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1 MAGGIO

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di Michele De Sanctis

“Il primo maggio è come parola magica che corre di bocca in bocca, che rallegra gli animi di tutti i lavoratori del mondo, è parola d’ordine che si scambia fra quanti si interessano al proprio miglioramento”: lunga e niente affatto banale è questa frase apparsa sulla rivista ‘La rivendicazione’ nell’articolo ‘Pel primo Maggio’, pubblicato in questa data nel 1890.

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Il 1 maggio ricorda ogni anno l’impegno dei lavoratori e dei sindacati e i traguardi raggiunti nel corso del tempo in campo economico e sociale, primo fra tutti il limite orario di 8 ore quotidiane. “Otto ore di lavoro, otto di svago, otto per dormire” era questo lo slogan adottato a metà ‘800 in Australia. Sebbene ora il concetto di lavoro sia alquanto diverso e benché siano cambiati anche i traguardi da raggiungere, la lotta operaia per il conseguimento di un orario massimo di lavoro è stata una delle più importanti del movimento sindacale in tutto il mondo. Le origini di questa giornata di festeggiamenti collettivi in onore dei lavoratori partono dall’Australia da dove il movimento per il riconoscimento del limite orario si estende fino a New York, quando nel 1882 viene organizzata una manifestazione per i diritti dei lavoratori organizzata dell’associazione Knights of Labor, col proposito di farla diventare un evento annuale, senza, peraltro, successo alcuno, tanto che, dopo due anni, il progetto viene accantonato. La questione riprende, nondimeno, forza anni dopo, quando nel 1887 a Chicago quattro operai furono impiccati per aver organizzato uno sciopero durante la giornata del 1 maggio dell’anno precedente. In ricordo di questo omicidio di Stato, la data del primo maggio venne adottata in tutto il mondo per celebrare il movimento operaio e tutti i lavoratori: dapprima in Europa dove, precisamente dal 1 maggio 1890 (data ufficializzata dai socialisti della Seconda Internazionale) si festeggia ogni anno la festa dei lavoratori e poi si cominciò in Canada ogni anno sin dal 1894.

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Molti sono gli eventi in programma per oggi in tutta Italia. Per tradizione, infatti, la festa del lavoro è dedicata ogni anno alla cultura e quindi agli eventi. Cortei, concerti, arte: anche se una giornata, che dovrebbe essere particolarmente “impegnata” a livello politico e sociale, finisce per essere troppo spesso l’ennesimo motivo per festeggiare. Ma va bene lo stesso, si ballava anche alle Feste de L’Unità, ai tempi del PCI, per cui chi può si diverta: l’importante è tenere sempre a mente il motivo della festa. Se, come insegna il parroco, questo discorso vale a Natale e Pasqua, per me vale ancora di più oggi. I principali eventi in programma per la giornata del 1 maggio sono il consueto concerto in piazza San Giovanni a Roma, le visite gratis o a costo ridotto nei musei di tutto lo stivale, cortei e manifestazioni, i classici picnic e gli appuntamenti nei parchi pubblici delle città, e poi le prime sagre della stagione e le fiere con cui si cerca di valorizzare, appunto, il lavoro realizzato dagli operatori del territorio.

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Sono tanti anche quelli che, meteo permettendo, ne approfitteranno per fare delle mini vacanze (le cosiddette “uscite fuori porta”), oppure per organizzare scampagnate, grigliate e, magari, per fare attività fisica, o quelli che con il ponte di domani potranno godersi un weekend lungo in qualche resort, nella seconda casa, da amici o parenti.

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È, però, vero che a causa della crisi si fa sempre più avanti un sentimento di “invidia” da parte dei disoccupati verso chi, invece, un lavoro ce l’ha. Un po’ come succede a San Valentino, chi non ha un lavoro, così come chi non ha trovato l’anima gemella, avvertirà questo sentimento d’invidia nella giornata del 1 maggio, specie di fronte a chi può permettersi di festeggiare con una vacanza: e così la festa dei lavoratori, tra eventi e storia, assume adesso un significato diverso. Più drammatico, perché non è solo invidia. È dolore ed è anche vergogna. Se è vero che il lavoro nobilita l’uomo, la sua assenza lo priva innanzitutto della dignità, del naturale istinto a provvedere a se stesso e al proprio nucleo familiare. Già, perché se la ricerca dell’anima gemella dipende soprattutto dalle proprie capacità di seduzione, trovare lavoro va ben oltre il merito personale. Specie in un posto in cui sono sempre i meno bravi a sistemarsi prima, a trovare lavoro magari anche vicino casa e a vivere la vita che tu, col tuo curriculum “blasonato” e la tua personale preparazione, avresti meritato cento volte di più.

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Quel lavoro che dovrebbe, invece, essere garantito a tutti come stabilisce il primo articolo della Costituzione. Quel lavoro che manca e che se c’è, con il suo carico quotidiano e i suoi mille problemi, ci lascia ancora insoddisfatti. Quel lavoro per cui ogni giorno ci alziamo dal letto all’alba e che ci fa stringere i denti e resistere a quest’infinita congiuntura economica. Quel lavoro che è, altresì, lotta per un futuro migliore alla ricerca del lavoro perfetto che, sì, ancora oggi esiste! Deve esserci! Steve Jobs, nel suo celebre discorso ai giovani universitari, pronunciò una frase che ho spesso ripetuto a me stesso: “L’unico modo per fare un buon lavoro è amare quel che fai. Se non hai ancora trovato ciò che fa per te, continua a cercare. Non accontentarti”.
STAY HUNGRY. STAY FOOLISH.

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Buon 1 maggio a tutti!

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I TRENTENNI E LA CRISI. FIGLI CONTRO PADRI.

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di Michele De Sanctis

Gli ultimi dati Istat (gennaio 2014) ci dicono che il tasso di disoccupazione giovanile ha raggiunto il 42,4%, attestando la drammaticità della condizione dei giovani italiani che si approcciano al mercato del lavoro. Abbiamo spesso sentito ripetere che questa è la prima generazione di figli che starà peggio dei propri padri, ma è poi difficile supportare tali affermazioni con dati puntuali. In linea di massima, si dovrebbe osservare l’intera sequenza dei redditi percepiti dalla persone nel corso della propria vita; tuttavia, dati di questa natura (che contengano informazioni su individui di diverse generazioni, quindi nati in anni molto distanti tra loro) sono pressoché difficili da reperire.
È certo, però, che le condizioni di ingresso nel mercato del lavoro hanno una forte influenza sul futuro percorso di carriera. Statisticamente è dimostrabile che chi entra sul mercato del lavoro con un salario basso farà molta fatica a rimontare.
Per tale ordine di ragioni, i dati riportati nel grafico qui sopra si dimostrano particolarmente interessanti perché illustrano il reddito medio degli attuali trentenni rispetto alla media dell’intera popolazione in anni diversi. Chi è nato nel 1947, e quindi aveva trent’anni nel ’77, a quella data guadagnava circa il 10% in più del salario medio dell’intera popolazione. La curva, però, mostra che questo premio si assottiglia notevolmente già per i trentenni del 1984, che guadagnavano poco meno del 3% in più della media, per finire con l’azzerarsi quasi completamente nel 1991. Dopodiché la curva crolla. Chi è nato nel 1980 arriva ai trent’anni guadagnando il 12% in meno del reddito medio dell’intera popolazione.

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Possiamo, quindi, parlare di conflitto generazionale tra padri e figli? Forse. Ciononostante potrebbe obiettarsi che oggi l’entrata nel mercato del lavoro è ritardata dal fatto che più persone arrivano a conseguire la laurea e quindi ottengono un primo impiego (con conseguente salario iniziale) più tardi rispetto ai propri padri. Vero anche questo, ma, statistiche a parte, invito ciascuno di voi a una riflessione personale. I trentenni soprattutto. Per esempio, io, che di anni ne ho 34, sono entrato nel mercato del lavoro a 26, dopo il conseguimento della mia prima laurea, che, proprio come quella di mio padre, nato nel ’47, era a ciclo unico (ante riforma del 3+2). Lui nel mercato del lavoro è entrato con soli tre anni di anticipo rispetto a me, ma soltanto perché iniziò a lavorare prima di laurearsi. A parità di qualifica ricoperta a trent’anni, io considererei anche il diverso potere d’acquisto tra la mia busta paga e la sua, come anche il fatto che alla mia età lui aveva una casa ed io vivo ancora in quella stessa casa che papà comprò a 30 anni (il che distingue nettamente i due redditi).
Sì, dati alla mano ed esperienza personale mi confermano l’esistenza del conflitto generazionale.
Quanti di voi a 30 anni hanno potuto acquistare una casa? E se ce l’avete fatta, in che anno siete nati?

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Governo-Sindacati: dialogo tra sordi?

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di Michele De Sanctis

Il braccio di ferro tra Renzi e Susanna Camusso, che negli ultimi giorni ha esacerbato le polemiche scaturite dalla divulgazione del Jobs Act, merita alcune brevi osservazioni, nell’imminenza della presentazione ufficiale del ddl lavoro.
Sebbene i rapporti tra sinistra e CGIL siano sempre stati ispirati da un tacito principio collaborazionista, negli ultimi anni, complice la crisi e le pressanti richieste della trojka, abbiamo assistito a un decisivo cambiamento di rotta fino ad arrivare all’attuale premier che non si fa scrupolo nel dichiarare le sue intenzioni di procedere nel cammino delle riforme promesse con o senza l’approvazione delle principali sigle sindacali. Anche perché è opinione di Renzi che i sindacati, così come storicamente si sono configurati nella società italiana, siano forze più conservative che progressiste. Posizione opinabile e facilmente confutabile, a mio avviso. Eppure si tratta di un Presidente del Consiglio espressione di un partito che, nella sua duplice natura, conserva non solo la matrice d’ispirazione socialdemocratica e, quindi, di cooperazione con i sindacati, ma che, pure nella sua matrice centrista, non è comunque avulso dallo spirito associazionista dei trait d’union.

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Del resto, la cd. concertazione, siglata dagli accordi del luglio ’93 tra sindacati e politica, ha dato frutti importanti e duraturi per l’economia italiana. E’ solo con il secondo governo Berlusconi e lo scellerato Patto per l’Italia del 2002 che si assiste a un progressivo deterioramento dei rapporti tra istituzioni e parti sociali. Il tentativo dei governi di centrodestra è stato, infatti, quello di mettere fuori gioco la CGIL, pur trattandosi del sindacato maggiormente rappresentativo del Paese, al fine di creare una frattura tra questa Confederazione e le altre sigle. Di tale situazione, radicatasi nel corso dell’ultimo decennio, Confindustria e i rappresentanti delle parti datoriali sono stati i principali beneficiari. L’esautoramento della forza rappresentativa della CGIL si è protratto fino al caso Pomigliano, quando nel 2010 FIAT riuscì a tagliarla fuori del tutto dagli accordi decentrati.

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Ma l’esclusione della CGIL dai tavoli di trattativa ha portato ad accordi impopolari, quanto iniqui e, successivamente, all’indebolimento di tutto il movimento sindacale nel suo complesso. Tant’è vero che, nel governo Monti, il ministro Fornero, ignorando i suggerimenti delle parti sociali, ha varato la sua riforma del mercato del lavoro e del sistema previdenziale seguendo le sole linee governative, le raccomandazioni di Bruxelles, quelle di Berlino e, soprattutto, quelle delle principali banche d’affari, creando più di 100.000 esodati, problema a tutt’oggi irrisolto. Considerando un tale precedente ed il danno sociale che ne è stato determinato, sarebbe buona regola riprendere la prassi degli accordi concertati, anche perché un uomo solo, per quanto si proclami risolutivo, non può, in un sistema democratico, mettere mano da solo a nessun tipo di riforma, tanto più a quelle che impattano sensibilmente la società civile. Ci auspichiamo, dunque, un’immediata ripresa del dialogo, lasciando da parte atteggiamenti di sufficienza nei confronti di quelle associazioni che rappresentano i diretti destinatari della riforma che il Governo si appresta a varare.

LAUREATI, LAVORO E PRECARIETA’

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di Michele De Sanctis

Presentato oggi a Bologna nel corso del Convegno ‘Imprenditorialità e innovazione: il ruolo dei laureati’ il XVI Rapporto AlmaLaurea sulla condizione occupazionale dei laureati. L’analisi ha coinvolto a livello nazionale quasi 450.000 laureati di tutte le 64 università aderenti al consorzio.

Dal 2008, primo anno della crisi, ad oggi, il tasso di disoccupazione tra i neolaureati è più che raddioppiato. Infatti, sei anni fa a rimanere senza impiego a un anno dalla laurea era soltanto il 10% circa dei neodottori, mentre oggi la percentuale dei laureati triennali senza lavoro a un anno dalla tesi è salita al 26,5%, mentre è aumentata fino al 22,9% per le lauree specialistiche e al 24,4% per quelle magistrali a ciclo unico. Il tasso di disoccupazione, poi, si inasprisce in determinati settori: le maggiori difficoltà nella ricerca di un’occupazione sono quelle riscontrate dai laureati in giurisprudenza, architettura e veterinaria. Rispetto al 2008, la percentuale dei senza lavoro tra i laureati in queste discipline appare addirittura triplicata.

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Ma l’indagine condotta dal consorzio AlmaLaurea, realizzata attraverso un’analisi comparata delle generazioni che sono passate per le aule accademiche tra il 2008 e il 2013, non si ferma qua e si spinge anche ai rapporti di lavoro conclusi dai più fortunati, fortunati in senso lato, s’intende. Nel 2008 i giovani che riuscivano a firmare un contratto di lavoro a tempo indeterminato dopo una laurea triennale erano il 41,8% e il 33,9% di quelli che avevano completato anche il biennio successivo. Oggi le percentuali sono rispettivamente di 26,9% e 25,7%, a fronte di una retribuzione diminuita di circa il 20% rispetto a sei anni fa. Le retribuzioni in termini nominali sono, infatti, passate da 1.300 Euro mensili del 2008 ai 1.000 del 2013.

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Nonostante questi dati sconfortanti, che danno da pensare ai genitori di coloro che frequentano l’ultimo anno di scuola e preoccupano chi si avvicina al conseguimento della sudata laurea, ad essere più colpiti, in questi tempi di recessione, sono stati proprio i giovani sprovvisti di titoli accademici. Tra il 2007 e il 2013, infatti, il differenziale tra il tasso di disoccupazione dei neolaureati e dei neodiplomati è passato da 2,6 punti percentuali a 11,9. La laurea, pertanto, benché destinata a ‘rendere’ nel medio periodo, piuttosto che nel breve, continua ad essere un importante strumento nella ricerca di un lavoro, per lo meno più utile del solo diploma. Molte famiglie negli ultimi tempi non riescono ad affrontare le tasse universitarie che, anche per effetto di certi meccanismi di finanziamento introdotti dall’ex Ministro Gelmini con la L. 240/2010, diventano più alte di anno in anno. Soprattutto dinanzi ad una crisi che sembra non guardare in faccia a nessuno, molti giovani abbandonano gli studi dopo il diploma, pensando che laurearsi non serva a nulla, che sia un sacrificio economico inutile, finendo, così, per allargare le fila di quella parte di popolazione che non solo è bloccata dalla recessione, ma anche dallo scarso tasso di specializzazione delle proprie conoscenze, senza cui è impensabile un recupero dei livelli di sviluppo socioeconomici raggiunti prima della crisi.

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Per uscire da questa situazione, gli autori del rapporto AlmaLaurea suggeriscono di dare maggior peso alla conoscenza e alla competenza, piuttosto che perseverare nel premiare, come ancora accade, l’anzianità anagrafica e di servizio. I laureati entrati da poco nel mercato del lavoro avranno sicuramente avuto a che fare con figure apicali non curriculate. Ed indicano, peraltro, due linee di intervento assolutamente necessarie. Da una parte, chiedono misure di sostegno all’imprenditorialità dei laureati, dunque sviluppo di venture capital, cioè apporto di capitale di rischio da parte di investitori per finanziare l’avvio di attività in settori ad elevato potenziale di sviluppo, oltreché una più capillare presenza di business angels, ossia di quegli investitori informali, ex titolari di impresa, manager in pensione o in attività, liberi professionisti che abbiano il gusto della sfida imprenditoriale, il desiderio di poter acquisire parte di una società che operi in un business, spesso innovativo, rischioso ma ad alto rendimento atteso, e, infine, una maggiore diffusione dell’educazione imprenditoriale. Dall’altra parte, invitano a puntare al rientro dei cervelli in fuga attraverso l’offerta di migliori prospettive occupazionali, sia in termini retributivi che di qualità del lavoro, di accrescere le risorse destinate alla ricerca sia dallo Stato sia dai privati e di introdurre strumenti di valorizzazione del merito.

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Circa dieci giorni fa Matteo Renzi ha annunciato attraverso Twitter un programma per il rilancio del lavoro: il Jobs Act. Noi di BlogNomos ne abbiamo parlato, riportandovi i punti che il premier intende sviluppare e le prime indiscrezioni su quali saranno le novità in materia previdenziale ed occupazionale. E seguiremo l’iter dei lavori, tenendovi aggiornati costantemente. Quelli descritti finora sono stati solo i dettagli. Il Presidente del Consiglio ha twittato in più di un’occasione la necessità di fare qualcosa per intervenire in un’area così delicata. Da un lato i giovani neolaureati ed inoccupati che chiedono interventi urgenti per favorire la loro entrata nel mercato del lavoro, dall’altro quelli che di lavoro non ne sono riusciti a trovare e che tentano adesso la via dell’imprenditorialità, chiedendo riforme in materia di semplificazione e defiscalizzazione. Rispondere ad entrambe le richieste aumenterebbe il numero di posti di lavoro, senza, peraltro, ricorrere ancora una volta alla stipula generalizzata di contratti precari di lavoro. Ad essere precarie sono, infatti, solo le condizioni contrattuali che la Trojka ci ha costretti ad introdurre nei nostri rapporti di lavoro, ma la vita di un giovane che esce oggi dall’università non può diventare essa stessa precaria solo perché ce lo chiede l’Europa. Abbiamo diritto a un futuro ed è un diritto che vogliamo esercitare subito. L’augurio è, quindi, che questo rapporto di AlmaLaurea influenzi positivamente e in maniera ‘fattiva’ le scelte che il Governo prenderà nella stesura del Jobs Act.

Lavoro somministrato nella Pubblica Amministrazione. Quer pasticciaccio brutto della spending review.

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Il decreto 276 del 2003 e successive modifiche, con particolare riguardo a quelle introdotte dal decreto legislativo del 2 marzo 2012, n. 24, sostituendo il lavoro interinale con quello somministrato, ha disciplinato, tra l’altro, la materia del contratto di somministrazione di lavoro applicabile, entro determinati limiti e vincoli, anche alle Pubbliche Amministrazioni. Sebbene, infatti, l’art. 1, comma 2 del decreto in parola escluda espressamente le Pubbliche Amministrazioni e il relativo personale dalla sua applicazione, il successivo articolo 86, comma 9 prevede espressamente che la somministrazione di lavoro trovi applicazione anche alla P.A. limitatamente ai contratti di somministrazione di lavoro a tempo determinato. Si tratta di una norma di raccordo che consente quindi l’applicazione dell’istituto previsto dalla cd. Legge Biagi anche alla Pubblica Amministrazione.

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Più di recente l’Unione Europea è poi intervenuta sul tema con la direttiva 2008/104/CE, pubblicata in G.U.R.I. n. 69 del 22/03/2012, dedicata, per l’appunto, al lavoro tramite agenzia interinale e finalizzata all’armonizzazione dei diversi ordinamenti degli Stati membri così da promuovere il completamento del mercato interno attraverso un miglioramento della vita e delle condizioni dei lavoratori nella Comunità europea. Nel considerando 2 della direttiva si legge che ciò avverrà mediante il ravvicinamento dei diversi ordinamenti soprattutto per quanto riguarda forme di lavoro come quello a tempo determinato, a tempo parziale, il contratto mediante agenzia di lavoro interinale e il lavoro stagionale. Secondo l’Unione, il lavoro tramite agenzia interinale risponde non solo ad esigenze di flessibilità delle imprese, ma anche al bisogno dei dipendenti di conciliare vita professionale e vita privata e può validamente contribuire alla creazione di posti di lavoro e alla partecipazione e integrazione nel mercato del lavoro (v. considerando 11 della direttiva). Difficile in tempi di crisi capire come per l’Unione un lavoro precario e privo di aspettative di carriera (ma anche di stabilità) possa conciliarsi con la vita privata del lavoratore: vita che è naturalmente fatta di progetti, che dinanzi all’instabilità del rapporto lavorativo difficilmente possono essere realizzati. Dal mutuo per la casa ai risparmi per gli studi dei figli. Ai figli stessi: difficile metterne in cantiere uno, a queste condizioni, diciamo anche rischioso.

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Il rapporto somministrato, poi, si complica ulteriormente (ai danni del solo lavoratore, ovviamente) se il lavoro lo si presta in favore di una P.A.: l’art. 97 Cost. regola l’accesso nella stessa e stabilisce la via del concorso pubblico come modalità principale, salvo poi riservare ad alcune categorie protette l’accesso tramite liste di collocamento. Tuttavia, le politiche di contenimento della spesa per il personale nella P.A. previste dalle ultime leggi finanziarie ma anche dai recenti interventi in tema di spending review e anche dalla legge di stabilità, hanno determinato la riduzione delle assunzioni a tempo indeterminato e in alcuni casi introdotto il cd. blocco del turn over, determinando il ricorso all’utilizzo sempre più frequente dei contratti di somministrazione di lavoro temporaneo o di altre forme flessibili di reclutamento, anche in considerazione del favore dimostrato dal legislatore verso tali tipologie contrattuali, soprattutto in seguito alle diverse modifiche apportate all’articolo 36 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e nonostante i vari interventi legislativi sui limiti di spesa.
In termini di opportunità amministrativa, quando non anche politica, è necessaria un’analisi dei costi per valutare la convenienza dello strumento flessibile (ed atipico, lato sensu) che il nuovo mercato del lavoro propone.

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S’è detto che la P.A., soggetto utilizzatore, stipula un contratto di tipo commerciale col somministratore, questo perché la somministrazione prevede tre tipi di rapporti derivanti da due distinti accordi: un rapporto commerciale discendente dal contratto stipulato tra utilizzatore e somministratore, un rapporto lavorativo tra questi e il dipendente che firma un contratto di lavoro con l’agenzia e, infine, un rapporto funzionale tra il lavoratore e l’utilizzatore che si avvale delle sue prestazioni. Per una Pubblica Amministrazione, sottoposta a spending review, ricorrere alla somministrazione significa spendere per un singolo lavoratore più di quanto non farebbe se quell’unità fosse stata selezionata tramite concorso ed assunta a tempo indeterminato, ovvero determinato.
Se in origine il presupposto per ricorrere a tale contratto, ai sensi dell’articolo 20, comma 4, del d.lgs. n. 276/2003, era individuato “nelle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo anche se riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore”, evoluzione/involuzione rispetto alle sole esigenze di carattere temporaneo previste per il lavoro interinale dalla l. 196/97, ora l’articolo 4, comma 1 lettera c), del d.lgs. n. 24/2012, nell’aggiungere all’articolo 20 il comma 5-quater, ha previsto una deroga alle suindicate ragioni di utilizzo del contratto di somministrazione a tempo determinato nelle ulteriori ipotesi individuate dai contratti collettivi nazionali, territoriali e aziendali stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative dei lavoratori e dei datori di lavoro. I CCNL, nei diversi comparti del pubblico impiego, possono, infatti, disciplinare tutti i casi in cui la somministrazione può essere utilizzata per fronteggiare specifici fabbisogni temporanei riguardanti determinate professionalità. L’articolo 2 del CCNL del 14/9/2000, ad esempio, relativo al personale appartenente al Comparto delle Regioni e delle Autonomie Locali prevede che i contratti di fornitura di lavoro temporaneo possano essere stipulati dalle Regioni e dagli enti locali per consentire la temporanea utilizzazione di professionalità non previste nell’ordinamento dell’amministrazione ovvero in presenza di eventi eccezionali e motivati non considerati in sede di programmazione dei fabbisogni o per la temporanea copertura di posti vacanti, per un periodo massimo di 60 giorni e a condizione che siano state avviate le procedure per la loro copertura; ovvero per l’acquisizione di profili professionali non facilmente reperibili o comunque necessari a garantire standard definiti di prestazioni, in particolare nell’ambito dei servizi assistenziali.

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Nel comparto degli EPNE, invece, l’articolo 35 del CCNL stipulato in data 14/2/2001 ammette il ricorso alla somministrazione per particolari fabbisogni professionali connessi all’attivazione ed all’aggiornamento di sistemi di controllo di gestione e di elaborazione di manuali di qualità e carte dei servizi nonché per soddisfare specifiche esigenze di supporto tecnico nel campo della prevenzione e sicurezza degli ambienti di lavoro, purché l’autonomia professionale e le relative competenze siano acquisite dal personale in servizio entro e non oltre quattro mesi.
tro mesi.
Nel comparto degli enti di ricerca, poi, troviamo l’articolo 22 del CCNL stipulato in dato 21/2/2001 (normativo 1998 – 2001 economico 1998 – 1999) il quale stabilisce che il ricorso al lavoro temporaneo deve essere fatto nel rispetto dei divieti posti dalla vigente disciplina legislativa, per soddisfare esigenze a carattere non continuativo e/o a cadenza periodica, o collegate a situazioni di urgenza non fronteggiabili con il personale in servizio o attraverso le modalità di reclutamento ordinario, previste dal D. Lgs. 165/2001 e deve essere improntato all’esigenza di contemperare l’efficienza operativa e l’economicità di gestione.
L’attuale fase di congiuntura economica, la spending review, il piano di rientro relativo all’amministrazione sanitaria di diverse regioni italiane, giustificano sicuramente il ricorso a tale forma di lavoro, stante il blocco delle assunzioni per lo meno relativamente al personale amministrativo. Il Legislatore, da Brunetta in poi, ha preteso dal pubblico impiego standard quali-quantitativi sempre più elevati. La richiesta di efficienza rivolta a lavoratori stipendiati con denaro pubblico è certamente una scelta giusta, giuridicamente ineccepibile, in linea di principio. Tuttavia tale richiesta sembra travalicare i limiti dell’umanamente possibile, se d’altro canto le Amministrazioni non possono procedere al cd. ricambio generazionale se non in percentuali minime nei prossimi anni, quando addirittura le assunzioni di nuovo personale non risultino del tutto bloccate dai criteri introdotti nell’ordinamento italiano dal Decreto Milleproroghe in poi. E se le Amministrazioni Pubbliche sono deputate all’erogazione di servizi, sarà anche necessario che ci sia qualcuno che ‘materialmente’ quei servizi li dispensi. Come far fronte alla carenza di personale se non con la somministrazione? Ed ecco che si profila un circolo vizioso, difficile da spezzare a legislazione invariata (o per lo meno – e per ora – fino al 2017, quando il turnover dovrebbe essere ripristinato). Circolo vizioso perché un Ente costretto al risparmio, di fatto spende per il personale somministrato cifre improponibili in un momento storico come questo.

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Per essere più chiaro userò, a titolo esemplificativo, dei termini impropri, ma di sicuro più efficaci. Io, Amministrazione costretta a limitare le spese anche per il personale, mi ritrovo con quattro impiegati, ma per raggiungere gli obiettivi che la Direzione mi ha imposto, in ragione delle stesse leggi che mi sottopongono a tale regime di austerità, avrei bisogno di almeno dieci dipendenti, così ne affitto altri quattro pagandoli quasi il doppio di quanto pagherei per quattro impiegati neoassunti con una posizione economica di primo livello. Quindi mi ritrovo con otto persone, quando me ne servirebbero invece dieci, e spendo di più di quanto non farei con dieci unità direttamente assunte da me, ma non posso fare diversamente. Non posso perché da un lato c’è il blocco delle assunzioni e dall’altro il mancato raggiungimento degli obiettivi per quest’anno comporterà, per esempio, una minor afflusso di fondi dall’Amministrazione Centrale o dal Ministero nel corso dell’anno venturo.
La domanda è allora quali sono i costi che un’Amministrazione affronta per un lavoratore somministrato? Il costo del lavoro per un lavoratore somministrato deve essere calcolato considerando le seguenti voci derivanti dall’applicazione del CCNL, dal CCNL integrativo e dalla normativa che disciplina il medesimo contratto di somministrazione:
1. retribuzione oraria, tredicesima mensilità, ratei tredicesima, ex festività, permessi retribuiti, ferie, ratei trattamento fine rapporto, oneri assicurativi contributivi. Gli oneri contributivi sono calcolati sulla base del CCNL applicato all’agenzia per il lavoro;
2. trattamento economico accessorio, la produttività, il servizio sostitutivo di mensa mediante buoni pasto e altre voci derivanti dall’applicazione di contratti decentrati integrativi;
3. oneri di costo aggiuntivi previsti dalla normativa che disciplina il contratto di somministrazione. Ad esempio, quelli previsti dall’articolo 12, commi 1 e 2 del d.lgs. n. 276,
sono i cd. fondi per la formazione e l’integrazione del reddito, che i soggetti autorizzati alla somministrazione di lavoro sono tenuti a versare in misura pari al 4 per cento della retribuzione corrisposta ai lavoratori assunti con contratto a tempo determinato per l’esercizio di attività di somministrazione e destinati ad interventi a favore dei lavoratori assunti con contratto a tempo determinato intesi, in particolare, a promuovere percorsi di qualificazione e riqualificazione anche in funzione di continuità di occasioni di impiego e a prevedere specifiche misure di carattere previdenziale (comma 1), e destinati, inoltre, (comma 2) a:
a) iniziative comuni finalizzate a garantire l’integrazione del reddito dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato in caso di fine lavori;
b) iniziative comuni finalizzate a verificare l’utilizzo della somministrazione di lavoro e la sua efficacia anche in termini di promozione della emersione del lavoro non regolare e di contrasto agli appalti illeciti;
c) iniziative per l’inserimento o il reinserimento nel mercato del lavoro di lavoratori svantaggiati anche in regime di accreditamento con le regioni;
d) per la promozione di percorsi di qualificazione e riqualificazione professionale;
4. da ultimo, ma più rilevante di tutti, il ‘prezzo’ di un lavoratore somministrato è dato da possibili scostamenti del costo dovuti a rinnovi contrattuali.

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Limitatamente al punto 4), il valore dell’offerta alla medesima Agenzia dovrà essere aggiornato prevedendo nel contratto una clausola di revisione dei prezzi in ragione dell’aumento del costo del lavoro legato ad aumenti contrattuali. Al riguardo, l’articolo 115, comma 1, del d.lgs. n. 163/2006 prevede che: “Tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa relativi a servizi o forniture debbono recare una clausola di revisione periodica del prezzo. La revisione viene operata sulla base di un’istruttoria condotta dai dirigenti responsabili dell’acquisizione di beni e servizi”.
Alla luce di queste voci di costo, rivolgo a voi la domanda: è opportuno il ricorso alla somministrazione da parte di una P.A. sottoposta a spending review? Anzi, poiché è di soldi pubblici che parliamo, è opportuno il ricorso alla somministrazione, a prescindere dalla fase economica che stiamo attraversando?
È opportuno che la politica consenta questo? E non solo…

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Negli ultimi anni, infatti, la nostra classe dirigente ha introdotto nel mercato del lavoro (evidentemente anche in quello pubblico) la nozione di flessibilità. A parte i maggiori oneri sostenuti dalle Amministrazioni, è possibile ravvisare una convenienza nell’immissione di queste atipiche tipologie di lavoratori anche nel settore pubblico. E in caso affermativo, a chi conviene? La stessa domanda può essere posta da un altro punto di vista: chi seleziona il personale somministrato? Nel Paese del clientelismo è naturale che sorga il dubbio e, come recita un vecchio adagio, a pensar male si fa peccato, ma si sbaglia raramente. Già, perché oltre ai maggiori oneri a carico dell’Amministrazione utilizzatrice, il lavoro somministrato si caratterizza per un’altra preoccupante peculiarità: la totale elusione dell’art. 97 della Costituzione. La ratio della norma costituzionale, benché svuotata del suo contenuto dopo anni di clientelismo, è quella di dotare gli Uffici Pubblici del miglior personale possibile, appunto mediante selezione concorsuale. Di fatto, nei sessant’anni di vita della Costituzione, il clientelismo italiota ha reso il disposto dell’art. 97 operativo solo in alcuni casi in cui è poco probabile che tutti i vincitori siano parenti e amici di chi conta: sono quei maxi concorsi da 300, 400, 500 anche fino a 1000 posti, che ora come ora la Corte dei Conti non potrebbe più autorizzare, salve le eccezioni del personale militare,di polizia e di quello ispettivo in Ministeri ed Agenzie. Chi sceglie, quindi, il lavoratore somministrato? O meglio chi lo segnala? Potremmo argomentare analogicamente partendo dallo svolgimento dei concorsi in certi Enti Locali, in cui si concorre in 700 per un posto solo. Ma lascio a voi le debite conclusioni. Vero è che eccezioni ve ne sono, nei concorsi per un posto solo come anche nel lavoro somministrato. Non tutti hanno la fortuna di conoscere la gente giusta. E mi rifiuto di pensare che il malcostume sia divenuto la sola regola imperante. Capita, infatti, di essere somministrati inizialmente per la sostituzione di una lunga malattia o di una maternità e poi di rimanere a fare quel lavoro anche dopo, magari per una serie di circostanze fortuite, ad esempio perché, nel frattempo, chi sostituivi ha trovato di meglio. C’è poi anche chi è arrivato dall’agenzia senza alcun appoggio per svolgere mansioni talmente infime che nessun ‘amico degli amici’ avrebbe mai accettato. Oggi forse sarebbe diverso, ma fino a sei, sette anni fa, assolutamente no.

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Per esempio, nella mia vita lavorativa ho conosciuto un imbustatore inizialmente assunto a chiamata e poi somministrato: un ragazzo che per poche centinaia di euro imbustava lettere per sei ore ogni due o tre giorni, in un primo periodo, e poi anche tutti i giorni: piegato su una scrivania fantozziana da cui, tra altissime pile di buste, sbucava fuori la sua testa. Io, nel frattempo, ho cambiato lavoro, città e regione, ma so che lui è riuscito a mostrare di saper fare ‘qualcosa’ di più che incollare buste e la dirigenza del suo Ufficio lo ha ‘promosso’ a impiegato. Nel frattempo è stata acquistata un’imbustatrice meccanica e questo giovane senza sponsor si è via via reso indispensabile e prezioso per il suo Ufficio. Di eccezioni ce ne sono, quindi. Ma queste rappresentano la terza ‘croce’ del lavoro somministrato nella P.A.: le competenze che nel tempo vengono acquisite dai lavoratori che fine fanno? Un lavoratore non può essere somministrato a vita in un’Amministrazione Pubblica, pur cambiando agenzia, vi sono dei limiti che impone la Legge, in primis quelli previsti dal D.Lgs 165/2001 per il t.d., e se, nonostante le riserve previste dal decreto D’Alia, la P.A. non indice alcun concorso, l’Ufficio si dovrà privare di un valido elemento per cedere il posto a un altro inesperto somministrato?

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Quanto agli stessi lavoratori vi è, infine, da considerare un quarto ed ultimo problema. Queste persone lavorano con l’ansia perenne del contratto in scadenza, prorogato anche di soli tre mesi in tre mesi, senza alcuna prospettiva futura, senza la possibilità di acquistare neppure un monolocale, anzi nemmeno un TV a rate, perché nessuna finanziaria ne accetterà mai la richiesta. Queste persone, che da contratto osservano l’orario di 36 ore settimanali, di fatto ne fanno molte di più. Per conservare il proprio precarissimo posto farebbero di tutto, di questi tempi. E quel di più non è certo retribuito. Talora è svolto in remoto da casa: fogli Excel, lettere, documenti elaborati la sera tardi affinché siano fruibili e pronti per la firma del Capo Struttura domattina alle otto. Il tutto con la sudditanza psicologica del precario dinanzi al classico impiegato pubblico in attesa della pensione: magari quello entrato con la 285 e che si aggira nei corridoi col bicchierino da caffè in mano e si lamenta ogni giorno della Riforma Fornero che lo obbliga a stare ancora lì, che rivendica pretese sindacali ad ogni ordine superiore e che a sua volta ‘scarica’ le proprie responsabilità sul precario non incardinato.

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A questo punto rinnovo la domanda. Ma a chi conviene tenere ancora certi carichi sul libro paga? Che vantaggio c’è nell’impedire l’accesso nella P.A. a giovani ben più svegli preparati e bisognosi di lavorare. Non c’è spending che giustifichi i costi della somministrazione. Come ho dimostrato, il blocco del turnover è un paradosso contabile. Lasciamo quindi che chi pesa sul bilancio della P.A. senza apportare alcun contributo vada in pensione e lasciamo una volta per tutte la flessibilità fuori dagli Uffici Pubblici, che necessitano di continuità nell’erogazione dei servizi. E infine miglioriamo qualità ed efficienza. Come? Per esempio applicando l’art. 97 della Costituzione.

Michele De Sanctis

2014. Fuga dall’Italia.

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Secondo il 19° rapporto della Fondazione ISMU – Istituto per lo Studio della Multietnicità, nel 2012 sono stati circa 68.000 gli italiani che si sono trasferiti all’estero, ossia 18.000 in più del 2011. Le cause? Mancanza di lavoro e sistema sanitario insufficiente. Non è che sia una sorpresa, ma la realtà in cifre preoccupa, è inutile negarlo.
La prima causa è senza dubbio quella del mercato del lavoro bloccato, che non lascia possibilità ai giovani e ai disoccupati e inoccupati. Per questa ragione, in particolare, gli italiani emigrano e vanno a vivere in altri Paesi.
Il diciannovesimo rapporto sulle migrazioni presentato a Milano dall’ISMU lo scorso 13 dicembre riporta le cifre relative al 2012, ma non ci stupiremmo se il trend nel 2013 fosse ulteriormente peggiorato. Tant’è che l’Istituto prevede che entro il 2050 dal sud Italia se ne saranno andati 4 milioni di persone. Sembra quasi che tutti vogliano scappare dall’Italia. (Sembra?) Sembra anzi di essere tornati indietro di un secolo. Nel 1913 un italiano ogni 40 partiva in cerca di fortuna altrove. Il problema della disoccupazione, tuttavia, non è solo dei cittadini italiani ma anche di quelli stranieri: cala, infatti, anche il numero dei permessi di lavoro: 67 mila contro i 350 mila nel 2010.
Per gli stranieri, poi, al problema del lavoro si aggiunge anche quello della salute: uno su dieci non si rivolge al Sistema Sanitario Nazionale per motivi economici. Un problema che sta divenendo comune anche a noi cittadini, peraltro. A ciò si aggiunge, inoltre, la condizione degli irregolari (circa il 6 per cento del totale degli stranieri in Italia) che preferiscono non avere rapporti con le istituzioni per paura di essere denunciati.
Le cifre che riassunte fin qui sono disponibili sul sito dell’ISMU:
http://www.ismu.org/

Michele De Sanctis