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GLI ITALIANI IN VACANZA.

di Michele De Sanctis

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Agosto è appena iniziato e il periodo delle sospirate ferie estive, per molti italiani, entra finalmente nel vivo. Uno studio condotto da Doxa per conto del Centro Studi del Touring Club Italiano ha delineato il quadro del popolo dei vacanzieri per l’estate 2014. Il 46%, circa la metà dell’intero della popolazione attiva, quest’anno, nonostante i chiari di luna della crisi, riuscirà a concedersi una bella vacanza. La percentuale dei vacanzieri risulta più alta tra gli studenti (68%), le famiglie con bambini (83%) e i cittadini del Nord-Ovest (59%), mentre è piuttosto contenuta tra disoccupati ed anziani (circa 30%). In base alle dichiarazioni raccolte, per il 64% degli intervistati quest’estate sarà in linea con la precedente, sia in termini di durata (64%) sia di costo complessivo (62%). Secondo il 20%, tuttavia, le vacanze estive 2014 saranno più brevi ed economiche. Mentre poco più del 10% potrà permettersi una vacanza più lunga e costosa rispetto al 2013.

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Per i vacanzieri italici, il Bel Paese resta ancora la meta preferita (74%) rispetto a chi preferisce andare all’estero. E, tra le regioni più gettonate per l’estate 2014, emerge il Sud: Puglia (12%) e Sicilia (10%). Seguono Emilia-Romagna e Trentino-Alto Adige (entrambe al 9%) tra le regioni più quotate. Il 64% degli italiani ha scelto il mare, dato che conferma le abitudini degli anni scorsi. In particolare, la spiaggia viene presa d’assalto soprattutto dai meridionali (80%) e dalle famiglie con prole al seguito (78%). Solo il 14% preferisce inerpicarsi sulle cime delle nostre montagne, mentre c’è un 7% di italiani che, invece, opta per una vacanza alternativa, di tipo itinerante con più di una località da visitare, pernottamenti in molteplici luoghi, o per una comoda crociera. Sebbene il 32% degli intervistati si sia dimostrato fedele alla tradizionale stessa spiaggia e al relativo stesso mare, una cospicua percentuale di italiani (35%) è pronta ad esplorare nuovi lidi: sono, peraltro, i più giovani ad essere maggiormente attirati verso coste mai calpestate (in particolare la fetta tra i 15-24 anni, 48%), mentre i più restii a tradire il bagnino dell’anno scorso sono gli anziani (20%).

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Secondo un’altra indagine condotta da Confesercenti-SWG, il 26% degli italiani ha, invece, scelto una meta esotica. A tal proposito, si rendono utili alcune precisazioni. Se viaggiare all’estero significa conoscere culture e tradizioni diverse, assaporare sapori inconsueti ed osservare costumi differenti dai nostri, occorre, tuttavia, partire preparati per evitare noie e spiacevoli disavventure, sia per quanto concerne la logistica che per quel che riguarda la tutela della salute. Ricordatevi, in primis, di informarvi per tempo e documentarvi sui luoghi scelti. Se la vostra meta è una località, in cui le condizioni igienico-sanitarie sono decisamente diverse da quelle italiane (Africa, Asia, America centrale o meridionale), è fondamentale innanzitutto rivolgersi all’Ambulatorio Viaggiatori Internazionali, presente in ogni Asl, dove potrete sottoporvi alle necessarie vaccinazioni, oltreché ricevere informazioni utili e notizie aggiornate ed affidabili relative alla vostra destinazione. Sarebbe bene rivolgersi all’Ambulatorio Viaggiatori Internazionali almeno un mese prima della partenza, per cui, a questo punto, ci auguriamo che l’abbiate già fatto, o che il vostro tour operator, qualora ne abbiate uno, ve l’abbia ricordato al momento della sottoscrizione del pacchetto turistico acquistato. Questo lasso di tempo è, infatti, necessario perché alcune profilassi richiedono più giorni di altre, mentre ne esistono diverse che non possono essere somministrate in concomitanza. Informatevi, inoltre, anche se siete già stati in quello stesso Paese: è un’attiva propedeutica alla vostra vacanza indispensabile, in quanto alcune norme dell’ordinamento giuridico di quel posto potrebbero essere, nel frattempo, cambiate e ciò che una volta era lecito potrebbe non esserlo più. Oltretutto, stavolta avreste potuto scegliere una stagione diversa per andarci in vacanza ed essere, pertanto, esposti a malattie stagionali, qui sconosciute. Per esempio, in talune zone del globo, in occasione della stagione delle piogge, è più facile contrarre la malaria, dovuta alla grande quantità di zanzare favorita dall’aumento dell’umidità. Particolare attenzione va, poi, data anche all’alimentazione, specie quando si viaggia in Paesi noti per le loro scarse condizioni igieniche: preferire i cibi cotti, lavarsi sempre le mani prima di mangiare (evitate inutili rischi e portatevi dietro qualche boccetta di disinfettante gel) e, soprattutto, bere solo acqua in bottiglia. Potete trovare altre informazioni ed utili consigli sul sito del Ministero della Salute e su quello della Guardia di Finanza.

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Infine, se partite in vacanza con i vostri bambini, fate mente locale che si potrebbero verificare piccoli disturbi legati al cambio clima, a spostamenti, o a un cibo diverso da quello a cui sono abituati. Durante un viaggio aereo, decollo ed atterraggio potrebbero essere un po’ fastidiosi per i bimbi: pare che per ridurre questi disturbi si possa provare con qualcosa da bere per i più piccoli e una gomma da masticare per i più grandi. Si tratta di un piccolo trucco che ho appreso di recente, ascoltando una conversazione durante un viaggio in treno, ma non ho avuto modo di verificarlo perché di figli non ne ho: per cui sentitevi pure liberi di correggermi sul punto.

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Non mi resta, dunque, che augurarvi buone ferie e buon viaggio. E se, invece, appartenete a quella percentuale di italiani che, come me, resterà a casa, vi auguro un periodo sereno e senza stress da partenze.

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VIVERE DA MAMMA NON TI RENDE PROPRIETARIO DI CASA.

La sentenza che vi propongo in questo nuovo post richiama situazioni familiari che al giorno d’oggi sono sempre più frequenti. La crisi ha riportato molti giovani ultratrentenni nelle case paterne, o ha impedito che potessero lasciarla al termine degli studi. C’è chi ha chiamato questi ragazzi bamboccioni, chi, vittima di influenze anglofone, li ha apostrofati come ‘choosy’, ma, a parte la completa avulsione dal Paese reale dimostrata da chi s’è lasciato andare in questi commenti semplicistici (oltreché banalizzanti), ciò che vorrei tentare è un’analisi degli effetti giuridici che il ‘ritorno a casa’ dei figli potrebbe avere nel lungo periodo. E soprattutto delle conseguenze che sarebbe meglio evitare, nel caso in cui i choosy non siano figli unici. L’argomento di oggi è l’istituto dell’usucapione.

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di Michele De Sanctis

In tema di usucapione ventennale di beni immobili, il comportamento della madre che concede alla figlia l’uso di un appartamento non costituisce requisito valido a far decorrere il tempo utile per l’acquisto originario della proprietà.
È quanto ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione con una recente sentenza (Cass. Civ. sez. II, sent. 18 febbraio – 4 giugno 2014, n. 12571 Presidente Triola – Relatore D’Ascola). Nel caso di specie, la madre, a sua volta usufruttuaria ex lege del bene e quindi titolare del diritto di godere dell’immobile, aveva concesso a una figlia, già nuda proprietaria di una quota, l’uso dell’appartamento, continuando, però, a recarsi in visita in quella casa fino al giorno della morte e, peraltro, consentendo agli altri figli il deposito di alcuni oggetti all’interno della stessa. Ebbene, secondo la Cassazione una simile situazione era priva dei requisiti necessari perché potesse configurarsi l’impossessamento del bene da parte della figlia, che l’avrebbe poi condotta ad usucapirlo, acquistando la proprietà anche delle quote degli altri fratelli. Invero, ciò che giuridicamente si è venuto a creare è una mera detenzione benevolmente concessa dall’usufruttuaria stessa.

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La giurisprudenza, in realtà, offre molti esempi di liti tra familiari in riferimento alla proprietà di un bene immobile, quando chi lo abita ne reclama l’usucapione. Questa è solo una delle più recenti delle pronunce di Piazza Cavour in merito. Ma appunto perché il motivo del contendere è così frequente, credo opportuno circoscrivere l’istituto in parola, prima di analizzare la sentenza, al fine di agevolarne la comprensione anche a chi non ha mai sostenuto un esame di diritto privato.

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L’usucapione rappresenta una modalità di acquisto a titolo originario della proprietà o dei diritti reali di godimento (eccetto le servitù non apparenti, cioè non visibili, che non possono usucapirsi ai sensi dell’art. 1061 c.c.), in ragione del possesso dei beni reclamati, purché tale possesso non sia viziato e sia continuato per un determinato periodo di tempo (variabile dai dieci ai vent’anni a seconda delle circostanze e del tipo di bene, mobile o immobile). Usucapire vuol dire, quindi, diventare proprietari (o usufruttuari o titolari di servitù) per il semplice fatto d’essersi comportati come tali per tot numero di anni, senza che nel frattempo qualcuno abbia agito giudizialmente per contestare tale condotta (interrompendo quindi la decorrenza dei termini di usucapione). In quest’ultima circostanza, in particolare, il codice civile, all’art. 1144, specifica che “gli atti compiuti con l’altrui tolleranza non possono servire di fondamento all’acquisto del possesso”. Insomma, chi agisce in un determinato modo con il benestare del proprietario, non sta possedendo un bene in modo da usucapirlo. Ed è altresì vero che non è sempre facile provare la tolleranza (l’onere della prova grava su chi la invoca), come del resto non sempre è agevole dimostrare il possesso utile ai fini dell’usucapione. Peraltro, vista la genericità del dettato normativo sul punto, i casi come quello risolto dalla Cassazione con la sentenza n. 12751 sono sempre significativi in tal senso. Soprattutto perché forniscono agli operatori del diritto un importante strumento interpretativo.

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Nella causa che ha portato gli ermellini a pronunciare la sentenza in esame, le parti litigavano in relazione alla proprietà (ed alla divisione) di un bene immobile e ne reclamava l’acquisto per usucapione, alla fine, è rimasto deluso.
Questi i fatti. Nel 1948 il padre proprietario dell’immobile decedeva lasciando il bene in proprietà dei suoi cinque figli, ancorché gravato dall’usufrutto vedovile. Successivamente, nel ’60 una delle figlie cedeva la propria quota ad una delle sorelle. Restavano, quindi, quattro nudi proprietari e la madre usufruttuaria, che veniva a mancare nel 1968. Quest’ultima, però, come già anticipato, dal ’57 aveva concesso l’utilizzo del bene ad una figlia appena sposata, che aveva nel frattempo continuato a vivere nell’immobile in questione. Nel 1986 una degli eredi, in seguito succeduta mortis causa dalla figlia, conveniva in giudizio gli altri fratelli per la divisione del compendio. Chiedeva, altresì, che la coerede che deteneva il bene, abitando ancora nella casa paterna, venisse condannata a rendere il conto. Quest’ultima resisteva e in via riconvenzionale chiedeva l’accertamento dell’intervenuta usucapione in forza di possesso ultraventennale. Questa domanda, tuttavia, veniva respinta dal tribunale di Salerno in data 5 febbraio 2003 e con sentenza definitiva del 20 dicembre 2006, il g.o. attribuiva l’appartamento, ritenuto indivisibile, alla ricorrente, previo versamento dei conguagli di circa ventimila euro in favore di ciascuno dei fratelli o dei loro aventi causa, essendo le parti originarie decedute nelle more del procedimento.

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La pronuncia di primo grado veniva integralmente confermata il 7 settembre 2010 dalla corte d’appello salernitana, che rigettava i motivi di gravame proposti dagli eredi della sorella che abitava nell’appartamento.
In particolare, la corte d’appello rilevava che i ricorrenti non avevano fornito la prova di un possesso esclusivo della cosa, in capo alla propria madre, incompatibile col permanere del compossesso altrui, negando, inoltre, la comoda divisibilità del bene.

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Successivamente, il ricorso in Cassazione si imperniava su due punti. Con il primo motivo la parte ricorrente lamentava una violazione e una falsa applicazione degli artt. 112 c.p.c. e 1142, 2697 e 1140 c.c. e per omessa o comunque insufficiente motivazione su un punto decisivo. La censura concerneva, in particolare, la pretesa usucapione dell’intero compendio immobiliare da parte della madre dei ricorrenti. Ma per i giudici di Piazza Cavour, la corte d’appello con esauriente e congrua motivazione aveva già esaminato e respinto gli argomenti che il ricorso riproponeva in Cassazione. I giudici d’appello avevano, infatti, escluso che la dante causa dei ricorrenti avesse posseduto in via esclusiva l’immobile a partire dal 1957 e hanno indicato alcuni elementi, quali le visite assidue che la usufruttuaria faceva nell’immobile e il deposito in esso di beni per desumere che non sussistesse quella vasta signoria sulla cosa che contraddistingue, invece, il possesso ad usucapionem. Per scalfire questa tesi il ricorso muoveva dal presupposto che l’usufruttuaria (ossia la nonna dei ricorrenti, cioè la vedova deceduta nel ’68) aveva dismesso il possesso del bene perché vi aveva “insediato” (questo il verbo usato) la figlia e la sua famiglia, sicché le circostanze valorizzate dalla Corte di appello costituivano invece “episodici casi di affettuosa ospitalità”. La censura, tuttavia, è manifestamente infondata.
Proprio la circostanza che ad “insediare” la figlia nell’uso dell’immobile fosse stata la madre, che continuava a recarvisi, dimostra che l’inizio della fase di uso del bene da parte della figlia non fosse espressione di impossessamento, ma di una detenzione benevolmente concessa dall’usufruttuario, titolare del diritto di godere della casa, secondo un costume familiare diffuso nel nostro Paese (si veda a tal riguardo anche Cass. S.U. n. 13603/04 in tema di comodato di casa coniugale). Per dimostrare di aver usucapito, la dante causa dei ricorrenti avrebbe dovuto, piuttosto, dimostrare ben maggiori elementi di valutazione comprovanti un possesso pieno, esclusivo e manifestamente contrastante con i diritti degli altri eredi e dell’usufruttuaria, rispetto a quelli già provati e ritenuti dai ricorrenti malvalutati (pagamento di imposte ed oneri per pratiche amministrative).

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Anche il secondo motivo addotto, nondimeno, è infondato. Esso concerneva la mancata assegnazione di una porzione dell’immobile oggetto di divisione. La parte ricorrente sosteneva che il ctu avesse ammesso la divisibilità dell’immobile in due appartamenti e che essa avesse domandato in appello l’assegnazione del più piccolo in misura tale da corrispondere, secondo la consulenza, al valore dei due quinti del compendio. Ma la corte di appello aveva rilevato che proprio perché gli altri eredi erano proprietari di un quinto, siffatta quota non giustificasse l’attribuzione di un appartamento di entità pari a due quinti del complesso. La Corte aveva poi sottolineato la non comoda divisibilità del bene anche secondo l’ipotesi “ventilata” dal consulente “in via straordinaria”, rimarcando l’alterazione invece strutturale dell’immobile, che rendeva più logica l’attribuzione totale al comunista avente la maggior quota. Questa decisione è stata ritenuta razionale ed incensurabile in sede di legittimità. Perché – è sempre bene ribadirlo – quello della Cassazione è un giudizio di legittimità, non un terzo grado di giudizio. Va, peraltro, rilevato che i due ricorrenti non erano portatori dell’intera quota del de cuius, non essendo gli unici eredi della figlia che dopo il matrimonio aveva detenuto con la sua famiglia l’appartamento di cui la madre era usufruttuaria: essi erano, in realtà, proprietari solo di un decimo dell’appartamento. Tra l’altro, dei quattro eredi e ricorrenti in appello, due avevano omesso di impugnare la decisione del gravame, facendovi acquiescenza.

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La valutazione resa dall’appello, già congrua rispetto alla titolarità di una quota del 20% di un appartamento, circostanza che di regola non giustifica la suddivisione di un immobile in due parti, quando, come nel caso di specie, l’eredità sia da dividere in quattro parti (i quattro gruppi di discendenti della comune genitrice, residuati dopo la cessione della quinta quota) e vi sia un condividente titolare di quota maggiore, appare ancor più corretta ed ineccepibile se si considera tale circostanza (la titolarità di un decimo soltanto del bene), opportunamente sottolineata in sede di controricorso. Per tutte queste ragioni, il ricorso in Cassazione è stato rigettato ed i ricorrenti condannati alla refusione delle spese di lite, liquidate in dispositivo, in relazione al valore della controversia.

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Il caso è abbastanza complesso: nuda (com)proprietà dei figli, cessione di una quota da parte di uno di questi, usufrutto della madre che dispone del suo titolo lasciando che uno dei suoi cinque figli lo detenga finché lo stesso non si estingua (cioè fino all’avvenuto decesso), successiva lite sulla divisibilità dell’immobile in regime di comunione, controdomanda della detentrice per una sua pretesa usucapione, successione mortis causa delle parti in lite ed ulteriore frammentazione delle quote proprietarie, infine passaggio in giudicato della sentenza dopo molti anni dall’inizio dell’iter. Visti i tempi – e suppongo i costi – io avrei optato per la locazione di un bilocale a Rocca Cannuccia Scalo. Perdonatemi l’ironia, ma considerate pure che nelle more del procedimento le originarie parti in causa sono venute a mancare e che la lite è stata ‘ereditata’ dai loro figli. E non è affatto un caso isolato, quanto una frequente ricorrenza nella giustizia civile italiana. Mi domando se residuasse davvero una qualche convenienza nell’agire in capo a chi era titolare solo di un decimo dell’immobile. Ma il tema del post è l’usucapione e la sua difficile dimostrazione in giudizio, non la facilità estrema con cui noi italiani facciamo ricorso al giudice, lamentando, poi, l’estrema lungaggine dei processi, come se la responsabilità fosse ascrivibile solo alla magistratura. E poiché, per quanto qui interessa, sono motivazioni personali che esulano dal ‘giuridicamente rilevante’, la mia indagine deve fermarsi qui, sperando di avervi lasciato qualche utile spunto di riflessione.

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NUOVE COSTRUZIONI E INFILTRAZIONI: POTETE CHIEDERE IL RISARCIMENTO PER DIFETTO DI COSTRUZIONE.

Hai comprato casa e il tuo nuovo appartamento fa già acqua da tutte le parti? È giusto pretendere un risarcimento dal venditore. Investire su di un immobile è di per sé un grosso impegno. Non è giusto pagare per buono qualcosa che, invece, fa difetto, non lo è soprattutto se ce lo vendono ‘nuovo’. Di fronte a eventuali vizi bisogna, quindi, agire. Prima di tutto per tutelare i nostri risparmi. Sul punto è di recente intervenuto il Tribunale di Genova. Esaminiamo insieme il caso e vediamo quali sono i nostri diritti e come farli valere.

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di Michele De Sanctis

Ai sensi dell’art. 1669 c.c. la garanzia di buona esecuzione dell’opera deve essere esercitata entro il termine di un anno che decorre dal giorno in cui il committente ha raggiunto un apprezzabile grado di conoscenza oggettiva della gravità dei difetti di costruzione. È in base a questo principio che il Tribunale di Genova, con sentenza n. 537 del 13 febbraio 2014, ha accolto la domanda risarcitoria della proprietaria di un immobile danneggiato da infiltrazioni, in quanto tempestivamente presentata dalla stessa entro un anno dall’effettiva conoscenza dei difetti e della loro derivazione causale dall’imperfetta esecuzione dell’opera.

Questi i fatti. La proprietaria dell’immobile citava in giudizio la società venditrice chiedendo il risarcimento dei danni causati da infiltrazioni presenti nell’immobile e riconducibili a difetto di costruzione. La società venditrice eccepiva allora che l’attrice, avendo acquistato l’immobile nel 2005, aveva denunciato le infiltrazioni in questione solo nel 2011. Secondo quanto sostenuto dalla società convenuta, infatti, tali vizi strutturali erano già stati riscontrati durante un precedente accertamento tecnico preventivo promosso dai proprietari di altre unità immobiliari adiacenti e, pertanto, erano già conosciuti dall’attrice molto prima della denuncia. Per tale ordine di ragioni, la convenuta chiedeva il rigetto della domanda, appunto perché avanzata oltre il termine annuale di cui all’art. 1669 c.c.
ai fini della garanzia di buona esecuzione dell’opera. L’attrice, in verità, chiedeva, altresì, il risarcimento per danni alla salute, ma il G.O. ha rigettato, perché non fondata, la domanda in questa sua parte, non ravvedendo alcun nesso causale tra la patologia sofferta, peraltro già in essere dal 1988 come rilevabile dai referti presentati, e le caratteristiche tecniche costruttive dell’abitazione viziata in cui risiede dal 2005.

Invece, sotto il profilo della responsabilità per il nocumento economico patito dall’attrice, l’articolo 1669 c.c., rubricato ‘Rovina e difetti di cose immobili’ configura una speciale forma di responsabilità extracontrattuale disponendo che, in caso di edifici o di altre cose immobili destinate per la loro natura a lunga durata, se, nel corso di dieci anni dal compimento, l’opera, per vizio del suolo o per difetto della costruzione, rovina in tutto o in parte, ovvero presenta evidente pericolo di rovina o gravi difetti, l’appaltatore è responsabile nei confronti del committente e dei suoi aventi causa, purché sia fatta la denunzia entro un anno dalla scoperta. Ribadisco che deve trattarsi di immobili destinati a lunga durata per loro natura, il che significa che si deve avere riguardo solo al tipo ed al modo della costruzione obiettivamente considerata e non anche alla destinazione che le parti vi abbiano dato. Mentre, quanto all’evidente pericolo di rovina, di cui alla norma in parola, deve ritenersi tale non solo la situazione di pericolo apparente, e quindi di immediata percezione, ma anche quella che pur non essendo rilevabile prima facie sia comunque effettiva.

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Oggetto della tutela offerta dal Legislatore civile sono, pertanto, i gravi difetti di cui all’art. 1669 c.c. che l’opera presenti nel tempo: si noti che gli stessi ricorrono anche in carenza di fenomeni tali da influire sulla stabilità della costruzione e consistono in qualsiasi alterazione, conseguente ad un’insoddisfacente realizzazione dell’opera, che, pur non riguardando le sue parti essenziali, ne compromettono comunque la conservazione, limitandone sensibilmente il godimento o diminuendone in maniera rilevante il valore. Sul punto è, peraltro, intervenuta anche la Suprema Corte di Cassazione che ha considerato rientranti nella nozione di gravi difetti anche le infiltrazioni d’acqua determinate da carenze d’impermeabilizzazione e da inidonea realizzazione degli infissi (cfr. Cass. civ. 11/06/2013, n. 14650). La responsabilità di cui trattasi nasce dal puro e semplice fatto di aver costruito l’immobile. Da tale qualificazione consegue che la responsabilità può essere fatta valere, non solo dal committente e dai suoi aventi causa, ma da qualsiasi terzo danneggiato dalla rovina.

Tuttavia, siffatta tutela incontra un limite temporale: l’azione di garanzia, che per consolidata giurisprudenza è esercitabile anche nei confronti del costruttore-venditore, si prescrive in un anno dalla denuncia, che, a sua volta, deve essere promossa entro il termine di un anno dalla scoperta del vizio, pena la decadenza dal diritto. Di qui l’eccezione avanzata dalla società convenuta nel caso di specie. E proprio in virtù di quanto eccepito dalla convenuta, pertanto, la sentenza in commento si sofferma sull’esatta individuazione del termine entro cui va azionata la garanzia in esame. Ai fini della denuncia dei vizi, è, infatti, necessaria l’oggettiva conoscenza del vizio. Il Tribunale di Genova ha, quindi, rilevato che, poiché la denuncia dei vizi o del pericolo di rovina dell’opera costituisce un presupposto dell’azione, il soggetto interessato ha “l’onere di fornire la prova di avere operato la denunzia entro l’anno dalla scoperta”. Suddetto termine, inoltre, “decorre dal giorno in cui il committente consegua un apprezzabile grado di conoscenza oggettiva della gravità dei difetti e della loro derivazione causale dall’imperfetta esecuzione dell’opera, non essendo sufficienti, viceversa, manifestazioni di scarsa rilevanza e semplici sospetti” (tra le altre, Cass. civ. 23 gennaio 2008, n. 1463).

Ora, poiché nel caso in esame è stato accertato che l’attrice abbia raggiunto la piena conoscenza delle cause delle infiltrazioni soltanto a novembre 2011 e dal momento che la citazione è intervenuta a febbraio 2012, l’azione deve ritenersi esercitata tempestivamente. In particolare, per il G.O. il precedente accertamento tecnico, cui aveva fatto riferimento la convenuta, risulta ininfluente, poiché l’attrice, invero, non aveva né promosso né preso parte a quel procedimento.
Per questi motivi, viene accolta la domanda risarcitoria dei danni causati dalle infiltrazioni denunciate, che il giudice liquida in 6 mila euro circa e si condanna, altresì, la parte soccombente al pagamento delle spese di lite e di CTU.

Clicca QUI per leggere il testo integrale della sentenza.

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GOOD COUNTRY INDEX: IL PAESE MIGLIORE DEL MONDO, A SORPRESA, È L’IRLANDA.

È l’Irlanda il Paese migliore del mondo. A stabilirne il primato è la classifica del primo Good Country Index, realizzato da un team di esperti, che ha raccolto i dati dell’Onu, della Banca Mondiale e di altre organizzazioni internazionali. Sebbene soltanto ieri la Commissione Europea abbia rinnovato al Governo irlandese l’appello a rispettare le misure di austerità e a rafforzare il consolidamento fiscale nonostante i segni di ripresa economica (Pil in crescita dell’1%), oggi la nazione, che – lo ricordiamo – insieme a Italia, Spagna, Grecia e Portogallo, era annoverata tra i cd. PIIGS, può, finalmente, festeggiare il titolo di miglior Paese del mondo.
E noi? Saremo stati promossi o bocciati? Scopriamolo insieme…

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di Michele De Sanctis

LONDRA – Sono oltre 35 i parametri valutati dal Good Country Index: dalla qualità della vita alla tecnologia fino alla cultura. E l’Irlanda primeggia su tutti, in particolare per quanto riguarda prosperità ed eguaglianza, risultando il Paese che più di ogni altro è capace di offrire un maggior contributo all’umanità e al pianeta. Nella classifica generale (che vede 125 Paesi valutati) è seguita da Finlandia, Svizzera, Olanda, Nuova Zelanda, Svezia, Gran Bretagna, Norvegia, Danimarca e Belgio. In fondo alla classifica generale troviamo Iraq, Vietnam e Libia, segnati da conflitti e povertà.

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Per creare l’elenco, i ricercatori, guidati da Simon Anholt, hanno preso in considerazione la dimensione economica di ogni Paese e ne hanno quindi valutato i contributi globali a scienza e tecnologia, cultura, pace e sicurezza internazionale, ma anche per quel che interessa il clima, il rispetto del pianeta e il benessere della popolazione.
Gli esperti hanno dichiarato che l’indagine non ha l’obiettivo di esprimere giudizi morali sui diversi Paesi del mondo, quanto piuttosto quello di riconoscere l’importanza di contribuire al bene comune in una società globalizzata e di accendere un vero e proprio dibattito su quale sia lo scopo di ogni Paese.
“Tutto il mondo è connesso come mai prima d’ora, ma i Paesi agiscono ancora come se ognuno si trovasse sul proprio pianeta privato” – ha dichiarato a tal proposito Anholt – “È tempo che i Paesi inizino a considerare le conseguenze internazionali delle loro azioni; se non lo faranno, le sfide globali, come il cambiamento climatico, la povertà, la crisi economica, il terrorismo, la droga e le pandemie, potranno solo peggiorare.”

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Ma quali sono gli aspetti che hanno portato il Paese più verde (ma non più al verde) d’Europa in vetta alla classifica? L’Irlanda si è distinta principalmente per l’attenzione ai diritti, alla prosperità e all’uguaglianza. L’isola è, infatti, al settimo posto per quanto riguarda la cultura, al nono posto nel settore salute e benessere e in quarta posizione dal punto di vista dell’ordine internazionale. Le posizioni di Irlanda e Finlandia erano quasi equivalenti, ma l’Irlanda si è distinta soprattutto per il proprio contributo ai diritti umani a e al benessere dell’umanità.

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È, dunque, per il maggior contributo globale offerto alla qualità della vita sul nostro pianeta, come si accennava poco fa, che l’Irlanda supera qualsiasi altro Paese del mondo.

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Tra i Paesi in via di sviluppo, invece, il Kenya è l’unico Stato africano ad essere rientrato tra i primi 30 posti in classifica. Nell’indice generale si trova al ventiseiesimo posto. Il Kenya viene considerato un esempio da seguire, in quanto dimostra che un contributo significativo alla società non è affatto appannaggio esclusivo delle nazioni ricche.

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E l’Italia, come si sarà piazzata? Il Bel Paese ottiene il ventesimo posto nella classifica generale e batte gli Stati Uniti, che raggiungono solo il ventunesimo. Nelle singole categorie, poi, l’Italia si piazza al diciannovesimo posto per salute e benessere, al ventiduesimo per cultura e al trentottesimo per scienza e tecnologia. Scende, invece, alla posizione numero 102 per quanto concerne il contributo alla pace e alla sicurezza internazionale.

Clicca QUI per vedere tutta la classifica del Good Country Index.

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CIVIL PARTNERSHIP ALLA TEDESCA. ANZI NO, ALL’ITALIANA.

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di Andrea Serpieri

“A settembre, dopo la riforma della legge elettorale, realizzeremo un impegno preso durante le primarie, un impegno vincolante: quello sui diritti civili“. A dirlo è stato il Presidente del Consiglio Matteo Renzi. La promessa giunge direttamente dall’Assemblea Nazionale del Partito Democratico. Renzi è tornato a parlare di diritti civili e all’assise Dem ha illustrato il suo progetto sulla civil partnership alla tedesca, già annunciata durante la campagna elettorale per le primarie, ma finora rimasta sostanzialmente fuori dall’agenda politica dell’esecutivo. Ricordiamo che a tutt’oggi la legge contro l’omofobia stagna al Senato da settembre scorso. E a un anno da quell’ultimo (debole) step, il prossimo mese di settembre sarà quello della riforma copernicana della società italiana.

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Riforma difficile, comunque: il premier sarà infatti costretto a trattare con la destra di Alfano e Giovanardi (sic!) e il centro di Monti, ma forse l’apertura di Grillo sulla legge elettorale, potrebbe portare esiti insperati anche su altri temi importanti come questo e magari i grillini si sporcheranno le mani con quelli del PD. Magari. La speranza, si sa, è l’ultima a morire, ma, come si dice, chi di speranza vive, disperato muore: il M5S è lo stesso non-partito che nel PE è alleato di un’orda di xenofobi della peggior specie e di omofobi convinti guidati da Capitan Farage.

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Non sarà, quindi, una proposta indolore, anzi. Francesco Clementi come altri dello staff di Renzi, alla fine del 2013 aveva avanzato proposte alternative, come il riconoscimento delle Coppie di fatto, ottime proposte, animate dai migliori intenti (nessuno vuol metterlo in dubbio), ma pur sempre insufficienti per un vero salto di qualità. Perché? Perché innanzitutto bisogna sgomberare il campo da strumentalizzazioni e contrapposizioni ideologiche, operando in maniera davvero laica ma pragmatica, dando dignità ‘giuridica’ all’amore che lega due persone dello stesso sesso. Il semplice riconoscimento di fatto verrebbe a creare un istituto di serie B. In pratica, ciò che verrebbe a riconoscersi sarebbe solo il valore della diversità naturale del rapporto rispetto a quello tradizionalmente matrimoniale. Ma affinché l’Italia riparta, perché sia davvero l’Italia della svolta buona, c’è bisogno di riforme profonde, non solo in campo istituzionale ed economico. Serve un terremoto come lo fu per la famiglia tradizionale quando vennero introdotti il divorzio e in seguito l’aborto.

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Ad un Paese come il nostro abituato a stanche contrapposizioni tra laici e cattolici che da trent’anni bloccano qualsiasi processo di riforma civile serve una rivoluzione, come detto prima, copernicana della società. La colpa di questo stato paludoso delle riforme, tuttavia, non è solo della Chiesa e della destra. Sul blocco delle riforme civili ci hanno lucrato in tanti, troppi forse. Anche tra coloro che si stracciavano le vesti proclamando o matrimonio o niente, nella sinistra radicale, che raccoglieva il consenso dei gay insoddisfatti, ma anche in certe associazioni gay che sostenevano quella sinistra. Di fatto fermando il cammino verso un’evoluzione del dialogo. Anzi del non-dialogo. È un Paese strano il nostro: si afferma con forza per negare, infine, ciò per cui si lotta.

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Finora solo alcuni sindaci e consigli comunali (a Grosseto, Latina, Fano e ora Napoli) si sono mossi per ordinare la trascrizione dei matrimoni conclusi all’estero da coppie gay e lesbiche italiane. Un piccolo passo, che insieme al recente convegno romano organizzato il 30 maggio scorso da Magistratura Democratica, Rete Lenford e Articolo 29 sulla discriminazione matrimoniale di gay e lesbiche, dimostra l’insofferenza della società civile e giuridica per una discriminazione sofferta quotidianamente dalle persone omosessuali, e che significativamente si muove ‘dal basso’, dalle aule di giustizia dei tribunali di periferia, dalle università e dai comuni, per rimuovere l’assordante silenzio del Parlamento.

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Ma torniamo all’attualità: all’annuncio di Renzi. Il Governo italiano sta lavorando su un disegno di legge che introduca entro la fine di quest’anno una forma di unioni civili, peraltro, già sperimentate in altre realtà come Germania e Regno Unito. Non parliamo di matrimonio, quindi. Ma di civil partnership. Vediamo di cosa si tratta. Dal punto di vista dei diritti e dei doveri acquisiti non c’è nessuna differenza tra il matrimonio civile e la civil partnership: eredità, pensione, visite in ospedale, protezione contro la violenza domestica. Nel caso delle civil partnership britanniche, inoltre, l’adozione è ammessa sia a singoli che a coppie, senza distinzione di orientamento sessuale e le responsabilità sono le medesime che per una coppia etero sposata con il rito del civil marriage. Ma le nostre unioni saranno di ispirazione teutonica: per cui tranquilli, moralisti italiani, ché in programma non c’è la corruzione di anime innocenti, la cui sorte verrà lasciata alla follia omicida dei loro stimati padri biologici, nell’intervallo di tempo tra un amplesso consumato con la moglie già uccisa al piano di sotto e una partita di calcio in TV con gli amici del bar.
Tornando al tema del post, se i diritti e i doveri della civil partnership sono gli stessi che scaturiscono dal matrimonio, dobbiamo, allora, chiederci qual è la differenza tra i due istituti. Quella principale è che la civil partnership non può avere nessuna connotazione o riferimento alla religione, mentre la parola ‘matrimonio’ nell’immaginario collettivo ha già, di per sé, una connotazione religiosa. L’altra differenza è invece di natura tecnica: una civil partnership per essere valida deve solo essere firmata dai coniugi e quindi non è obbligatoria una cerimonia. Per un matrimonio, invece, è obbligatorio che vengano scambiate alcune formule rituali prima della firma da parte dei coniugi.

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Rispetto al riconoscimento delle coppie di fatto, d’altro canto, che registrano a posteriori un rapporto già consolidato, fornendogli diritti e doveri, che dovrebbe essere disciplina aggiuntiva estesa a tutte le coppie, le civil partnership sono un contratto pubblico che fa sorgere diritti e doveri della coppia che dichiara di voler condividere un progetto di vita comune per il proprio futuro.

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Alla luce della recentissima sentenza della Corte Europea che ha equiparato il trattamento delle coppie sposate con unioni civili rispetto a quelle che hanno contratto matrimonio, il Governo è ormai investito di un’urgente richiesta di sanare quel vuoto legislativo, già denunciato dal Presidente della Corte Costituzionale Gallo, solo un anno fa, che costituisce la prima e più inaccettabile delle discriminazioni che esistono in Italia. Ha senso disporre una strategia antidiscriminazione senza affrontare la più importante tra queste? Ha senso che ancora una volta la politica se ne lavi le mani delegando quel che può alle associazioni gay oppure ad un Parlamento che non ha ancora avuto neanche la forza di far diventare legge una proposta contro l’omofobia? Oggi, dall’Europa, siamo ancora clamorosamente fuori. Fuori luogo, fuori tempo massimo, fuori tutto.

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L’OFFESA A TERZI VIA SMS NON È DIFFAMAZIONE: LO DICE LA CASSAZIONE.

Se l’insulto su Facebook è diffamazione, lo stesso non può dirsi per chi ricorre ai messaggini sul cellulare per offendere qualcuno. È, infatti, escluso il reato di diffamazione, se l’offesa, diretta a terzi, è inviata tramite sms. A stabilirlo è stata la Suprema Corte di Cassazione, sez. V Penale, Sent. n. 22853 del 30 maggio 2014.

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di Michele De Sanctis

Questi i fatti. Con sentenza del 24/10/2012, il Tribunale di Catania confermava la sentenza del Giudice di Pace del 17/02/2011 del capoluogo etneo, che aveva dichiarato la convenuta in giudizio responsabile del reato di diffamazione in danno della querelante mediante sms inviato alla figlia di quest’ultima.
L’imputata, tuttavia, ricorrendo dinanzi Suprema Corte avverso la decisione dell’appello, eccepiva la violazione di legge in relazione all’art. 595 c.p., dal momento che, in mancanza di una prova che l’sms avesse destinazione di propalazione alla persona offesa o a terzi, ovvero di una prova della sua volontà in tal senso (non potendo ravvisarsi l’elemento probatorio di tale volontà nella mera circostanza che l’invio del messaggio fosse stato effettuato nel weekend, in un momento in cui la famiglia della donna offesa era riunita per il pranzo). Deduceva, d’altro canto, il legale della ricorrente che la comunicazione agli altri membri della famiglia era stata frutto dell’esclusiva iniziativa della diretta destinataria del messaggio.

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Ebbene, i Giudici di Piazza Cavour hanno ritenuto il ricorso fondato.
Secondo costante orientamento della giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. 36602/2010), infatti, in tema di delitti contro l’onore, per integrare il reato di diffamazione occorre non solo l’elemento psicologico consistente nella consapevolezza di pronunciare (o scrivere) frasi lesive della reputazione altrui, ma, altresì, la volontà che le offese denigratorie siano conosciute da più persone. Ai fini della commissione del reato di diffamazione, pertanto, è necessario che l’autore comunichi, ad una o più persone, il contenuto lesivo della reputazione altrui, con modalità tali che la notizia venga sicuramente a conoscenza di altri, evento che egli deve rappresentarsi e volere. Condotta, questa, che, per esempio, si sarebbe configurata se l’sms fosse stato inviato in una chat di gruppo, ovvero pubblicato su un social network, ecc. Invece, l’invio di un sms privato, pur contenendo un messaggio diffamatorio, non concretizza la fattispecie prevista per il reato in parola, poiché, invero, evidenzia la volontà dell’agente di non diffondere o comunicare a terzi il contenuto offensivo espresso nei confronti di un altro soggetto. Nel caso impugnato, però, il Tribunale, pur richiamando i principi giurisprudenziali di cui sopra, non ne ha poi tratto le debite conseguenze.

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Di qui la ragione che ha portato il giudizio d’appello ad ad essere cassato da Piazza Cavour. Infatti, essendo pacifico che l’sms era stato inviato ad un’unica persona (la figlia della donna offesa), il Tribunale, nel confermare la decisione del GdP, ha ritenuto “del tutto evidente”, senza, peraltro, indicarne le ragioni, il “chiaro intento” dell’imputata che il destinatario delle offese e “le altre persone presenti” ne fossero messi a conoscenza, come di fatto era avvenuto. Oltretutto, neppure il concetto di “persone presenti” risulta esplicitato nella pronuncia oggetto del ricorso, poiché non collegato alla testimonianza della figlia, evocata in sentenza solo nella parte relativa alla sintesi della vicenda processuale, ma non anche utilizzata al fine della conferma dell’affermazione di responsabilità, secondo cui il messaggio era pervenuto di sabato o domenica, nell’orario in cui tutta la famiglia era riunita per il pranzo, affinché fosse portato a conoscenza della terza persona che si intendeva offendere, la madre della destinataria del messaggio.
Diversamente, sempre per la Cassazione, l’sms denigratorio, inviato direttamente al soggetto destinatario dell’offesa, avrebbe configurato il diverso reato di ingiuria.

Per questi motivi, la sentenza pronunciata al termine del gravame è meritevole di annullamento con rinvio per nuovo esame al giudice a quo (il Tribunale di Catania) in diversa composizione.

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RIFORME: FISCO PIÙ SEMPLICE E LEGGERO.

Nella riforma della Pubblica Amministrazione recentemente presentata è incluso anche uno specifico pacchetto di semplificazioni in materia fiscale, per il quale Consiglio dei Ministri ha, peraltro, già avviato un primo esame ai fini dell’attuazione alla delega fiscale, con l’obiettivo di introdurre la dichiarazione dei redditi precompilata. A tal proposito, il premier Matteo Renzi ha dichiarato: “Abbiamo fatto un primo esame. Il vice ministro Morando lo porterà in Parlamento e la prossima settimana lo approviamo definitivamente.”

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Dunque, la novità è che per il 730 si prevede l’invio di un modulo precompilato direttamente a casa del contribuente. La dichiarazione precompilata dovrebbe in un primo momento essere operativa solo per dipendenti pubblici e pensionati, vale a dire circa 18 milioni su 41 milioni di contribuenti (15 milioni di pensionati e 3 milioni di dipendenti pubblici). Successivamente, la riforma coinvolgerà tutti i lavoratori dipendenti, rendendo la dichiarazione precompilata disponibile per oltre 3 contribuenti su 4. Nel modulo compariranno una serie di informazioni di cui il Fisco già dispone come quelle anagrafiche e reddituali già presenti nel CUD. Si aggiungeranno, poi, le detrazioni per familiari a carico, per lavoro dipendente e pensione.
L’Erario, inoltre, già dispone dei dati sugli immobili, e per chi è in regime di cedolare secca anche dei dati sui beni concessi in locazione e adibiti ad abitazione principale. Ne dovrebbe, quindi, risultare alleggerito il lavoro dei CAF, ai quali potrebbero però essere affidate maggiori responsabilità in termini di certificazione della correttezza.

Per i titolari di p.i. viene, invece, meno il visto di conformità per i rimborsi IVA sopra i 10.000 euro. La norma attuale prevede, invece, l’obbligo di ottenere da un CAF imprese un pre-controllo formale sulla documentazione prima di poter ottenere il via libera al rimborso.

Sale, inoltre, il tetto sotto cui i contribuenti non devono presentare la dichiarazione di successione, qualora gli eredi siano il coniuge e i parenti in linea retta. L’importo, finora fissato in circa 25.800 euro (la norma, entrata in vigore con la vecchia valuta, parla di 50 milioni di lire) adesso passa a 75.000 euro. Semplificazioni ulteriori anche per ciò che concerne la documentazione da presentare, che potrà essere sostituita da un’autodichiarazione.

Le nuove norme fanno venir meno, infine, la responsabilità solidale dell’appaltatore nei casi di elusione contributiva ai danni del personale dipendente. Fino ad oggi, infatti, era previsto che l’appaltatore principale fosse responsabile in solido con il subappaltatore in caso di mancati versamenti da parte di quest’ultimo delle trattenute sui salari dei dipendenti per contributi previdenziali, oltreché per i premi assicurativi obbligatori INAIL. Con la riforma, unico obbligato sarà il solo subappaltatore, quale datore di lavoro dei dipendenti per i quali non risultano (o non risultano interamente) versati i contributi previdenziali e i premi assicurativi.

MDS
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INPS: AGGIORNATE LE TABELLE PER IL CALCOLO DEGLI ASSEGNI AL NUCLEO FAMILIARE.

L’assegno al nucleo familiare è una prestazione di natura assistenziale, a sostegno delle famiglie dei lavoratori dipendenti e dei titolari di prestazione a carico dell’assicurazione generale obbligatoria (AGO) dell’Inps, che abbiano un reddito complessivo al di sotto delle fasce stabilite ogni anno per legge. La sussistenza del diritto e la misura dell’importo dell’assegno dipendono dal numero dei componenti il nucleo familiare, dal reddito complessivo del nucleo familiare e dalla tipologia di nucleo. L’assegno mensile spettante, percepito generalmente per il tramite del datore di lavoro, va individuato nelle apposite tabelle ANF.

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Con circolare numero 76 dell’11 giugno 2014, l’INPS ha reso note le nuove tabelle per il calcolo degli assegni familiari relative al periodo 01/07/2014 – 30/06/2015.

La legge n. 153/88 stabilisce che i livelli di reddito familiare da tener conto, per il calcolo dell’assegno per il nucleo familiare spettante, sono rivalutati ogni anno, con decorrenza dal 1° luglio di ciascun anno, in misura pari alla variazione dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati, calcolato dall’ISTAT.

Per il 2014, la variazione percentuale dell’indice dei prezzi al consumo tra l’anno 2012 e l’anno 2013, secondo i calcoli dell’Istat è risultata pari al 1,1%.

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Alla circolare vengono allegate delle tabelle contenenti i nuovi livelli reddituali, nonché i corrispondenti importi mensili della prestazione, da applicare dal 1° luglio 2014 al 30 giugno 2015, alle diverse tipologie di nuclei familiari.

Clicca qui per conoscere la tabella pubblicata dall’INPS relativa al 2014-2015. Per consultare la tabella è necessario per prima cosa calcolare il proprio reddito familiare, rapportarlo alla propria composizione familiare e poi procedere all’individuazione dell’importo dell’assegno per il nucleo familiare corrispondente al proprio reddito.

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L’ANF è una prestazione il cui scopo è quello di integrare il reddito familiare: viene erogata tramite i datori di lavoro, in busta paga, oppure direttamente dall’Inps in alcuni casi particolari. Per richiederlo, il lavoratore deve compilare il modulo fornito dall’INPS con i dati del proprio nucleo familiare e i redditi relativi al 2013 e consegnarlo al proprio datore di lavoro il quale provvede al calcolo dell’importo corretto in base alle informazioni inserite nel modulo e alla corresponsione dell’assegno, andando poi a recuperare l’importo direttamente dall’INPS.

Spetta a:
– Lavoratori dipendenti, anche per i periodi nei quali fruiscono di prestazioni previdenziali legate alla sospensione del rapporto di lavoro (malattia, cassa integrazione guadagni CIG o CIGS, disoccupazione, mobilità, ecc.);
– Soci delle cooperative, lavoratori assistiti per tubercolosi, lavoratori richiamati alle armi;
– Lavoratori in aspettativa per cariche pubbliche elettive e sindacali;
– Personale statale in servizio ed in quiescenza, pensionati del Fondo pensioni lavoratori dipendenti;
– Pensionati dei fondi speciali come autoferrotranvieri, Fondo Elettrici e gas, esattoriali, telefonici, personale di volo e dazieri;
– Pensionati degli Enti Pubblici territoriali e non territoriali;
– Ai caratisti imbarcati sulla nave da loro stessi armata e agli armatori e proprietari armatori imbarcati, in quanto, secondo quanto previsto dalla risoluzione n. 19 del 1998 del Ministero delle Finanze, il loro reddito derivante dall’attività è equiparato a quello di lavoro dipendente;
– Agli iscritti alla Gestione Separata dei lavoratori autonomi (collaboratori coordinati e continuativi, collaboratori con contratto a progetto, venditori porta a porta e liberi professionisti).

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L’assegno per il nucleo familiare spetta solo se la somma dei redditi da lavoro dipendente, da pensione o da altra prestazione previdenziale derivante da lavoro dipendente, relativa al nucleo familiare nel suo complesso, ammonta almeno al 70% dell’intero reddito familiare.

MDS
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ENRICO BERLINGUER E IL FUTURO DELLA DEMOCRAZIA IN ITALIA.

Era il 7 giugno 1984, quando Enrico Berlinguer, segretario del Partito Comunista Italiano, nel corso di un comizio elettorale a Padova, in Piazza delle Erbe, veniva colto da un malore. L’11 giugno, dopo 4 giorni di coma, Berlinguer si spense, ma l’eco della sua persona nel vuoto che ha lasciato nella sinistra italiana, risuona ancora, a trent’anni dalla sua scomparsa. «Lo porto via come un amico fraterno, come un figlio, come un compagno di lotta», così dichiarò il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, dopo aver dato l’ordine di trasportare la sua salma sull’aereo presidenziale.

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Era un uomo che guardava al futuro Berlinguer, che partiva da una lucida ed oggettiva visione del presente e che concentrava la sua azione politica sulle necessarie trasformazioni funzionali a quella sua visione. Fu lui a rompere con il comunismo ‘reale’ sovietico e fu sempre lui a concepire un progetto alternativo per l’Italia insieme ad Aldo Moro, un progetto grande quanto rischioso, che venne osteggiato nei modi più assurdi e criminali, un progetto che ha continuato con la nascita del PDS, con il progetto dell’Ulivo e con la Cosa 2, fino alla nascita del Partito Democratico, nonostante le ultime polemiche su questo soggetto politico. Convergenze parallele: sono queste convergenze volute da Berlinguer, Moro e Fanfani ad aver ispirato l’evoluzione del PCI in quello che oggi una parte della sinistra rinnega, anzi nega essere sinistra. E se il periodo storico lo consentisse, forse nel PD questo sarebbe il momento più opportuno per affrontare quella tipica logica della sinistra che analizza il proprio agire: l’autocritica, nonostante i successi raccolti alle europee. Ma è il momento delle riforme: l’obiettivo è salvare il Paese dalla crisi.

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Autocritica servirebbe sulla questione morale, ancora oggi purtroppo di grande attualità, che da Berlinguer era vista come questione politica prima ed essenziale, perché dalla sua soluzione dipendeva la ripresa di fiducia nelle istituzioni, l’effettiva governabilità del Paese e la tenuta del regime democratico. Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci vuole un grande consenso, una grande credibilità politica e la capacità di colpire esosi e intollerabili privilegi. Se questi elementi non ci sono, l’operazione non può riuscire. Queste sono parole dello stesso Berlinguer. E proprio sulla questione morale – nelle ore degli scandali Mose ed Expo, del coinvolgimento di alcuni settori dello stesso PD – occorrerebbe prima di tutto riflettere: e domandarsi quanto la personalizzazione estrema della politica degli ultimi vent’anni, in ogni angolo del Parlamento, insieme al venir meno di un’etica condivisa abbiano aperto la strada ad una nuova tragica degenerazione della politica.

Questi ultimi scandali evidenziano purtroppo come la corruzione sia parte integrante oggi più che mai del sistema: domenica scorsa Eugenio Scalfari ha scritto che la differenza con la prima tangentopoli sta nel fatto che all’epoca “lo scandalo consisteva almeno per il 70% in denari trafugati per finanziare i partiti e solo il 30% andava nelle tasche dei mediatori, mentre nel post tangentopoli la refurtiva finisce tutta in tasche private di intermediari che lavorano in proprio col potente di turno”.

L’autocritica dovrebbe ripartire proprio dalla figura di Berlinguer. La corruzione si combatte in tre momenti: prevenzione, inchiesta e punizione dei colpevoli. E infatti il premier Matteo Renzi qualche giorno fa ha detto che i politici che rubano devono essere puniti non solo per corruzione, ma soprattutto per alto tradimento nei confronti dello Stato e del popolo. Non c’è tempo per fermarsi a pensare, eppure una riflessione è necessaria. Che non ostacoli il cammino delle riforme. Che tenga coeso il centrosinistra, salvaguardandolo dal suo autolesionismo congenito, inevitabile. Domani sarà presentata la riforma della PA, che segue quella del mercato del lavoro. E poi sarà la volta della giustizia. Procedere, superare ma senza scordare le ragioni che hanno portato ai gravi fatti su cui la Magistratura indagherà. I colpevoli, a sentenza passata ingiudicato, come dispone la Costituzione, andranno puniti. Il partito, però, è un’altra cosa, qualche mela marcia non fa di un progetto politico un ricettacolo di corruttela, il popolo che lo sostiene è di altra pasta rispetto a chi ha disatteso la prima questione della sinistra italiana, quella morale. I giovani sono la chiave per la sopravvivenza e la speranza del centrosinistra. Come diceva lo stesso Berlinguer: se i giovani si organizzano, si impadroniscono di ogni ramo del sapere e lottano con i lavoratori e gli oppressi, non c’è scampo per un vecchio ordine fondato sul privilegio e sull’ingiustizia.

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A trent’anni dalla sua scomparsa, Enrico Berlinguer resta, quindi, una delle figure chiave della storia politica repubblicana. Nessun leader italiano è infatti stato popolare, rispettato ed amato (ma anche travisato) come Berlinguer, non solo dalla sinistra, ma da strati ben più ampi di popolazione.

Le ragioni risiedono in quella sua caparbietà nello sfidare le rigidità di un mondo diviso in blocchi, nel coraggio dimostrato nella rottura con l’URSS dopo il colpo di stato polacco e nelle sue intuizioni come quando, negli ultimi anni di vita, vide nella questione morale e nella degenerazione dei partiti “ridotti a macchine di potere e di clientela” il problema più drammatico dell’Italia.

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Per chi all’epoca era appena nato e per quei giovani nati dopo quella data, la figura di Enrico Berlinguer vive nel racconto di coloro che in quella fase storica erano già adulti, così come vive nei libri e nei documenti televisivi. La sua storia rappresenta tuttora un esempio, un riferimento indiscusso in quanto a rigore morale. Poche figure, come quella di Berlinguer, evocano un riconoscimento storico così unanime e austero. Ciò che colpisce nella testimonianza di tanti compagni è proprio l’unanimità di questo giudizio, che ha trasformato Berlinguer da capo di un partito a uno dei padri della Repubblica e custode della democrazia. Dalla denuncia della questione morale al compromesso storico con una parte della DC, compromesso finalizzato alla difesa delle istituzioni democratiche: sono queste le fondamenta che il centrosinistra non può e non deve scordare. E la prima pietra di queste fondamenta fu posta da Berlinguer. Tutti noi, poi, dobbiamo conservare memoria di una lezione appresa da Berlinguer: la ricerca di un equilibrio imprescindibile tra la libertà dell’individuo e la giustizia sociale. In un tempo in cui la corruzione dilaga, dove qualcuno vorrebbe stravolgere la Costituzione e con essa le istituzioni democratiche, in cui l’intolleranza xenofoba e omofoba si diffonde, faremmo bene a considerare i discorsi di Berlinguer non solo come un reperto delle teche Rai, o come un simbolo da gridare su un palco o in un aula del Parlamento, per tirare più voti. Rispetto per la memoria di un uomo significa prima di tutto osservarne nei fatti e non nelle sole parole i principi lasciati in eredità alla sinistra e a tutto il Paese. Le sue parole corrispondevano sempre e in maniera trasparente ai fatti. Il suo pensiero, ancora oggi, è un programma fondamentale per il futuro della democrazia e l’educazione alla legalità della società italiana.

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RIVOLUZIONE PA: MADIA DISPOSTA A CONFRONTO CON I SINDACATI.

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Forse sarà davvero una rivoluzione, viste le premesse: consultazione dei lavoratori pubblici fino al 30 maggio tramite l’indirizzo di posta elettronica rivoluzione@governo.it, che ha consentito l’integrazione della prossima riforma con suggerimenti e proposte da parte dei diretti interessati. E l’auspicio è che più che una rivoluzione questa sia un vero e proprio terremoto e una ricostruzione, orientata alla semplificazione e alla tecnologia, ma anche e soprattutto alla valorizzazione delle risorse umane: ce n’è bisogno dopo la spending review del governo Monti, che per limitare la spese ha, tuttavia, aggravato un quadro già negativo a causa delle improvvide riforme dell’ex ministro Brunetta e della sua crociata contro la funzione pubblica. Stavolta non ce lo chiede l’Europa, ma l’Italia: la seconda tangentopoli ha dimostrato quanto la carenza di semplificazione nel rapporto con la P.A. e l’eccesso di burocrazia possano facilitare condotte illecite, di cui francamente preferiremmo fare a meno. Nelle sue intenzioni lo stesso premier sembra aver adottato questa linea, almeno stando alle sue dichiarazioni in seguito all’affare Mose.

Rivoluzione, però, lo sarà questa riforma anche (e finalmente) per un ritorno al confronto con le parti sociali. Dopo un decennio di esecutivi trincerati ed ostili al metodo delle concertazioni (con l’unica eccezione dei due anni di governo Prodi), ora l’annuncio di un incontro tra il ministro della Pubblica Amministrazione, Marianna Madia, e tutti i sindacati sulla riforma della P.A. alla vigilia del Consiglio dei Ministri che esaminerà il provvedimento in questione, il prossimo 13 giugno. Il Ministro ha, infatti, convocato le sigle dei lavoratori per la mattinata di giovedì mattina 12, a Palazzo Vidoni, per una riunione in vista degli interventi. E ai 44 punti indicati con il premier Matteo Renzi, a fine aprile, su cui c’è stata la consultazione, ha aggiunto il punto numero 45 sull’agognato rinnovo del contratto del pubblico impiego, attualmente fermo al 2009 (e fino a tutto il 2014). Punto questo, che, nell’ambito della consultazione del Governo, era stato vivamente sollecitato dai sindacati di categoria.

Ritenendo che il blocco della contrattazione abbia “prodotto un danno ingiusto” ai lavoratori pubblici e ricordando l’intervento degli 80 euro in più in busta paga, nel documento che il ministero ha inviato alle organizzazioni sindacali in vista della riunione, la Madia ha affermato che “il tema del rinnovo della parte economica del contratto merita di essere affrontato a partire dal prossimo anno”.

L’incontro con i sindacati, che, comunque, lo stesso Ministro aveva assicurato ci sarebbe stato prima del CdM, sarà a sua volta preceduto dall’appuntamento messo in calendario dalle principali sigle del pubblico impiego, Fp-CGIL, CISL-Fp e UIL-Pa, mercoledì mattina per illustrare le proprie proposte, unitarie, di riforma, che partono dallo riorganizzazione partecipata della P.A. fino allo sblocco del turnover e della contrattazione, senza cui non è neppure possibile parlare di una “vera” riforma.

Sul tavolo del Governo diversi sono i provvedimenti all’ordine del giorno del prossimo 13 giugno: modifica della mobilità volontaria (finora proclamata da ogni Governo, ma di fatto rimasta una sorta di ‘En attendant Godot’) e obbligatoria (anche senza l’assenso del lavoratore, ma con il mantenimento in tale ipotesi dello stesso trattamento economico e precisi limiti geografici); abrogazione del trattenimento in servizio (raggiunta l’età di pensione) che libererebbe oltre 10.000 posti nella PA a costo zero per i giovani (molti dei quali vincitori di concorsi pubblici, imprigionati in graduatorie mai esaurite) e consentirebbe quella staffetta generazionale per un rinnovo efficace ed efficiente dell’Amministrazione; part-time incentivato, considerato un altro strumento utile per creare spazio a nuove assunzioni e favorire conciliazione dei tempi di vita e lavoro e benessere organizzativo; e poi c’è anche la cosiddetta ‘opzione donna’ per le lavoratrici (se scelgono il regime contributivo per andare in pensione con i requisiti ante Fornero). Per coloro vicini alla pensione era anche emersa l’ipotesi di reintrodurre l’esonero dal servizio (con il 65% dello stipendio), ipotesi che, tuttavia, è stata esclusa: nel documento inviato dal ministero ai sindacati, infatti, si ritiene “non opportuno” proporla perché avrebbe un “ritorno marginale oltre che il rischio” di determinare “nuove distorsioni”.

Quanto al turnover, l’obiettivo è di una “urgente” semplificazione, per assicurare maggiori ingressi ma anche consentire a ciascuna Amministrazione più discrezionalità nella programmazione, fermo restando il rispetto dell’equilibrio finanziario: questo anche “ad esempio eliminando il vincolo del computo delle teste”.

C’è poi la questione precariato, una “patologia” con numeri “vergognosi”, come definita nelle settimane scorse dalla stessa Madia, che va superata. Un tema che “chiederemo, nell’incontro di giovedì” che “entri a far parte della riforma”, dice il responsabile dei Settori pubblici della CGIL, Michele Gentile. Un altro di quegli effetti perversi della spending review che, in mancanza di un ricambio generazionale, ha costretto la P.A. ad un eccessivo ricorso all’uso distorto dell’istituto della somministrazione, dei co.co.co. e del t.d., acutizzando un fenomeno, quello del precariato nella Pubblica Amministrazione, la cui soluzione non può attendere oltre.

MDS
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