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È stato firmato il più grande patto commerciale del pianeta. Si chiama RCEP e coinvolgerà 15 paesi dell’Asia e del Pacifico.

di Germano De Sanctis

Durante un importante vertice dell’ASEAN tenutosi on line , quindici economie dell’area Asia-Pacifico hanno sottoscritto il più grande patto di libero scambio del mondo. Si tratta di un accordo sostenuto dalla Cina e che esclude gli Stati Uniti d’America.

Il suo nome è “Regional Comprehensive Economic Partnership” (RCEP) ied è un ulteriore colpo al “Trans-Pacific Partnership” (TPP), l’accordo promosso, a suo tempo, dall’ex presidente americano Barack Obama e dal quale il suo successore Donald Trump è uscito sin dal 2017.

Secondo molti analisti, il RCEP rafforzerà la posizione della Cina come partner economico di tutto il Sudest asiatico, il Giappone e la Corea del Sud, garantendo, al contempo, alla seconda economia mondiale una migliore posizione per dettare le regole commerciali in questa regione.

Gli Stati Uniti d’America sono assenti, sia dal RCEP, sia dal successore del Trans-Pacific Partnership (TPP), il quale fu fortemente voluto da Barack Obama. Ne consegue che l’economia più grande del pianeta è fuori dalle due intese commerciali che interessano la regione in più rapida crescita di tutto il mondo.

Inoltre, il RCEP potrebbe favorire la Cina nel suo tentativo di ridurre la sua dipendenza dal mercato e dalla tecnologia statunitense. Si tratta di un’esigenza molto sentita in Cina, a seguito della nota e sempre più profonda frattura con gli Stati Uniti d’America.

All’interno del RCEP, si è trovata la possibilità di intersecare mediante un patto multilaterale esteso, da una parte, gli accordi dei dieci membri dell’Associazione delle nazioni del Sudest asiatico (ASEAN) – cioè il Brunei, Cambogia, Indonesia, Laos, Malaysia, Myanmar, Filippine, Singapore, Thailandia e Vietnam – d’altra parte, la partecipazione in forma unitaria di Australia, Cina, Giappone, Nuova Zelanda e Corea del Sud.
L’India non ha sottoscritto l’accordo in questione, a causa dei suoi timori relativamente all’aumento del suo deficit commerciale con la Cina, ma non si esclude affatto una sua adesione in un secondo momento.

Il nuovo accordo commerciale interesserà circa un terzo della popolazione e dell’economia mondiale, in quanto coinvolgerà 2,2, miliardi persone ed un volume di affari pari a circa 26 mila e 200 miliardi di dollari.
Inoltre, secondo le stime di alcuni economisti riportate dal Financial Times, il RCEP potrebbe potenzialmente aggiungere 186 miliardi di dollari all’economia globale, incrementando il PIL dei Paesi sottoscrittori dello 0,2%.

Nello specifico, il patto prevede l’eliminazione immediata di una serie di tariffe, mentre altre saranno abolite nel corso dei prossimi dieci anni. Non sono ancora noti i dettagli su quali prodotti e quali Paesi sottoscrittori beneficerebbero della riduzione immediata dei dazi.
La maggior parte degli esperti ha giudicato il RCEP come un trattato abbastanza superficiale, caratterizzato da una serie di canonici capitoli che interessano principalmente:
• il commercio di beni;
• i servizi;
• gli investimenti;
• il commercio elettronico;
• la proprietà intellettuale;
• gli appalti pubblici;
• i dazi;
• la gestione delle dogane;
• le misure di sicurezza sanitarie.
Gli analisti hanno subito evidenziato che il RCEP si connota per alcune lacune regolamentari rispetto al TPP. Infatti, ad esempio, vi è una minore incisività sulla eliminazione dei dazi (il 90% contro il 100% del TPP) ed, inoltre, sussiste una evidente assenza di aperture su un settore cruciale come l’agricoltura, mentre i servizi regolamentati non coprono tutti i settori delle economie dei Paesi sottoscrittori ed anche sull’e-commerce si denota la mancanza di decisioni veramente importanti.

Il RCEP entrerà ufficialmente in vigore, non appena tutti i Paesi firmatari lo avranno ratificato.
A quel punto, il RCEP sarà il più grande accordo commerciale multilaterale per l’area asiatica, facendo anche concorerenza a quello globale e progressivo per la partnership transpacifica (CPTPP), il quale non è altro che la versione con solo undici Paesi aderenti del TPP, a seguito dell’uscita degli Stati Uniti d’America. Si evidenzia che sette Paesi aderenti al CPTPP risultano essere anche sottoscrittori del RCEP.

Si tratta di un accordo commerciale che produrrà anche diverse conseguenze socio-politiche che esuleranno dagli aspetti squisitamente commerciali. Infatti, è la prima volta che le storiche potenze rivali dell’Asia orientale – cioè, la Cina, il Giappone e la Corea del Sud – decidono di sottoscrivere un accordo di libero scambio ed appare evidente che difficilmente lo avrebbero siglato muovendosi da sole.
È molto probabile che il RCEP potrebbe divenire, nel corso della ripresa post Covid-19, un valido strumento a favore della conquista da parte dei Paesi della regione dell’Asia-Pacifico della leadership economica globale, riducendo, in tal modo, l’egemonia che gli Stati Uniti d’America hanno in quest’area geografica.
A questo punto, sarà interessante esaminare come l’entrata in vigore del RCEP muterà le dinamiche politico-economiche tra i Paesi asiatici e gli Stati Uniti d’America, i quali, dopo aver perso agli occhi dei Paesi di quest’area il ruolo di potenza economica alternativa alla Cina a seguito dell’uscita avvenuta nel 2017 dal TPP, dovranno, con la nuova amministrazione Biden, fornire una risposta adeguata per recuperare parte della leadership perduta.

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Il sostegno alle attività produttive durante la crisi economica determinata dal Covid-19

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di Germano De Sanctis

Premessa.

Come è noto, il sistema economico mondiale sta attraversando una delle sue fasi più difficili, a causa della pandemia di Covid-19, la cui capacità e gravità di diffusione ricordano drammaticamente l’influenza spagnola del 1918.

In breve tempo, questa emergenza sanitaria ha colpito duramente, a livello globale, il sistema economico e finanziario, generando una crisi di proporzioni tali da rendere ineludibile un intervento a sostegno delle attività produttive da parte dei singoli Stati.

Nell’attesa di un vaccino, gli Stati più industrializzati hanno già cercato di stimolare le loro economie interne:

  • emanando i primi provvedimenti a sostegno delle attività produttive;

  • adottando una serie di misure volte al rallentamento della diffusione del contagio, dedicando una particolare attenzione alle fasce più vulnerabili della popolazione;

  • incentivando la sperimentazione di nuove terapie.

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La necessità di un nuovo approccio metodologico.

Tuttavia, tali interventi si connotano tutti per la medesima criticità, in quanto necessita un approccio metodologico molto diverso rispetto a quello osservato finora, dovendo mutare radicalmente il ruolo che lo Stato ha svolto nel’economia globalizzata negli ultimi decenni.

Infatti, sin dagli anni Ottanta del secolo scorso, lo Stato si è progressivamente collocato in una posizione defilata nella gestione delle dinamiche di sviluppo economico, lasciando alle grandi realtà dell’imprenditoria privata il ruolo di individuare i processi economici capaci di creare ricchezza. In pratica, gli Stati occidentali sono intervenuti soltanto in presenza di problemi che richiedevano un intervento pubblico per la loro risoluzione.

Pertanto, quando è esplosa l’emergenza sanitaria in atto, si è riscontrato che non tutti i Governi hanno avuto la capacità di gestire la crisi economica in modo adeguato e tempestivo.

Tale difficoltà è stata anche accentuata dal fatto che l’ormai radicato ruolo predominante che la grande imprenditoria privata svolge nella vita pubblica ha comportato una generale perdita di fiducia da parte dei cittadini verso le reali capacità dello Stato. In particolare, tale sfiducia si è tradotta nella realizzazione di diversi partenariati pubblico-privato, che non stanno riuscendo, in questa fase, a gestire le tutele degli interessi pubblici sottesi, con l’efficienza e l’economicità tipica del privato (a differenza di quello che ci si attenderebbe).

Ne consegue che è necessario cominciare a ragionare su come sia possibile fare capitalismo secondo diverse modalità, capaci di farci superare questa crisi, con il minor numero possibile di danni economici e sociali.

Molto banalmente, bisogna ripensare il ruolo degli Stati nell’ambito di una economia che è e rimarrà capitalistica. Credo che questo ruolo debba esplicarsi mediante specifiche azioni che, anziché limitarsi a correggere gli effetti del fallimento del mercato globale così come lo abbiamo finora conosciuto, favoriscano le condizioni per la creazione di una nuova economia globale (e globalizzata), sostenibile, inclusiva e circolare.

Per ottenere risultati concreti, penso che siano necessarie subito le seguenti azioni:

  • la comunità internazionale dovrebbe creare nuove istituzioni volte alla prevenzione di crisi come quella in atto, o che, comunque, abbiano i poteri per gestirle efficacemente una volta che esse sopravvengano;

  • i Governi degli Stati più industrializzati dovrebbero dirigere e sostenere con maggiore forza le attività di ricerca e sviluppo:

      • dedicando una particolare attenzione alla salute pubblica;

      • promuovendo virtuose sinergie in tema di ricerca, innovazione e trasferimento dei risultati ottenuti nell’ambito delle Scienze della Vita;

  • i Governi degli Stati più industrializzati dovrebbero intervenire sui propri partenariati pubblico-privato, al fine di assicurare che i prori cittadini godano di un effettivo beneficio dalla scelta di perseguire e tutelare interessi pubblici e/o collettivi attraverso il ricorso agli strumenti privatistici;

  • i singoli Governi degli Stati più industrializzati dovrebbero fare tesoro di quanto appreso nel fronteggiare la crisi finanziaria mondiale del 2008, non pensando a mere operazioni di salvataggio delle grandi imprese in crisi che si concretizzano in semplici elargizioni di denaro pubblico. Infatti, l’aiuto pubblico deve essere accompagnato dal riscontro della sussistenza delle condizioni che garantiscano che siffatti salvataggi producano effetti resilienti sul sistema produttivo. In altri termini, i settori destinatari di aiuti pubblici dovrebbero essere coinvolti in virtuosi percorsi di trasformazione, capaci di riconvertire le attività produttive oggetto di salvataggio in realtà imprenditoriali:

      • concrete e protagoniste di una nuova economia globale, dove l’incidenza tecnologica degli output della loro produzione presenta un valore aggiunto così elevato da rendere ininfluente l’incidenza del costo elevato della manodopera tipico delle economie più evolute;

      • capaci di ridurre le emissioni di anidride carbonica, generando virtuosi esempi di economia circolare;

      • munite della forza economica ed organizzativa necessaria per investire sulla riqualificazione del capitale umano occupato, rendendolo capace di adattarsi all’utilizzo delle nuove tecnologie produttive.

Il sostegno alla liquidità delle imprese.

Mentre si ragiona sugli scenari erconomici futuri, una nuova economia globale non può nascere se, durante questa fase più acuta della crisi, non si preservano le aziende in sofferenza. Infatti, molte imprese hanno già subito una importante perdita di reddito, con conseguente ridimensionamento della forza lavoro assunta.

In altri termini, siamo di fronte ad una inevitabile e profonda recessione dell’intera economia mondiale ed è necessario sostenere rapidamente ed energicamente il sistema economico prima che questa recessione si tramuti in depressione. Appare ovvio che siffatta risposta energica necessiti di un significativo aumento del debito pubblico.

In altri termini, in questa fase, i bilanci pubblici devono:

  • assorbire la perdita di reddito subito dal settore privato;

  • cancellare il debito privato;

  • sostenere il debito necessario per colmare il divario tra i livelli di richezza precedenti e quelli attuali.

Anche se quest’ultima affermazione può sembrare incauta, bisogna accettare l’idea che, in futuro, i livelli elevati di debito pubblico dei Paesi più industrializzati sarà una costante dell’economia globale nel medio e lungo periodo. Ne consegue che ogni singolo Stato, così come avviene normalmente in presenza di un emergenza nazionale, dovrà impiegare proprio bilancio per proteggere i cittadini, attuando misure che, in verità, non ha nemmeno l’obbligo di attuare.

Tuttavia, l’intervento pubblico non deve limitarsi solo a garantire un reddito minimo a favore di coloro che hanno perso il posto di lavoro, ma deve anche prevenire la perdita dei posti di lavoro. In caso contrario, al termine di questa crisi, riscontreremo livelli occupazionali sensibilmente inferiori, unitamente ad una permanentemente indebolita capacità di produzione.

Quindi, pur ribadendo l’importanza del ricorso alla cassa integrazione, agli incentivi occupazionali ed al rinvio delle tasse, la protezione della capacità produttiva necessita di un immediato e robusto sostegno di liquidità.

Nello specifico, tale sostegno di liquidità deve, inizialmente, coprire le spese operative sostenute durante la fase acuta della crisi dalle (piccole, medie e grandi) imprese e dai lavoratori autonomi ed, in un secondo momento, sostenere anche i costi di produzione necessari per la riapertura delle attività produttive.

Una simile operazione di sostegno alla liquidità comporta il necessario coinvolgimento dei sistemi finanziari dei singoli Stati, evitando ogni complicazione burocratica. Infatti, il sistema bancario (ma anche quello postale) può sostenere l’economia, creando denaro in poco tempo, garantendo gli scoperti ed accendendo linee di credito.

In particolare, il sistema bancario, supportato dalla garanzia pubblica, deve garantire prestiti a costo zero alle imprese disposte a salvaguardare i posti di lavoro dei propri dipendenti. In altri termini, le banche dovrebbero diventare uno strumento delle politiche pubbliche di sostegno alla liquidità. Infatti, gli Stati dovrebbero fornire la loro garanzia sugli ulteriori scoperti o sui prestiti. Per di più, il costo di siffatte garanzie non dovrebbe essere riparametrato sul rischio di credito dell’impresa che le riceve, ma dovrebbe essere a parametro zero, indipendentemente dal costo del finanziamento del Governo che le ha emesse.

Ciò detto, bisogna tenere, però, conto che le imprese non accederanno a forme di credito agevolato, solo perché la liquidità verrà erogata a costi bassi. Infatti, esiste una platea di imprese, che, seppur potendo accedere alla liquidità agevolata, non lo faranno, in quanto l’aumento di debito che andrebbero ad accumulare rischierebbe di compromettere la loro futura capacità di investimento.

Pertanto, se si vorranno proteggere i posti di lavoro e la capacità di investimento delle imprese, gli Stati dovranno compensare i mutuatari per le loro spese, con la conseguenza che i singoli Governi dovranno assorbire gran parte della perdita di reddito determinata dalla chiusura delle attività.

Tutto questo comporterà un aumento dei livelli di debito pubblico, ma si tratterà di un sacrificio necessario, in quanto, lo scenario alternativo prevede soltanto la distruzione permanente della capacità produttiva e della conseguente della base fiscale, con evidenti ricadute nefaste sul credito pubblico. Comunque, ad onor del vero, alla luce degli attuali e pronosticati livelli dei tassi di interesse, un siffatto aumento del debito pubblico non dovrebbe minimamente aumentare i suoi costi di servizio.

Viene da chiedersi se il sistema macroeconomico europeo sia in grado di supportare una simile iniziativa straordinaria. Orbene, l’Europa gode di una strutturazione finanziaria altamente differenziata e capace di convogliare i fondi necessari verso qualsiasi settore economico che risultasse esserne bisognoso.

Inoltre, non dobbiamo dimenticare che tutti gli Stati Membri dell’Unione Europea si connotano per la presenza di un forte settore pubblico, capace di porre in essere una coordinata e rapida risposta politica.

Si evidenzia che una risposta veloce in questo momento storico assume un valore strategico ed essenziale. L’esperienza maturata dopo la crisi del 1929 ci ha dimostrato che un’eventuale esitazione può comportare conseguenze negative irreversibili.

Chiaramente, una simile strategia richiede necessariamente un radicale cambiamento di mentalità, stante l’eccezionalità della situazione. Infatti, bisognerà tenere conto che, a differenza di altre crisi economiche del recente passato, si è in presenza di crisi non ciclica e di cui non ha colpa nessuno degli attori economici che sono in sofferenza.

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Gli strumenti finora posti in essere dall’Unione Europea.

Nell’ambito del dibattito pubblico svoltosi in questi primi mesi di emergenza sanitaria, l’Unione Europea è sembrata assente, od incapace di assumere una strategia comune sulle politiche economiche.

Finora, la Commissione Europea ha solo stabilito alcuni principi per permettere ai singoli Stati Membri di sostenere le proprie imprese, anche se, a tutt’oggi, non vi è un unico piano europeo capace di fornire maggiori garanzie e si rischia di assistere ad una eterogenea ondata di aiuti di stato, capace solo di creare effetti distorsivi sul mercato comune.

Come abbiamo visto poc’anzi, uno dei pochi punti fermi del dibattito macroeconomico in corso consiste nel fatto che, di fronte ad un mercato “evaporato” in pochi giorni, risulti necessario un intervento statale a sostegno delle imprese, senza il quale quest’ultime sarebbero prive della liquidità necessaria per onorare le proprie obbligazioni, con la conseguenza che sarebbero costrette a chiudere od a ridimensionare le proprie attività e la propria forza lavoro.

Al fine di scongiurare che gli aiuti forniti da uno Stato Membro alle proprie imprese possano distorcere la concorrenza, il Trattato della UE ha dotato la Commissione Europea di poteri di controllo, in virtù dei quali essa ha adottato un “Quadro temporaneo per le misure di aiuto di stato a sostegno dell’economia nell’attuale emergenza del Covid-19”. Tale documento persegue l’obiettivo di unificare i criteri degli aiuti di stato, finalizzati a garantire:

  • la salvaguardia della liquidità delle imprese;

  • l’accesso al finanziamento da parte delle imprese in difficoltà;

  • a mantenere intatti i livelli occupazionali, nonostante la contrazione della produzione.

Nello specifico, il predetto“Quadro temporaneo” ha previsto una serie di principi, volti ad assicurare:

  • l’efficacia degli aiuti attraverso l’individuazione soggettiva dei beneficiari. Infatti, non possano accedere alle misure le imprese che erano già in sofferenza alla data del 31 dicembre 2019 e che, di conseguenza, non possono imputare le loro difficoltà alla diffusione della pandemia da Covid-19 ed alle conseguenti misure di contenimento;

  • la natura incentivante degli aiuti erogati;

  • la limitazione degli aiuti medesimi, prevedendo che:

      • le garanzie statali ai prestiti al di sopra di € 800.000 non possano superare l’ammontare del 90%;

      • il capitale del prestito non può superare il 25% del fatturato annuale o del doppio della massa salariale annuale;

      • i sussidi ai lavoratori non possono superare l’80% per cento del loro stipendio mensile lordo;

  • il carattere temporaneo del predetto regime di aiuti.

Si tratta di una prima importante, ma non esaustiva apertura. Infatti, necessita un immediato coordinamento europeo delle politiche di sostegno, attraverso uno specifico programma comunitario.

Invece, anziché consumare risorse finanziare in eterogenei regimi di aiuti di stato, pagati con fondi nazionali e aventi beneficiari nazionali, sarebbe auspicabile la realizzazione di un programma europeo, finanziato a livello interamente comunitario e chiamato a svolgere un ruolo fondamentale per affrontare i cambiamenti strutturali.

Si è consapevoli che attualmente esistono difficoltà difficoltà politiche e legali per aumentare il bilancio dell’Unione Europea o per permettere alla Commissione Europea di finanziarsi direttamente sui mercati, ma l’eccezionalità della situazione impone l’adozione di iniziative non convenzionali.

Inoltre, un simile progetto potrebbe avere più chance di successo, rispetto al tentativo di finanziare programmi nazionali con i cosiddetti Eurobond.

Inoltre, un programma europeo gestito direttamente dalla Commissione Europea stroncherebbe all’origine le accuse di alcuni Stati Membri verso altri Stati Membri, tacciati di opportunismo e di gestione inefficiente.

Tale conclusione trova anche conforto sul fatto che il ricorso al MES od ai Coronabond non garantiscono il ristoro economico che molti attori istituzionali sono convinti di intravedere, in quanto, siamo sempre in presenza di forme di accensione di nuovi debiti per i singoli Stati Membri che ne facessero uso. In pratica, il MES ed i Coronabond coincidono nella sostanza.

Infatti, l’accesso al MES comporta per lo Stato Membro beneficiario l’accensione di nuovo debito, anche in se in forma minimamente condizionata ed a costi bassissimi, da restituire obbligatoriamente, poiché il MES si connota come un fondo assicurativo con quote garantite da tutti gli Stati Membri dell’Unione Europea.

Invece, i Coronabond non sarebbero altro che un debito garantito da tutti gli Stati Membri dell’Unione Europea, anche quindi, dall’Italia. In pratica, il meccanismo è il medesimo. In primo luogo, gli Stati Membri dell’Unione Europea costituirebbero una cassa comune per le risorse necessarie. In seguito, la Commissione Europea (o lo stesso MES) utilizzerebbe questa cassa comune per emettere debito a condizioni molto vantaggiose, giovandosi della credibilità della cassa medesima come garanzia, per, poi, prestare risorse ai singoli Stati Membri a condizioni più vantaggiose di quelle che ciascun Paese potrebbe singolarmente ottenere sul mercato.

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La riapertura.

In ultimo, non bisogna sottovalutare l’importanza strategica di una corretta programmazione della riapertura delle attività produttive.

Le decisioni che dovranno essere prese in tal senso sono sicuramente complesse e colme di incertezze. Inoltre, dovranno essere adottate alcune precauzioni, che consentano alle imprese ed ai lavoratori di arrivare preparati a quest’appuntamento.

Innanzi tutto, bisogna chiarire che è errato pensare alla c.d. “fase 2” come un momento di cesura netta tra la fase dell’emergenza sanitaria e quella della riapertura. Infatti, il processo di riapertura delle attività produttive sarà lento e con una gradualità irregolare, durante il quale soltanto la tempestività nell’individuazione e nell’isolamento di eventuali nuovi casi consentirà di andare avanti.

In secondo luogo, le informazioni relative all’effettiva diffusione dell’epidemia sono ancora troppo poco circostanziate ed eterogenee da regione a regione. A fronte di tali incertezze, risulta oltremodo difficile assumere decisioni sulla riapertura delle attività.

Appare evidente che, senza un monitoraggio costante dei tamponi su segmenti della popolazione, sarà impossibile seguire la dinamica del contagio, che, lo ribadiamo, sarà ancora in atto per i prossimi mesi a venire.

Ovviamente tale monitoraggio deve garantire in primis le fette di popolazione più a rischio, come, ad esempio i lavoratori che non potranno lavorare in modalità agile.

In tale contesto operativo, sarà necessario conoscere quale sia stata l’evoluzione del contagio per individuare, tramite campionamenti mirati, coloro che sono stati contagiati e sono guariti senza o con pochi sintomi.

Si tratta di un’operazione difficile e costosa, ma necessaria fino a quando non sarà disponibile un vaccino, al fine di concedere un minimo di agibilità nella vita delle persone.

Infine, la riapertura necessiterà l’adozione di un piano dettagliato, settore per settore, se non, addirittura, impresa per impresa, che preveda specifici protocolli di sicurezza per i lavoratori.

Tale piano dettagliato è necessario per non subire una nuova ondata di ricoverati in terapia intensiva a seguito della riapertura delle attività produttive, in quanto se le grandi imprese del settore manifatturiero sembrano essere meglio attrezzate ed, in parte, già pronte a gestire tale situazione, nelle piccole imprese e nelle attività informali si annida il rischio di un nuovo contagio.

In tal senso, il recente accordo tra FCA ed i sindacati confederali rappresenta un primo rassicurante esempio di piano capace di disciplinare la ripresa delle attività in un’impresa di grandi dimensioni, in quanto in esso si prevede che l’informazione sostanziale rivolta ai lavoratori deve prevalere sull’aspetto della loro formazione formale.

Tuttavia, permane il forte dubbio di quante piccole e medie imprese siano in grado di replicarlo. Sarà, quindi, necessario attivare subito presso tutte le imprese una capillare formazione dei lavoratori per la sicurezza al Covid-19, poiché è chiaramente insufficiente limitarsi ad aggiornare il DVR (documento valutazione dei rischi).

Ovviamente, tutte queste azioni dovranno essere accompagnate da un costante monitoraggio, al fine di evitare abusi e omissioni, rispetto ai quali l’attività degli organi di vigilanza non sarà sufficiente, ma sarà necessario anche l’impegno di tutte le parti sociali presenti in azienda e sul territorio, per non farsi trovare nuovamente impreparati.

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Le prospettive dell’Industria 4.0 nel 2019

di Germano De Sanctis

Attualmente, in Italia, i progetti aventi ad oggetto la Smart Industry valgono circa 3,2 miliardi di euro. L’80% di tale valore è destinato alle imprese italiane, mentre il restante fatturato finisce all’estero.

Tale interessante dato emerge dalla ricerca condotta dall’Osservatorio della School of Management del Politecnico di Milano, il quale ha rilevato una crescita del 35% nel corso dell’anno 2018 rispetto all’anno 2017.

Secondo la ricerca in esame, siffatto importante aumento degli investimenti è una diretta conseguenza del Piano Nazionale Industria 4.0 del 2017.

Invece, per quanto concerne l’anno 2019, a seguito dell’esame dei risultati del primo trimestre, l’Osservatorio ha preventivato una crescita che, seppur meno pronunciata rispetto all’anno 2018, dovrebbe attestarsi intorno ad un comunque significativo +20/25%.

Nello specifico, i settori in cui i progetti prevalgono sono quelli conernenti l’Industrial IoT, cioè, quelli afferenti la produzione di componentistica finalizzata alla connessione dei macchinari alla rete, la quale, da sola, vale ben 1,9 miliardi.

A seguire, gli altri settori particolarmente prevalenti per valore sono l’Industrial analytics, con 530 milioni di euro ed il Cloud manufacturing con 270 milioni di euro.

La ricerca in esame ha, altresì, evidenziato alcune importanti criticità
In primo luogo, si è stigmatizzato il mancato coinvolgimento dei lavoratori nei processi di innovazione, sia in fase di progettazione, che sviluppo delle soluzioni.
In seguito, la ricerca ha anche riscontrato che gli utilizzatori finali delle tecnologie sono stati coinvolti in tutte le fasi del processo di cambiamento soltanto nel 10% dei casi. Per di più, nel 25% dei casi, essi non sono stati minimamente informati di una strategia aziendale “4.0”.
Infine, solo nel 7% dei casi, le funzioni HR hanno partecipato alla definizione della predetta strategia aziendale 4.0.

Per approfondire la conoscenza di questo argomento: https://blog.osservatori.net/report-industria40

Alla ricerca di un modello sostenibile di Servizio Sanitario Nazionale

di Germano De Sanctis

L’attuale favorevole congiuntura economica globale sta iniziando ad interessare anche i Paesi dell’Unione Europea e tale fattore macroeconomico ha immediatamente alimentato un dibattito politico e sociale molto accesso sulla ridefinizione delle politiche in materia di salute e welfare. Negli ultimi anni, la crisi ha determinato l’affermazione di un modello di Servizio Sanitario Nazionale (e Regionale) che ha cercato di garantire il proprio equilibrio finanziario perseguendo esclusivamente una mera visione ragionieristica della soluzione del problema, attraverso una lunga serie di tagli lineari alle risorse disponibili e di conseguente riduzione dei finanziamenti disponibili.
Si è trattato di una scelta resasi necessaria a causa delle ristrettezze del bilancio nazionale e che ha provocato non pochi disagi sociali, in quanto si è assistito (e si assiste) allo scontro tra due diverse opposte esigenze. Infatti, da un lato si riscontra la necessità di un’ormai ineludibile revisione della spesa sanitaria, dall’altro si rileva l’obbligo di garantire politiche programmatorie capaci di affrontare i problemi posti dal crescente invecchiamento della popolazione, dalle nuove istanze di prevenzione collettiva e dalla non più rinviabile revisione dei modelli di cura. Appare chiaro come la risposta a tutte queste istanze comporti una totale riorganizzazione della rete ospedaliera e territoriale.

Tuttavia, si è in presenza di una dicotomia solo apparentemente irrisolvibile e che ha visto un’evoluzione della filosofia con la quale si è cercato di affrontarla. Come detto, gli ultimi anni hanno inizialmente visto prevalere le logiche di intervento caratterizzate dal rigido contenimento della spesa. Infatti, nel 2012, il governo Monti ha avviato un’intesa attività di spending review, perseguendo lo scopo di realizzare una radicale revisione della spesa pubblica, entrando anche nel merito dell’utilizzo delle risorse pubbliche. L’esito fu un’immediata strategia d’intervento sulla spesa sanitaria, caratterizzata da una serie di tagli lineari, che non prevedeva, in prima istanza, alcuna riforma strutturale del sistema.

Tale politica di intervento si è esclusivamente basata sull’assunto che il Sistema Sanitario Nazionale si fosse fino a quel momento connotato esclusivamente per i suoi sprechi e per la sua spesa fuori controllo.
Questa politica di tagli ha sicuramente prodotto risultati dal punto di vista della riduzione delle risorse allocate. Difatti, recentemente, l’OCSE ha svolto un’indagine statistica sugli esiti di tale drastica riduzione della spesa sanitaria nazionale, rilevandone una diminuzione che, nel corso degli ultimi anni, l’ha vista attestarsi a circa il 9,2% del PIL. Si tratta di un dato che garantisce all’Italia una performance migliore di quella Germania (11,3%), della Francia (11,6%) e dei Paesi Bassi (11,8%).

Ciononostante, nel corso dell’ultimo biennio, è emersa chiaramente la chiara insufficienza di una politica d’intervento basata sui soli tagli lineari. Tale presa d’atto ha prodotto un cambio di filosofia, che ha spinto ad operare i tagli alla spesa sanitaria soltanto a seguito di un attento monitoraggio delle sue varie componenti. In tal modo, sono state individuate analiticamente le tipologie dei servizi erogati, le loro priorità di intervento ed il loro tasso di efficienza. Inoltre, tale metodologia ha rilevato anche l’origine di molti sprechi nell’erogazione delle prestazioni sanitarie.
A fronte di questa nuova tendenza, vi è stato recentemente un revirement, in quanto si è tornati a discutere su ulteriori tagli (diretti ed indiretti) all’ammontare del Fondo Sanitario Nazionale. In altri termini, si tratta di una nuova riduzione dell’ammontare della spesa sanitaria, operata senza dare l’adeguata attenzione all’effettiva attuazione dei principi contenuti nel “Patto per la Salute 2014-2016” e, quindi, senza introdurre nessuno dei necessari cambiamenti strutturali di cui abbisogna il Servizio Sanitario Nazionale.
Probabilmente, sarebbe più efficace l’introduzione di un omogeneo modello organizzativo del Servizio Sanitario Nazionale, capace di assicurare l’analisi, la valutazione ed il controllo dei costi sostenuti dai singoli Sistemi Sanitari Regionali.
Tuttavia, una simile capacità di misurazione necessita di un non ancora realizzato sistema unico informatico basato su un’unica banca dati e alimentato da indicatori omogenei e condivisi tra lo Stato, le Regioni e i stakeolders. Solo in tal modo, sarà possibile programmare ex ante le attività ed operare tempestive correzioni in itinere. Ovviamente, il presupposto per avviare queste attività è la sempre più necessaria realizzazione di un’infrastruttura informatica meno frammentata.
Queste ulteriori affermazioni non devono ingenerare l’errata convinzione che non sia possibile ridurre ulteriormente i costi del Servizio Sanitario Nazionale, come, ad esempio, quelli afferenti l’acquisizione di beni e servizi non prettamente sanitari. Tuttavia, bisogna essere consapevoli che la riduzione della spesa sanitaria ha raggiunto un livello tale da ridurre drasticamente la possibilità di operare ulteriori tagli di rilevanti dimensioni.
Al contempo, le future riduzioni di spesa non possono interessare l’innovazione tecnologica, ma, anzi, sarà fondamentale la previsione di risorse adeguate a suo favore, per rendere il Sistema Sanitario Nazionale capace di sfruttare i dati prodotti da un sempre più puntuale sistema informativo.

In estrema sintesi, bisogna elaborare strategie capaci di trovare un giusto equilibrio tra il contenimento della spesa sanitaria ed il mantenimento della qualità nell’erogazione dei LEA.

L’esperienza maturata in materia di controllo della spesa nelle Regioni interessate dal Piano di Rientro dimostra che le strategie adottate sono state capaci di assicurare il pareggio di bilancio, focalizzando le azioni intraprese principalmente sui fattori economici. Invece, si è finora dedicata scarsa attenzione alla riqualificazione dei singoli Sistemi Sanitari delle Regionali. Si tratta di una situazione destinata, nel medio e lungo periodo, ad ampliare ulteriormente il divario già esistente tra tali Regioni “commissariate” e quelle definite “virtuose”.
Tale situazione desta ancor più preoccupazione, se si considera che la crisi economica che da diversi anni condiziona lo sviluppo dell’intero Paese necessita di approcci innovativi e non meramente contenitivi, dovendo affrontare il problema di una spesa sanitaria che appare sovente programmata secondo parametri non più coerenti con la società e l’economia contemporanee. Pertanto, appare ormai ineludibile procedere ad una analisi critica delle politiche sanitarie nazionali e regionali finora applicate, per, poi, introdurre nel Sistema Sanitario Nazionale nuovi strumenti d’intervento capaci di assicurare livelli di assistenza adeguati, pur assicurando il raggiungimento degli obiettivi di risparmio prefissati.
In tale ottica, uno dei primi interventi da attuare è rinvenibile nell’introduzione di un unitario percorso di tutela della salute che parte dalla prevenzione, passa per la cura e si conclude con la riabilitazione. Si tratterebbe di un’importante novità, atteso che attualmente tale visione unitaria è spesso assente, comportando, da un punto di vista squisitamente finanziario, l’assenza di sempre più necessarie sinergie e determinando, da un punto di vista di tutela dei pazienti, risposte insufficienti ed incoerenti alle esigenze di cura.

Ovviamente, l’attuazione di una strategia così complessa ed innovativa necessita anche di un completo ripensamento dell’intero sistema sanitario e di welfare, creando un percorso di tutela della persona che non si limiti ad intervenire in un’ottica meramente finalizzata alla cura delle patologie nel momento della loro fase acuta, ma che si dimostri capace, sia di attuare politiche di prevenzione, sia di assicurare un sistema efficace di cure domiciliari. Solo in questo modo, sarà possibile abbattere il sempre troppo elevato tasso di ospedalizzazione delle persone malate. Ovviamente, un simile obiettivo impone un radicale cambiamento culturale da parte di tutti gli operatori del Servizio Sanitario Nazionale.

L’importanza di un mutamento dell’approccio culturale appare evidente se si considera il fatto cherecente taglio di 4 miliardi imposto dalla legge di stabilità 2015 alle Regioni inciderà necessariamente sulla politica sanitaria locale, con particolare riferimento sull’erogazione dei LEA. Un’eventuale permanere di vecchie logiche d’intervento comporterà un sicuro depauperamento della qualità dell’assistenza sanitaria, atteso che i citati tagli alla spesa sanitaria hanno, ormai, ridotto all’osso i possibili ulteriori margini di riduzione della spesa medesima intesa in termini esclusivamente economici.
In altri termini, a fronte dei ridotti margini di un’ulteriore riqualificazione dell’assetto finanziario, sussistono ancora ampi spazi di miglioramento in termini di riqualificazione e riorganizzazione del Sistema, Sanitario Nazionale, sia relativamente ai servizi erogati da parte del settore pubblico, che da quello privato profit.

È bene precisare che l’innovazione di cui stiamo parlando, non può limitarsi ai processi clinici, ma deve coinvolgere tutti gli atti programmatori. Infatti, un sistema sanitario efficace, di qualità e coerente con gli attuali tempi di crisi non può limitarsi al rinnovamento di macchinari e tecnologie, ma deve spingersi fino ad un completo mutamento delle modalità di cura delle persone, favorendo sempre di più la prevenzione e la medicina del territorio e ricorrendo all’ospedale soltanto quando esso sarà veramente necessario.
Coerentemente con tali asserzioni, il Patto per la Salute 2014-2016 ha previsto una serie di attività condivise tra Governo e Regioni che mirano alla produzione di risparmi capaci di concorrere alla creazione di un Servizio Sanitario Nazionale efficiente, efficace e improntato ad appropriatezza ed equità.
In particolare, il Patto per la Salute 2014-2016 mira alla completa riorganizzazione del sistema, al fine di assicurare uniformità e omogeneità nell’erogazione dei servizi. Purtroppo, a fronte di una simile e chiara prescrizione descrittiva, l’attuazione di tali principi è condizionata da tempi dilatati, anche e soprattutto per la complessità e la numerosità degli impegni assunti.

Pertanto, sebbene gli effetti del predetto cambiamento culturale saranno valutabili soltanto nel medio e lungo periodo, è necessario procedere subito in tale direzione, altrimenti sarà impossibile abbandonare la logica dei meri tagli lineari, per dedicarsi alla creazione di un nuovo modello sostenibile di Servizio Sanitario Nazionale, capace di garantire l’effettiva congruità ed adeguatezza delle risorse ad esso assegnate.
Infatti, per garantire ai cittadini interventi sanitari misurabili in termini di benefici associati a costi sostenuti, sarà necessario procedere ad un complessivo ripensamento del vigente modello di Servizio Sanitario Nazionale anche sotto il profilo della riforma delle sue leggi istitutive e dell’introduzione di un’attività programmatoria a lungo termine capace di garantire ai cittadini livelli di assistenza maggiori e coerenti con le nuove esigenze dettate dalla società contemporanea, la quale è caratterizzata dal basso tasso di natalità infantile e dal contemporaneo crescente invecchiamento delle popolazione.

Ovviamente, tale nuovo modello sostenibile di Servizio Sanitario Nazionale comporterà l’introduzione di un un diverso e più moderno metodo di ripartizione delle risorse alle singoli Regioni. Sebbene il diritto alla salute sia economicamente condizionato dai ridotti margini del bilancio statale, ogni istituzione pubblica pubblica preposta alla tutela di questo diritto dovrà adoperarsi per evitare che tale condizionamento interessi i cittadini in modo differenziato in relazione al loro luogo di residenza ed incrementando, in tal modo, un ulteriore disequilibrio tra i singoli territori.
Appare evidente che si tratta di una sfida cruciale per il futuro del nostro Paese, a causa delle sue evidenti ricadute sociali.

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L’IMMOBILISMO DEL MERCATO DEL LAVORO A TUTELE CRESCENTI.

di Michele De Sanctis

In psicologia del lavoro, con l’espressione job hopping ci si riferisce letteralmente alla pratica di saltare da un lavoro all’altro. Non si tratta, invero, di un comportamento negativo, ma, anzi, negli ultimi tempi, fin dai primi anni dell’università, addirittura dagli ultimi anni del liceo, a noi giovani questa pratica è stata inculcata come se fosse l’aspetto più innovativo del futuro professionale a cui stavamo per affacciarci. Il cambiamento è sempre un fattore positivo, in primis per la propria crescita professionale e nel contempo rappresenta un buon modo per mantenere alta la passione verso il proprio lavoro. I cambiamenti, infatti, aiutano ad imparare ad essere pronti a nuove sfide e nuovi scenari. Questo è quello che ci è stato detto. Ci è stato detto che per essere competitivi, dovevamo essere più flessibili dei nostri genitori. E lo siamo stati. In alcun modo un curriculum magro sarebbe stato valutato positivamente durante il processo di recruitment di un’azienda.

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Sui nostri manuali di organizzazione del lavoro abbiamo scoperto che le persone che cambiano spesso lavoro garantiscono ottime performance, fino ad ottenere una posizione lavorativa migliore anche rispetto a coloro che da anni lavorano in uno stesso ambiente. Anzi, con l’avvento della crisi, ci hanno detto che le aziende non fossero affatto restie a questo tipo di lavoratori, dal momento che la prospettiva di una persona che puntava al posto fisso non affascinava per nulla le società che in questi anni hanno selezionato piuttosto personale efficace e competente, ma anche predisposto al cambiamento. Così ci hanno detto. Il rifiuto di adattarsi a quest’elasticità lavorativa era un po’ come dichiarare di essere choosy, o mammoni. O tutt’e due le cose. Ora che Babbo Natale ci ha portato il primi due decreti attuativi del Jobs Act, il Governo italiano ha assicurato che con questa rivoluzione copernicana del mercato del lavoro si avrà più dinamismo, più agilità…ancora più flessibilità. E ciò aiuterà l’innovazione delle aziende italiane, che, quindi, potranno finalmente essere competitive. Per cui d’ora in avanti prepariamoci ad essere dinamici, perché il posto fisso non esiste più. Io, però, ho qualche dubbio. Non sul fatto che il posto fisso non esista più, né sulla maggiore flessibilità del mercato del lavoro, quanto piuttosto sul suo dinamismo. Temo, infatti, un effetto di stagnazione riflessa del mercato dovuta proprio all’introduzione del contratto a tutele crescenti, soprattutto in quei settori, terziario in testa, dove la forza lavoro risulta altamente fungibile, quindi sostituibile.

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Se, infatti, con la nuova disciplina la sigla di un nuovo contratto comporterà la perdita delle garanzie acquisite con il vecchio, perché il nuovo è a tutele crescenti, cambiare lavoro d’ora in avanti sarà un po’ come ricominciare davvero da zero, sarà come accettare delle tutele decrescenti. Altro che crescita professionale: a chi converrà correre un rischio così alto, se non davvero costretto? Accettare nuove sfide, cambiare lavoro alla ricerca di nuovi stimoli, insomma tutti quei concetti di psicologia del lavoro finora appresi, comporteranno il rischio serio, attuale e concreto di diventare più licenziabili. Perché mentre chi lascia ricomincia daccapo, chi resterà dov’è adesso conserverà, invece, i suoi diritti. Diritti crescenti.

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Il rovescio della medaglia del contratto di lavoro a tutele crescenti sarà quindi quello di disincentivare gli italiani a cambiare lavoro. E questo non è un fattore positivo, né per il lavoratore né per le aziende. I manuali di organizzazione del lavoro che ci sono stati somministrati, infatti, non raccontavano favole. Ogni qualvolta che un dipendente cambia azienda, si innesca effettivamente quella pratica virtuosa che chiamiamo job hopping: chi cambia apprende nuove informazioni o aggiorna le pregresse e trasmette nel contempo ad altri il suo know how. Si ha, così, una crescita professionale concreta e un investimento innegabile in economia della conoscenza, senza cui non possono esserci innovazione e competitività. Inoltre, chi cambia lascia libero un posto di lavoro che occuperà magari un ex collega, il quale, avanzando nelle sue mansioni, apprenderà nuove informazioni, e che, a sua volta, lascerà disponibile la propria posizione, in cui, verosimilmente, subentrerà una persona, in genere più giovane, che apporterà in azienda ulteriore refresh complessivo e conseguente tramissione reciproca di competenze e nuova conoscenza. Insomma, l’eventuale paralisi del mercato del lavoro in seguito alla riforma appena varata potrebbe comportare la concreta interruzione di questo circolo virtuoso, già peraltro gravemente compromesso dalla crisi economica.

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Ora, siccome non si vive di solo stipendio, ma è lo stipendio a darci da mangiare – comunque sia – il lavoratore sarà costretto ad accantonare le proprie ambizioni e a difendere prioritariamente i propri diritti acquisiti, rinunciando pertanto alla mobilità e rassegnandosi, anzi, aggrappandosi alla sua scrivania, sotto cui converrà piuttosto fare le radici. Sarà, infatti, altamente difficile prendere certe decisioni, anche nel caso in cui il posto migliore venisse addirittura offerto dall’azienda concorrente a quella presso cui si è assunti e dove oggi si è lavoratori di serie A, rispetto ai neoassunti di serie B. Certo, è probabile che l’analisi di questo post sia parziale e forse troppo negativa e che magari non consideri tutti gli aspetti che sicuramente il Legislatore avrà valutato prima di introdurre le nuove regole: l’analisi di fattibilità delle leggi, in fondo, serve anche a questo. Ma quanti di voi oggi sarebbero disposti a fare un salto nel buio a queste condizioni?

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L’ITALIA PUÒ TORNARE COMPETITIVA?

di Germano De Sanctis

L’economia italiana, al pari di gran parte delle altre economie degli Stati Membri della Unione Europea, non riesce ad uscire dalla crisi economica e finanziaria. Infatti, siamo quotidianamente “bombardati” dagli allarmanti dati sulla costante recessione e dalle costanti previsioni sulla permanente deflazione.

Questa incapacità di uscire dalla crisi è principalmente cagionata dall’assenza di una reale ripresa dell’economia nazionale, la quale, a sua volta, è determinata da una perdurante assenza di competitività.

Per comprendere meglio questa affermazione, basta considerare il fatto che la crisi finanziaria del 2007 ha colpito in modo differente i singoli Paesi europei. Infatti, gli Stati europei che avevano investito nei decenni precedenti nelle aree fondamentali per la crescita economica (come, ad esempio, l’istruzione, la formazione del capitale umano, la ricerca e lo sviluppo etc.) hanno saputo gestire meglio questa difficile fase. Invece, i Paesi denominati dalla poco edificante etichetta di “Pigs” (cioè, Portogallo, Italia, Grecia e Spagna) hanno subito maggiormente gli effetti negativi della crisi, proprio perché avevano in precedenza dedicato pochissime risorse a questo genere di investimenti. Inoltre, in Italia, la crisi economica è accompagnata anche dalla difficile gestione del proprio debito sovrano. Appare evidente come un simile quadro produca una seria crisi di competitività.

Inoltre, le generiche politiche di austerità finora adottate hanno contribuito ad aggravare i fenomeni recessivi in atto, in quanto, l’Italia, al pari dei Paesi europei che versano nelle sue medesime condizioni, necessita prioritariamente di riforme “strutturali”, capaci di stimolare la crescita.

Tuttavia, in un quadro di così profonda crisi, la crescita non può essere prodotta soltanto facendo ricorso agli investimenti privati in un’ottica di loro autoregolamentazione neoliberista.

Forse è il caso di ragionare sull’utilità di nuove politiche di stampo keynesiano, dove lo Stato interviene nell’aumentare gli investimenti in quei settori capaci di aumentare la produttività e di generare la crescita. In altri termini, lo Stato deve investire sull’istruzione, sulla formazione e sulla ricerca.

Tuttavia, simili politiche d’intervento necessitano di istituzioni pubbliche dinamiche, capaci di assicurare un efficace collegamento tra il mondo scientifico, i settori industriali ed il sistema finanziario. Soltanto in tal modo, si potrà garantire la ricaduta tecnologica della migliore ricerca scientifica, attraverso l’avvio di politiche industriali innovative e supportate da investimenti finanziari a lungo termine.

Personalmente, ritengo che lo sforzo che la BCE intende compiere attraverso il c.d. il “Quantitative Easing” sia un’operazione necessaria, ma non sufficiente. Infatti, tale operazione fallirebbe se la sua iniezione di denaro fosse destinata solo al sostegno del credito. Invece, bisogna dirottare questo futuro aumento di liquidità monetaria verso i settori produttivi dell’economia reale. Però, per raggiungere un simile risultato, è imprescindibile l’intervento delle istituzioni pubbliche, così come l’esperienza passata ha già avuto modo di insegnare. Basti pensare, ad esempio, all’operazione compiuta recentemente negli USA con il programma di misure di stimolo promosso da Barak Obama.

Appare, quindi, evidente che l’Eurozona deve immediatamente elaborare politiche d’intervento unitarie, se non vuole attraversare l’intero 2015, inseguendo un ripresa che, altrimenti, non arriverà mai. Le istituzioni comunitarie ed i Singoli Stati Membri devono avere il coraggio di avviare politiche “solidali” di crescita e sviluppo, capaci di eliminare gli squilibri macroeconomici attualmente esistenti tra le singole economie nazionali. Anche la “locomotiva tedesca” ne beneficerebbe, godendo del maggiore potere di acquisto dei cittadini dell’intero continente europeo, il quale rappresenta, tuttora, il suo principale mercato d’esportazione.

Tuttavia, la competitività non si raggiunge abbattendo i costi della manodopera, ma acquisendo la capacità di produrre in maniera competitiva prodotti di alta qualità, che il resto mondo intende acquistare, ma che non è ancora capace di produrre, o di realizzare con i medesimi standard di fabbricazione.

Pertanto, bisognerebbe ricercare subito le risorse per avviare un simile genere di investimenti, partendo dai fondi strutturali comunitari, che dovrebbero essere prioritariamente destinati all’avvio di progetti innovativi, fattibili e con forti ricadute sociali. Risulta chiaro il fatto che una simile politica comporterebbe anche un necessario ripensamento del ruolo della Banca Europea per gli Investimenti (BEI). Inoltre, bisognerebbe contestualmente rivedere il sistema dei controlli legati a tali finanziamenti. Le Pubbliche Amministrazioni e le imprese degli Stati Membri che ricevono risorse comunitarie devono garantire modalità gestionali adeguate per prevenire ed evitare ogni forma di truffa, nonché per garantire un utilizzo efficace delle medesime. Non sto alludendo all’imposizione di mere politiche di austerity, capaci solo di provocare circoli viziosi di assenza di crescita. Sto alludendo a politiche capaci di verificare ex ante il reale raggiungimento dei risultati attesi.

Tengo a precisare che l’assenza di crescita in Italia non è condizionata soltanto da una Pubblica Amministrazione eccessivamente burocratizzata, ma è anche limitata da un settore privato che da troppo tempo non si distingue più (salvo rare e felici eccezioni) per essere adeguatamente dinamico e innovativo.

Ciò detto, non si può pretendere che il settore privato sia dinamico ed innovativo, in assenza di un settore pubblico altrettanto dinamico e innovativo. Il problema della Pubblica Amministrazione non risiede principalmente nel suo eccesso di burocratizzazione, ma nella sua incapacità (a differenza di molti altri Stati europei) di finanziare adeguatamente l’istruzione, la ricerca e l’innovazione, allo scopo di incrementare lo sviluppo del capitale umano. In altri termini, la Pubblica Amministrazione italiana non è stata finora in grado di favorire l’implementazione di quei settori che determinano la crescita e la produttività.

Ovviamente, il settore pubblico non può determinare da solo l’avvio di una nuova fase di crescita, in quanto necessita di un settore privato capace di raccogliere una simile sfida. Affinché si riesca a garantire una efficace ricaduta tecnologica degli investimenti pubblici in materia di ricerca ed innovazione, vi deve essere un settore privato capace di comprendere e sfruttare le opportunità di profitto offerte dall’innovazione tecnologica, introducendo nuove tipologie di prodotti, la cui utilità marginale è insita nel valore aggiunto del prodotto in sé, e non nel suo basso costo di produzione.

In estrema sintesi, il settore pubblico ed il settore privato devono assumere insieme i rischi della ricerca, per, poi, goderne insieme dei benefici conseguenti.

Questa sinergia tra pubblico e privato in materia di ricerca ed innovazione deve divenire una sorta di cooperazione allargata tra imprese private e Pubbliche Amministrazioni, capace di produrre ricchezza attraverso la crescita della società italiana.

Si tiene a precisare che non si sta delineando un politica economica statalista e/o assistenziale. Si sta solo evidenziando che un sistema di imprese private, per quanto innovativo e dinamico voglia e possa essere, non ha la forza di affrontare da solo alcune tipologie di investimenti aventi ad oggetto ricerche con ricadute tecnologiche ed economiche soltanto di lungo periodo. Invece, tali tipi di investimento devono essere supportati dal settore pubblico, il quale deve avere la forza e la lungimiranza di garantire alla propria economia nazionale una riserva di risorse all’uopo dedicate. Soltanto operando in tal modo, si potrà garantire la crescita necessaria per garantire uno sviluppo sostenibile della società.

L’assenza di un ruolo dello Stato nel promuovere l’innovazione e la ricerca è la ragione dell’entropia di un sistema economico nazionale ed è, altresì, la base di un costante ed irreversibile fenomeno d’impoverimento per assenza di crescita. Pertanto, lo Stato deve svolgere un ruolo essenziale nel sostenere i primi passi dei grandi processi di innovazione, in quanto, di fronte a progetti d’investimento molto ampi ed a lunga gittata, il settore privato non è disposto a correre rischi giudicati troppo alti.

Chiaramente, un simile ragionamento impone un totale ripensamento “culturale” della Pubblica Amministrazione italiana, la quale, fin quanto sarà ritenuta una macchina burocratica inefficiente e parassitaria, difficilmente riuscirà ad attrarre al suo interno figure professionali capaci realmente di innovare.

In estrema sintesi, l’Italia ha smesso di essere competitiva e non riesce ad avere un’economia in crescita, in quanto lo Stato ha smesso di svolgere da troppo tempo il suo ruolo di promotore dell’innovazione e dello sviluppo tecnologico, supportando adeguatamente le risorse intellettuali disponibili.

Bisogna, quindi, abbandonare le concezioni che vedono l’intervento diretto dello Stato, solo come evento sussidiario di ultima istanza in caso di fallimento del mercato. Infatti, tutte le grandi scoperte tecnologiche hanno sempre visto protagonista lo Stato, nel ruolo di finanziatore iniziale della ricerca scientifica pura, per, poi, “trasferire” le ricadute tecnologiche di tale ricerca finanziata al sistema imprenditoriale privato.

Non è possibile supportare l’innovazione, soltanto attraverso l’abbattimento dell’imponibile fiscale e mediante la riduzione della regolamentazione giuslavoristica. Un prodotto industriale non diventerà mai competitivo, soltanto riducendone i costi di produzione, ma rendendolo appetibile per il mercato, in modo tale che il suo costo di produzione sia rilevante solo relativamente alla quantificazione dei ricavi ottenuti dalla sua vendita. Tale affermazione trova riscontro nell’analisi dei fatti, la quale dimostra esattamente il contrario e, cioè, che l’aumento del costo unitario del lavoro è il diretto risultato del calo della produttività dovuto alla diminuzione degli investimenti pubblici e privati e pubblici in tutti i settori capaci d’incrementare la crescita del capitale umano e lo sviluppo dell’innovazione.

In conclusione l’Italia tornerà a crescere soltanto se il settore pubblico sarà capace di avviare una politica industriale, capace di promuovere lo sviluppo di imprese (anche piccole) innovative, attraverso investimenti a medio e lungo termine.

L’intervento pubblico dovrà essere comunque d’ausilio (e non sostitutivo) dei  pur sempre necessari investimenti privati, i quali dovranno essere, a loro volta, supportati da un settore finanziario finalmente riformato. In tal modo, si potrà ottenere un felice ricongiungimento tra la finanza e l’economia reale, in grado di garantire un lungo periodo di crescita stabile e costante. In altri termini, necessita un intervento del settore finanziario a favore degli investimenti di lungo termine e a supporto dei processi d’innovazione tecnologici e produttivi.

Inoltre, l’economia reale dovrà anche beneficiare di una politica fiscale progressiva (e non regressiva) a lungo termine, posta a sostegno del processo d’innovazione e che esuli da meri tagli orizzontali della tassazione, i quali sono capaci soltanto di favorire gli speculatori.

Infine, lo Stato dovrà attivarsi per costruire un nuovo sistema di dinamiche relazionali con le parti sociali. Soltanto in tal modo, sarà possibile negoziare condizioni migliori per tutti i lavoratori, senza pregiudicare la redditività delle singole produzioni, in un periodo in cui i profitti continuano a crescere in rapporto ai salari. Il mondo sindacale non deve essere confinato in un ruolo di strenuo difensore di diritti acquisiti dalle precedenti generazioni di lavoratori, ma, al contempo, incapace di proporre un modello condiviso di sviluppo. Esso deve essere coinvolto dal settore pubblico nel processo d’innovazione, fino a trasformarlo in un soggetto che contribuisce attivamente all’avvio di una nuova fase di crescita nazionale, trainata dall’innovazione tecnologica e dai nuovi cicli produttivi.

Questa sinergia di interventi dovrebbe infondere al settore privato quel necessario coraggio ad investire nell’innovazione che è ormai assente in Italia da troppo tempo.

In estrema sintesi, l’Italia tornerà a crescere, soltanto se si riscontrerà la presenza congiunta delle politiche pubbliche per l’innovazione, della riforma del settore finanziario e del riconoscimento delle ruolo delle organizzazioni sindacali nella creazione di un nuovo dialogo sociale.

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LA TOP 100 DEI MARCHI PIÙ FORTI AL MONDO.

Pubblicata l’annuale classifica dei migliori 100 brand globali. Apple e Google marchi leader, mentre, per la prima volta, entra nella top 100 un brand cinese. Bene il settore tecnologico in generale. Mentre un nuovo concetto di personalizzazione del rapporto con la clientela si fa strada tra i brand del lusso, che puntano tutto sulle piattaforme online. E in classifica troviamo anche due noti marchi italiani.

di Michele De Sanctis

Best Global Brands 2014, la quindicesima edizione della classifica redatta da Interbrand relativa al valore dei primi 100 marchi al mondo, vede in pole position anche quest’anno Apple, il cui valore è stato valutato pari a 118,863 miliardi di dollari (+21%). Il colosso di Cupertino precede Google con 107,439 miliardi (+15%), e Coca Cola, a quota 81,563 miliardi (+3%).

Interbrand, divisione di Omnicom, è una società di consulenza, specializzata in settori quali strategia, analisi di brand, valutazione del marchio, corporate design, brand management digitale, denominazione e packaging. La società opera in tutto il mondo con i suoi 40 uffici sparsi tra 27 Paesi, tra cui anche l’Italia. Tre sono gli indici considerati da Interbrand per la valutazione dei brand con la migliore performance: redditività (performance finanziaria dei prodotti e dei servizi dell’azienda), influenza sugli acquisti dei consumatori e competitività, intesa soprattutto come capacità del marchio di imporre un premium price.

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A seguire Apple, Google e Coca Cola, nella Best Global Brands 2014 troviamo IBM, al quarto posto con 72,244 miliardi, sebbene con un -8% sul valore stimato rispetto al 2013, Microsoft (61,154 miliardi, +3%), General Electric (45,480 miliardi, -3%), Samsung (45,462 miliardi) che, però, vanta un +15% di variazione e avanza dall’ottava posizione dello scorso anno all’attuale settima, Toyota (42,392 miliardi, +20%), Mc Donald’s (42,254 miliardi, +1%) e Mercedes-Benz (34,338 miliardi; +8%) al decimo posto.

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«L’ascesa stellare di Apple e Google ad oltre 100 miliardi di dollari è un forte indicatore di come si dovrebbe costruire un brand», ha commentato Jez Frampton, Global Chief Executive Office di Interbrand. «Questi brand leader hanno raggiunto nuove vette – sia in termini di crescita sia nella storia della Best Global Brands – creando esperienze perfette, contestualmente rilevanti, e sempre più focalizzate su un ecosistema di prodotti e servizi integrati fisicamente e digitalmente. Il fatto che Apple e Google siano cresciuti tanto da superare i 100 miliardi di dollari è la prova palpabile del potere costruito da questi brand», prosegue Frampton.

Ma non solo, per la prima volta in 15 anni, infatti, entra nella top 100 anche un brand cinese, Huawei, che si piazza al 94° posto. Con una quota di circa 65% del proprio fatturato realizzato al di fuori dei confini cinesi e con una costante crescita in termini di risultati economici in Europa, Medio Oriente e Africa, Huawei sta diventando uno dei più importanti produttori di dispositivi per la telecomunicazione al mondo. Attualmente è già diventato il terzo produttore mondiale di smartphone, subito dopo Samsung e Apple.

Il settore tecnologico è, in effetti, quello che registra il maggior valore economico. Tra i 100 brand globali a maggior valore economico, 13 appartengono a questo comparto, che registra in media una crescita dell’11,3% rispetto allo scorso anno ed un valore economico totale dei brand pari a 493,2 miliardi di dollari. Nelle ultime classiffiche Best Global Brands, i colossi tecnologici hanno via via sostituito giganti dell’intrattenimento come Disney e MTV, ma anche le case automobilistiche Mercedes Benz e BMW, oltreché alcuni marchi di lusso come Louis Vuitton e Cartier. Gli unici tre marchi che in questo comparto registrano un maggior decremento o un incremento minimo del proprio valore sono Nokia, che, ormai ai margini della classifica, occupa il 98° posto e resiste, seppure con un -44%, abbandonando, peraltro, la posizione 57 del 2013, seguita da Nintendo (100° posto, -33% dopo un’annata difficile) e Microsoft (5° posto, con +3%). Ricordiamo che Microsoft ad aprile di quest’anno ha acquisito Nokia e che, allo stato attuale, risulta ancora poco chiaro come userà il marchio finlandese e, soprattutto, come evolverà in futuro. Soprattutto se intenderà davvero proseguire la produzione dei Lumia senza il marchio Nokia, come rivelato da Evleaks all’inizio della scorsa estate.

Quanto alle altre new entry della top 100, oltre a Huawei l’elenco vede l’ingresso dei corrieri DHL (81° posto) e FedEx (al 92°), del marchio automobilistico Land Rover (91° posto) e di un brand del settore lusso, il tedesco Hugo Boss (al 97°).

Tuttavia, ciò che più spicca in questa classifica è la sorprendente crescita di due brand in particolare: Amazon e Facebook. Il colosso dell’e-commerce si colloca al quindicesimo posto con un incremento del +25% rispetto al 2013, risultato raggiunto anche grazie a prodotti come Amazon Prime e agli aggiornamenti di prodotti consolidati come il Kindle Paperwhite e il Fire Phone e dopo l’accordo per la divulgazione di contenuti relativi al settore dell’intrattenimento. Risultato più che positivo anche per Facebook che, pur fermandosi al ventinovesimo posto, in un solo anno ha fatto registrare una crescita del +86% sul valore del proprio brand. Facebook continua a superare ogni aspettativa, segnalandosi come il marchio con la crescita più rilevante. I dati riportati nel secondo report trimestrale, infatti, attestano guadagni strepitosi pari a 1,4 miliardi di dollari, se si considera che nello stesso periodo del 2013 ammontavano a 562 milioni di dollari. Tale crescita è dovuta principalmente alle attività legate alla tecnologia mobile: è la prima volta nella storia del social che gli introiti ottenuti dalla pubblicità sul mobile superano di più della metà (53%) le entrate pubblicitarie del trimestre. Facebook, inoltre, sta allestendo un vasto portfolio comprensivo di prodotti, servizi e app particolarmente concorrenziali ed estremamente rilevanti nel mercato globale.

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Per quanto riguarda i brand leader del lusso, la scommessa è tutta sulle piattaforme digitali. Il notevole aumento dell’e-commerce e dell’online browsing ha portato questi brand a reinventare il concetto di customizzazione e di relazione con i propri clienti. Già il Luxury Interactive Benchmarking Report del 2013 affermava, infatti, che l’ 85% dei brand del lusso prevedeva un’espansione nel settore del marketing digitale. Non stupisce, dunque, se questo diventerà nel prossimo futuro il principale canale di comunicazione per questo tipo di brand.

Proprio al settore lusso appartengono le uniche due aziende italiane presenti nella Best Global Brands 2014: sono Gucci, in quarantunesima posizione con 10,385 miliardi di dollari, e Prada, alla settantesima con poco meno di 5,977 miliardi di dollari. Dei due brand, il primo, presente in classifica fin dalla sua prima edizione, registra una crescita del 2%, anche grazie anche alla scelta di percorrere la strada della riaffermazione come marchio in grado di combinare italianità, forti radici artigianali e appeal verso il jet-set. Il marchio Prada, invece, nella Best Global Brands dal 2012, vede il proprio valore crescere del 7%, grazie anche alla dimostrata capacità di coniugare tradizione ed innovazione e alla forte attenzione dedicata alle tematiche legate ad arte e cultura. Tra le ragioni per le quali il nostro Paese non riesce ad imporre altri brand a livello globale, nonostante le proprie eccellenze, soprattutto nel settore del lusso, c’è sicuramente l’incapacità delle nostre aziende di tradurre queste stesse eccellenze in crescita. Incapacità dovuta a fattori esterni: pesante burocrazia, crescente peso fiscale, infrastrutture nazionali inadeguate ed obsolete. Ma anche interni, sebbene spesso condizionati dai primi: dimensioni tendenzialmente piccole delle nostre imprese, separazione non sempre netta tra proprietà e management, scarso ricorso al mercato dei capitali e da ultimo, ma non meno importante, la quasi totale assenza di investimenti in economia della conoscenza (istruzione e formazione).

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Per concludere, si segnala una discreta crescita del valore del marchio per i brand dei servizi finanziari, il che lascia sperare in una ripresa economica mondiale.

Clicca QUI per vedere l’intera classifica BEST GLOBAL BRANDS 2014.

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Jobs Act, ecco il testo del maximendamento approvato dal Senato

Il Senato ha approvato con 165 “si”, 111 “no” e 2 astenuti il maxiemendamento del Governo che ha completamente sostituito il testo della legge delega sulla riforma del lavoro e sul quale, lo si ricorda, il Governo ha posto la fiducia.

Di seguito, si riporta il testo del predetto maxiemendamento.

Gli articoli 1, 2, 3, 4, 5 e 6 sono sostituiti dal seguente:
ART. 1
(Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro)
1. Allo scopo di assicurare, in caso di disoccupazione involontaria, tutele uniformi e legate alla storia contributiva dei lavoratori, di razionalizzare la normativa in materia di integrazione salariale e di favorire il coinvolgimento attivo di quanti siano espulsi dal mercato del lavoro ovvero siano beneficiari di ammortizzatori sociali, semplificando le procedure amministrative e riducendo gli oneri non salariali del lavoro, il Governo │ delegato ad adottare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, uno o più decreti legislativi finalizzati al riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali, tenuto conto delle peculiarità dei diversi settori produttivi.
2. Nell’esercizio della delega di cui al comma 1 il Governo si attiene, rispettivamente, ai seguenti principi e criteri direttivi:
a) con riferimento agli strumenti di tutela in costanza di rapporto di lavoro:
1) impossibilità di autorizzare le integrazioni salariali in caso di cessazione di attività aziendale o di un ramo di essa;
2) semplificazione delle procedure burocratiche attraverso l’incentivazione di strumenti telematici e digitali, considerando anche la possibilità di introdurre meccanismi standardizzati di concessione prevedendo strumenti certi ed esigibili;
3) necessità di regolare l’accesso alla cassa integrazione guadagni solo a seguito di esaurimento delle possibilità contrattuali di riduzione dell’orario di lavoro, eventualmente destinando una parte delle risorse attribuite alla cassa integrazione a favore dei contratti di solidarietà;
4) revisione dei limiti di durata da rapportare al numero massimo di ore ordinarie lavorabili nel periodo di intervento della cassa integrazione guadagni ordinaria e della cassa integrazione guadagni straordinaria e individuazione dei meccanismi di incentivazione della rotazione;
5) previsione di una maggiore compartecipazione da parte delle imprese utilizzatrici;
6) riduzione degli oneri contributivi ordinari e rimodulazione degli stessi tra i settori in funzione dell’utilizzo effettivo;
7) revisione dell’ambito di applicazione della cassa integrazione guadagni ordinaria e straordinaria e dei fondi di solidarietà di cui all’articolo 3 della legge 28 giugno 2012, n. 92, fissando un termine certo per l’avvio dei fondi medesimi e previsione della possibilità di vincolare destinare gli eventuali risparmi di spesa derivanti dall’attuazione delle disposizioni di cui alla presente lettera al finanziamento delle disposizioni di cui ai commi 1, 2, 3 e 4;
8) revisione dell’ambito di applicazione e delle regole di funzionamento dei contratti di solidarietà, con particolare riferimento all’articolo 2 del decreto-legge 30 ottobre 1984, n. 726, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 dicembre 1984, n. 863, nonchè alla messa a regime dei contratti di solidarietà di cui all’articolo 5, commi 5 e 8, del decreto-legge 20 maggio 1993, n. 148, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1993, n. 236;
b) con riferimento agli strumenti di sostegno in caso di disoccupazione involontaria:
1) rimodulazione dell’Assicurazione sociale per l’impiego (ASpI), con omogeneizzazione della disciplina relativa ai trattamenti ordinari e ai trattamenti brevi, rapportando la durata dei trattamenti alla pregressa storia contributiva del lavoratore;
2) incremento della durata massima per i lavoratori con carriere contributive più rilevanti;
3) universalizzazione del campo di applicazione dell’ASpI, con estensione ai lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa e con l’esclusione degli amministratori e sindaci, mediante l’abrogazione degli attuali strumenti di sostegno del reddito, l’eventuale modifica delle modalità di accreditamento dei contributi e l’automaticità delle prestazioni, e prevedendo, prima dell’entrata a regime, un periodo almeno biennale di sperimentazione a risorse definite;
4) introduzione di massimali in relazione alla contribuzione figurativa;
5) eventuale introduzione, dopo la fruizione dell’ASpI, di una prestazione, eventualmente priva di copertura figurativa, limitata ai lavoratori, in disoccupazione involontaria, che presentino valori ridotti dell’indicatore della situazione economica equivalente, con previsione di obblighi di partecipazione alle iniziative di attivazione proposte dai servizi competenti;
6) eliminazione dello stato di disoccupazione come requisito per l’accesso a servizi di carattere assistenziale;
c) con riferimento agli strumenti di cui alle lettere a) e b), individuazione di meccanismi che prevedano un coinvolgimento attivo del soggetto beneficiario dei trattamenti di cui alle lettere a) e b), al fine di favorirne l’attività a beneficio delle comunità locali, tenuto conto della finalità di incentivare la ricerca attiva di una nuova occupazione da parte del medesimo soggetto secondo percorsi personalizzati, con modalità che non determinino aspettative di accesso agevolato alle amministrazioni pubbliche;
d) adeguamento delle sanzioni e delle relative modalità di applicazione, in funzione della migliore effettività, secondo criteri oggettivi e uniformi, nei confronti del lavoratore beneficiario di sostegno al reddito che non si rende disponibile ad una nuova occupazione, a programmi di formazione o alle attività a beneficio di comunità locali di cui alla lettera c).
3. Allo scopo di garantire la fruizione dei servizi essenziali in materia di politica attiva del lavoro su tutto il territorio nazionale, nonché di assicurare l’esercizio unitario delle relative funzioni amministrative, il Governo è delegato ad adottare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto, per i profili di rispettiva competenza, con il Ministro dell’economia e delle finanze e con il Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, ai sensi dell’articolo 3 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, uno o più decreti legislativi finalizzati al riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e di politiche attive. In mancanza dell’intesa nel termine di cui all’articolo 3 del citato decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, il Consiglio dei ministri provvede con deliberazione motivata ai sensi del medesimo articolo 3. Le disposizioni del presente comma e quelle dei decreti legislativi emanati in attuazione dello stesso si applicano nelle province autonome di Trento e di Bolzano in conformità a quanto previsto dallo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige e dalle relative norme di attuazione nonché dal decreto legislativo 21 settembre 1995, n. 430.
4. Nell’esercizio della delega di cui al comma 3 il Governo si attiene ai seguenti principi e criteri direttivi:
a) razionalizzazione degli incentivi all’assunzione esistenti, da collegare alle caratteristiche osservabili per le quali l’analisi statistica evidenzi una minore probabilità di trovare occupazione, e a criteri di valutazione e di verifica dell’efficacia e dell’impatto;
b) razionalizzazione degli incentivi per l’autoimpiego e l’autoimprenditorialità, con la previsione di una cornice giuridica nazionale volta a costituire il punto di riferimento anche per gli interventi posti in essere da regioni e province autonome;
c) istituzione, ai sensi dell’articolo 8 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, di un’Agenzia nazionale per l’occupazione, di seguito denominata “Agenzia”, partecipata da Stato, regioni e province autonome, vigilata dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, al cui funzionamento si provvede con le risorse umane, finanziarie e strumentali già disponibili a legislazione vigente e mediante quanto previsto dalla lettera f);
d) coinvolgimento delle parti sociali nella definizione delle linee di indirizzo generali dell’azione dell’Agenzia;
e) attribuzione all’Agenzia di competenze gestionali in materia di servizi per l’impiego, politiche attive e ASpI;
f) razionalizzazione degli enti strumentali e degli uffici del Ministero del lavoro e delle politiche sociali allo scopo di aumentare l’efficienza e l’efficacia dell’azione amministrativa, mediante l’utilizzo delle risorse umane, strumentali e finanziarie già disponibili a legislazione vigente;
g) razionalizzazione e revisione delle procedure e degli adempimenti in materia di inserimento mirato delle persone con disabilità di cui alla legge 12 marzo 1999, n. 68, e degli altri soggetti aventi diritto al collocamento obbligatorio, al fine di favorirne l’inserimento e l’integrazione nel mercato del lavoro;
h) possibilità di far confluire, in via prioritaria, nei ruoli delle amministrazioni vigilanti o dell’Agenzia il personale proveniente dalle amministrazioni o uffici soppressi o riorganizzati in attuazione della lettera f) nonché di altre amministrazioni;
i) individuazione del comparto contrattuale del personale dell’Agenzia con modalità tali da garantire l’invarianza di oneri per la finanza pubblica;
l) determinazione della dotazione organica di fatto dell’Agenzia attraverso la corrispondente riduzione delle posizioni presenti nella pianta organica di fatto delle amministrazioni di provenienza del personale ricollocato presso l’Agenzia medesima;
m) rafforzamento delle funzioni di monitoraggio e valutazione delle politiche e dei servizi;
n) valorizzazione delle sinergie tra servizi pubblici e privati, al fine di rafforzare le capacità d’incontro tra domanda e offerta di lavoro, prevedendo, a tal fine, la definizione dei criteri per l’accreditamento e l’autorizzazione dei soggetti che operano sul mercato del lavoro e la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni nei servizi pubblici per l’impiego;
o) valorizzazione della bilateralità attraverso il riordino della disciplina vigente in materia, nel rispetto dei principi di sussidiarietà, flessibilità e prossimità anche al fine di definire un sistema di monitoraggio e controllo sui risultati dei servizi di welfare erogati;
p) introduzione di princìpi di politica attiva del lavoro che prevedano la promozione di un collegamento tra misure di sostegno al reddito della persona inoccupata o disoccupata e misure volte al suo inserimento nel tessuto produttivo, anche attraverso la conclusione di accordi per la ricollocazione che vedano come parte le agenzie per il lavoro o altri operatori accreditati, con obbligo di presa in carico, e la previsione di adeguati strumenti e forme di remunerazione, proporzionate alla difficoltà di collocamento, a fronte dell’effettivo inserimento almeno per un congruo periodo, a carico di fondi regionali a ciò destinati, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica statale o regionale;
q) introduzione di modelli sperimentali, che prevedano l’utilizzo di strumenti per incentivare il collocamento dei soggetti in cerca di lavoro e che tengano anche conto delle buone pratiche realizzate a livello regionale;
r) previsione di meccanismi di raccordo tra l’Agenzia e l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), sia a livello centrale che a livello territoriale;
s) previsione di meccanismi di raccordo tra l’Agenzia e gli enti che, a livello centrale e territoriale, esercitano competenze in materia di incentivi all’autoimpiego e all’autoimprenditorialità;
t) attribuzione al Ministero del lavoro e delle politiche sociali delle competenze in materia di verifica e controllo del rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni che devono essere garantite su tutto il territorio nazionale;
u) mantenimento in capo alle regioni e alle province autonome delle competenze in materia di programmazione di politiche attive del lavoro;
v) attivazione del soggetto che cerca lavoro, in quanto mai occupato, espulso dal mercato del lavoro o beneficiario di ammortizzatori sociali, al fine di incentivarne la ricerca attiva di una nuova occupazione, secondo percorsi personalizzati, anche mediante l’adozione di strumenti di segmentazione dell’utenza basati sull’osservazione statistica;
z) valorizzazione del sistema informativo per la gestione del mercato del lavoro e il monitoraggio delle prestazioni erogate, anche attraverso l’istituzione del fascicolo elettronico unico contenente le informazioni relative ai percorsi educativi e formativi, ai periodi lavorativi, alla fruizione di provvidenze pubbliche ed ai versamenti contributivi;
aa) integrazione del sistema informativo di cui alla lettera z) con la raccolta sistematica dei dati disponibili nel collocamento mirato nonché di dati relativi alle buone pratiche di inclusione lavorativa delle persone con disabilità e agli ausili ed adattamenti utilizzati sui luoghi di lavoro;
bb) semplificazione amministrativa in materia di lavoro e politiche attive, con l’impiego delle tecnologie informatiche, secondo le regole tecniche in materia di interoperabilità e scambio dei dati definite dal codice di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, allo scopo di rafforzare l’azione dei servizi pubblici nella gestione delle politiche attive e favorire la cooperazione con i servizi privati, anche mediante la previsione di strumenti atti a favorire il conferimento al sistema nazionale per l’impiego delle informazioni relative ai posti di lavoro vacanti.
5. Allo scopo di conseguire obiettivi di semplificazione e razionalizzazione delle procedure di costituzione e gestione dei rapporti di lavoro nonch← in materia di igiene e sicurezza sul lavoro, il Governo │ delegato ad adottare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, uno o più decreti legislativi contenenti disposizioni di semplificazione e razionalizzazione delle procedure e degli adempimenti a carico di cittadini e imprese.
6. Nell’esercizio della delega di cui al comma 5 il Governo si attiene ai seguenti principi e criteri direttivi:
a) razionalizzazione e semplificazione delle procedure e degli adempimenti, anche mediante abrogazione di norme, connessi con la costituzione e la gestione del rapporto di lavoro, con l’obiettivo di dimezzare il numero di atti di gestione del medesimo rapporto, di carattere amministrativo;
b) eliminazione e semplificazione, anche mediante norme di carattere interpretativo, delle norme interessate da rilevanti contrasti interpretativi, giurisprudenziali o amministrativi;
c) unificazione delle comunicazioni alle pubbliche amministrazioni per i medesimi eventi e obbligo delle stesse amministrazioni di trasmetterle alle altre amministrazioni competenti;
d) introduzione del divieto per le pubbliche amministrazioni di richiedere dati dei quali esse sono in possesso;
e) rafforzamento del sistema di trasmissione delle comunicazioni in via telematica e abolizione della tenuta di documenti cartacei;
f) revisione del regime delle sanzioni, tenendo conto dell’eventuale natura formale della violazione, in modo da favorire l’immediata eliminazione degli effetti della condotta illecita, nonché valorizzazione degli istituti di tipo premiale;
g) previsione di modalità semplificate per garantire data certa nonché l’autenticità della manifestazione di volontà del lavoratore in relazione alle dimissioni o alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, anche tenuto conto della necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente in tal senso del lavoratore;
h) individuazione di modalità organizzative e gestionali che consentano di svolgere esclusivamente in via telematica tutti gli adempimenti di carattere amministrativo connessi con la costituzione, la gestione e la cessazione del rapporto di lavoro;
i) revisione degli adempimenti in materia di libretto formativo del cittadino, in un’ottica di integrazione nell’ambito della dorsale informativa di cui all’articolo 4, comma 51, della legge 28 giugno 2012, n. 92, e della banca dati delle politiche attive e passive del lavoro di cui all’articolo 8 del decreto-legge 28 giugno 2013, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 99;
l) promozione del principio di legalità e priorità delle politiche volte a prevenire e scoraggiare il lavoro sommerso in tutte le sue forme ai sensi delle risoluzioni del Parlamento europeo del 9 ottobre 2008 sul rafforzamento della lotta al lavoro sommerso (2008/2035(INI)) e del 14 gennaio 2014 sulle ispezioni sul lavoro efficaci come strategia per migliorare le condizioni di lavoro in Europa (2013/2112(INI)).
7. Allo scopo di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, nonché di riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo e di rendere più efficiente l’attività ispettiva, il Governo è delegato ad adottare, su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi, di cui uno recante un testo organico semplificato delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro, nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi, in coerenza con la regolazione dell’Unione europea e le convenzioni internazionali:
a) individuare e analizzare tutte le forme contrattuali esistenti, ai fini di poterne valutare l’effettiva coerenza con il tessuto occupazionale e con il contesto produttivo nazionale e internazionale, in funzione di interventi di semplificazione, modifica o superamento delle medesime tipologie contrattuali;
b) promuovere, in coerenza con le indicazioni europee, il contratto a tempo indeterminato come forma privilegiata di contratto di lavoro rendendolo più conveniente rispetto agli altri tipi di contratto in termini di oneri diretti e indiretti;
c) previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio;
d) revisione della disciplina delle mansioni, in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale individuati sulla base di parametri oggettivi, contemperando l’interesse dell’impresa all’utile impiego del personale con l’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita ed economiche, prevedendo limiti alla modifica dell’inquadramento; previsione che la contrattazione collettiva, anche aziendale ovvero di secondo livello, stipulata con le organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente pi rappresentative sul piano nazionale a livello interconfederale o di categoria possa individuare ulteriori ipotesi rispetto a quelle disposte ai sensi della presente lettera;
e) revisione della disciplina dei controlli a distanza, tenendo conto dell’evoluzione tecnologica e contemperando le esigenze produttive ed organizzative dell’impresa con la tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore;
f) introduzione, eventualmente anche in via sperimentale, del compenso orario minimo, applicabile ai rapporti aventi ad oggetto una prestazione di lavoro subordinato, nonché ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, nei settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente pi rappresentative sul piano nazionale, previa consultazione delle parti sociali comparativamente pi rappresentative sul piano nazionale;
g) previsione, tenuto conto di quanto disposto dall’articolo 70 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, della possibilità di estendere il ricorso a prestazioni di lavoro accessorio per le attività lavorative discontinue e occasionali nei diversi settori produttivi, fatta salva la piena tracciabilità dei buoni lavoro acquistati, con contestuale rideterminazione contributiva di cui all’articolo 72, comma 4, ultimo periodo, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276;
h) abrogazione di tutte le disposizioni che disciplinano le singole forme contrattuali, incompatibili con le disposizioni del testo organico semplificato, al fine di eliminare duplicazioni normative e difficoltà interpretative e applicative;
i) razionalizzazione e semplificazione dell’attività ispettiva, attraverso misure di coordinamento ovvero attraverso l’istituzione, ai sensi dell’articolo 8 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica e con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, di una Agenzia unica per le ispezioni del lavoro, tramite l’integrazione in un’unica struttura dei servizi ispettivi del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, dell’INPS e dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL), prevedendo strumenti e forme di coordinamento con i servizi ispettivi delle aziende sanitarie locali e delle agenzie regionali per la protezione ambientale.
8. Allo scopo di garantire adeguato sostegno alla genitorialità, attraverso misure volte a tutelare la maternità delle lavoratrici e favorire le opportunità di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro per la generalità dei lavoratori, il Governo │ delegato ad adottare, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri e del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto, per i profili di rispettiva competenza, con il Ministro dell’economia e delle finanze e con il Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o pi decreti legislativi per la revisione e l’aggiornamento delle misure volte a tutelare la maternit¢ e le forme di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.
9. Nell’esercizio della delega di cui al comma 8 il Governo si attiene ai seguenti principi e criteri direttivi:
a) ricognizione delle categorie di lavoratrici beneficiarie dell’indennità di maternità, nella prospettiva di estendere, eventualmente anche in modo graduale, tale prestazione a tutte le categorie di donne lavoratrici;
b) garanzia, per le lavoratrici madri parasubordinate, del diritto alla prestazione assistenziale anche in caso di mancato versamento dei contributi da parte del datore di lavoro;
c) introduzione del tax credit, quale incentivo al lavoro femminile, per le donne lavoratrici, anche autonome, con figli minori o disabili non autosufficienti e che si trovino al di sotto di una determinata soglia di reddito individuale complessivo, e armonizzazione del regime delle detrazioni per il coniuge a carico;
d) incentivazione di accordi collettivi volti a favorire la flessibilità dell’orario lavorativo e dell’impiego di premi di produttività, al fine di favorire la conciliazione tra l’esercizio delle responsabilità genitoriali e dell’assistenza alle persone non autosufficienti e l’attività lavorativa, anche attraverso il ricorso al telelavoro;
e) eventuale riconoscimento, compatibilmente con il diritto ai riposi settimanali ed alle ferie annuali retribuite, della possibilità di cessione fra lavoratori dipendenti dello stesso datore di lavoro di tutti o parte dei giorni di riposo aggiuntivi spettanti in base al contratto collettivo nazionale in favore del lavoratore genitore di figlio minore che necessita di presenza fisica e cure costanti per le particolari condizioni di salute;
f) integrazione dell’offerta di servizi per l’infanzia forniti dalle aziende e dai fondi o enti bilaterali nel sistema pubblico-privato dei servizi alla persona, anche mediante la promozione dell’utilizzo ottimale di tali servizi da parte dei lavoratori e dei cittadini residenti nel territorio in cui sono attivi;
g) ricognizione delle disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, ai fini di poterne valutare la revisione per garantire una maggiore flessibilità dei relativi congedi obbligatori e parentali, favorendo le opportunità di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, anche tenuto conto della funzionalità organizzativa all’interno delle imprese;
h) estensione dei principi di cui al presente comma, in quanto compatibili e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, con riferimento al riconoscimento della possibilità di fruizione dei congedi parentali in modo frazionato e alle misure organizzative finalizzate al rafforzamento degli strumenti di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.
10. I decreti legislativi di cui ai commi 1, 3, 5, 7 e 8 della presente legge sono adottati nel rispetto della procedura di cui all’articolo 14 della legge 23 agosto 1988, n. 400.
11. Gli schemi dei decreti legislativi, corredati di relazione tecnica che dia conto della neutralità finanziaria dei medesimi ovvero dei nuovi o maggiori oneri da essi derivanti e dei corrispondenti mezzi di copertura, a seguito di deliberazione preliminare del Consiglio dei ministri, sono trasmessi alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica perché su di essi siano espressi, entro trenta giorni dalla data di trasmissione, i pareri delle Commissioni competenti per materia e per i profili finanziari. Decorso tale termine, i decreti sono emanati anche in mancanza dei pareri. Qualora il termine per l’espressione dei pareri parlamentari di cui al presente comma scada nei trenta giorni che precedono o seguono la scadenza dei termini previsti ai commi 1, 3, 5, 7 e 8 ovvero al comma 13, questi ultimi sono prorogati di tre mesi.
12. Dall’attuazione delle deleghe recate dalla presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. A tale fine, per gli adempimenti dei decreti attuativi della presente legge, le amministrazioni competenti provvedono attraverso una diversa allocazione delle ordinarie risorse umane, finanziarie e strumentali, allo stato in dotazione alle medesime amministrazioni. In conformità all’articolo 17, comma 2, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, qualora uno o più decreti attuativi determinino nuovi o maggiori oneri che non trovino compensazione al proprio interno, i decreti legislativi dai quali derivano nuovi o maggiori oneri sono emanati solo successivamente o contestualmente all’entrata in vigore dei provvedimenti legislativi, ivi compresa la legge di stabilità, che stanzino le occorrenti risorse finanziarie.
13. Entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore dei decreti legislativi di cui al comma 10, nel rispetto dei principi e criteri direttivi fissati dalla presente legge, il Governo può adottare, con la medesima procedura di cui ai commi 10 e 11, disposizioni integrative e correttive dei decreti medesimi, tenuto conto delle evidenze attuative nel frattempo emerse.
14. Sono fatte salve le potestà attribuite alle regioni a statuto speciale ed alle province autonome di Trento e di Bolzano dai rispettivi statuti speciali e dalle relative norme di attuazione, le competenze delegate in materia di lavoro e quelle comunque riconducibili all’articolo 116 della Costituzione e all’articolo 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.”.

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La natura italiana dell’impresa non rende italiano il prodotto realizzato altrove: così il Tar Campania boccia la delocalizzazione delle imprese.

di Michele De Sanctis

A causa della crisi, di una certa stasi del mercato interno e della poca attrattività rispetto ai competitor stranieri – specie quelli al di fuori dell’Eurozona – oltreché per un eccessivo costo del lavoro a fronte di una pesante pressione fiscale, sono stati molti gli imprenditori italiani che negli ultimi tempi hanno tentato di far fronte alla congiuntura economica delocalizzando la propria azienda. Per delocalizzazione si intende il trasferimento della produzione di beni e servizi in altri Paesi, solitamente in via di sviluppo o in transizione. In senso stretto, ci si riferisce ad uno spostamento della produzione da imprese poste sul territorio di un determinato Paese ad altre localizzate all’estero. La produzione ottenuta in seguito a questo spostamento dell’attività non è venduta direttamente sul mercato, ma viene acquisita dall’impresa che opera nel Paese di origine per essere poi venduta sotto il proprio marchio. Dal punto di vista economico e sociale, questa pratica è stata – ed è tuttora – oggetto di un aspro dibattito tra chi la considera un importante strumento competitivo e chi, invece, ne evidenzia gli aspetti critici. Il timore principale di alcuni analisti è, infatti, che la delocalizzazione possa impoverire l’economia nazionale, con perdita di posti di lavoro e valore aggiunto. Sotto un profilo sociale, va, poi, considerato che l’effetto immediato della delocalizzazione di un’azienda è il dramma della disoccupazione per chi viene licenziato e dell’inoccupazione per chi nel mercato del lavoro, in assenza di siti produttivi, proprio non riesce ad entrarci.

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Da un punto di vista giuridico, rilevano diversi aspetti di notevole impatto non solo sul diritto privato e commerciale, ma con talune ripercussioni anche in riferimento al diritto pubblico e amministrativo. Si tratta di aspetti per lo più legati alla libera circolazione delle merci e alla regolazione dei mercati e della concorrenza, la cui disciplina è fortemente influenzata dal diritto comunitario. Proprio in relazione al tema della concorrenza tra imprese europee e delocalizzate, si è pronunciato di recente il Tar Campania, con la sentenza n. 4695/2014 (depositata in data 3 settembre 2014).

Questi i fatti: un’impresa italiana, delocalizzata in Cina, aveva risposto a un bando di gara avente ad oggetto “l’affidamento della fornitura di materiale acquedottistico”. L’azienda in questione, che in un primo momento risultava aggiudicatrice della gara, veniva successivamente esclusa. In seguito all’intervenuta revoca dell’aggiudicazione, ricorreva dinanzi al G.A., impugnando gli atti presupposti e consequenziali della procedura d’appalto. Da questi si evinceva che l’esclusione della ricorrente era stata disposta in virtù della dichiarazione di produrre la totalità dei materiali oggetto dell’appalto nella Repubblica Popolare Cinese, senza, peraltro, indicare né la sede di produzione né alcun sito produttivo all’interno della Comunità Europea. La norma che rileva in tale circostanza è l’art. 234, co. 2, d.lgs. 163/2006, che prescrive un limite in capo ai concorrenti provenienti da Paesi cd. terzi: parte dei prodotti originari di questi operatori non deve, infatti, superare il 50% del valore totale dei prodotti che compongono l’offerta di gara.

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Nel rigettare il ricorso, il Tar ha evidenziato come l’art. 234 del Codice degli Appalti definisca in via prioritaria il concetto di Paese terzo, quale Paese estraneo alla Comunità Europea, con cui gli Stati membri non abbiano concluso convenzioni e accordi, multilaterali o bilaterali, tali che assicurino un accesso comparabile ed effettivo delle imprese della Comunità alle gare indette da questi Paesi. La ‘ratio’ di questa previsione (che pone una disciplina speciale, circoscritta ai soli appalti di forniture), risiede nell’esigenza di garantire che l’apertura del mercato degli appalti comunitari a tali Paesi terzi avvenga nel rispetto della condizione di reciprocità, utilizzando quest’ultima come mezzo di discrimine ai fini dell’accesso al mercato unico europeo da parte di operatori esterni all’UE. L’obiettivo è quello di garantire a tutti gli operatori economici un trattamento uniforme: l’ingresso di nuovi soggetti alle commesse pubbliche viene, pertanto contemperato con l’esigenza di assicurare le condizioni minime di tutela della ‘par condicio’ per le imprese comunitarie che partecipano alle procedure di gara. Ciò spiega l’introduzione, su impulso comunitario, di una disciplina speciale che si fonda sulla stipulazione o meno tra CE e i suddetti Paesi terzi, di accordi che garantiscano un accesso comparabile ed effettivo delle imprese comunitarie agli appalti indetti anche in tali Paesi.

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A nulla è servita la tesi difensiva della ricorrente, secondo cui la Repubblica Popolare Cinese avrebbe in passato sottoscritto con l’UE determinati accordi internazionali. Il G.A., di contro, rilevava che tali accordi sono carenti del requisito della reciprocità richiesto dalla norma “Non risulta, infatti, che tale Repubblica abbia concluso un altro accordo internazionale che possa garantire agli operatori economici della CE un effettivo accesso al settore degli appalti di quel Paese con piena reciprocità e dignità giuridica”. Il Tar ha, quindi, affermato che solo con l’adesione al GPA – General Procurement Agreement (accordo pluriennale sugli appalti pubblici siglato nell’ambito dell’OMC) è consentita l’apertura del proprio mercato degli appalti pubblici con piena reciprocità e dignità giuridica nei confronti delle imprese UE, come previsto dall’art. 234 del Codice degli Appalti (cfr. T.A.R. Lazio, sez. I, 2.07.2007, n. 5896).

Nella stessa pronuncia, oltreché chiarire la definizione di Paese terzo, rilevante sotto il profilo soggettivo, il Tribunale Amministrativo campano, si è poi concentrato sul profilo oggettivo dei prodotti. Fondamentale, infatti, è valutare l’origine delle produzioni che compongono l’offerta. L’accertamento in parola si basa sul Codice Doganale (Regolamento CEE n. 2913/92 del 12 ottobre 1992), il quale, all’art. 23, stabilisce che “sono originarie di un Paese le merci interamente ottenute in tale Paese” e, ancora, all’art. 24, dispone che “una merce alla cui produzione hanno contribuito due o più Paesi è originaria del Paese in cui è avvenuta l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, economicamente giustificata ed effettuata in un’impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo od abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione”.

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Il G.A. ha, infine, affermato che con l’art. 234 d.lgs 163/2006 ss.mm.ii (che, peraltro, recepisce il contenuto delle Direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), il Legislatore ha istituito un sistema di preferenza comunitario basato non tanto sulla nazionalità degli offerenti, determinata dal luogo in cui è ubicata la sede legale e amministrativa (nel caso di specie, italiana ma con delocalizzazione integrale della produzione), quanto piuttosto sull’origine dei prodotti. Pertanto, al fine di determinare il campo di applicazione della norma, ciò che rileva è il luogo di produzione del bene e, di conseguenza, la sede dello stabilimento in cui esso viene realizzato, che, di per sé, può non coincidere con il luogo in cui è ubicata la sede legale o amministrativa dell’impresa (cfr. Tar Campania, Napoli, sez. IV, 27.03.2014, n. 1848/2014; Tar Friuli Venezia Giulia, Trieste, sez. I, 15.02.2010, n. 131).

Al di là del caso in esame, si evidenzia che l’art. 234 del Codice degli Appalti non solo prevede al comma 2 la possibilità per le stazioni appaltanti di respingere un’offerta contenente, per oltre la metà del proprio valore, prodotti originari di Paesi terzi. La norma prevede, altresì, un vero e proprio obbligo di operare in tal senso, quando, come disposto dal successivo comma 3, la differenza di prezzo tra un’offerta con le caratteristiche sopra descritte e una che non le presenti sia inferiore al 3%. Tali criteri vengono, peraltro, ribaditi anche dall’AVCP (ora confluita nell’ANAC) nel ‘Libro verde sulla modernizzazione della politica dell’UE in materia di appalti pubblici’, nella sezione dedicata all’accesso dei Paesi terzi al mercato UE.

In definitiva, la natura italiana dell’impresa non rende italiano il prodotto realizzato altrove, anche se la produzione viene effettuata in proprio da soggetto italiano, essendo necessario scindere il profilo soggettivo del produttore da quello oggettivo dell’origine del prodotto, cui fa riferimento l’art. 234 del d.lgs. 163/2006.

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Pillole di globalizzazione. Il poco noto negoziato per un accordo di libero scambio tra UE ed USA

 

di Germano De Sanctis

 

Riprendiamo con questo post, il nostro “viaggio” nell’economia globalizzata, volgendo la nostra attenzione verso uno dei possibili scenari economici del Ventunesimo Secolo.

 

 

Nella quasi indifferenza dell’opinione pubblica occidentale, l’Unione Europea e gli Stati Uniti d’America hanno avviato un importante negoziato sul libero scambio. Tale negoziato è individuato attraverso la sigla TTIP, la quale è l’acronimo di Transatlantic Trade and Investment Partnership (in italiano, Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti).

Come accennato, si tratta di un progetto di accordo di libero scambio tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti d’America, tuttora in fase di fase di negoziato. Tale progetto di accordo, oltre a prevedere una riduzione delle tariffe in tutti i settori, ha anche l’obiettivo di abbattere le barriere non tariffarie. Con il termine barriere non tariffarie, s’intende indicare sinteticamente l’insieme delle differenze nei regolamenti tecnici, nelle norme e nelle procedure di omologazione. Inoltre, il negoziato sul TTIP vuole anche perseguire l’apertura di entrambi i mercati ai servizi, agli investimenti ed agli appalti pubblici.

Le opinioni sul TTIP sono discordanti. Infatti, da un lato vi sono i suoi sostenitori, i quali sono convinti che tale accordo favorirà la crescita economica degli Stati partecipanti. Dall’altra, vi sono i suoi i critici, che sostengono che esso aumenterà il potere delle multinazionali e renderà più difficile ai Governi nazionali il controllo dei mercati per massimizzare il benessere collettivo.

A seguito della divulgazione di una prima bozza del TTIP nel mese di marzo 2014, la Commissione Europea ha avviato una serie di consultazioni pubbliche, limitando, però, l’oggetto di esse ad un numero limitato di clausole contenute nell’accordo in questione.

La bozza del TTIP contiene limitazioni sulle leggi che i Governi partecipanti potrebbero adottare per regolamentare diversi settori economici, con particolare riferimento alle banche, alle assicurazioni, alle telecomunicazioni ed ai servizi postali.

Inoltre, è previsto che qualsiasi entità economica privata, se espropriata dei suoi attuali investimenti, avrebbe diritto a compensazioni a valore di mercato, aumentate di interesse composto. Coerentemente, le entità economiche private potrebbero promuovere azioni legali contro i Governi in presenza di violazione dei loro diritti.

Infine, verrebbe ammessa anche la libera circolazione dei lavoratori in tutti gli Stati firmatari dell’accordo in questione, creando, di conseguenza, il più grande mercato del lavoro del mondo, sottoposto ai medesimi diritti e doveri . Si tratterebbe di un’innovazione le cui conseguenze giuridiche, economiche e sociali segnerebbe le future dinamiche relazionali di una fetta rilevante della popolazione mondiale.

In altri termini, il TTIP è molto più di un semplice trattato commerciale tra Unione Europea e Stati Uniti d’America, in quanto potrebbe influenzare la vita di milioni di consumatori. Tuttavia, nonostante la sua rilevanza strategica per il commercio globale, senza un convinto sostegno da parte dei Governi interessati, la sua definitiva stipulazione non potrà avvenire in tempi brevi.

Infatti, il TTIP rappresenta il più ambizioso tentativo di accordo di libero scambio nella storia. Basti pensare che esso riguarderebbe il 45% del PIL mondiale, ma, ancor di più, il TTIP costituirebbe un valido strumento per abbattere le barriere non squisitamente tariffarie, vale a dire le normative che ostacolano la libera circolazione delle merci. Appare evidente come un simile accordo potrebbe condizionare significativamente l’evoluzione degli scambi commerciali del Ventunesimo Secolo.

Come detto, poc’anzi, sono evidenti i potenziali benefici di una tale liberalizzazione del commercio transatlantico. Ad esempio, uno studio realizzato nel mese di marzo 2013 dal Centre for Economic Policy Research ha ipotizzato che, qualora il TTIP riuscisse a produrre gli auspicati benefici macroeconomici, una famiglia media europea composta di quattro persone potrebbe aumentare il proprio reddito netto di circa € 545 all’anno entro il 2027, in virtù della riduzione dei prezzi e dell’aumento della produttività.

 

 

Tuttavia, attualmente, non vi è alcuna certezza circa la sicurezza di un esito così positivo del TTIP, in quanto le difficoltà da superare sono veramente ancora tante.

In primo luogo, vi è incertezza sulla natura stessa dell’accordo che si andrà a stipulare. Ad oggi, non si sa ancora se il TTIP sarà un accordo globale capace di garantire un’autentica liberalizzazione delle barriere non tariffarie, oppure sarà un accordo “leggero”, limitato al semplice taglio dei dazi doganali

Inoltre, appare evidente, sin d’ora, che il TTIP non influenzerebbe in maniera omogena i vari settori produttivi. Se da un lato, l’industria manifatturiera (ed, in particolare, quella automobilistica) e quella chimica (in particolare, quella farmaceutica) avrebbero molto da guadagnare dalla stipula dell’accordo in questione, il settore agrolimentare (specialmente quello operante nei Paesi mediterranei dell’Unione Europea) potrebbero soffrire dall’abbattimento delle barriere tariffarie (e non) e della diffusione dei prodotti alimentari OGM di origine statunitense, perdendo il valore aggiunto della sua filiera ecocompatibile (che, però, comporta costi aggiuntivi non concorrenziali). Ovviamente, vi è assoluta incertezza anche su come i singoli Governi intendano mitigare questi effetti negativi.

Inoltre, ad incrementare il senso d’incertezza concorre anche la totale assenza di un dibattito pubblico sul TTIP, la cui comunicazione è stata finora affidata alla sola Commissione Europea, mentre i Governi interessati dovrebbero impegnarsi maggiormente per spiegare il progetto di accordo alla propria opinione pubblica.

Oltre alle sue incertezze, il negoziato sul TTIP si sta caratterizzando anche per il serrato e dialettico confronto che sta producendo il tentativo di armonizzare i regolamenti e di rimuovere le barriere non tariffarie. Tale confronto si sta dimostrando un terreno di scontro molto più accidentato di quello concernente i meri dazi doganali.

A tal proposito, si possono fare molteplici esempi. In primo luogo, si può pensare alla regolamentazione sulla sicurezza degli autoveicoli normata diversamente nel mercato statunitense ed europeo, costringendo i costruttori impegnati in entrambi i mercati a rispettare prescrizioni normative molto differenti. Orbene, premettendo che non è possibile statuire se sia più sicura un automobile europea rispetto ad una statunitense e viceversa, la unificazione delle norme in materia di sicurezza degli autoveicoli diminuirebbe significativamente i costi di produzione e, di conseguenza, il prezzo di vendita del prodotto in questione ai consumatori.

Venendo al tema della sicurezza agroalimentare, bisogna subito evidenziare come le indicazioni geografiche protette finora riconosciute solo dall’Unione Europea (come, ad esempio, “prosciutto di Parma”, o “parmigiano reggiano”) sarebbero finalmente legalmente valide anche negli Stati Uniti d’America, sconfiggendo definitivamente le contraffazioni (come, ad esempio, il “parmesan”) e favorendo il riconoscimento di un valore aggiunto alle esportazioni europee afferenti tale settore produttivo.

Pertanto, il maggiore fattore d’incertezza circa l’effettiva realizzazione del TTIP riguarda il fatto che esso intende abbattere tali barriere non tariffarie, le quali sono un ostacolo molto più difficile da superare rispetto ai dazi doganali, ma che, al contempo, sono percepite dalle imprese come elemento d’intralcio all’effettivo esercizio del libero scambio di beni e servizi.

Tuttavia, a fronte di queste difficoltà ed incertezze, i pochi esempi finora riportati evidenziano

 

 

anche il vero valore aggiunto del TTIP, in quanto esso non è un accordo di commercio internazionale avente ad oggetto la mera vendita dei prodotti dei singoli Stati aderenti, bensì è un accordo che verte sulle modalità di produrre beni e servizi in forma omogenea e condivisa, a partire dalla regolamentazione sottesa ad ogni ciclo produttivo.

In estrema sintesi, il TTIP rappresenta un progetto politico finalizzato alla promozione di nuovi e più intensi rapporti tra Unione Europea e Stati Uniti d’America. Infatti, una volta approvato, il TTIP costituirebbe la base fondativa delle nuove regole del commercio del Ventunesimo Secolo, generando una visione dinamica delle stesse, attraverso un futuro dialogo permanente tra Stati in cui tali regole verranno discusse e attuate.

Anzi, alla luce della dirompente crescita delle economie dei Paesi emergenti, il TTIP potrebbe rappresentare l’ultima occasione per i singoli Stati membri dell’Unione Europea per conservare una propria capacità d’influenza nella definizione delle norme di commercio globale.

Personalmente, ritengo che il fallimento del progetto in questione condannerebbe l’Europa all’irrilevanza economica e politica, accentuando il declino già avviato nel corso del Secolo scorso con la fine dell’eurocentrismo.

Proprio al fine di evitare questa potenziale marginalità del Vecchio Continente, il TTIP non dovrà essere pensato come un accordo chiuso e con finalità protezionistiche, ma, anzi, dovrà essere costruito come una forma di cooperazione commerciale internazionale aperta a tutti i Paesi terzi che eventualmente volessero parteciparvi in futuro, ovviamente, nel rispetto delle modalità appropriate di adesione.

Tale ultima affermazione, trova ancor più fondamento se si considera il fatto che gli Stati Uniti d’America stanno contemporaneamente negoziando anche un altro accordo, Si tratta del Trans-Pacific Partnership (TPP), il quale garantirebbe un partenariato commerciale transpacifico che interesserebbe dodici paesi (Stati Uniti, Canada, Giappone, Australia, Nuova Zelanda, Singapore, Malaysia, Brunei, Vietnam, Cile, Messico, Perù). Si tratta di un accordo commerciale politicamente più difficile da concludere, in quanto coinvolgerebbe Stati connotati da salari più bassi di quello statunitense e dall’assenza di norme di tutela ambientala e di sicurezza sui luoghi di lavoro.

Tuttavia, tali ultime considerazioni devono fare i conti con il fatto che il negoziato sul TTIP coincide temporalmente con una fase di ripensamento critico del fenomeno della globalizzazione, a seguito dei sempre più emergenti riflussi nazionalisti, che hanno prodotto una diffidenza dell’opinione pubblica del Vecchio Continente nei confronti della tecnocrazia dell’Unione Europea. Le ultime elezioni per il Parlamento Europeo hanno fotografato chiaramente questa situazione, segnando la forte avanzata delle correnti politiche euroscettiche e fortemente protezionistiche. Nel frattempo, gli Stati Uniti d’America si stanno avviando alle c.d. elezioni di “medio termine”, le quali concorreranno a rendere il quadro meno chiaro finché non si saranno svolte.

In questo quadro, s’inserisce, complicando il quadro generale, la volontà statunitense di utilizzare il TTIP ed il TPP anche per contenere l’espansione economica e commerciale della Cina, od almeno per spingere quest’ultima ad impegnarsi più seriamente in iniziative di commercio globale.

 

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