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Il futuro del pianeta…

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Il futuro del pianeta dipende dalla possibilità di dare a tutte le donne l’accesso all’istruzione e alla leadership. È alle donne, infatti, che spetta il compito più arduo, ma più costruttivo, di inventare e gestire la pace.

Rita Levi Montalcini

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Sull’istruzione.

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Il governo Renzi e la scuola: rivoluzione o restaurazione?

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di Adriano Prosperi (MicroMega 10 marzo 2014)

Una rivoluzione culturale, annuncia la ministra dell’Istruzione: ma non si tratta di un ritorno d’attualità del compagno Mao e delle sue guardie rosse. La ministra Giannini non sembra affatto una seguace del grande timoniere. E’ decisa o almeno decisionista (che non significa la stessa cosa) e perciò non ha guardato per il sottile nella scelta della sigla per l’azione da svolgere nella scuola. Un settore che gode di una grande attenzione in questo governo: mentre il premier Renzi compie una tournée negli istituti scolastici e promette ai bambini di rifare il tetto agli edifici, la sua ministra si occupa delle fondamenta e promette di rovesciare nientemeno che il paradigma culturale dell’istruzione tutta.

Già nel corso dell’ultima campagna elettorale che la elesse al Senato promise una sua “rivoluzione per l’istruzione”: e oggi è tornata a esibire quel tipo di linguaggio. E’ un piccolo indizio, se ce ne fosse bisogno, di un ricorrente (e non solo suo) uso aggressivo delle parole: che vengono ripescate dal loro contesto specifico e ributtate sulla piazza mediatica senza nessun avvertimento per l’uso.

Alla aggressività ci siamo assuefatti: anche se ci vorrà del tempo perché sparisca dalle menti lo slogan orrendo della “rottamazione”. Ma il linguaggio, come ben sa o dovrebbe sapere una ministra di formazione glottologa, è rivelatore di contenuti e desideri nascosti. Parlare di rivoluzione significa chiedere un consenso all’azione personale mettendo sul piatto tutto il peso di un carisma individuale fatto di energia e di risolutezza: è uno stile inaugurato nell’800 da Luigi Napoleone e per questo porta il nome che gli fu dato da Karl Marx: bonapartismo, cesarismo.

Nacque allora un modello che doveva trovare lungo successo di imitatori nelle strategie di presa individuale del potere nell’età delle masse. Fare appello all’appoggio popolare per sbaraccare regimi parlamentari lenti e litigiosi chiedendo fiducia in bianco al popolo in nome di doti personali speciali e nel pieno disprezzo delle regole formali, divenne da allora lo stile imitato da tanti protagonisti nel bene e soprattutto nel male della storia del potere politico: incluso il compagno Mao e la sua “rivoluzione culturale”.

Ma vediamo quale sia la rivoluzione promessa dalla ministra Giannini e che cosa ci si possa aspettare dall’azione pervasiva e dall’attivismo scolastico suo e del suo premier.

La scuola è così importante per tutti noi ed è così presente nella comunicazione pubblica del governo Renzi che bisognerà guardare meglio a quel che si prepara dietro il velo del decisionismo verbale. La ministra ha parlato spesso di scuola, promettendo molto senza scendere nel concreto. Leggendola sembrava di capire che si andasse finalmente verso un cambiamento della rotta seguita fino ad oggi nel corso del ventennio berlusconiano: privatizzazioni, riduzione alla fame delle scuole pubbliche e degli insegnanti, patto scellerato con la Chiesa italiana.

Poi sono arrivati messaggi più chiari: ha detto giorni fa che il contratto degli insegnanti italiani è “mortificante e da rivedere”. Parole sante. Ma c’è di santo anche qualcos’altro: in pari data vennero sbloccati 223 milioni per le scuole private. Si aggiungono ai 260 già previsti. Piovono benedetti su di un settore in grave difficoltà da anni, per l’emorragia di iscritti. Questione di soldi: l’impoverimento progressivo delle famiglie ha riconvertito la domanda verso le scuole statali. Qui la Gelmini, cioè la ministra che continua ancor oggi a dominare la vita della scuola coi suoi provvedimenti, aveva risolto il problema alzando il numero degli allievi per classe oltre ogni ragionevole limite. Ma la crisi inarrestabile del paese riporta di nuovo la questione all’attenzione del governo e impone alla ministra di scendere nel concreto e spiegare meglio che cosa intende per rivoluzione.

Ebbene quello che viene fatto con lo sblocco dei finanziamenti ha trovato una chiave di interpretazione in quel che è stato detto. Parlando a Radio 1 giorni fa, la ministra ha detto che “la libertà di scelta educativa è un principio di grande civiltà”. Fin qui, niente da obbiettare. Lo dice anche la Costituzione italiana all’art.33 terzo comma: Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato. Ma la ministra ha aggiunto che scuole statali e paritarie “devono avere uguali diritti”. Espressione diversa da quella usata dai padri costituenti. Si va verso l’affermazione di un diritto oggettivo delle scuole private di godere degli stessi finanziamenti: o no? Sarà bene che si faccia chiarezza su questo punto.

Alla ministra di un governo nato avventurosamente dall’energia vera o presunta di un leader, si deve chiedere se dobbiamo tornare ai tempi di quella ministra Moratti che nel 2004 invitò i dirigenti scolastici a far sì che in tutte le scuole si spiegasse bene il significato del Natale quale rappresentato dalla tradizione italica del presepe. C’è da chiedersi se il fatto che al pluricondannato Berlusconi questo governo abbia reso diritto di presenza pubblica (con l’effetto di spaventare gli investitori finanziari internazionali), porti con sé la messa in crisi del principio della laicità dello stato: un principio che la Corte costituzionale, nella decisione dell’11 aprile 1989 ha definito “supremo”.

Oggi la rivoluzione culturale promessa dalla ministra Giannini, nell’affrontare col metodo dell’energia fattiva i problemi della scuola, sembra far prevalere ancora una volta il fatto sul diritto, la quantità (delle scuole private cattoliche) sulla qualità della scuola pubblica: una qualità che resiste ma che aspetta da tempo di essere rafforzata e tutelata.

Fonte: MicroMega

LAUREATI, LAVORO E PRECARIETA’

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di Michele De Sanctis

Presentato oggi a Bologna nel corso del Convegno ‘Imprenditorialità e innovazione: il ruolo dei laureati’ il XVI Rapporto AlmaLaurea sulla condizione occupazionale dei laureati. L’analisi ha coinvolto a livello nazionale quasi 450.000 laureati di tutte le 64 università aderenti al consorzio.

Dal 2008, primo anno della crisi, ad oggi, il tasso di disoccupazione tra i neolaureati è più che raddioppiato. Infatti, sei anni fa a rimanere senza impiego a un anno dalla laurea era soltanto il 10% circa dei neodottori, mentre oggi la percentuale dei laureati triennali senza lavoro a un anno dalla tesi è salita al 26,5%, mentre è aumentata fino al 22,9% per le lauree specialistiche e al 24,4% per quelle magistrali a ciclo unico. Il tasso di disoccupazione, poi, si inasprisce in determinati settori: le maggiori difficoltà nella ricerca di un’occupazione sono quelle riscontrate dai laureati in giurisprudenza, architettura e veterinaria. Rispetto al 2008, la percentuale dei senza lavoro tra i laureati in queste discipline appare addirittura triplicata.

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Ma l’indagine condotta dal consorzio AlmaLaurea, realizzata attraverso un’analisi comparata delle generazioni che sono passate per le aule accademiche tra il 2008 e il 2013, non si ferma qua e si spinge anche ai rapporti di lavoro conclusi dai più fortunati, fortunati in senso lato, s’intende. Nel 2008 i giovani che riuscivano a firmare un contratto di lavoro a tempo indeterminato dopo una laurea triennale erano il 41,8% e il 33,9% di quelli che avevano completato anche il biennio successivo. Oggi le percentuali sono rispettivamente di 26,9% e 25,7%, a fronte di una retribuzione diminuita di circa il 20% rispetto a sei anni fa. Le retribuzioni in termini nominali sono, infatti, passate da 1.300 Euro mensili del 2008 ai 1.000 del 2013.

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Nonostante questi dati sconfortanti, che danno da pensare ai genitori di coloro che frequentano l’ultimo anno di scuola e preoccupano chi si avvicina al conseguimento della sudata laurea, ad essere più colpiti, in questi tempi di recessione, sono stati proprio i giovani sprovvisti di titoli accademici. Tra il 2007 e il 2013, infatti, il differenziale tra il tasso di disoccupazione dei neolaureati e dei neodiplomati è passato da 2,6 punti percentuali a 11,9. La laurea, pertanto, benché destinata a ‘rendere’ nel medio periodo, piuttosto che nel breve, continua ad essere un importante strumento nella ricerca di un lavoro, per lo meno più utile del solo diploma. Molte famiglie negli ultimi tempi non riescono ad affrontare le tasse universitarie che, anche per effetto di certi meccanismi di finanziamento introdotti dall’ex Ministro Gelmini con la L. 240/2010, diventano più alte di anno in anno. Soprattutto dinanzi ad una crisi che sembra non guardare in faccia a nessuno, molti giovani abbandonano gli studi dopo il diploma, pensando che laurearsi non serva a nulla, che sia un sacrificio economico inutile, finendo, così, per allargare le fila di quella parte di popolazione che non solo è bloccata dalla recessione, ma anche dallo scarso tasso di specializzazione delle proprie conoscenze, senza cui è impensabile un recupero dei livelli di sviluppo socioeconomici raggiunti prima della crisi.

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Per uscire da questa situazione, gli autori del rapporto AlmaLaurea suggeriscono di dare maggior peso alla conoscenza e alla competenza, piuttosto che perseverare nel premiare, come ancora accade, l’anzianità anagrafica e di servizio. I laureati entrati da poco nel mercato del lavoro avranno sicuramente avuto a che fare con figure apicali non curriculate. Ed indicano, peraltro, due linee di intervento assolutamente necessarie. Da una parte, chiedono misure di sostegno all’imprenditorialità dei laureati, dunque sviluppo di venture capital, cioè apporto di capitale di rischio da parte di investitori per finanziare l’avvio di attività in settori ad elevato potenziale di sviluppo, oltreché una più capillare presenza di business angels, ossia di quegli investitori informali, ex titolari di impresa, manager in pensione o in attività, liberi professionisti che abbiano il gusto della sfida imprenditoriale, il desiderio di poter acquisire parte di una società che operi in un business, spesso innovativo, rischioso ma ad alto rendimento atteso, e, infine, una maggiore diffusione dell’educazione imprenditoriale. Dall’altra parte, invitano a puntare al rientro dei cervelli in fuga attraverso l’offerta di migliori prospettive occupazionali, sia in termini retributivi che di qualità del lavoro, di accrescere le risorse destinate alla ricerca sia dallo Stato sia dai privati e di introdurre strumenti di valorizzazione del merito.

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Circa dieci giorni fa Matteo Renzi ha annunciato attraverso Twitter un programma per il rilancio del lavoro: il Jobs Act. Noi di BlogNomos ne abbiamo parlato, riportandovi i punti che il premier intende sviluppare e le prime indiscrezioni su quali saranno le novità in materia previdenziale ed occupazionale. E seguiremo l’iter dei lavori, tenendovi aggiornati costantemente. Quelli descritti finora sono stati solo i dettagli. Il Presidente del Consiglio ha twittato in più di un’occasione la necessità di fare qualcosa per intervenire in un’area così delicata. Da un lato i giovani neolaureati ed inoccupati che chiedono interventi urgenti per favorire la loro entrata nel mercato del lavoro, dall’altro quelli che di lavoro non ne sono riusciti a trovare e che tentano adesso la via dell’imprenditorialità, chiedendo riforme in materia di semplificazione e defiscalizzazione. Rispondere ad entrambe le richieste aumenterebbe il numero di posti di lavoro, senza, peraltro, ricorrere ancora una volta alla stipula generalizzata di contratti precari di lavoro. Ad essere precarie sono, infatti, solo le condizioni contrattuali che la Trojka ci ha costretti ad introdurre nei nostri rapporti di lavoro, ma la vita di un giovane che esce oggi dall’università non può diventare essa stessa precaria solo perché ce lo chiede l’Europa. Abbiamo diritto a un futuro ed è un diritto che vogliamo esercitare subito. L’augurio è, quindi, che questo rapporto di AlmaLaurea influenzi positivamente e in maniera ‘fattiva’ le scelte che il Governo prenderà nella stesura del Jobs Act.

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Education and Training 2020.

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di Michele De Sanctis

Tra gli obiettivi di medio e lungo periodo del nostro Paese c’è quello del programma Education and Training 2020. Si tratta di una strategia di cooperazione europea che fissa il programma di lavoro degli Stati membri per il decennio 2011-2020. ET 2020 definisce gli obiettivi strategici condivisi, oltreché un insieme di principi e di metodi di lavoro comuni che fissano le priorità per ogni ciclo di lavoro, come la cooperazione tra Stati membri nell’ambito dell’apprendimento permanente, che deve fare proprio il metodo di coordinamento aperto (MCA /OMC – Open Method of Cooperation), la cooperazione intersettoriale, trasparente e concreta, risultati diffusi e periodicamente rivisti, massima compatibilità con i processi di Bologna e di Copenhagen, rafforzamento della cooperazione con i Paesi terzi e le Organizzazioni Internazionali. Gli obiettivi fissati sono:
1) fare in modo che l’apprendimento permanente e la mobilità divengano una realtà;
2) migliorare la qualità e l’efficacia dell’istruzione e della formazione;
3) promuovere l’equità, la coesione sociale e la cittadinanza attiva;
4) incoraggiare la creatività e l’innovazione, compresa l’imprenditorialità, a tutti i livelli, dell’istruzione e della formazione.
L’Italia è oggi al diciassettesimo posto nella graduatoria dei 27 Paesi dell’Unione Europea, quindi ancora lontano dal traguardo da raggiungere. Questo scenario rappresenta nel contempo una sfida e un’opportunità non indifferente per il rilancio della concertazione di politiche attive del lavoro e della formazione, che dovrebbe essere basata su una chiara visione strategica del Governo e da più efficaci politiche formative regionali e territoriali, sul ritorno ad un apporto significativo delle parti sociali, ma soprattutto sul contributo originale e innovativo del sistema di istruzione e di quello della formazione professionale.
ET 2020 è un obiettivo irrinunciabile, perché le dinamiche del mercato del lavoro sono una vera e propria emergenza sociale. Anche dinanzi al critico scenario che oggi offre il Paese rispetto a tali tematiche.
Per far fronte a questa situazione via via più critica, è necessario che il nuovo Governo, Ministri dell’Istruzione e del Lavoro, così come gli assessori regionali, intraprendano un percorso che permetta di sperimentare politiche integrate attivanti: politiche che puntino a coinvolgere responsabilmente gli attori del sistema economico e sociale, le istituzioni educative e formative e gli stessi giovani e le famiglie.
Occorre, pertanto, un riposizionamento delle politiche industriali, sulle strategie aziendali e sul rilancio delle PMI, poiché per competere sul mercato globale il nostro Paese deve basarsi su un modello medio-alto e basare l’attività produttiva su ricerca, innovazione e qualità dei prodotti.
Ciò di cui necessita l’economia italiana è un’offerta formativa più mirata, programmi di studio più intensi, attenzione maggiore alla formazione scolastica ed universitaria. Ma occorre anche una politica di orientamento allo studio e al lavoro che permetta un coinvolgimento consapevole e responsabile degli studenti e delle famiglie. Il che non vuol dire famiglie che affianchino l’attività didattica di cui la scuola, per mancanza di fondi, accorpamento di classi ed istituti e per mancanza di personale, è carente. È necessario, invece, a fronte di una scuola di buon livello, che le famiglie seguino, pur lasciandoli autonomi e responsabilizzati, gli studi dei propri figli, pretendendone la massima qualità, ossia la giusta qualità che ci si dovrebbe attendere da un servizio pubblico. È necessario, poi, che la pratica di stage e tirocini lavorativi nell’ambito di tutti i percorsi scolastici e universitari diventi obbligatoria, con un ruolo più attivo delle università nell’attività di matching tra domanda e offerta di lavoro.
Nei prossimi sei anni l’Italia deve investire sulla conoscenza. Non possiamo permetterci altri ritardi. Non possiamo permetterci di distruggere il futuro delle nostre imprese e della nostra società.