. 34/2014 estende da uno a tre anni la durata del rapporto di lavoro a tempo determinato senza causale, ovvero senza ragione dell’assunzione (cfr., art. 1, comma 1, lett. a), primo periodo). Il testo approvato dal Governo prevedeva un massimo di otto proroghe contrattuali in 36 mesi, invece, in sede di Commissione Lavoro, il tetto è stato abbassato a cinque proroghe (cfr., art. 1, comma 1, lett. b)).
Inoltre, presso ciascun datore di lavoro, i lavoratori a tempo determinatonon possono essere più del 20% degli lavoratori subordinati assunti a tempo indeterminato (nello specifico un lavoratore a tempo determinato per i datori di lavoro con fino a cinque dipendenti)cfr., art. 1, comma 1, lett. a), secondo periodo) . Qualora tale limite venga superato, i contratti stipulati in eccesso devono essere considerati a tempo indeterminato (cfr., art. 1, comma 1, lett. b-septies).

Diritto di precedenza per le donne in congedo di maternità

La legge di conversione ha previsto che il congedo maternità può concorrere a determinare il periodo minimo di sei mesi di attività, affinché la lavoratrice acquisisca un diritto di precedenza per contratti successivi presso lo stesso datore di lavoro (cfr., art. 1, comma 1, lett. b-quinquies).

Apprendistato

La Commissione Lavoro della Camera dei Deputati ha ripristinato l’obbligo di un piano formativo individuale redatto in forma scritta, inizialmente soppresso nella redazione originaria del D.L. n. 34/2014, anche se ha calmierato tale reintroduzione, prevedendo modalità semplificate di redazione sulla base di moduli e formulari stabiliti dalla contrattazione collettiva o dagli enti bilaterali (cfr., art. 2, comma 1, lett. a), n. 1)). Inoltre, è stato previsto l’obbligo in capo ai datori di lavoro con più di trenta dipendenti di assumere il 20% degli apprendisti, in totale dissonanza con la formulazione originaria del D.L. n. 34/2014, il quale non contemplava questa previsione normativa (cfr., art. 2, comma 1, lett. a), n. 2)).

Semplificazione del DURC

Come è noto, il DURC (documento unico di regolarità contributiva) attesta l’assolvimento da parte di un datore di lavoro degli obblighi legislativi e contrattuali nei confronti di INPS, INAIL e Cassa Edile. La legge di conversione prevede la smaterializzazione di tale documento, attraverso una semplificazione degli adempimenti burocratici (cfr. art. 4).

Contratti di solidarietà

La legge di conversione prevede la possibilità di stabilire mediante apposito decreto interministeriale i criteri per individuare i datori di lavoro beneficiari della riduzione contributiva in caso di ricorso al contratto di solidarietà (cfr., art. 5, comma 1). Vengono incrementate le risorse finanziarie, a decorrere dal 2014, con un limite di spesa di 15 milioni di euro contro i precedenti 5,6 milioni di euro (cfr., art. 5, comma 1-bis, lett. a)).

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Jobs Act breaking news. La Camera dei Deputati approva la fiducia al D.L. n. 34/2014


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di Germano De Sanctis

Nel corso della giornata odierna, la Camera dei Deputati ha approvato la fiducia posta dal Governo sul D.L. n. 34/2014 (uno dei due pilastri del Jobs Act). La votazione si è conclusa con 344 svoti favorevoli 184 voti contrari. Gli onorevoli in aula e che hanno partecipato alla votazione sono stati 528. Si evidenzia che la maggioranza era fissata a quota 265. Il voto finale sul provvedimento in questione si terrà domani alle ore 12:00.

Qui di seguito, si riporta la ricostruzione del testo frutto degli emendamenti apportati dalla Commissione Lavoro e su cui è stata posta la questione di fiducia.

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Decreto-legge 20 marzo 2014, n. 34, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 66 del 20 mar-zo 2014.
Testo del decreto-legge comprendente le modificazioni apportate dalla Commissione La-voro della Camera dei Deputati

Disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell’occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese.

IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

Visti gli articoli 77 e 87 della Costituzione;

Ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di emanare disposizioni volte a semplificare alcune tipologie contrattuali di lavoro, al fine di generare nuova occupazione, in particolare giovanile;

Ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di semplificare le modalità attraverso cui viene favorito l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro;

Ritenuta altresì la straordinaria necessità ed urgenza di semplificare e razionalizzare gli adempimenti a carico delle imprese in relazione alla verifica della regolarità contributiva;

Ritenuta, in fine, la straordinaria necessità ed urgenza di individuare ulteriori criteri per il riconoscimento della riduzione contributiva per i datori di lavoro che stipulano contratti di solidarietà che prevedono la riduzione dell’orario di lavoro, nonché di incrementare le risorse finanziarie destinate alla medesima finalità;

Vista la deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del 12 marzo 2014;

Sulla proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri e del Ministro del lavoro e delle politiche sociali;

 

Capo I
DISPOSIZIONI IN MATERIA DI CONTRATTO DI LAVORO A TERMINE E DI APPREN-DISTATO

Articolo 1.
Semplificazione delle disposizioni in materia di contratto di lavoro a termine

1. In considerazione della perdurante crisi occupazionale e nelle more dell’adozione di provvedimenti volti al riordino delle forme contrattuali di lavoro, al fine di rafforzare le opportunità di Ingresso nel mercato del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione e fermo restando che il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro, al decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) all’articolo 1:
1) al comma 1: le parole da «a fronte» a «di lavoro.» sono sostituite dalle seguenti: «di durata non superiore a trentasei mesi, comprensiva di eventuali proroghe, concluso fra un datore di lavoro e un lavoratore per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione, sia nella forma del contratto a tempo determinato, sia nell’ambito di un contratto di somministrazione a tempo determinato ai sensi del comma 4 dell’articolo 20 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276. Fatto salvo quanto disposto dall’articolo 10, comma 7, il numero complessivo di contratti a tempo determinato stipulati da ciascun datore di lavoro ai sensi del presente articolo non può eccedere il limite del 20 per cento del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1 gennaio dell’anno di assunzione. Per i datori di lavoro che occupano fino a cinque dipendenti è sempre possibile stipulare un contratto di lavoro a tempo determinato.»;
2) il comma 1-bis è abrogato;
3) il comma 2 è sostituito dal seguente: «2. L’apposizione del termine di cui al comma 1 è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto.»;
b) all’articolo 4, comma 1, secondo periodo, le parole da: «la proroga» fino a: «si riferisca» sono sostituite dalle seguenti: «le proroghe sono ammesse, fino ad un massimo di cinque volte, nell’arco dei complessivi trentasei mesi, indipendentemente dal numero dei rinnovi e a condizione che si riferiscano»;
b-bis) all’articolo 4, il comma 2 è abrogato;
b-ter) all’articolo 5, comma 2, le parole: «, instaurato anche ai sensi dell’articolo 1, comma 1-bis,» sono soppresse;
b-quater) all’articolo 5, comma 4-bis, le parole da: «ai fini del computo» fino a: «somministrazione di lavoro a tempo determinato» sono sostituite dalle seguenti: «ai fini del suddetto computo del periodo massimo di durata del contratto a tempo determinato, pari a trentasei mesi, si tiene altresì conto dei periodi di missione aventi ad oggetto mansioni equivalenti, svolti fra i medesimi soggetti, ai sensi dell’articolo 20 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni, inerente alla somministrazione di lavoro a tempo determinato»;
b-quinquies) all’articolo 5, comma 4-quater, sono aggiunti, in fine, i seguenti periodi: «Fermo restando quanto già previsto dal presente articolo per il diritto di precedenza, per le lavoratrici il congedo di maternità di cui all’articolo 16, comma 1, del testo unico di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, e successive modificazioni, intervenuto nell’esecuzione di un contratto a termine presso la stessa azienda, concorre a determinare il periodo di attività lavorativa utile a conseguire il diritto di precedenza di cui al primo periodo. Alle medesime lavoratrici è altresì riconosciuto, con le stesse modalità di cui al presente comma, il diritto di precedenza anche nelle assunzioni a tempo determinato effettuate dal datore di lavoro entro i successivi dodici mesi, con riferimento alle mansioni già espletate in esecuzione dei precedenti rapporti a termine»;
b-sexies) all’articolo 5, comma 4-sexies, è aggiunto, in fine, il seguente periodo:
«Il datore di lavoro è tenuto ad informare il lavoratore del diritto di precedenza di cui ai commi 4-quater e 4-quinquies, mediante comunicazione scritta da consegnare al momento dell’assunzione»;
b-septies) all’articolo 5, dopo il comma 4-sexies è aggiunto il seguente:
«4-septies. I lavoratori assunti a termine in violazione del limite percentuale di cui all’articolo 1, comma 1, sono considerati lavoratori subordinati con contratto a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto di lavoro»;
b-octies) all’articolo 10, comma 7, alinea, primo periodo, le parole: «ai sensi dell’articolo 1, commi 1 e 1-bis,» sono sostituite dalle seguenti: «ai sensi dell’articolo 1, comma 1,».
2. Al decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) all’articolo 20:
1) al comma 4, i primi due periodi sono soppressi e, al terzo periodo, dopo le parole: «della somministrazione» sono inserite le seguenti: «di lavoro»;
2) il comma 5-quater è abrogato;
b) all’articolo 21, comma 1, lettera c), le parole: «ai commi 3 e 4» sono sostituite dalle seguenti: «al comma 3».
2-bis. Ai fini della verifica degli effetti delle disposizioni del presente capo, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, decorsi dodici mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, presenta una relazione alle Camere, evidenziando in particolare gli andamenti occupazionali e l’entità del ricorso al contratto a tempo determinato e al contratto di apprendistato, ripartito per fasce d’età, genere, qualifiche professionali, aree geografiche, durata dei contratti, dimensioni e tipologia di impresa e ogni altro elemento utile per una valutazione complessiva del nuovo sistema di regolazione di tali rapporti di lavoro in relazione alle altre tipologie contrattuali, tenendo anche conto delle risultanze delle comunicazioni di assunzione, trasformazione, proroga e cessazione dei rapporti di lavoro derivanti dal sistema informativo delle comunicazioni obbligatorie già previsto dalla legislazione vigente.
2-ter. La sanzione di cui all’articolo 5, comma 4-septies, del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, introdotto dalla lettera b)-septies del comma 1 del presente articolo, non si applica per i rapporti di lavoro instaurati precedentemente alla data di entrata in vigore del presente decreto, che comportino il superamento del limite percentuale di cui all’articolo 1, comma 1, del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, come modificato dal comma 1, lettera a), numero 1), del presente articolo.
2-quater. All’articolo 4, comma 4-bis, del decreto-legge 21 maggio 2013, n. 54, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 luglio 2013, n. 85, le parole: «fino al 31 luglio 2014» sono sostituite dalle seguenti: «fino al 31 luglio 2015».

Articolo 2.
Semplificazione delle disposizioni in materia di contratto di apprendistato

1. Al decreto legislativo 14 settembre 2011, n. 167, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) all’articolo 2:
1) al comma 1, la lettera a) è sostituita dalla seguente:
«a) forma scritta del contratto e del patto di prova. Il contratto di apprendistato contiene, in forma sintetica, il piano formativo individuale definito anche sulla base di moduli e formulari stabiliti dalla contrattazione collettiva o dagli enti bilaterali »;
2) al comma 3-bis, il primo periodo è sostituito dal seguente: «Ferma restando la possibilità per i contratti collettivi nazionali di lavoro, stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale, di individuare limiti diversi da quelli previsti dal presente comma, esclusivamente per i datori di lavoro che occupano almeno trenta dipendenti l’assunzione di nuovi apprendisti è subordinata alla prosecuzione, a tempo indeterminato, del rapporto di lavoro al termine del periodo di apprendistato, nei trentasei mesi precedenti la nuova assunzione, di almeno il 20 per cento degli apprendisti dipendenti dallo stesso datore di lavoro»;
3) il comma 3-ter è abrogato;
b) all’articolo 3 è aggiunto, in fine, il seguente comma: «2-ter. Fatta salva l’autonomia della contrattazione collettiva, in considerazione della componente formativa del con-tratto di apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale, al lavoratore è riconosciuta una retribuzione che tenga conto delle ore di lavoro effettivamente prestate nonché delle ore di formazione almeno nella misura del 35% del relativo monte ore complessivo.»;
c) all’articolo 4, comma 3, sono aggiunti, in fine, i seguenti periodi: «Qualora la Regione non provveda a comunicare al datore di lavoro, entro quarantacinque giorni dalla comunicazione dell’instaurazione del rapporto, le modalità per usufruire dell’offerta formativa pubblica ai sensi delle linee guida adottate dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano in data 20 febbraio 2014, il datore di lavoro non è tenuto ad integrare la formazione di tipo professionalizzante e di mestiere con quella finalizzata all’acquisizione di competenze di base e trasversali. La comunicazione dell’instaurazione del rapporto di lavoro si intende effettuata dal datore di lavoro ai sensi dell’articolo 9-bis del decreto-legge 1 ottobre 1996, n. 510, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 novembre 1996, n. 608, e successive modificazioni».
2. All’articolo 1 della legge 28 giugno 2012, n. 92, il comma 19 è abrogato.
2-bis. All’articolo 8-bis, comma 2, secondo periodo, del decreto-legge 12 settembre 2013, n. 104, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 2013, n. 128, dopo le parole: «Il programma contempla la stipulazione di contratti di apprendistato» sono inserite le seguenti: «che, ai fini del programma sperimentale, possono essere stipulati anche in deroga ai limiti di età stabiliti dall’articolo 5 del testo unico di cui al decreto legislativo 14 settembre 2011, n. 167».

Articolo 2-bis.
Disposizioni transitorie

1. Le disposizioni di cui agli articoli 1 e 2 si applicano ai rapporti di lavoro costituiti successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto. Sono fatti salvi gli effetti già prodotti dalle disposizioni introdotte dal presente decreto.
2. In sede di prima applicazione del limite percentuale di cui all’articolo 1, comma 1, se-condo periodo, del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, introdotto dall’articolo 1, comma 1, lettera a), numero 1), del presente decreto, conservano efficacia, ove diversi, i limiti percentuali già stabiliti dai vigenti contratti collettivi nazionali di lavoro.
3. Il datore di lavoro al quale non si applicano i limiti percentuali già stabiliti dai vigenti contratti collettivi nazionali di lavoro di cui al comma 2, che, alla data di entrata in vigore del presente decreto, abbia in corso rapporti di lavoro a termine che comportino il superamento del limite percentuale di cui all’articolo 1, comma 1, secondo periodo, del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, introdotto dall’articolo 1, comma 1, lettera a), numero 1), del presente decreto, è tenuto a rientrare nel predetto limite entro il 31 dicembre 2014. In caso contrario, il datore di lavoro, successivamente a tale data, non può stipulare nuovi contratti di lavoro a tempo determinato fino a quando non rientri nel limite percentuale di cui al citato articolo 1, comma 1, secondo periodo, del decreto legislativo n. 368 del 2001.

Capo II
MISURE IN MATERIA DI SERVIZI PER IL LAVORO, DI VERIFICA DELLA REGOLARITÀ CONTRIBUTIVA E DI CONTRATTI DI SOLIDARIETÀ

Articolo 3.
Elenco anagrafico dei lavoratori

1. All’articolo 4, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 7 luglio 2000, n. 442, le parole: «Le persone» sono sostituite dalle seguenti: «I cittadini italiani nonché i cittadini di Stati membri dell’Unione europea e gli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia», la parola: «ammesse» è sostituita dalla seguente: «ammessi», le parole: «inoccupate, disoccupate, nonché occupate» sono sostituite dalle seguenti:
«inoccupati, disoccupati ovvero occupati» e la parola: «inserite» è sostituita dalla seguente: «inseriti».
2. All’articolo 2, comma 1, del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181, le parole:
«nel cui ambito territoriale si trovi il domicilio del medesimo», sono sostituite con le seguenti: «in ogni ambito territoriale dello Stato».

Articolo 4.
Semplificazioni in materia di documento di regolarità contributiva

1. A decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto di cui al comma 2, chiunque vi abbia interesse, compresa la medesima impresa, verifica con modalità esclusivamente telematiche ed in tempo reale la regolarità contributiva nei confronti dell’INPS, dell’INAIL e, per le imprese tenute ad applicare i contratti del settore dell’edilizia, nei confronti delle Casse edili. La risultanza dell’interrogazione ha validità di 120 giorni dalla data di acquisizione e sostituisce ad ogni effetto il Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC), ovunque previsto, fatta eccezione per le ipotesi di esclusione individuate dal decreto di cui al comma 2.
2. Con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze e, per i profili di competenza, con il Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, sentiti l’INPS, l’INAIL e la Commissione nazionale paritetica per le Casse edili, da emanarsi entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, sono definiti i requisiti di regolarità, i contenuti e le modalità della verifica nonché le ipotesi di esclusione di cui al comma 1.
Il decreto di cui al presente comma è ispirato ai seguenti criteri:
a) la verifica della regolarità in tempo reale riguarda i pagamenti scaduti sino all’ultimo giorno del secondo mese antecedente a quello in cui la verifica è effettuata, a condizione che sia scaduto anche il termine di presentazione delle relative denunce retributive, e comprende anche le posizioni dei lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa anche a progetto che operano nell’impresa;
b) la verifica avviene tramite un’unica interrogazione presso gli archivi dell’INPS, dell’INAIL e delle Casse edili che, anche in cooperazione applicativa, operano in integrazione e riconoscimento reciproco, ed è eseguita indicando esclusivamente il codice fiscale del soggetto da verificare;
c) nelle ipotesi di godimento di benefìci normativi e contributivi sono individuate le tipologie di pregresse irregolarità di natura previdenziale ed in materia di tutela delle condizioni di lavoro da considerare ostative alla regolarità, ai sensi dell’articolo 1, comma 1175, della legge 27 dicembre 2006, n. 296.
3. L’interrogazione eseguita ai sensi del comma 1, assolve all’obbligo di verificare la sussistenza del requisito di ordine generale di cui all’articolo 38, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, presso la Banca dati nazionale dei contratti pubblici, istituita presso l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture dall’articolo 62-bis del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82. Dalla data di entrata in vigore del decreto di cui al comma 2, sono inoltre abrogate tutte le disposizioni di legge incompatibili con i contenuti del presente articolo.
4. Il decreto di cui al comma 2 può essere aggiornato sulla base delle modifiche normative o della evoluzione dei sistemi telematici di verifica della regolarità contributiva.
5. All’articolo 31, comma 8-bis, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, le parole: «, in quanto compatibile, » sono soppresse.
5-bis. Ai fini della verifica degli effetti delle disposizioni di cui al presente articolo, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, decorsi dodici mesi dalla data di entrata in vigore del decreto di cui al comma 2, presenta una relazione alle Camere.
6. All’attuazione di quanto previsto dal presente articolo, le amministrazioni provvedono con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

Articolo 5.
Contratti di solidarietà

1. All’articolo 6 del decreto-legge 1 ottobre 1996, n. 510, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 novembre 1996, n. 608, dopo il comma 4 è inserito il seguente: «4-bis. Con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sono stabiliti criteri per la concessione del beneficio della riduzione contributiva di cui al comma 4, entro i limiti delle risorse disponibili. Il limite di spesa di cui all’articolo 3, comma 8, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, come rideterminato dall’articolo 1, comma 524, della legge 23 dicembre 2005, n. 266, a decorrere dall’anno 2014, è pari ad euro 15 milioni annui.».
1-bis. All’articolo 6, comma 4, del decreto-legge 1 ottobre 1996, n. 510, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 novembre 1996, n. 608, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) al secondo periodo, le parole da: «è del 25 per cento» fino alla fine del periodo sono sostituite dalle seguenti: «è del 35 per cento.»;
b) il terzo periodo è soppresso.
1-ter. Al fine di favorire la diffusione delle buone pratiche e il monitoraggio costante delle risorse impiegate, i contratti di solidarietà sottoscritti ai sensi della normativa vigente sono depositati presso l’archivio nazionale dei contratti e degli accordi collettivi di lavoro, di cui all’articolo 17 della legge 30 dicembre 1986, n. 936.

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Jobs Act breaking news. La Commissione Lavoro della Camera dei Deputati ha apportato diverse modifiche al D.L. n. 34/2014.

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di Germano De Sanctis

Come è noto, il D.L. n. 34/2014, uno dei due pilastri del Jobs Act, è all’esame della Camera dei Deputati per la sua conversione in legge.
Nel corso della giornata di ieri, la Commissione Lavoro della Camera dei Deputati ha apportato diverse e significative modificazioni al testo originario licenziato dal Governo, al punto da suscitare un aspro scontro politico in seno alla maggioranza di Governo.

Infatti, il Nuovo Centrodestra si è duramente opposto a tali modifiche, giudicandole capaci di stravolgere l’impianto originario licenziato dal Consiglio dei Ministri.
Invece, il Partito Democratico è stato di diverso avviso, al punto da essere l’unico partito di maggioranza ad aver votato il provvedimento in Commissione Lavoro, in quanto il Nuovo Centrodestra non ha partecipato al voto e Scelta civica si è astenuta.
Ciononostante, il Ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, si è dimostrato sereno, affermando che non è stato minimamente stravolto l’impianto del D.L. n. 34/2014 ed, al contempo, ha lodato l’attività mediatrice svolta dal relatore Carlo dell’Aringa (PD).
A tal proposito, il relatore, Carlo Dell’Aringa ha tenuto a precisare che le modifiche approvate dalla Commissione sono il frutto di un serrato confronto tra le forze politiche rappresentate in Parlamento, ivi comprese, ovviamente, quelle che compongono la maggioranza di Governo.

Vendendo all’esame delle singole modifiche apportate, bisogna, in primo luogo, evidenziare la decisione di ridurre da otto a cinque il numero delle proroghe possibili per i contratti a termine acausali nei tre anni di durata massima, con l’esclusione dei contratti di somministrazione.

In secondo luogo, è stata introdotta una specifica sanzione per le imprese che, a far data dal 01-01-2015, non rispetteranno il tetto del 20% dei contratti a termine acausali sul totale dei dipendenti a tempo indeterminato. Nello specifico, la fattispecie sanzionatoria in esame prevede che ogni lavoratore a termine impiegato superando tale limite sarà automaticamente assunto a tempo indeterminato. Tuttavia, la novella prevede la possibilità per i datori di lavoro di riportarsi al di sotto del predetto limite del 20% entro la data del 31-12-2014, senza alcuna conseguenza sanzionatoria.

Infine, muta sensibilmente l’intera previsione riformatrice in materia di apprendistato. Infatti, le modifiche che interessano tale istituto sono molteplici:

  1. viene reintrodotto l’obbligo della forma scritta per il progetto di formazione, anche se in forma semplificata ed inserita nel contratto stesso;
  2. è stata ripristinata la previsione di una percentuale obbligatoria di stabilizzazioni di apprendisti, pari al 20% (più bassa di quella previgente) e operante soltanto nei confronti dei datori di lavoro con almeno trenta lavoratori dipendenti;
  3. è stata recuperata anche la formazione pubblica obbligatoria dell’apprendista, ma prevedendo che l’obbligo in capo alle Regioni d’inviare al datore di lavoro il piano formativo per la formazione trasversale e di base entro quarantacinque giorni dall’avvio del rapporto di apprendistato, con l’espressa previsione che, in caso di mancato tempestivo invio, il datore di lavoro è libero dall’osservanza di tale obbligo.

L’ultima modifica apportata concerne le donne occupate con contratti a termine di almeno sei mesi che entrano in gravidanza. In tal caso, l’indennità di maternità dovrà essere conteggiata ai fini del diritto di precedenza, nei casi in cui il datore di lavoro decida di assumere a tempo determinato od indeterminato nei dodici mesi successivi.

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Pillole di Jobs Act. Analisi e commento della legge delega in materia di ammortizzatori sociali, servizi per il lavoro e politiche attive

 

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di Germano De Sanctis

Come è ben noto, il Jobs Act si suddivide in due atti normativi distinti. Il primo atto è il D.L. n. 34/2014 che ha affrontato il tema dei contratti a tempo determinato e dell’apprendistato e che deve essere convertito in legge entro il 20 maggio prossimo.
Invece, il secondo atto normativo consiste in una legge delega recentemente presentata al Senato, in materia di ammortizzatori sociali, servizi per il lavoro e politiche attive. Si tratta di un documento composto di in sei articoli, al loro volta, suddivisi in due capi.
Il disegno di legge in questione si occupa delle seguenti materie, con l’espressa previsione di una delega al Governo per ciascuna di esse da esercitarsi entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente provvedimento legislativo:

  • la riforma degli ammortizzatori sociali, al fine grado di creare tutele uniformi e legate alla storia contributiva dei lavoratori;
  • il riordino dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, allo scopo di garantire l’erogazione e la fruizione dei servizi essenziali in materia di politica attiva del lavoro su tutto il territorio nazionale, nonché di assicurare l’esercizio unitario ed onogeneo delle relative funzioni amministrative;
  • la razionalizzazione delle procedure di costituzione e gestione dei rapporti di lavoro, attraverso la semplificazione delle procedure e degli adempimenti connessi;
  • il riordino delle forme contrattuali, al fine di implementare le opportunità dìingresso nel mercato del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, nonché di riordinare i contratti di lavoro vigenti, rendendoli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo;
  • il sostegno alla maternità ed allaconciliazione dei tempi di vita e di lavoro, allo scopo di garantire un effettivo sostegno alla genitorialità, attraverso strumenti di tutela della maternità delle lavoratrici e soluzioni capaci di garantire le opportunità di conciliazione per la generalità dei lavoratori.

Esaminiamo nel dettaglio il testo del disegno di legge delega.

La delega al Governo in materia di ammortizzatori sociali.

L’art. 1, comma 1, del disegno di legge delega, allo scopo di assicurare, in caso di disoccupazione involontaria, tutele uniformi e legate alla storia contributiva dei lavoratori, di razionalizzare la normativa in materia di integrazione salariale e di favorire il coinvolgimento attivo di quanti siano espulsi dal mercato del lavoro ovvero siano beneficiari di ammortizzatori sociali, semplificando le procedure amministrative e riducendo gli oneri non salariali del lavoro, delega il Governo, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge in questione, su proposta del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze, uno o più decreti legislativi finalizzati al riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali, tenuto conto delle peculiarità dei diversi settori produttivi.
In particolare, l’art. 1, comma 2, lett. b), n. 3, del disegno di legge delega prevede espressamente l’universalizzazione del campo di applicazione dell’ASPI, con estensione ai lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa e con l’esclusione degli amministratori e sindaci, mediante l’abrogazione degli attuali strumenti di sostegno del reddito, l’eventuale modifica delle modalità di accreditamento dei contributi e l’automaticità delle prestazioni, e prevedendo, prima dell’entrata a regime, un periodo almeno biennale di sperimentazione a risorse definite.
Si tratta di una diretta conseguenza della previsione contenuta nell’art. 1, comma 2, lett. a), n. 1, del disegno di legge delega che dispone l’impossibilità di autorizzare le integrazioni salariali in caso di cessazione di attività aziendale o di un ramo di essa.
In altri termini, la recisione del “cordone ombellicale” tra l’impresa ed il suo lavoratore dipendente, già avviata con la Legge n. 92/2012 (c.d. “Riforma Fornero”), viene generalizzata, rendendo la nuova ASpI l’unica forma di sostegno al reddito in caso di disoccupazione volontaria, riconosciuta dall’ordinamento giuslavoristico, stante anche l’eliminazione dello stato di disoccupazione come requisito per l’accesso a servizi di carattere assistenziale (cfr., art. 1, comma 2, lett. b), n. 6, del disegno di legge delega).
Tale impostazione risulta ancor più evidente se si considera il fatto che, ai sensi dell’art. 1, comma 2, lett. b), n. 5, del disegno di legge delega, è prevista, dopo la fruizione dell’ASpI, soltanto una prestazione, eventualmente priva di copertura figurativa, limitata ai lavoratori, in disoccupazione involontaria, che presentino valori ridotti dell’indicatore della situazione economica equivalente, con previsione di obblighi di partecipazione alle iniziative di attivazione proposte dai servizi competenti.

La delega al Governo in materia di servizi per il lavoro e politiche attive.

Allo scopo di garantire la fruizione dei servizi essenziali in materia di politica attiva del lavoro su tutto il territorio nazionale, nonché di assicurare l’esercizio unitario delle relative funzioni amministrative, l’art. 1, comma 2, del disegno di legge delega impegna il Governo ad adottare, entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge in questione, su proposta del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze e con il Ministro per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione, previa intesa in sede di Conferenza permanente Stato-Regioni uno o più decreti legislativi finalizzati al riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e le politiche attive.
In mancanza del raggiungimento dell’intesa entro trenta giorni dalla prima seduta della Conferenza Stato – Regioni in cui tale riforma dei servizi per il lavoro sarà posta, all’ordine del giorno provvederà il Consiglio dei Ministri esercitando il suo potere sostitutivo mediante apposita deliberazione motivata ex art. 3, D.Lgs. n. 281/1997.

Per quanto concerne la riforma dei servizi per il lavoro, appare molto interessante la previsione, contenuta nell’art. 2, comma 2, lett. c) del disegno di legge delega, dell’istituzione di un’Agenzia Nazionale per l’Occupazione, partecipata dallo Stato, dalle Regioni e dalle Province autonome e vigilata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, al cui funzionamento si provvederà con le risorse umane e strumentali già disponibili a legislazione vigente. Inoltre, ai sensi dell’art. 2, comma 2, lett. e) del disegno di legge delega, verranno attribuzione all’Agenzia Nazione per l’Occupazione tutte le competenze gestionali in materia di servizi per l’impiego, politiche attive e ASpI.
Questo processo di costituzione dell’Agenzia Nazionale per l’Occupazione verrà definito con il coinvolgimento delle parti sociali, le quali parteciperanno anche alla definizione delle linee di indirizzo generali dell’azione dell’Agenzia medesima (cfr., art. 2, comma 2, lett. d), del disegno di legge delega).
Si tratta di una previsione importante, in quanto l’art. 2, comma 2, lett. f) del disegno di legge delega prevede una conseguente razionalizzazione degli enti ed uffici che, anche all’interno del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, delle Regioni e delle Province Autonome, operanti in materia di politiche attive del lavoro, servizi per l’impiego e ammortizzatori sociali, allo scopo di evitare sovrapposizioni e di consentire l’invarianza di spesa, mediante l’utilizzo delle risorse umane e strumentali già disponibili a legislazione vigente. In coerenza con quest’ultima previsione, l’art. 2, comma 2, lett. g), del disegno di legge delega prevede la possibilità di far confluire nei ruoli delle amministrazioni vigilanti o dell’Agenzia Nazionale per l’Occupazione il personale proveniente dalle Amministrazioni o uffici soppressi o riorganizzati in attuazione della predetta lettera f), nonché di altre Amministrazioni. In altri termini, appare evidente la consapevolezza da parte del legislatore dell’impossibilità di governare un processo di razionalizzazione così complesso senza un’adeguata concertazione con le parti sociali.

Venendo al contenuto della delega in materia di politiche attive del lavoro, l’art. 1, comma 2, del disegno di legge delega elenca una serie di interventi “mirati”. Essi sono:
1. la razionalizzazione degli incentivi all’assunzione esistenti, da collegare alle caratteristiche osservabili per le quali l’analisi statistica evidenzi una minore probabilità di trovare occupazione (cfr., lett. a);
2. la razionalizzazione degli incentivi per l’autoimpiego ed autoimprenditorialità, con la previsione di una cornice giuridica nazionale volta a costituire il punto di riferimento anche per gli interventi posti in essere da regioni e province autonome (cfr., lett. b);
3. il rafforzamento delle funzioni di monitoraggio e valutazione delle politiche e dei servizi (cfr., lett. c);
4. l’introduzione di modelli sperimentali, che prevedano l’utilizzo di strumenti per incentivare il collocamento dei soggetti in cerca di lavoro e che tengano anche conto delle esperienze più significative realizzate a livello regionale (cfr., lett. l);
5. il mantenimento in capo al Ministero del lavoro e delle politiche sociali delle competenze in materia di definizione dei livelli essenziali delle prestazioni che devono essere garantite su tutto il territorio nazionale (cfr., lett. o);
6. il mantenimento in capo alle Regioni e Province autonome delle competenze in materia di programmazione delle politiche attive del lavoro (cfr., lett. p);
7. l’attivazione del soggetto che cerca lavoro, in quanto mai occupato, espulso o beneficiario di ammortizzatori sociali, al fine di incentivarne la ricerca attiva di una nuova occupazione, secondo percorsi personalizzati, anche mediante l’adozione di strumenti di segmentazione dell’utenza basati sull’osservazione statistica (cfr., lett. q).
Come appare evidente, si tratta di una serie di soluzioni che traggono il proprio fondamento dal meglio delle sperimentazioni effettuate negli ultimi anni in materia di politiche attive del lavoro, con l’intento di trasformarle da esperienze episodiche e sperimentali in attività sistematicamente garantite ai cittadini.

La delega al Governo in materia di semplificazione delle procedure e degli adempimenti.

L’art. 3, comma 1, del disegno di legge delega impegna il Governo ad adottare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge in questione, su proposta del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, di concerto con il Ministro per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione, uno o più decreti legislativi, contenenti disposizioni di semplificazione e razionalizzazione delle procedure e degli adempimenti a carico di cittadini e imprese.
Ai sensi dell’art. 1, comma 2, del disegno di legge delega, il Governo eserciterà la delega, attenendosi ai seguenti principi e criteri direttivi:
a) la razionalizzazione e la semplificazione delle procedure e degli adempimenti, anche mediante abrogazione di norme, connessi con la costituzione e la gestione del rapporto di lavoro, con l’obiettivo di dimezzare il numero di atti di gestione, del medesimo rapporto, di carattere amministrativo;
b) l’eliminazione e la semplificazione, anche mediante norme di carattere interpretativo, delle norme interessate da rilevanti contrasti interpretativi, giurisprudenziali o amministrativi;
c) unificazione delle comunicazioni alle pubbliche amministrazioni per i medesimi eventi, quali in particolare gli infortuni sul lavoro, e obbligo delle stesse amministrazioni di trasmetterle alle altre amministrazioni competenti;
d) il rafforzamento del sistema di trasmissione delle comunicazioni in via telematica e abolizione della tenuta di documenti cartacei;
e) la revisione del regime delle sanzioni, che tengano conto della eventuale natura formale della violazione e favoriscano la immediata eliminazione degli effetti della condotta illecita, nonché valorizzazione degli istituti di tipo premiale;
f) l’individuazione di modalità organizzative e gestionali che consentano di svolgere, esclusivamente in via telematica, tutti gli adempimenti di carattere amministrativo connessi con la costituzione, la gestione e la cessazione del rapporto di lavoro;
g) la revisione degli adempimenti in materia di libretto formativo del cittadino, in un’ottica di integrazione nell’ambito della dorsale informativa di cui all’art. 4, comma 51, della Legge n. 92/2012 e della banca dati delle politiche attive e passive del lavoro di cui all’articolo 8 del D.L. n. 76/2013, n. 76, convertito in Legge n. 99/2013.

La delega al Governo in materia di riordino delle forme contrattuali.

L’art. 4, comma 1, del disegno di legge delega evidenzia l’intento del legislatore di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, nonché di riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo. Per raggiungere tale scopo, le legge in questione delega il Governo ad adottare, su proposta del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, entro il termine di sei mesi dalla data di entrata in vigore di tale legge, uno o più decreti legislativi recanti misure per il riordino e la semplificazione delle tipologie contrattuali esistenti, nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi che tengano, altresì, conto degli obiettivi indicati dagli orientamenti annuali dell’Unione Europea in materia di occupabilità:
1. l’individuazione e l’analisi di tutte le forme contrattuali esistenti, ai fini di poterne valutare l’effettiva coerenza con il tessuto occupazionale e con il contesto produttivo nazionale e internazionale, anche in funzione di eventuali interventi di semplificazione delle medesime tipologie contrattuali (cfr., art. 4, comma 1, lett. a), del disegno di legge delega);
2. la redazione di un testo organico di disciplina delle tipologie contrattuali dei rapporti di lavoro, semplificate secondo quanto indicato all’art. 4, comma 1, lett. a), del disegno di legge delega, che possa anche prevedere l’introduzione, eventualmente in via sperimentale, di ulteriori tipologie contrattuali espressamente volte a favorire l’inserimento nel mondo del lavoro, con tutele crescenti per i lavoratori coinvolti (cfr., art. 4, comma 1, lett. b), del disegno di legge delega);
3. l’introduzione, eventualmente anche in via sperimentale, del compenso orario minimo, applicabile a tutti i rapporti aventi ad oggetto una prestazione di lavoro subordinato, previa consultazione delle parti sociali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale (cfr., art. 4, comma 1, lett. c), del disegno di legge delega);
4. la previsione della possibilità di estendere il ricorso a prestazioni di lavoro accessorio per le attività lavorative discontinue e occasionali, in tutti i settori produttivi, attraverso la elevazione dei limiti di reddito attualmente previsti e assicurando la piena tracciabilità dei buoni lavoro acquistati (cfr., art. 4, comma 1, lett. d), del disegno di legge delega).
5. l‘abrogazione di tutte le disposizioni che disciplinano le singole forme contrattuali, incompatibili con il testo di cui all’art. 4, comma 1, lett. b), del disegno di legge delega, al fine di eliminare duplicazioni normative e difficoltà interpretative ed applicative (cfr., art. 4, comma 1, lett. e), del disegno di legge delega).
L’art. 4 della legge delega è probabilmente la norma più significativa dell’intero articolato, in quanto contiene una serie di previsioni innovatrici che, qualora fossero realizzate, porterebbero un profondo mutamento dell’intero ordinamento giuslavoristico italiano.
Entrando nel dettaglio, appare evidente come la prima novità contenuta nella legge delega che balza subito all’attenzione dell’interprete sia la previsione di un codice semplificato del lavoro (definito “Testo organico”: cfr., art. 4, comma 1, lett. b), del disegno di legge delega). Si tratta di un obiettivo ambizioso, atteso che la realizzazione di un codice “di sintesi” dell’eterogenea e frammentaria disciplina in materia di diritto del lavoro risulta essere un compito molto arduo, sia da un punto di vista concettuale, che redazionale.
Inoltre, la legge delega prevede l’introduzione, eventualmente in via sperimentale di ulteriori tipologie contrattuali espressamente volte a favorire l’inserimento nel mondo del lavoro, con tutele crescenti per i lavoratori coinvolti e l’introduzione (cfr., art. 4, comma 1, lett. b), del disegno di legge delega), nonché, anche in questo caso in forma eventualmente in via sperimentale, del compenso orario minimo, applicabile a tutti i rapporti aventi ad oggetto una prestazione di lavoro subordinato, previa consultazione delle parti sociali più rappresentative sul piano nazionale (cfr., art. 4, comma 1, lett. c), del disegno di legge delega). Siamo di fronte ad un’ipotesi legislativa che, da un lato, cerca di circoscrivere tutte le forme di lavoro flessibile che hanno caratterizzato il mercato del lavoro negli ultimi dieci anni dopo l’emanazione del D.Lgs. n. 276/203, dall’altro, delinea un percorso progressivo che favorisce l’applicazione più ampia possibile del lavoro subordinato ex art. 2094 c.c., attraverso un riconoscimento graduale in capo al lavoratore dei suoi diritti normativi e retributivi riconosciuti dall’ordinamento. Lo strumento giuridico per realizzare quest’intento sarebbe un contratto d’inserimento a tutele e retribuzioni crescenti, i cui contenuti sono, per il momento fumosi e non ben chiariti. Sarà compito dell’attuazione della delega (ove concessa dal Parlamento) a dover evitare che siffatta tipologia contrattuale non si trasformi in uno strumento di eversione dei diritti dei lavoratori, riuscendo a contemperare i confliggenti interessi dei datori di lavoro a contenere i casti della manodopera e quelli dei lavoratori ad avere un pieno riconoscimento dei propri diritto, attraverso la costituzione di stabili e duraturi rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

La delega al Governo in materia di maternità e conciliazione.

Ai sensi dell’art. 5, comma 1, del disegno di legge delega, allo scopo di garantire adeguato sostegno alla genitorialità, attraverso misure volte a tutelare la maternità delle lavoratrici e favorire le opportunità di conciliazione per la generalità dei lavoratori, il Governo è delegato ad adottare, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri e del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, di concerto, per i profili di rispettiva competenza, con il Ministro dell’Economia e delle Finanze e con il Ministro per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione, entro il termine di sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge in questione, uno o più decreti legislativi recanti misure per la revisione e l’aggiornamento delle misure volte a tutelare la maternità e le forme di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.
Ai sensi dell’art. 5, comma 2 del disegno di legge in questione, il Governo dovrà esercitare la delega in materia attenendosi ai seguenti principi e criteri direttivi:
1. la ricognizione delle categorie di lavoratrici beneficiarie dell’indennità di maternità, nella prospettiva di estendere, eventualmente anche in modo graduale, tale prestazione a tutte le categorie di donne lavoratrici (cfr., art. 5, comma 2, lett. a), del disegno di legge delega);
2. la garanzia, per le lavoratrici madri parasubordinate, del diritto alla prestazione assistenziale anche in caso di mancato versamento dei contributi da parte del datore di lavoro (cfr., art. 5, comma 2, lett. b), del disegno di legge delega);
3. l’introduzione del tax credit, quale incentivo al lavoro femminile, per le donne lavoratrici, anche autonome, con figli minori e che si trovino al di sotto di una determinata soglia di reddito complessivo della donna lavoratrice, e armonizzazione del regime delle detrazioni per il coniuge a carico (cfr., art. 5, comma 2, lett. c), del disegno di legge delega);
4. l’incentivazione di accordi collettivi volti a favorire la flessibilità dell’orario lavorativo e dell’impiego di premi di produttività, al fine di favorire la conciliazione tra l’esercizio delle responsabilità genitoriali e dell’assistenza alle persone non autosufficienti, con l’attività lavorativa, anche attraverso il ricorso al telelavoro (cfr., art. 5, comma 2, lett. d), del disegno di legge delega);
5. il favorire l’integrazione dell’offerta di servizi per l’infanzia forniti dalle aziende nel sistema pubblico – privato dei servizi alla persona, anche mediante la promozione dell’utilizzo ottimale di tali servizi da parte dei lavoratori e dei cittadini residenti nel territorio in cui sono attivi (cfr., art. 5, comma 2, lett. e), del disegno di legge delega);
6. la ricognizione delle disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, ai fini di poterne valutare la revisione per garantire una maggiore flessibilità dei relativi congedi, favorendo le opportunità di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro (cfr., art. 5, comma 2, lett. f), del disegno di legge delega);
7. l’estensione dei principi in materia di maternità e conciliazione contenuti nel disegno di legge delega, in quanto compatibili e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, con riferimento al riconoscimento della possibilità di fruizione dei congedi parentali in modo frazionato e alle misure organizzative finalizzate al rafforzamento degli strumenti di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro (cfr., art. 5, comma 2, lett. g), del disegno di legge delega).
Dall’esame dei molteplici criteri direttivi della delega su questa materia, risulta molto interessante l’introduzione di un c.d. “tax credit”, inteso come strumento d’incentivazione del lavoro (subordinato ed autonomo) femminile, mirato a favorire un ben determinato target di lavoratrici madri in specifiche condizioni di disagio economico (cfr., art. 5, comma 2, lett. c), del disegno di legge delega). Si ha l’impressione che il legislatore nazionale voglia trasferire all’interno dell’ordinamento giuslavoristico l’esito delle varie sperimentazioni effettuate in materia da parte delle Regioni italiane attraverso l’utilizzo delle risorse del Fondo Sociale Europeo, nell’arco della programmazione 2007-2013. Tuttavia, tali esperienze privilegiavano l’erogazione di risorse economiche capace di fronteggiare, al contempo, anche la difficoltà di accesso al credito, attraverso l’erogazione di bonus (assunzionali o di autoimprenditorialità) capaci d’immettere liquidità finanziaria immediata nel circuito economico di riferimento. Invece, la scelta governativa parrebbe limitarsi ad un mero credito d’imposta che, per quanto salutare, non avrebbe la medesima forza dirompente.

Le disposizioni comuni per l’esercizio delle deleghe.

Infine, l’art. 6 del disegno di legge delega delinea una serie di disposizioni mirate a garantire un rapido esercizio della delega da parte del Governo, senza, peraltro, comportare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.
Merita attenzione la previsione contenuta nell’art. 6, comma 4, del disegno di legge delega, la quale dispone che, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore dei decreti legislativi attuativi della legge delega, il Governo può adottare, ovviamente nel rispetto dei princìpi e criteri direttivi fissati dal Parlamento, ulteriori disposizioni integrative e correttive dei decreti medesimi, tenuto conto delle evidenze attuative nel frattempo emerse. Si tratta evidentemente di una clausola di salvaguardia che permette al legislatore delegato di operare le eventuali azioni di manutenzione legislativa che si possano rendere necessarie nel corso dell’immediatezza dell’esercizio della delega in una materia così delicata come è il diritto del lavoro.