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LA TOP 100 DEI MARCHI PIÙ FORTI AL MONDO.

Pubblicata l’annuale classifica dei migliori 100 brand globali. Apple e Google marchi leader, mentre, per la prima volta, entra nella top 100 un brand cinese. Bene il settore tecnologico in generale. Mentre un nuovo concetto di personalizzazione del rapporto con la clientela si fa strada tra i brand del lusso, che puntano tutto sulle piattaforme online. E in classifica troviamo anche due noti marchi italiani.

di Michele De Sanctis

Best Global Brands 2014, la quindicesima edizione della classifica redatta da Interbrand relativa al valore dei primi 100 marchi al mondo, vede in pole position anche quest’anno Apple, il cui valore è stato valutato pari a 118,863 miliardi di dollari (+21%). Il colosso di Cupertino precede Google con 107,439 miliardi (+15%), e Coca Cola, a quota 81,563 miliardi (+3%).

Interbrand, divisione di Omnicom, è una società di consulenza, specializzata in settori quali strategia, analisi di brand, valutazione del marchio, corporate design, brand management digitale, denominazione e packaging. La società opera in tutto il mondo con i suoi 40 uffici sparsi tra 27 Paesi, tra cui anche l’Italia. Tre sono gli indici considerati da Interbrand per la valutazione dei brand con la migliore performance: redditività (performance finanziaria dei prodotti e dei servizi dell’azienda), influenza sugli acquisti dei consumatori e competitività, intesa soprattutto come capacità del marchio di imporre un premium price.

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A seguire Apple, Google e Coca Cola, nella Best Global Brands 2014 troviamo IBM, al quarto posto con 72,244 miliardi, sebbene con un -8% sul valore stimato rispetto al 2013, Microsoft (61,154 miliardi, +3%), General Electric (45,480 miliardi, -3%), Samsung (45,462 miliardi) che, però, vanta un +15% di variazione e avanza dall’ottava posizione dello scorso anno all’attuale settima, Toyota (42,392 miliardi, +20%), Mc Donald’s (42,254 miliardi, +1%) e Mercedes-Benz (34,338 miliardi; +8%) al decimo posto.

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«L’ascesa stellare di Apple e Google ad oltre 100 miliardi di dollari è un forte indicatore di come si dovrebbe costruire un brand», ha commentato Jez Frampton, Global Chief Executive Office di Interbrand. «Questi brand leader hanno raggiunto nuove vette – sia in termini di crescita sia nella storia della Best Global Brands – creando esperienze perfette, contestualmente rilevanti, e sempre più focalizzate su un ecosistema di prodotti e servizi integrati fisicamente e digitalmente. Il fatto che Apple e Google siano cresciuti tanto da superare i 100 miliardi di dollari è la prova palpabile del potere costruito da questi brand», prosegue Frampton.

Ma non solo, per la prima volta in 15 anni, infatti, entra nella top 100 anche un brand cinese, Huawei, che si piazza al 94° posto. Con una quota di circa 65% del proprio fatturato realizzato al di fuori dei confini cinesi e con una costante crescita in termini di risultati economici in Europa, Medio Oriente e Africa, Huawei sta diventando uno dei più importanti produttori di dispositivi per la telecomunicazione al mondo. Attualmente è già diventato il terzo produttore mondiale di smartphone, subito dopo Samsung e Apple.

Il settore tecnologico è, in effetti, quello che registra il maggior valore economico. Tra i 100 brand globali a maggior valore economico, 13 appartengono a questo comparto, che registra in media una crescita dell’11,3% rispetto allo scorso anno ed un valore economico totale dei brand pari a 493,2 miliardi di dollari. Nelle ultime classiffiche Best Global Brands, i colossi tecnologici hanno via via sostituito giganti dell’intrattenimento come Disney e MTV, ma anche le case automobilistiche Mercedes Benz e BMW, oltreché alcuni marchi di lusso come Louis Vuitton e Cartier. Gli unici tre marchi che in questo comparto registrano un maggior decremento o un incremento minimo del proprio valore sono Nokia, che, ormai ai margini della classifica, occupa il 98° posto e resiste, seppure con un -44%, abbandonando, peraltro, la posizione 57 del 2013, seguita da Nintendo (100° posto, -33% dopo un’annata difficile) e Microsoft (5° posto, con +3%). Ricordiamo che Microsoft ad aprile di quest’anno ha acquisito Nokia e che, allo stato attuale, risulta ancora poco chiaro come userà il marchio finlandese e, soprattutto, come evolverà in futuro. Soprattutto se intenderà davvero proseguire la produzione dei Lumia senza il marchio Nokia, come rivelato da Evleaks all’inizio della scorsa estate.

Quanto alle altre new entry della top 100, oltre a Huawei l’elenco vede l’ingresso dei corrieri DHL (81° posto) e FedEx (al 92°), del marchio automobilistico Land Rover (91° posto) e di un brand del settore lusso, il tedesco Hugo Boss (al 97°).

Tuttavia, ciò che più spicca in questa classifica è la sorprendente crescita di due brand in particolare: Amazon e Facebook. Il colosso dell’e-commerce si colloca al quindicesimo posto con un incremento del +25% rispetto al 2013, risultato raggiunto anche grazie a prodotti come Amazon Prime e agli aggiornamenti di prodotti consolidati come il Kindle Paperwhite e il Fire Phone e dopo l’accordo per la divulgazione di contenuti relativi al settore dell’intrattenimento. Risultato più che positivo anche per Facebook che, pur fermandosi al ventinovesimo posto, in un solo anno ha fatto registrare una crescita del +86% sul valore del proprio brand. Facebook continua a superare ogni aspettativa, segnalandosi come il marchio con la crescita più rilevante. I dati riportati nel secondo report trimestrale, infatti, attestano guadagni strepitosi pari a 1,4 miliardi di dollari, se si considera che nello stesso periodo del 2013 ammontavano a 562 milioni di dollari. Tale crescita è dovuta principalmente alle attività legate alla tecnologia mobile: è la prima volta nella storia del social che gli introiti ottenuti dalla pubblicità sul mobile superano di più della metà (53%) le entrate pubblicitarie del trimestre. Facebook, inoltre, sta allestendo un vasto portfolio comprensivo di prodotti, servizi e app particolarmente concorrenziali ed estremamente rilevanti nel mercato globale.

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Per quanto riguarda i brand leader del lusso, la scommessa è tutta sulle piattaforme digitali. Il notevole aumento dell’e-commerce e dell’online browsing ha portato questi brand a reinventare il concetto di customizzazione e di relazione con i propri clienti. Già il Luxury Interactive Benchmarking Report del 2013 affermava, infatti, che l’ 85% dei brand del lusso prevedeva un’espansione nel settore del marketing digitale. Non stupisce, dunque, se questo diventerà nel prossimo futuro il principale canale di comunicazione per questo tipo di brand.

Proprio al settore lusso appartengono le uniche due aziende italiane presenti nella Best Global Brands 2014: sono Gucci, in quarantunesima posizione con 10,385 miliardi di dollari, e Prada, alla settantesima con poco meno di 5,977 miliardi di dollari. Dei due brand, il primo, presente in classifica fin dalla sua prima edizione, registra una crescita del 2%, anche grazie anche alla scelta di percorrere la strada della riaffermazione come marchio in grado di combinare italianità, forti radici artigianali e appeal verso il jet-set. Il marchio Prada, invece, nella Best Global Brands dal 2012, vede il proprio valore crescere del 7%, grazie anche alla dimostrata capacità di coniugare tradizione ed innovazione e alla forte attenzione dedicata alle tematiche legate ad arte e cultura. Tra le ragioni per le quali il nostro Paese non riesce ad imporre altri brand a livello globale, nonostante le proprie eccellenze, soprattutto nel settore del lusso, c’è sicuramente l’incapacità delle nostre aziende di tradurre queste stesse eccellenze in crescita. Incapacità dovuta a fattori esterni: pesante burocrazia, crescente peso fiscale, infrastrutture nazionali inadeguate ed obsolete. Ma anche interni, sebbene spesso condizionati dai primi: dimensioni tendenzialmente piccole delle nostre imprese, separazione non sempre netta tra proprietà e management, scarso ricorso al mercato dei capitali e da ultimo, ma non meno importante, la quasi totale assenza di investimenti in economia della conoscenza (istruzione e formazione).

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Per concludere, si segnala una discreta crescita del valore del marchio per i brand dei servizi finanziari, il che lascia sperare in una ripresa economica mondiale.

Clicca QUI per vedere l’intera classifica BEST GLOBAL BRANDS 2014.

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La natura italiana dell’impresa non rende italiano il prodotto realizzato altrove: così il Tar Campania boccia la delocalizzazione delle imprese.

di Michele De Sanctis

A causa della crisi, di una certa stasi del mercato interno e della poca attrattività rispetto ai competitor stranieri – specie quelli al di fuori dell’Eurozona – oltreché per un eccessivo costo del lavoro a fronte di una pesante pressione fiscale, sono stati molti gli imprenditori italiani che negli ultimi tempi hanno tentato di far fronte alla congiuntura economica delocalizzando la propria azienda. Per delocalizzazione si intende il trasferimento della produzione di beni e servizi in altri Paesi, solitamente in via di sviluppo o in transizione. In senso stretto, ci si riferisce ad uno spostamento della produzione da imprese poste sul territorio di un determinato Paese ad altre localizzate all’estero. La produzione ottenuta in seguito a questo spostamento dell’attività non è venduta direttamente sul mercato, ma viene acquisita dall’impresa che opera nel Paese di origine per essere poi venduta sotto il proprio marchio. Dal punto di vista economico e sociale, questa pratica è stata – ed è tuttora – oggetto di un aspro dibattito tra chi la considera un importante strumento competitivo e chi, invece, ne evidenzia gli aspetti critici. Il timore principale di alcuni analisti è, infatti, che la delocalizzazione possa impoverire l’economia nazionale, con perdita di posti di lavoro e valore aggiunto. Sotto un profilo sociale, va, poi, considerato che l’effetto immediato della delocalizzazione di un’azienda è il dramma della disoccupazione per chi viene licenziato e dell’inoccupazione per chi nel mercato del lavoro, in assenza di siti produttivi, proprio non riesce ad entrarci.

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Da un punto di vista giuridico, rilevano diversi aspetti di notevole impatto non solo sul diritto privato e commerciale, ma con talune ripercussioni anche in riferimento al diritto pubblico e amministrativo. Si tratta di aspetti per lo più legati alla libera circolazione delle merci e alla regolazione dei mercati e della concorrenza, la cui disciplina è fortemente influenzata dal diritto comunitario. Proprio in relazione al tema della concorrenza tra imprese europee e delocalizzate, si è pronunciato di recente il Tar Campania, con la sentenza n. 4695/2014 (depositata in data 3 settembre 2014).

Questi i fatti: un’impresa italiana, delocalizzata in Cina, aveva risposto a un bando di gara avente ad oggetto “l’affidamento della fornitura di materiale acquedottistico”. L’azienda in questione, che in un primo momento risultava aggiudicatrice della gara, veniva successivamente esclusa. In seguito all’intervenuta revoca dell’aggiudicazione, ricorreva dinanzi al G.A., impugnando gli atti presupposti e consequenziali della procedura d’appalto. Da questi si evinceva che l’esclusione della ricorrente era stata disposta in virtù della dichiarazione di produrre la totalità dei materiali oggetto dell’appalto nella Repubblica Popolare Cinese, senza, peraltro, indicare né la sede di produzione né alcun sito produttivo all’interno della Comunità Europea. La norma che rileva in tale circostanza è l’art. 234, co. 2, d.lgs. 163/2006, che prescrive un limite in capo ai concorrenti provenienti da Paesi cd. terzi: parte dei prodotti originari di questi operatori non deve, infatti, superare il 50% del valore totale dei prodotti che compongono l’offerta di gara.

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Nel rigettare il ricorso, il Tar ha evidenziato come l’art. 234 del Codice degli Appalti definisca in via prioritaria il concetto di Paese terzo, quale Paese estraneo alla Comunità Europea, con cui gli Stati membri non abbiano concluso convenzioni e accordi, multilaterali o bilaterali, tali che assicurino un accesso comparabile ed effettivo delle imprese della Comunità alle gare indette da questi Paesi. La ‘ratio’ di questa previsione (che pone una disciplina speciale, circoscritta ai soli appalti di forniture), risiede nell’esigenza di garantire che l’apertura del mercato degli appalti comunitari a tali Paesi terzi avvenga nel rispetto della condizione di reciprocità, utilizzando quest’ultima come mezzo di discrimine ai fini dell’accesso al mercato unico europeo da parte di operatori esterni all’UE. L’obiettivo è quello di garantire a tutti gli operatori economici un trattamento uniforme: l’ingresso di nuovi soggetti alle commesse pubbliche viene, pertanto contemperato con l’esigenza di assicurare le condizioni minime di tutela della ‘par condicio’ per le imprese comunitarie che partecipano alle procedure di gara. Ciò spiega l’introduzione, su impulso comunitario, di una disciplina speciale che si fonda sulla stipulazione o meno tra CE e i suddetti Paesi terzi, di accordi che garantiscano un accesso comparabile ed effettivo delle imprese comunitarie agli appalti indetti anche in tali Paesi.

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A nulla è servita la tesi difensiva della ricorrente, secondo cui la Repubblica Popolare Cinese avrebbe in passato sottoscritto con l’UE determinati accordi internazionali. Il G.A., di contro, rilevava che tali accordi sono carenti del requisito della reciprocità richiesto dalla norma “Non risulta, infatti, che tale Repubblica abbia concluso un altro accordo internazionale che possa garantire agli operatori economici della CE un effettivo accesso al settore degli appalti di quel Paese con piena reciprocità e dignità giuridica”. Il Tar ha, quindi, affermato che solo con l’adesione al GPA – General Procurement Agreement (accordo pluriennale sugli appalti pubblici siglato nell’ambito dell’OMC) è consentita l’apertura del proprio mercato degli appalti pubblici con piena reciprocità e dignità giuridica nei confronti delle imprese UE, come previsto dall’art. 234 del Codice degli Appalti (cfr. T.A.R. Lazio, sez. I, 2.07.2007, n. 5896).

Nella stessa pronuncia, oltreché chiarire la definizione di Paese terzo, rilevante sotto il profilo soggettivo, il Tribunale Amministrativo campano, si è poi concentrato sul profilo oggettivo dei prodotti. Fondamentale, infatti, è valutare l’origine delle produzioni che compongono l’offerta. L’accertamento in parola si basa sul Codice Doganale (Regolamento CEE n. 2913/92 del 12 ottobre 1992), il quale, all’art. 23, stabilisce che “sono originarie di un Paese le merci interamente ottenute in tale Paese” e, ancora, all’art. 24, dispone che “una merce alla cui produzione hanno contribuito due o più Paesi è originaria del Paese in cui è avvenuta l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, economicamente giustificata ed effettuata in un’impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo od abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione”.

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Il G.A. ha, infine, affermato che con l’art. 234 d.lgs 163/2006 ss.mm.ii (che, peraltro, recepisce il contenuto delle Direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), il Legislatore ha istituito un sistema di preferenza comunitario basato non tanto sulla nazionalità degli offerenti, determinata dal luogo in cui è ubicata la sede legale e amministrativa (nel caso di specie, italiana ma con delocalizzazione integrale della produzione), quanto piuttosto sull’origine dei prodotti. Pertanto, al fine di determinare il campo di applicazione della norma, ciò che rileva è il luogo di produzione del bene e, di conseguenza, la sede dello stabilimento in cui esso viene realizzato, che, di per sé, può non coincidere con il luogo in cui è ubicata la sede legale o amministrativa dell’impresa (cfr. Tar Campania, Napoli, sez. IV, 27.03.2014, n. 1848/2014; Tar Friuli Venezia Giulia, Trieste, sez. I, 15.02.2010, n. 131).

Al di là del caso in esame, si evidenzia che l’art. 234 del Codice degli Appalti non solo prevede al comma 2 la possibilità per le stazioni appaltanti di respingere un’offerta contenente, per oltre la metà del proprio valore, prodotti originari di Paesi terzi. La norma prevede, altresì, un vero e proprio obbligo di operare in tal senso, quando, come disposto dal successivo comma 3, la differenza di prezzo tra un’offerta con le caratteristiche sopra descritte e una che non le presenti sia inferiore al 3%. Tali criteri vengono, peraltro, ribaditi anche dall’AVCP (ora confluita nell’ANAC) nel ‘Libro verde sulla modernizzazione della politica dell’UE in materia di appalti pubblici’, nella sezione dedicata all’accesso dei Paesi terzi al mercato UE.

In definitiva, la natura italiana dell’impresa non rende italiano il prodotto realizzato altrove, anche se la produzione viene effettuata in proprio da soggetto italiano, essendo necessario scindere il profilo soggettivo del produttore da quello oggettivo dell’origine del prodotto, cui fa riferimento l’art. 234 del d.lgs. 163/2006.

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Ripresa vera solo nel 2015. Lo dice il report di Ernst&Young

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da Il Sole 24 Ore del 23 giugno 2014

di Enrico Netti

Un’Italia che fatica ad agganciare la ripresa dell’Eurozona e per il momento continua a resistere grazie all’export – come conferma il +9,2% degli ordinativi esteri dell’industria ad aprile diffuso venerdì dall’Istat -, in attesa del ritorno della domanda interna. Per questi motivi l’anno dovrebbe terminare con un aumento dello 0,3% del Pil. Per il 2015 è previsto l’atteso cambio di passo con un’accelerazione dell’economia, che porterà la crescita del Pil all’1,2 per cento. Trend in leggera accelerazione per gli anni successivi.

Leggermente migliore la situazione negli altri Paesi dell’Unione: qui la ripresa c’è, sebbene fragile, ma la brezza del rilancio spinge l’economia con un ritmo costante. Il Pil dell’Eurozona, dopo due anni negativi, dovrebbe mettere a segno un +1,1% se la crisi dell’Ucraina resterà sotto controllo. Negli anni a seguire si vedrà un rafforzamento fino al +1,7 previsto per il 2018.

Sono i numeri chiave delle previsioni contenute nel report «Eurozone forecast», realizzato da Ernst&Young, studio che sottolinea il perdurare delle difficoltà dell’Italia.
«La nostra crescita è prevista ancora molto debole e dovrebbe irrobustirsi nel 2015: per ora l’economia continua a muoversi molto lentamente – spiega Donato Iacovone, amministratore delegato di EY Italy e Head di EY Med -. Scontiamo ancora le debolezze del sistema-Paese e fatichiamo a ritrovare il passo, mentre altre economie sono già riuscite ad agganciare la ripresa».

Il riferimento è a Spagna, Portogallo e Irlanda che, secondo le previsioni di EY, a fine anno avranno un Pil in crescita dell’1 per cento. Previsioni molto favorevoli per Lettonia, Estonia e, naturalmente, per la Germania. I Paesi periferici dell’Eurozona sono visti in recupero con il profilarsi di una lenta ripresa della domanda interna su cui si innesterà un limitato aumento degli investimenti.

In accelerazione le esportazioni dell’Eurozona, che faranno registrare – si legge nel report – aumenti su base annua compresi tra il 3,5 e il 4 per cento. Nelle ultime settimane il rapporto euro-dollaro ha visto il rafforzamento della moneta europea, ma entro fine anno potrebbe iniziare a indebolirsi a vantaggio dell’export della Ue. Inoltre sul fronte dell’economia reale si attendono gli effetti del ritorno del credito a favore delle imprese dopo l’ultima decisione della Bce.

I settori che in prospettiva si riveleranno più dinamici saranno il manifatturiero e le tlc, comparti che nel 2015 potrebbero mettere a segno un +2,7% su base annua. In decisa ripresa anche le costruzioni e le utilities. In questi comparti il made in Italy potrebbe riuscire nell’intento di agganciare la ripresa, che già spinge gli altri. «Il nostro manifatturiero ha sofferto anche di una competizione allargata – ricorda Iacovone -. Se riuscissimo a superare il limite dimensionale, indissolubilmente legato al fabbisogno finanziario, l’economia nazionale potrebbe registrare una netta accelerazione della crescita. Si devono aiutare le Pmi a proiettarsi sui mercati internazionali».
Il ritorno della domanda interna, poi, è legato a doppio filo all’export e all’efficacia delle riforme strutturali. «Il percorso di riforme intrapreso è la strada possibile per dare slancio al Pil dal lato dell’offerta e sperare così di invertire il segno degli indicatori negativi – sottolinea Iacovone -. Le previsioni ci inducono a riporre fiducia nella riforma del mercato del lavoro, nelle misure per favorire il pagamento degli arretrati della Pa e nelle privatizzazioni».

Rimane il macigno del deficit pubblico che, con gli andamenti previsti della nostra crescita, resterà al 3,1% nel 2014 per scendere sotto il 2% solo nel 2017. Fino a quell’anno il debito continuerà a restare oltre il 130 per cento. E con i livelli record di pressione fiscale è difficile immaginare ulteriori interventi e manovre sul lato delle entrate.

Fonte: Il Sole 24 Ore

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IL TUO PROSSIMO LIBRO? TE LO FINANZIA IL LETTORE.

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di Michele De Sanctis

Il crowdfunding è una particolare forma di finanziamento collettivo, una sorta di micro-finanziamento dal basso che mobilita persone e risorse. Il crowdfunding, che spesso è utilizzato per promuovere innovazione e cambiamento sociale dal basso, abbattendo, cioè, le barriere tradizionali dell’investimento finanziario, può essere utilizzato per iniziative di qualsiasi genere: dal giornalismo partecipativo all’imprenditoria innovativa ed alla ricerca scientifica, dall’aiuto in occasione di tragedie umanitarie, fino al sostegno all’arte e ai beni culturali. In questo processo, la rete gioca un ruolo da centravanti. In particolare per ciò che concerne il finanziamento di un particolare settore commerciale, l’editoria, dove il web sta mettendo in atto una vera e propria rivoluzione culturale. Se, infatti, una volta il primo approccio con il libro avveniva direttamente in libreria, oggi il lettore può, invece, partecipare attivamente alla fase di realizzazione dello stesso, fino al punto di ricevere indietro la cifra sborsata, qualora non venisse raggiunto l’obiettivo finale: la pubblicazione. È questo il crowdfunding del libro. Ad essere messi in vendita, dunque, non sono i tradizionali volumi di carta, recapitati a casa nostra dal corriere espresso entro 48 ore dall’acquisto, né il download di un e-pub o di un PDF, bensì le parole, l’anteprima di un libro e la scommessa sul suo successo.

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Nel nostro Paese è BookAbook la prima piattaforma dedicata alla raccolta di denaro online per il finanziamento di opere letterarie. Nato sulla scorta del modello del britannico Unbound e dello statunitense Pubslush, BookAbook è una creazione degli imprenditori digitali Emanuela Furiosi e Tomaso Greco, che, in collaborazione con gli agenti letterari Claire Sabatié-Garat e Marco Vigevani, responsabili dei contenuti letterari, hanno dato il via a questa interessante startup made in Italy.

Chiunque può sottoporre il proprio progetto editoriale allo staff di Bookabook, sia che si tratti di esordienti che di autori affermati: se selezionato, il progetto entra a far parte delle tre campagne mensili proposte dalla piattaforma. Per finanziare le opere, invece, basta collegarsi al portale e scegliere tra le tre offerte mensili di titoli proposti. Una volta individuato il titolo si può accedere gratuitamente all’anteprima, e qualora fossimo interessati alla trama, possiamo avanzare la nostra offerta. La base minima per partecipare ammonta a tre euro e il contest dura trenta giorni. Se si raggiunge un plafond minimo, questo coprirà i costi di realizzazione e il libro potrà essere pubblicato.

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La piattaforma contiene, inoltre, uno spazio dedicato al dialogo tra autore e lettori/finanziatori, dove potersi confrontare direttamente, così come ricevere informazioni sul making of dei testi ed interagire con altri lettori.
Se non fosse per l’oggetto del contendere, perciò, non si tratterebbe d’altro che di una classica piattaforma di crowdfunding e di finanziamento dal basso, sulla fiducia. La novità di Bookabook, però, è che per la prima volta in Italia il prodotto su cui scommettere è un libro. La filosofia alla base di Bookabook è quella di realizzare un modello economico partecipato nel settore dell’editoria, così come già sperimentato in altri segmenti di mercato, evitando il confronto con gli operatori del settore come editori, librerie e catene di distribuzione.

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La prima proposta di BookAbook è stata ‘Solovki’, un giallo di Claudio Giunta, docente presso l’Università di Trento e già autore di saggi accademici, ma esordiente nel campo della narrativa, seguita dalla campagna per la produzione de ‘Gli scaduti’, progetto firmato dalla scrittrice Lidia Ravera.

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Nel corso del 2013 l’editoria tradizionale ha perso, rispetto all’anno precedente, il 9% dei lettori. Tuttavia, per quanto il mercato elettronico sia ancora piccolo, nel 2013 i lettori di e-book sono aumentati del 17% rispetto all’anno precedente. Complici di questa crescita sono stati sia lo strumento di lettura sia i prezzi dei titoli: il costo medio (dati 2013 al netto di IVA) di un libro cartaceo è di 17,31 euro mentre quello di un titolo digitale è di 8,63.
Non è possibile per adesso una previsione sul successo dell’iniziativa, che, nelle intenzioni dei suoi startupper, è destinata a cambiare il tradizionale rapporto tra autori e lettori, rivoluzionando il modo di leggere, ma, se la pubblicazione collettiva può servire ad alterare i tradizionali equilibri dell’editoria e a far emergere nuovi talenti, c’è da augurarsi che la fortuna di questa piattaforma vada ben oltre le loro speranze. Sebbene, infatti, nessun ruolo sia previsto per gli editori e benché BookAbook non sia un loro concorrente, gli utenti della community, che sono i soli a veder pubblicato in anteprima il libro, potrebbero diventare per gli editori stessi un pubblico-campione ai fini della verifica circa l’accoglienza di un libro, dunque offrendo loro un servizio, che, in ultima istanza, avrebbe il giusto potenziale per incrementare le vendite e, nel contempo, la qualità dell’offerta editoriale. Che sia la volta buona per veder sparire dagli scaffali delle librerie Barbara d’Urso e Bruno Vespa?

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ECCO LA TOP 20 DEI MESTIERI ANTI CRISI.

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di Michele De Sanctis

Gli ultimi dati sulla disoccupazione sono stati uno shock: quella generale è quasi giunta al 13%, mentre quella giovanile si attesta intorno al 43%, così come quella femminile che supera abbondantemente il 40%, con punte drammatiche nel Meridione, dove si arriva a toccare il 60%. Per non parlare, poi, dei tanti precari, che, sì, un lavoro ce l’hanno ma vivono nella costante incertezza del futuro.
Tuttavia, tra lo sconcerto di questi dati drammatici, capita ancora di leggere notizie migliori, di quelle che ti fanno tirare un mezzo sospiro di sollievo e sperare nella ripresa che, come Godot, continua a non arrivare, rimandando sempre a domani.

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A diffondere un po’ di ottimismo, stavolta, è la CGIA, Confederazione Generale Italiana dell’Artigianato. Sulla base dei dati forniti dalle Camere di Commercio, uno studio della CGIA di Mestre analizza, infatti, il trend di crescita delle principali attività di artigianato dal 2009 al 2013, stilando una graduatoria dei settori che, nonostante la congiuntura, sono in forte espansione.
Pizza al taglio, gastronomie, rosticcerie, friggitorie, addetti alle pulizie, estetiste, serramentisti, panettieri, ma anche giardinieri, gelatai e tatuatori: sono queste le principali attività artigianali che battono la crisi.

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In testa alla classifica, tra le attività che nel corso del 2013 hanno fatto registrare un maggior incremento %, i tatuatori e tutto l’artigianato del food, a partire da quello dei gelatai e dei maestri pasticceri, settore che già a Rimini, durante l’ultimo Sigep, il Salone Internazionale della Gelateria e della Pasticceria Artigianale, aveva fatto parlare di sé.

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Ma bene vanno anche le altre tipologie di imprese comprese nella top 20 dei mestieri anti crisi. Stando, infatti, ai risultati diffusi dall’associazione degli artigiani, nel 2013 le prime 20 attività artigianali in maggiore crescita hanno creato almeno 24 mila nuovi posti di lavoro. Il criterio di discrimine tra le professioni artigiane più performanti dello scorso anno si è basato in primis sull’ordinamento delle imprese artigiane in senso decrescente rispetto al tasso di crescita (rapporto % tra nuove iscrizioni effettuate nel corso dell’anno e numero di imprese attive), dato che fornisce una misura relativa di quanto le nuove attività pesino effettivamente sullo stock di imprese. In seconda istanza, sono state incluse nella graduatoria le attività che hanno registrato un congruo numero di iscrizioni di nuove attività nel 2013 (almeno 400), che da sole rappresentano oltre il 75% delle nuove iscrizioni di imprese. Sono state da ultimo escluse dalla graduatoria quelle attività che non consentivano una descrizione sufficientemente specifica della professione associata a causa della molteplicità di figure professionali di riferimento.

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Da questo studio è emerso che al secondo posto, dopo i tatuatori, (che hanno segnato la più marcata variazione positiva con un +442,8%), seguono i pasticceri, con +348%.
Tuttavia, la CGIA invita alla cautela nell’interpretazione di questi incrementi; molte delle categorie, infatti, sono composte da un numero di attività abbastanza contenuto, il che significa che bastano piccoli incrementi in termini assoluti per far aumentare a dismisura il dato percentuale.
Infine, ecco la top 20 dei mestieri che battono la crisi:
1. Preparazione di cibi da asporto (Pizza al taglio, gastronomie, rosticcerie, friggitorie ecc.)
2. Addetti alle pulizie generali di edifici
3. Estetisti
4. Serramentisti e montatori di mobili
5. Panettieri
6. Giardinieri
7. Gelatai
8. Intonacatori/stuccatori
9. Sartoria e confezione su misura di abbigliamento
10. Confezione in serie di abbigliamento.
11. Tassisti
12. Confezioni di accessori per l’abbigliamento
13. Fotografi/riprese video matrimoni/commerciali
14. Fabbricazione di borse, pelletteria e selleria
15. Attività di tatuaggio e piercing
16. Programmatori di software
17. Riparatori/manutentori di computer e periferiche
18. Trasporti NCC (servizi di noleggio con conducente)
19. Disegnatori grafici
20. Pasticceri.

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CLICCA QUI PER LEGGERE IL COMUNICATO STAMPA DELLA CGIA E VISUALIZZARE I DATI

Cautele a parte, io vorrei leggere analisi simili ogni giorno. 24 mila posti è un numero che, grosso modo, corrisponde a quello dei dipendenti FIAT in Italia, perciò evviva l’artigianato italiano: le nostre PMI che tengono nonostante tutto, che restano il cuore ancora pulsante della nostra economia.

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“Affitto gratis la mia Mivar a chi assume 1200 italiani”

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Da La Repubblica del 7 marzo 2014

La storica azienda di televisori, fondata nel 1945, è stata stritolata dalla concorrenza dei colossi asiatici. La Rai filma l’ultimo giorno di vita della fabbrica.

ROMA – Le operaie sfilano una ad una. Con il pennarello scrivono sul retro di un televisore. È l’ultimo giorno della Mivar e vogliono fare una sorpresa al loro padrone. “Questo è per lei, ci sono le firme di tutti”, gli dicono porgendo quell’ultimo esemplare prodotto dalla storica e unica fabbrica italiana di apparecchi televisivi (e anche radiofonici), fondata nel 1945. Carlo Vichi, 90 anni, si commuove. “Ma ci sono anche i nomi degli uomini. Voglio solo i vostri!”, esclama scherzando. Perché qui, in via Dante 45, Abbiategrasso, erano loro, le donne, a costruire – non assemblare – pezzo per pezzo i televisori. Quelli col tubo catodico in bianco e nero e la scheda. Gli schermi piatti, negli anni recenti. Poi la concorrenza spietata di coreani e giapponesi, i debiti, la chiusura due mesi fa. “Ho un sogno. Poter dire ricominciamo a quanti ho detto: è finita”, ripete ora Carlo Vichi. “E per farlo, un’idea c’è. Se una società di provata serietà accetta di fare televisori in Italia, io gli offro la mia nuova fabbrica, pronta e mai usata, gratis. Non voglio un centesimo. Ma chiedo che assuma mille e duecento italiani, abbiatensi, milanesi. Questo chiedo. Veder sorridere di nuovo la mia gente”.

Vichi cammina piano nella sua fabbrica, la seconda. Non lontana dalla “casa madre” di via Dante, è stata pensata, progettata, disegnata da lui stesso. Due piani, 120 mila metri quadri totali, parcheggi, grande mensa, presidio medico. “Insuperabile, qui ci possono lavorare in 1.200, tutto in vista senza ufficetti. Vede com’è luminosa?” dice a Domenico Iannacone, giornalista e autore dei “Dieci comandamenti”, la fortunata serie di inchieste e storie italiane che riparte questa sera su Raitre proprio dalla Mivar (ore 23,15). La fabbrica è finita ormai da dieci anni. Costruita senza mutuo, costata milioni di euro, mai inaugurata. “Molti pensavano che con i risparmi mi facessi una casa. Ma io ho fatto questo, immaginando tanta gente muoversi e che mi sorridesse”. Da allora, Vichi ha tenuto questi immensi locali sempre curati, accende e spegne le luci, verifica ogni angolo. E paga l’Imu. Ma la produzione quella no, non è mai partita. Anzi, anche l’altra sede a Natale ha chiuso. Per tenerla aperta, dal 2000 in poi Vichi ha speso 100 milioni.

“Eravamo in novecento e facevamo 5.460 televisori al giorno, un milione all’anno. Ora è tutto vuoto, solo qualche scrivania. I grossi colossi c’hanno calpestato”, riflette amaro Rocco. “Ho disegnato televisori per venticinque anni. Anche se il vero designer è il signor Vichi, io la mano. È rimasto sempre in trincea, al suo tavolo con le rotelle in mezzo a noi, la sua morsa, le sue idee, il suo compasso. Lavorando anche di sabato e domenica”. “E in tutte le feste comandate, Natale e Pasqua, la sua casa è la fabbrica, da sempre”, aggiunge Anna Vichi, la moglie. “Abbiamo iniziato da sposini, in una cameretta. Avevamo 18 anni e Carlo, geniale meccanico, progettava notte e giorno sopra un banco, in un angolo che ci stava appena appena. Poi ha cominciato ad assumere. Si è preso tutti quelli delle case popolari”.
Lei è fiero di questa fabbrica?, chiede Iannacone a Vichi. “Beh insomma, questo sono io”.

Storie italiane di tenacia, ma anche di un modo di fare impresa d’altri tempi. Che stride con l’ultima parte del racconto di Iannacone. Quella dedicata all’Ilva di Taranto, la fabbrica cattiva. Vista con gli occhi, anzi con la voce di Mario, ex campione mondiale di karate contact, medaglia d’oro nel 2007, operaio Ilva e ora malato di cancro all’esofago e alla lingua. Cinque operazioni, ma il male si espande, anche alla laringe e alla tiroide. “Posso parlare solo con la macchinetta”, spiega tenendo per mano Felicetta, la moglie. “Ma non odio la fabbrica, perché c’ha dato il pane”. “Io invece la odio con tutta me stessa”, lo corregge Felicetta. “La fabbrica ti abbandona, ti fa firmare il licenziamento e via. Diventi scarto. Ma la vita che c’hanno tolto, chi ce la ridà?”.

Fonte: La Repubblica