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Womenomics. Un ruolo per l’occupazione e la valorizzazione del talento femminile nell’attuale crisi finanziaria ed economica.

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Le donne oggi costituiscono un immenso serbatoio di talento nel mondo del lavoro e rappresentano più della metà del mercato dei beni di consumo. Raggiungere le consumatrici e sviluppare il talento femminile è essenziale per far fronte alle sfide del ventunesimo secolo. È dimostrato infatti che un miglior equilibrio di genere nelle imprese – a tutti i livelli, ma soprattutto ai piani alti – porta a risultati migliori. Perché allora sono ancora così poche le donne in ruoli di leadership nelle aziende? Perché le imprese hanno difficoltà a rispondere adeguatamente alle esigenze delle consumatrici di oggi? Perché in tutto il mondo continua a persistere un divario salariale tra uomini e donne? Gli attuali sistemi aziendali e le relative culture non sono più adeguati né all’articolazione dell’odierna forza lavoro, né alla complessità della società, né alle sfide future. Bisogna uscire dai vecchi schemi e compiere una vera e propria rivoluzione culturale per rendersi conto che le donne nel mondo del lavoro non costituiscono un problema etico, ma una necessità economica. Portatrici di attitudini e capacità diverse, esse costituiscono una gigantesca opportunità e favorirne l’ascesa alle posizioni di vertice è urgente per assicurare una crescita sostenibile dell’economia.

Ad oggi, il mondo paga ancora (e a caro prezzo) i costi di una situazione in cui le donne probabilmente hanno le chiavi, ma gli uomini continuano a controllare l’accesso alla serratura.

Il nostro Paese, poi, non si è mai distinto per politiche di genere particolarmente efficienti. Maurizio Ferrera, professore presso l’Università degli Studi di Milano nel saggio “Il fattore D” (edito da Mondadori) analizza le implicazioni che sul piano economico avrebbe la valorizzazione delle risorse femminili. Da anni l’Italia cresce poco o nulla. Cresce poco dal punto di vista economico. E cresce ancora meno sul piano demografico. Negli ultimi tempi sono state scritte molte pagine e sono state spese fin troppe parole per elencare tutto quello che andrebbe fatto per rimettere in moto il Paese: liberalizzazioni, mercati più efficienti, fisco più leggero, investimenti in ricerca e innovazione. Eppure esiste una risorsa più importante di ogni altra, di cui si parla poco: il lavoro femminile. Fare largo alle donne e promuoverne l’occupazione femminile è diventato urgente non solo per ragioni di pari opportunità e di giustizia sociale, ma soprattutto perché senza di loro l’Italia non cresce. Si pensi ai crescenti tassi di disoccupazione femminile, che si attestano intorno al 13% circa, con un tasso di aumento pari allo 0,9% su base annua. Percentuali che su base geografica lasciano basiti: nel secondo trimestre 2012 l’Istat evidenziava che nel solo Mezzogiorno il tasso di disoccupazione tra le 15-24enni era salito del 48% rispetto al primo trimestre. L’Italia, senza rendersene conto, sta quindi rinunciando a quello che recentemente si è rivelato essere il vero motore dell’economia mondiale: nell’ultimo decennio l’incremento dell’occupazione femminile negli altri Paesi sviluppati ha contribuito alla crescita globale più dell’intera economia cinese. Il fattore D, il lavoro delle donne, è un fattore decisivo di crescita, perché garantisce più ricchezza alle famiglie.

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Ma cos’è il fattore D? Bene, pensiamo che in Italia per ogni 100 donne che entrano nel mercato del lavoro si possono creare fino a 15 posti aggiuntivi nel settore dei servizi. L’ingresso nel mercato di 100 mila donne oggi inattive, infatti, farebbe crescere il nostro PIL di 0,3 punti l’anno. La Banca d’Italia stima, peraltro, che se la percentuale di lavoratrici donne (oggi il 47%) raggiungesse gli obiettivi dei Lisbona (il 60%), ci sarebbe un impatto sul PIL di 7 punti. Questo fattore di crescita è, appunto, il fattore D. Ed è un dato sorprendente. Ma com’è possibile? Se più donne lavorassero otterremmo un nuovo moltiplicatore di benessere perché ogni donna che inizia a lavorare avrebbe necessità di delegare il lavoro di casa ad altri: dalla spesa alla cura dei figli, degli anziani e della casa. In questo modo ogni donna occupata potrebbe generare nuova domanda di lavoro in altri settori. E, ai fini dell’economia domestica, l’apporto di uno stipendio in più non può che accrescere il benessere della famiglia.

Anche The Economist stima che in Paesi come il Giappone, la Germania e l’Italia, che sono tutti in difficoltà demografica, lavorano molte meno donne che in America, per non parlare della Svezia. Il problema non è solo italiano, per una volta. Ma se la forza lavoro femminile arrivasse ai livelli americani, ciò darebbe una potente spinta alla crescita economica.

Il fattore D, la rivoluzione economica che aiuterebbe il vecchio continente a riprendersi dalla peggior crisi di sempre è una nuova formula della crescita: donne, lavoro, economia, fecondità. In altre parole, womenomics! Fu proprio l’Economist a coniare per primo questo neologismo nel 2007 (Womenomics revisited, The Economist 19/04/2007), riprendendo una tesi lanciata da Goldman Sachs già nel 1999. Come si accennava poco fa, la prima interessante scoperta è la stretta connessione tra lavoro femminile e crescita economica, per cui si stima che verrà dal lavoro femminile l’impulso più importante alla crescita nel prossimo futuro. La formula della womenomics in base alla quale la crescita economica dipende dall’impiego di donne, lavoro, economia e fecondità è la prima a legare le tematiche delle cosiddette pari opportunità agli indicatori di crescita economici di un Paese: senza un maggior apporto alla produzione da parte delle donne l’economia mondiale non cresce sufficientemente. Nei Paesi dove questa partecipazione è alta anche i problemi demografici sono minori. Il corollario della womenomics è quindi che se più donne lavorano, aumenta anche la fertilità di un’intera Nazione. E questo dato, peraltro, aumenta ancora di più se sul territorio ci sono buoni servizi di conciliazione come gli asili. L’assunto alla base è che le donne non devono più trovarsi nella condizione di scegliere se fare un figlio o lavorare.

Le basi culturali per la rivoluzione in rosa ci sono già, anche nel nostro Paese, dove purtroppo la mentalità del maschio dominante è ancora abbastanza diffusa. Il professor Ferrera, però, spiega che negli ultimi anni è senza dubbio cambiata la qualità del dibattito. Le tesi della womenomics sono diventate patrimonio comune, sono uscite ricerche e libri importanti, si sono creati siti, blog, movimenti. Anche a livello parlamentare, qui in Italia, sono nate alleanze trasversali su alcuni temi e quindi la qualità del dibattito è ora simile a quella degli altri Paesi europei. A questa evoluzione sul piano culturale non è però corrisposta un’azione di governo capace di mettere in pratica le ricette proposte. Il tasso di occupazione femminile è ancora fermo al palo, sul tema della conciliazione non si è andato molto avanti, stesso discorso per i congedi parentali. Il progetto asili nidi lanciato dal governo Prodi è stato frenato a livello regionale e non è stato più ripreso dai Governi successivi e le politiche per la famiglia e la conciliazione non sono state finanziate. Eppure, nonostante la politica e le istituzioni siano lente nel percepire e nell’attivarsi, rimane questa la formula dello sviluppo: le donne che lavorano saranno il motore dell’economia di domani, anche come via di fuga dalla crisi. L’attenzione è da porre sui soggetti che ne beneficeranno. Womenomics significa benessere e crescita per tutti, non solo per le donne.

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Le azioni più urgenti da intraprendere (e che il Governo Renzi, così sensibile al tema delle quote rosa, dovrebbe perseguire) sono diverse. In particolare la possibilità, per le donne che già lavorano, di poter usufruire di un orario flessibile, che permetta loro di conciliare i tempi della famiglia (le esigenze dei bambini come anche degli anziani) con quelli del lavoro. Flessibilità degli orari, non dei contratti. Anzi, sul punto andrebbero prese azioni urgenti contro la prassi delle cd. dimissioni in bianco e rivista la disciplina del congedo parentale per incentivare il ruolo del padre nella cura dei figli e anche per evitare che le carriere delle donne siano influenzate negativamente da una concentrazione del congedo solo sulla madre. Nonostante i papà ne abbiano la facoltà, sono rari i casi in cui siano loro ad usufruirne, soprattutto nel lavoro privato. Per quanto riguarda le agevolazioni per incentivare la womenomics, quello che più convince l’autore di Il Fattore D è il modello francese: l’introduzione, cioè, di maggiori agevolazioni fiscali ai nuclei familiari, così da consentire lo sviluppo di nuovi servizi alle famiglie e creare nuovi posti di lavoro.

Da ultimo, si evidenzia l’importanza della womenomics non solo a livello macro, ma anche nella gestione dell’impresa privata. Molteplici esperienze e casi aziendali hanno già provato, non solo negli States, che l’equilibrio tra i generi porta più innovazione e migliori risultati nel business e nel governo aziendale; dopotutto le donne costituiscono la maggioranza del mercato e gran parte del talento attivo nel mondo del lavoro. A rivelarlo è Avivah Wittenberg-Cox – autorità mondiale su temi di leadership, genere e impresa – che nel saggio ‘Womenomics in azienda. Come valorizzare i telenti femminili e trarre profitto da un buon equilibrio di genere’ mostra come sia necessario raggiungere nel mondo del lavoro e del business un proficuo e salutare equilibrio dei due generi, maschile e femminile, e come mettere in pratica questo postulato in quattro semplici fasi: Audit, Consapevolezza, Allineamento e Sostegno. Alcune tra le più grandi aziende di punta nel mondo hanno già tratto beneficio e profitto dal riequilibrio delle loro attività.

È un’occasione che non possiamo perdere. E’ una sfida alla mentalità ottusa e machista, è il punto da cui ripartire, uomini e donne, per avviare la ripresa della nostra più grande ‘azienda’: l’Italia.

Michele De Sanctis

Presentate oggi le candidature per la Lista Tsipras

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Presentata oggi la Lista Tsipras per le Europee. Non senza polemiche dell’ultima ora, la sinistra alternativa ha reso pubblici poche ore fa i nomi dei candidati, collegio per collegio, alle prossime consultazioni del 25 maggio. A poche ore dall’annuncio delle candidature la Lista si è però spaccata sul nome di Luca Casarini, leader dei Disobbedienti e volto che potrebbe raccogliere i voti dei movimenti sociali e della sinistra cosiddetta radicale – sebbene nei social network una parte di questo mondo abbia già ripudiato la candidatura dell’ex no-global per Tsipras. La candidatura di Casarini era stata messa in discussione per via delle diverse inchieste giudiziarie che lo vedono protagonista, ma tutte per reati sociali, cioè relativi all’attività politica. Il suo nome è stato confermato nel collegio centro, ma apprendiamo da Il Fatto Quotidiano che ‘Il caso ha tenuto occupati i sei garanti della Lista per tutta la sera dello scorso 2 marzo fino a produrre una spaccatura: Camilleri, Flores D’Arcias e Gallino contrari alla candidatura mentre Spinelli, Revelli e Viale si sono dichiarati favorevoli’.

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Come rivela Gad Lerner, la polemica su Casarini precede quelle create dal conseguente ritiro dello scrittore Camilleri, inizialmente dato come uno dei capilista. Tuttavia, dalle pagine web di MicroMega arriva netta la smentita: la candidatura di Camilleri non c’è mai stata. Evidentemente. Ma forse, trattandosi di uno dei garanti, qualcuno se l’era aspettata e l’avrebbe gradita. Forse. A ciò si aggiunga la questione Sonia Alfano. Secondo la ricostruzione de Il Fatto Quotidiano, il nome di Sonia Alfano, europarlamentare eletta con l’Italia dei Valori nel 2009 e molto apprezzata a sinistra, ha creato problemi non indifferenti tra i garanti della Lista in ragione dei suoi incarichi di parlamentare, consigliere regionale e parlamentare europeo a partire dal 2004. A differenza di Casarini, Sonia Alfano è perciò rimasta fuori.

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Nella liste, spiccano i nomi dell’editorialista Barbara Spinelli, della capolista al centro Lorella Zanardo, autrice del documentario ‘Il corpo delle donne’, lo scrittore e giornalista Ermanno Rea, il giornalista di Repubblica Curzio Maltese, Adriano Prosperi, Ermanno Rea, la scrittrice Valeria Parrella, Maria Elena Ledda, Giuliana Sgrena, la No Tav Nicoletta Dosio e dirigenti di partito come Fabio Amato ed Eleonora Forenza (Prc), Teresa Masciopinto, responsabile Culturale Area Sud di Banca Popolare Etica, Enzo Di Salvatore, professore di diritto costituzionale presso l’Università di Teramo e l’economista Antonio Maria Perna.

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Da ultimo, si osserva quanto riportato da Repubblica nelle ultime ore, che rivela una notizia che con buona dose di probabilità porterà su queste candidature altre polemiche, poiché una parte dei candidati sarebbero stati inseriti nelle liste solo per trainare voti, ma qualora dovessero essere eletti si dimetteranno per lasciare il passo a quelli che sono i ‘veri’ candidati della lista L’Altra Europa con Tsipras.

Michele De Sanctis

Renzi, Grillo e la grande balena italica

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Di Gian Pietro “Jumpi” Miscione (L’Undici)

Quando nel 1978 le Brigate Rosse (BR) rapirono Aldo Moro, credettero di trovarsi di fronte ad uno dei massimi rappresentanti ed esecutori di un “regime” organizzato, monolitico, perfettamente riconoscibile, che combatteva la classe operaia e prendeva ordini da grandi e lontane centrali cospirative: la CIA, gli USA, la Germania, ecc..Seppure era ed è certamente vero che l’Italia è una democrazia incompiuta, la stampa non è libera, esistono profonde ingiustizie e via dicendo, di fronte a Moro, le BR furono costrette a rendersi conto che quel regime non esisteva (e non esiste) o meglio non esisteva (e non esiste) nelle forme secondo cui esse credevano esistesse o altri credono che ora esista. Se cioè sono chiari ed evidenti i beceri effetti ed i deprimenti risultati, le cause invece sono assolutamente sfuggenti, evasive, “anguillose”. Oltretutto, l’eliminazione di un suo presunto esecutore, Moro, che – fra l’altro – come ebbe a dire Pasolini era “il meno implicato di tutti”, non fece altro che rafforzare le forze contro cui le BR combattevano.

Oggi, come allora, fortunatamente con ben altre modalità, il Movimento 5 Stelle sta combattendo le stesse battaglie e, commettendo, gli stessi ingenui errori. Come magistralmente recitato da Volonté in questo spezzone del film “Il caso Moro” (dal minuto 1.00 a 2.50), il “regime” che mantiene l’Italia in questo stato di ingiustizie e marciume è tutt’altro che monolitico, tutt’altro che impegnato a perseguire grandi e lontani disegni o complotti, tutt’altro che identificabile e quindi possibile a mettersi in un mirino. Il “regime” è invece fatto di piccole meschinerie, miseri interessi di parte, millenari e gretti meccanismi atti a preservare il personale status quo. E dunque l’Italia che abbiamo sotto gli occhi (da secoli) è piuttosto il risultato “della concatenazione, più o meno casuale, di tutta una serie di circostanze piccole”.

Per questo, oggi come allora, l’errore del M5S è concettuale: i grandi registi e cospiratori del “regime” non hanno nomi o hanno i nomi di milioni di persone. Il “regime” è un mastodonte, una balena (non a caso la Democrazia Cristiana veniva detta “la balena bianca”), senza identità, senza forma e, allo stesso tempo, ha l’identità e la forma dell’Italia intera. Ed, ormai, gridare ossessivamente e nevroticamente al complotto ogni pomeriggio o mandare “affanculo” un qualche politico un giorno sì e l’altro pure, oltre a tradire frustrazione, non fa che rafforzare questo mastodonte, esattamente come lo rafforzarono le azioni brigatiste.

Allo stesso modo, questa balena ha ora fagocitato anche Renzi, semplicemente attendendo che finisse nella sua grande bocca. Una balena con una grande bocca aperta che inghiotte e digerisce qualsiasi cosa, da qualche millennio. Sceso da Firenze a Roma pieno d’energia e grandi e nuovi propositi, si è trovato impelagato nelle millenarie paludi del “regime” e, per non perdere l’impulso derivatogli dalle primarie e dal suo essere “homus novus”, è stato costretto ad andare al governo secondo i più antichi, meschini, democristiani e fratricidi meccanismi. Il suo governo è un rimpasto del precedente, un collage di pezzi di partiti non destinati a stare insieme ed uniti più che altro dall’ansia di perdere il posto e confrontarsi con gli elettori, un governo già vittima di ricatti e capriccetti, nel quale ogni spinta di rottura rispetto al passato (qualsiasi essa sia) verrà “prudentemente” e inesorabilmente ammortizzata e spenta. Insomma: un tipico governo della nostra Repubblica. In altre parole, Renzi è già finito avvolto nelle spire del mastodonte che ne bloccheranno ogni spinta verso il cambiamento. Neanche il fascismo è riuscito a scalfire questi meccanismi, figuriamoci uno scout di Firenze.

E’ da decenni (secoli?) che sentiamo dire che “è la settimana decisiva”, che è “l’ultima chance”…Gli italiani sono incombustibili, gli italiani rimangono sempre a galla, in Italia non c’è mai stata una autentica rivoluzione in duemila anni. Perché, come diceva il poeta Umberto Saba: “gli italiani non sono parricidi; sono fratricidi… Vogliono darsi al padre, ed avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli”. E se non si “uccide il padre”, non si può cambiare nulla.

Presto o tardi, in Italia, ogni rivoluzionario o rottamatore, finisce e finirà per prendersela con gli italiani, per i quali “il cambio” e “la rivoluzione” sono irricevibili. E la balena, intanto, continua a navigare, anzi…a lasciarsi navigare…

Fonte: L’Undici

Guasta è l’economia. La crisi, il lavoro, le risposte del mercato e le proposte per un nuovo progetto comune.

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di Michele De Sanctis

Dal 2008 ad oggi, tutto ciò che è apparso come qualcosa di nuovo, fin dal default degli Usa, è, in realtà, la riproposizione di quanto accade dal 1971. Dall’abbandono da parte degli Stati Uniti degli accordi di Bretton Woods, per l’esattezza. Durante la conferenza di Bretton Woods del ’44, infatti, erano stati presi degli accordi che avevano dato vita ad un sistema di regole e procedure volte a regolare la politica monetaria internazionale con l’obiettivo di governare i futuri rapporti economici e finanziari, impedendo di ritornare alla situazione che diede vita al secondo conflitto mondiale. La decisione si rese necessaria poiché tra le cause del secondo conflitto mondiale andavano, altresì, annoverate le diffuse pratiche protezionistiche portate avanti dai singoli Stati, le svalutazioni dei tassi di cambio per ragioni competitive e la scarsa collaborazione tra i Paesi in materia di politica monetaria. I due principali compiti della conferenza furono, perciò, la creazione di condizioni idonee ad una stabilizzazione dei tassi di cambio rispetto al dollaro (eletto a valuta principale) e la eliminazione di quelle condizioni di squilibrio determinate dai pagamenti internazionali (tale compito fu affidato al FMI). Secondo il sistema definito da Bretton Woods il dollaro era l’unica valuta convertibile in oro in base al cambio di 35 dollari contro un oncia del metallo prezioso. Il dollaro venne così eletto valuta di riferimento per gli scambi, mentre alle altre valute furono consentite solo oscillazioni limitate entro un regime di cambi fissi a parità centrale. Per raggiungere l’obiettivo di vigilare sulle nuove regole e sul sistema dei pagamenti internazionali furono creati il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (Banca Mondiale), due importanti istituzioni esistenti ancora oggi, che diventarono operative nel 1946. Inizialmente il numero di Paesi aderenti al FMI era ridotto: per aderire ogni Stato doveva versare una quota in oro e una in valuta nazionale sulla base delle quali veniva deciso il proprio peso decisionale. L’obiettivo del Fondo era quello controllare la liquidità internazionale e coadiuvare i vari Paesi nel caso di difficoltà nella bilancia dei pagamenti.
Tuttavia, la guerra del Vietnam, il forte aumento della spesa pubblica e del debito americano segnarono la fine i questo sistema.
Infatti, il 15 agosto 1971 a Camp David Richard Nixon sospese la convertibilità del dollaro in oro, in quanto, con le crescenti richieste di conversione in oro le riserve americane si stavano sempre più assottigliando. Successivamente, il dicembre di quello stesso anno segnò il definitivo abbandono degli accordi di Bretton Woods da parte dei membri del G10 (il gruppo dei dieci Paesi formato da Germania, Belgio, Canada, Stati Uniti, Francia, Italia, Giappone, Paesi Bassi, Regno Unito, Svezia). Con lo Smithsonian Agreement il dollaro venne svalutato e si diede il via alla fluttuazione dei cambi.
Nondimeno, le istituzioni create a Bretton Woods sopravvissero ma si trovarono a ridefinire priorità e obiettivi. In particolare, il FMI, con la caduta di Bretton Woods, vide di fatto cambiare il proprio ruolo di sorveglianza. Con l’introduzione dei cambi flessibili e l’abbandono dello standard aureo, venne meno la necessità di gestire la liquidità internazionale e l’attenzione del FMI fu piuttosto portata sulle politiche macroeconomiche interne perseguite dai membri e sugli elementi strutturali dei loro mercati. Venne poi data priorità all’obiettivo di finanziamento degli squilibri della bilancia dei pagamenti dei Paesi in via di sviluppo trasformando il FMI da prestatore a breve termine a prestatore a lungo termine. Pertanto, il FMI si trovò investito del compito di effettuare prestiti vincolati al rispetto di specifiche condizioni e a piani di rigorosa stabilizzazione macroeconomica. Una funzione che il FMI mantiene ancora oggi, come dimostrano i recenti sviluppi collegati alla crisi dell’Euro e ai piani di salvataggio di Grecia, Irlanda e Portogallo, che vedono il Fondo quale prestatore di prima istanza insieme all’UE.
Con la fine degli accordi di Bretton Woods, dunque, gli USA hanno deciso, in base al loro potere politico e militare, di imporre il proprio indebitamento come peculiare modello di sviluppo, il cui costo, però, veniva fatto pagare agli altri. Debito privato, debito pubblico e consumo sostenuti dal mix tra debito interno ed esterno, tuttavia con dei fondamentali macroeconomici alquanto deboli: l’economia reale, già allora, mostrava, infatti, i caratteri della crisi strutturale e sistemica.
È da questo momento in poi che può analizzarsi la genesi dell’attuale crisi, che altro non è che un sintomo di esaurimento messo in moto dal capitale americano in quegli anni per continuare ad attrarre manodopera a basso costo privata, tra l’altro, della garanzia dei diritti sindacali minimi, oltreché risorse materiali dal resto del mondo in forma di merci. Sempre a credito.

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Lo scenario economico internazionale, peraltro, acuisce le proprie criticità sistemiche all’indomani della caduta del muro di Berlino e il successivo crollo dell’Unione Sovietica, quando si apre una fase di guida unipolare del mondo basata sullo strapotere politico e militare degli Stati Uniti, che, imponendo l’acquisto dei loro titoli hanno altresì imposto il sostegno della loro crescita basata su indebitamento ed economia di guerra. Successivamente, nel corso degli anni ’90 si aprì una fase di competizione globale, basata non tanto e non solo sul modello importatore degli americani, quanto segnata dai tentativi dell’Europa di trovare i suoi spazi di affermazione economica, puntando a un ruolo internazionale, con una forte posizione di esportatore svolto dalla Germania. Nel contempo, lo stesso modello di economia basata sulle esportazioni viene realizzato dalla Cina, che, grazie ai suoi avanzi nella bilancia dei pagamenti, decide di diventare il maggior compratore del debito statunitense. Il modello tirava e fu così che le banche tedesche e lo Stato cinese iniziarono ad acquistare titoli USA e, in parte, anche di altri Stati membri dell’UE. Questi ultimi, d’altro canto, dovevano subire lo strapotere tedesco e con questo la costruzione dell’Unione Europea come nuovo polo imperialista che, pur mancando di grande forza interna politica e militare, imponeva una logica economico-finanziaria tedesca.
Ma, come è ovvio, un sistema basato sull’indebitamento non può reggere all’infinito. Capita sempre che, a un certo punto, qualcuno presenti il conto!
Siamo a cavallo del 2007-2008. Negli USA scoppia la crisi dei subprime: il crack viene subito evidenziato come crisi finanziaria dovuto allo scoppio delle bolle speculative immobiliari e finanziarie, ma è solo la punta dell’iceberg. In realtà, più che finanziaria è una crisi dell’economia reale, dei meccanismi stessi dell’accumulazione: erano, cioè, gli stessi meccanismi del modo di produzione capitalistico che si erano ‘inceppati’ già nei primi anni ’70 e che nel 2008 dimostravano quanto quella crisi fosse divenuta ineluttabile, irreversibile e di carattere sistemico. Le privatizzazioni, l’attacco indiscriminato al costo del lavoro, al sistema del welfare e ai diritti, ma soprattutto la finanziarizzazione dell’economia finora hanno soltanto cercato di coprire una crisi dell’economia reale che si porta dietro il carattere della strutturalità e della sistemicità.
La competizione globale si inasprisce, così come pure il tentativo di centralizzare la ricchezza in poche mani, tentativo, peraltro, accompagnato da sempre più frequenti ‘guerre’: economico-finanziaria, commerciale e sociale. E infine da guerre militari per accaparrarsi nuove risorse. La caduta del regime di Gheddafi, per esempio, non è stata solo esportazione di democrazia, ma prima ancora è stata una conquista di matrice imperialista.
Contemporaneamente, la finanziarizzazione allargava il proprio giro, segnando l’arrivo dei Paesi che prima venivano denominati paesi in via di sviluppo, che ora divengono emergenti: i cosiddetti BRICS.
Sul fronte UE, invece, il modello esportatore tedesco, che aveva ormai sempre più bisogno di importatori, anche direttamente europei, porta la Germania ad investire l’avanzo che matura comprando titoli dei PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna). A loro volta, questi Paesi sono costretti ad indebitarsi per rispondere alle regole dell’euro, soffocando le proprie economie e massacrando il mondo del lavoro per garantire che la “questione” dell’Euro rimanga funzionale allo sviluppo esportatore della Germania (e in seconda battuta agli interessi francesi). Gli stessi Stati Uniti hanno un indebitamento in parte sostenuto dalla Germania oltre che dalla Cina. La competizione, però, oggi è ancora più aspra, come si è già accennato, perché ci sono nuovi competitor e i BRICS rivendicano il loro spazio.
A questo punto gli USA che non hanno più la forza politica e militare per imporre al mondo il proprio modello di sviluppo fondato sul loro indebitamento, si vedono costretti a chiedere l’innalzamento del debito appunto perché sanno che fuori dai loro confini non troverebbero poi tanti soggetti disposti a finanziare il Paese come avveniva nella vigenza del precedente modello economico. E questa è la prova che il mondo a guida unipolare basato sull’egemonia statunitense è ormai tramontato.
Quello di spostare il problema del debito più avanti, cioè di tentare di far fronte al deficit, che è un dato congiunturale di flusso, trasformandolo in esposizione strutturale di stock, è un problema non solo americano, ma anche italiano. L’Italia sembra, infatti, entrata in una spirale perversa tra recessione e maggiori interessi sulla vendita dei titoli che dovrebbero servire a finanziare il debito (sic!). Il dato preoccupante, però, è che un esposizione strutturale di stock oggi sarà debito sovrano domani. Cioè il debito che penderà sulle future generazioni di lavoratori. E i meccanismi per far fronte al deficit, certe manovre ‘lacrime e sangue’ che ci vengono imposte per la prima volta, diventeranno la norma. Perché fintantoché si continuerà a far cassa a discapito dei lavoratori ogni manovra sarà lacrime e sangue. Ma se il debito continuerà ad essere finanziato con altro debito, con la vendita, cioè, di altri titoli, il circolo vizioso che s’è creato potrà spezzarsi con molta difficoltà. Perché diventerà il sistema. La parte di deficit che si capitalizza, quindi, è una mannaia per le generazioni del futuro.

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Ho parlato di spirale perversa, di circolo vizioso, ma, in realtà, il meccanismo descritto altro non è che semplice speculazione finanziaria. Eppure, all’indomani del crollo dei subprime americani ad essere messi sotto accusa non era stata proprio la finanza speculativa? La risposta è ovvia quanto evidente. Il mercato non conosce sazietà. “Guasto e’ il mondo, preda di mali che si susseguono, dove la ricchezza si accumula mentre gli uomini vanno in rovina” recita la tomba del poeta inglese Oliver Goldsmith.
Guasto è il mondo, diceva Tony Judt nel testo che ha lasciato in eredità al l’umanità. Guasto perché il mercato è lasciato a se stesso, senza controlli o con meno controlli, perché il mercato che ha divorato se stesso ha ancor più necessità d’essere alimentato. Guasto perché gli appetiti personali sono diventati di colpo coraggiose virtù, la diseguaglianza s’è diffusa; la finanza, non più il lavoro e la produzione, è diventata la risorsa prima dell’economia. Guasto perché alla fine è arrivato il conto da pagare, salatissimo.
Il problema che si pone non è quello della crisi finanziaria ma di una crisi del modello di accumulazione: in crisi è quindi l’intero sistema capitalista. La finanza speculativa, che doveva essere quella in crisi, si sta, invece, riaffacciando in modo prepotente sfoderando armi diverse e combattendo su nuovi terreni. La speculazione finanziaria è ancora lì, come un avvoltoio, con quegli strumenti creativi con cui aggredisce chi non accetta le regole di dominio e che non effettua attacchi sempre più pesanti contro il salario diretto, indiretto e differito.
Sotto l’effetto di interessi particolari ed appetiti economici Gli ideali e la volontà di costruire una società coesa, prevalenti in Occidente nel dopoguerra, sono stati colpevolmente lasciati cadere. Per qualche decennio, hanno fatto da guida gli ideali keynesiani di un mercato temperato dall’intervento dello Stato. Le migliori leggi e le migliori politiche sociali adottate dall’America nel corso del XX secolo corrispondono in gran parte a ciò che gli europei chiamano socialdemocrazia. Ma poi qualcosa si è rotto: “Dovunque ti girassi” scrive Judt, “trovavi un economista o un ‘esperto’ che decantava le virtù della deregolamentazione, dello Stato minimo e delle tasse basse”. L’abbiamo sentita cantare anche noi questa canzone e ne stiamo sopportando i risultati.
Per uscire dal debito greco, per esempio, si stanno approntando nuovi strumenti di finanza creativa che dilazionano l’indebitamento e creano le premesse di nuovi collassi. La finanzia continua a svolgere il suo ruolo speculativo, in questo gioco al massacro ai danni delle casse pubbliche, dei salari e dello Stato sociale.
Il problema non è dunque la crisi finanziaria scoppiata nel 2008 ma il fatto – piuttosto – che per trent’anni abbiamo trasformato in virtù il perseguimento dell’interesse materiale personale, anzi, ormai questo è diventato l’unico scopo collettivo che ancora ci rimane.
In questo modo di fare, anzi di vivere, lo Stato è diventato un problema non una soluzione; le disuguaglianze sociali aumentano perché tutto si incentra sulla capacità e sulla furbizia di ciascun individuo, mentre i redditi tendono a concentrarsi nella cuspide della piramide in quanto lo sviluppo “sociale” del dopoguerra diventa “personale” per essere definitivamente abbandonato.
Il problema, pertanto, non è solo economico, ma altresì etico e politico. Secondo Hessel, le società civili, i giovani, in particolare, hanno il dovere morale di reagire di fronte a questa situazione. Di indignarsi! Secondo Judt, poi, avere idee nuove, per una società nuova, intendo, è fondamentale, in quanto è da qui che si parte per nuove correnti di pensiero, correnti che un giorno, magari, si trasformeranno in vere e proprie leggi.
Se la società è scomparsa a favore degli individui e se tutto ma proprio tutto verte sull’economia, ciò che riguarda l’etica – che implicitamente significa eguaglianza – diventa ogni giorno di più una cosa risibile. Ma questa cosa risibile è proprio il nostro punto da cui ripartire per riformare l’intera società. Oggi rivoluzione significa che dobbiamo tendere alla formazione di una “società nuova”. Bisogna, infatti, coniugare l’efficienza del capitalismo con la società, riducendo gli squilibri e permettendo allo Stato di rimanere un attore fondamentale all’interno del sistema sociale e del mercato.

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La politica, dunque, è la strada maestra, l’unica via percorribile affinché si possano regolamentare difendere i cittadini più deboli e vessati da questo sistema, cittadini che ogni giorno aumentano sempre di più. È, pertanto, indispensabile l’impegno politico e sociale di tutti i cittadini, che devono continuamente spronare e stimolare il dibattito pubblico, al fine di evitare che si spenga tra le ceneri del potere.
Se infatti ci si arrendesse, il gioco al massacro a cui stiamo assistendo continuerà finché il numero delle vittime non sarà superiore a quello dei salvati. E accadrà davvero se non ci riappropriamo di un’etica della politica e se, nel contempo, non smettiamo di pensarci come singoli individui, piuttosto che come membri di un’unica società.
Dal punto di vista pratico, per mettere un argine a questa situazione, per lo meno nel vecchio continente, bisogna innanzitutto abbandonare la via tracciata dalla Trojka. Infatti, la cosa assurda è che chi dovrebbe confezionare proposte in grado di tirarci fuori da questa situazione in realtà pensa agli interessi di una sola parte dei Paese di Eurolandia, i ricchi e i soliti noti, banchieri e finanzieri, come dimostrano le ultime leggi finanziarie e la legge di stabilità. Secondo Luciano Vasapollo, docente di Economia applicata a La Sapienza, una prima risposta può essere lanciare una campagna del mondo del lavoro non contro l’Europa, ma contro le regole del massacro sociale imposte dalle compatibilità economico-finanziarie dell’euro. La seconda questione che va posta all’ordine del giorno è rilanciare una serie di politiche in ordine ad un’efficiente nazionalizzazione e statalizzazione delle banche e dei settori strategici dell’economia. Il debito sovrano sta diventando un nodo nei Paesi deboli, perché con i soldi pubblici si sono finanziate le banche. Quindi la prima nazionalizzazione deve essere del sistema bancario. E poi è necessario porre immediatamente la soluzione del nodo dei settori strategici di energia, trasporti e comunicazioni che devono da subito ritornare in mano allo Stato. Quello che Vasapollo prospetta nel suo illuminante saggio del 2011 ‘Il risveglio dei maiali. PIIGS. Le proposte di CESTES-PROTEO’ sembrerebbe un ritorno agli anni 50-60, quando si creò in Italia una forte economia mista, con un welfare vero e un futuro per i giovani.
Tuttavia, le tesi di Vasapollo sono in linea con quelle di altri economisti critici ed eterodossi, che, nelle loro varie componenti, stanno cercando di trovare un accordo su un programma minimo di controtendenza da proporre e insieme praticare con il ruolo centrale del sindacalismo conflittuale di classe. In ogni caso, se da un punto di vista logico, esistono, infatti, varie alternative possibili alla attuale competizione globale, fino alla maggiore determinazione del superamento del modo di produzione capitalista, d’altro canto ognuna presenta distinti gradi di probabilità in funzione di ragioni tecnico-economiche o politico-sociali. Ciò che più rileva, comunque, è che qualsiasi proposta attuabile dovrà “fare i conti”, in primo luogo, con la tecnologia. Il cambio tecnologico può rappresentare un progresso tecnico e sociale solo se è frutto di una decisione collettiva dei lavoratori, maggioritaria, responsabile, aperta al dialogo, negoziata e contrattata. Dall’epoca “luddista” – l’epoca di quegli operai che distruggevano le macchine che andavano ormai a prendere il loro posto nelle fabbriche tessili -, i sindacati dei lavoratori hanno rinunciato a controllare, a regolare e a partecipare nel senso e nell’orientamento del cambio tecnico. È stata una decisione che si è lasciata sempre in mano agli imprenditori e al capitale. Invertire questa tendenza secolare implica intendere in altra maniera lo sviluppo democratico, comprendere che il dibattito sulla tecnologia, che è in fondo parte del dibattito tra marxisti, esige che tra i lavoratori vi sia una cultura tecnologica – che oggi non c’è -, delle strutture che servano a canalizzare e organizzare il dibattito sul cambio tecnico. L’attuale processo di privatizzazione delle risorse, per esempio, verrebbe superato proprio da questa nuova cultura tecnologica. In secondo luogo, anche l’economista Vasapollo dichiara la necessità etica di un cambiamento radicale di tipo socioculturale (quello che in termini gramsciani si chiama un cambio di egemonia che modifichi il senso comune): un cambio che inverta le relazioni causali tra l’economia e la politica. La politica, infatti, è sempre stata al servizio dell’economia, quantomeno dal XIX secolo. Il discorso politico occultava precedentemente questi interessi nell’essenza dell’economia; ma nel XX secolo c’è stata una svolta, il discorso politico è stato colonizzato dagli interessi economici, tanto che oggi sembra che parlare di politica sia esclusivamente parlare di economia, di spesa pubblica, di interessi, di imposte, di marche legali, di legislazione del lavoro o legislazione commerciale. Questo è logico solamente in un sistema che subordina lo sviluppo sociale agli interessi di mercato.

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Le proposte concrete e immediate sono quindi quelle offerte da nazionalizzazioni, investimenti in edilizia pubblica, lavoro e salario pieno e a totalità di diritti veri, di uscita dall’euro (o quantomeno di creazione di un euro debole nell’area mediterranea e in Irlanda), ma più importante di tutte è la proposta di azzeramento del debito. Questi sono i primi punti qualificanti il programma minimo di controtendenza.
Il problema è che l’economia finanziaria non crea risorse perché sul medio periodo è un gioco a somma zero, quindi in questo ballo mascherato delle celebrità , cioè dei potentati finanziari devono entrarci gli Stati, i lavoratori, in ultima istanza, su cui si scarica tutta la durezza e drammaticità della crisi. Per esempio, in Grecia non bisogna dilazionare ma dare un taglio netto. E del resto è quanto è già stato fatto in Sud America, ad esempio quando l’Argentina girò le spalle al Fondo Monetario Internazionale. Se si entra nella logica della diminuzione del tasso di interesse e di allungamento del debito, il ricatto diventa continuo e l’economia reale perde completamente i parametri di sostenibilità sociale e ambientale. Per questo, un’alternativa globale ridefinisce il discorso politico nel terreno del sociale e subordina, a questo discorso politico sul sociale, il discorso economico e il discorso politico sull’economia. L’Europa deve costruire in maniera indipendente le proprie prospettive muovendosi da subito in piena autonomia da qualsiasi modello consociativo, concertativo e di cogestione della crisi. Solo così l’autonomia di classe potrà assumere un vero connotato di indipendenza dai diversi modelli di sviluppo voluti e imposti dalle varie forme di capitalismo, ma soprattutto da quel sistema di sfruttamento imposto dall’unico modo di produzione che il capitale sia stato in grado di conoscere. E in tal senso il movimento dei lavoratori non può e non deve essere elemento cogestore della crisi, ma nella crisi deve trovare gli elementi del rafforzamento della sua soggettività politica. Ciò vuol dire che non è accettabile alcuna gestione della crisi da parte dei lavoratori, né è ammissibile un nuovo sistema compatibile con la sopravvivenza del capitalismo: l’indipendenza del mondo del lavoro dal cosiddetto ‘sviluppismo’ capitalista significa in primis non collaborare ma offrire un proprio programma minimo di classe al di là delle compatibilità del capitale, esprimendo, così, tutta la propria autonomia nella conflittualità. Entrare nel gioco significherebbe piuttosto morire nel gioco! Sono sempre i più deboli che soccombono: prosperano, cioè, i fondi pensione e di investimento e perdono i lavoratori con la privazione di pensioni e salari, del welfare e dei diritti sociali.

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Subordinare l’economia alla politica sarebbe quindi un’alternativa alla mondializzazione capitalista realmente esistente. Non è, in fondo, altra cosa del vecchio, ma non antico né superato, programma delle organizzazioni internazionali di classe: la subordinazione del capitale al lavoro, della produzione all’essere umano.

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“Non licenziate i nostri papà”: il dramma della crisi nei disegni dei bambini

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I figli dei dipendenti di un’azienda torinese hanno realizzato una serie di “ritratti di vita”, raccolti in un video struggente, per raccontare il dramma dei loro genitori che hanno perso il lavoro.

TORINO – “Mio papino, non c’è bisogno che piangi di nascosto, perché anche se davanti a tutti noi sorridi io ho capito tutto. Stai tranquillo, ci sarò anch’io nelle tue lotte perché non lascerò mai la mano che tu stringi per 11 anni”. Firmato “figlia di un dipendente”.

A Collegno, in provincia di Torino, sono i bambini a raccontare la crisi economica che stritola il Paese e “annienta” le persone. Lo fanno nel modo più semplice e naturale possibile, prendendo un paio di fogli bianchi, pennarelli colorati e disegnando quello che vedono: una vita priva di soddisfazioni. I loro “ritratti di vita” sono stati raccolti in un video pubblicato su YouTube: il risultato è struggente (GUARDA IL VIDEO QUI).

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I bambini che raccontano a modo loro il bisogno di uscire fuori da questa crisi sono i figli dei dipendenti della Fivit Colombotto di Collegno, l’ennesima azienda torinese specializzata in produzione di viti e bulloni per elettrodomestici che chiude i battenti e lascia a casa 82 persone. Inevitabile che ad accorgersi del dramma siano anche loro, i più piccoli e innocenti.

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Perché anche comprare una maglietta nuova o un pezzo di cioccolato è diventato faticoso: i bimbi disegnano i beni di primario consumo e li barrano con una grossa “X”, perché i loro genitori non riescono ad acquistare neanche quelli. Perché “state rovinando i nostri sogni”, scrivono Giulia di sei anni e Francesco di tre. Un segnale forte, perché spesso i bambini vedono più di quello che dovrebbero vedere. E lo sanno che i loro genitori non sono numeri e che “il lavoro è un diritto di tutti”, come scrivono Sara e Gianluca.

Fonte: Torino Today

Politica e questione morale.

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La questione morale è divenuta oggi la questione nazionale più importante. È impensabile, infatti, governare il Paese e risolvere i problemi che lo assillano se non si ristabilisce un saldo rapporto di fiducia tra i cittadini e lo Stato.

Attuale come non mai, vero?
A parlare, invece, è Enrico ‪Berlinguer‬ in un Comunicato della Direzione del P.C.I. del 27 novembre 1980.
È evidente che la questione morale è un problema storico della politica di questo Paese.