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LA CULTURA È L’UNICA DROGA CHE CREA INDIPENDENZA

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Lavorare 2.0: il recruitment passa per Facebook.

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Ragazzi, attenti! Le stime più recenti sul rapporto tra aziende e social network vedono un notevole incremento dell’uso che ne viene fatto in occasione della selezione di nuovo personale. Dal 17% del 2008 si è, infatti, passati al 40% delle aziende che “spiano” i loro candidati. E viene valutato tutto, errori (anzi, orrori) ortografici compresi. Inoltre, il 65% delle imprese che ricorre ai social giudica con più favore i candidati che abbiano avuto esperienze di volontariato.
In un momento in cui il mercato del lavoro ristagna, questa prassi può risultare antipatica. Personalmente, la ritengo odiosa a prescindere. Ma se il mercato è questo, occorre equipaggiarsi.
Cosa fare allora?
Riconsiderare la propria immagine sul web innanzitutto. È inevitabile!
Saprete sicuramente che a quanto raccontate di voi o alle foto che pubblicate in rete non è offerta una tutela al 100% da occhi indiscreti: basti pensare alla timeline di Facebook, detta anche copertina, che non può essere limitata ai soli amici. Tuttavia bisognerebbe soffermarsi un po’ anche sul fatto che queste informazioni sono accessibili a persone che intendono “studiarvi” per motivi professionali e non solo a semplici curiosi, stalker, maniaci ed ex compagni di classe indiscreti.
L’immagine che terrete a dare a chi può potenzialmente offrirvi un lavoro è sicuramente diversa da quella che utilizzate per interfacciarvi con i vostri amici. Per esempio, andreste mai ad un colloquio di lavoro coi rasta o con i capelli verde fluo, magari mentre siete in preda alla migliore sbornia della vostra vita, indossando una comoda tuta o un succinto completino da spiaggia? Io non credo, se a quel lavoro ci tenete davvero. Per chi non dovesse capirmi, consiglio la lettura di Trainspotting: il pezzo dedicato al colloquio di lavoro è uno dei migliori che Irvine Welsh abbia mai scritto.

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Tornando a noi, se tenere distinte le due sfere sociali non sempre è possibile visto che, come già detto, le informazioni che si seminano in rete sul proprio conto sono in qualche modo sempre raggiungibili, si dovrebbe allora reinterpretare questa tendenza delle aziende come un cambiamento della società rispetto agli inevitabili canali che il web ha aperto e messo a disposizione e giocare questa carta a proprio favore. Se già sapete che chi dovrà giudicarvi probabilmente farà qualche ricerca in più sul vostro conto, sfruttate i social a vostro vantaggio. Prima di tutto proteggete, per quanto possibile, i vostri profili sui social network controllando sempre le impostazioni della privacy. Il Grande Fratello di Orwell esiste veramente e non è una trasmissione televisiva. Ma se vivete con Instagram e Facebook sempre a portata di mano e se proprio non potete evitare di far sapere al mondo quanto ve la siate spassata sabato scorso, create un profilo ufficiale e dignitoso, con il vostro nome, cognome e una bella foto della vostra laurea o del matrimonio di una cugina di secondo grado e inventate un alter ego per il vostro tempo libero. So che Facebook impone di usare il proprio nome, ma sono in molti a non farlo. Io, ad esempio: non provate a cercarmi, perché non mi troverete mai. Anzi, no, non provateci nemmeno. Questo post non lo firmo, visto il tema affrontato. Per mia fortuna FB si usava poco, anzi in Italia nemmeno esisteva, credo, quando dieci anni fa ho iniziato a cercare lavoro, ma non si sa mai di questi tempi e se dovesse servirmi, darò vita al più noioso account che si possa immaginare!
Infine, qualche ultimo consiglio…
Oltre ai social si usa sempre più il cosiddetto curriculum vitae 2.0.: mi riferisco soprattutto a Linkedin, stavolta. Ebbene, nel redigere il vostro CV assecondate sempre i desideri di chi vi sta valutando, soprattutto quello di capire qualcosa in più su chi siete davvero (cioè su chi vorrebbero che voi foste, visto che si parla di recruiting) e su come vi rapportate con gli altri, visto che è uno degli aspetti di voi che un datore di lavoro vorrebbe sapere sempre prima di farvi firmare un contratto, specie se il lavoro offerto prevede un’attività di team.
A questo punto fatevi furbi e buttatevi nella giungla. E ricordate, guai a lasciar trapelare sul lavoro anche una sola mezza notizia sul vostro conto. Anche dopo l’assunzione. Anche coi colleghi (anzi, soprattutto).
Per adesso è tutto: non resta che augurarvi in bocca al lupo! E crepi…!

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I chiarimenti del Ministero del Lavoro sulle corrette sanzioni da applicare in caso di lavoro straordinario “fuori busta”

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La Direzione Generale per l’Attività Ispettiva del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, in risposta al un quesito della DRL Veneto, Prot. nr. 2642 del 06-022014, ha chiarito che, nelle ordinanze-ingiunzione concernenti la violazione del datore di lavoro di retribuire un lavoratore che ha effettuato lo straordinario senza che il valore venga iscritto nel Libro Unico del Lavoro (c.d. “fuori busta“) deve essere applicata, prioritariamente, la sanzione prevista dagli artt. 1 e 3 della Legge, nr. 4/1953. Tale sanzione prevedeobbligo in capo ai datori di lavoro di consegnare, all’atto della corresponsione della retribuzione, ai lavoratori dipendenti, con esclusione dei dirigenti, un prospetto di paga in cui devono essere indicati il nome, cognome, e qualifica professionale del lavoratore, il periodo cui la retribuzione si riferisce, gli assegni famigliari e tutti gli altri elementi che, comunque, compongono detta retribuzione, nonché, distintamente, le singole trattenute ed il prospetto di paga deve essere consegnato al lavoratore nel momento stesso in cui gli viene consegnata la retribuzione.

Secondo l’indicazione ministeriale, tale norma prevale su quella prevista dall’art. 5, comma 5, D.Lgs. nr. 66/2003, il quale statuisce che il lavoro straordinario deve essere computato a parte e compensato con le maggiorazioni retributive previste dai contratti collettivi di lavoro.

In conclusione, in presenza di lavoro straordinario pagatofuori busta“, il Ministero del Lavoro ritiene che trovino applicazione le sanzioni previste dalla Legge, nr. 4/1953 e, qualora gli importi corrisposti siano inferiori a quanto previsto dalla contrattazione collettiva, anche la sanzione di cui al D.Lgs., nr. 66/2003.

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La difficile situazione delle misure di sostegno all’occupazione giovanile

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La materia delle misure di sostegno all’occupazione giovanile si caratterizza per la totale assenza di qualsiasi forma di coordinamento tra lo Stato e le Regioni, sia in fase di programmazione, che di gestione delle singole attività, con il conseguente rischio di rendere non adeguatamente efficace l’utilizzo di risorse pubbliche.
Infatti, la situazione attuale si connota per la contemporanea sussistenza di misure a sostegno dell’occupazione giovanile, poste in essere da vari attori istituzionali, provocando una elevata frammentazione e/o sovrapposizione degli interventi avviati dallo Stato, dalle Regioni e dalle organizzazioni incaricate (altri enti pubblici, terzo settore, etc.), senza la presenza di un coordinamento e di un sistema di monitoraggio adeguati.
Ne consegue, che tali misure, pur essendo finalizzate a porre in essere azioni di contrasto all’emergenza occupazionale, corrono il rischio di non avere la medesima incisività, che sarebbe garantita da una loro organica programmazione.
Siffatta disfunzione appare ancor più problematica, se si considera che essa non è stata finora affrontata e risolta neanche nell’ambito della nuova programmazione dei fondi strutturali 2014-2020, con particolare riferimento al “Programma italiano sulla Garanzia per i Giovani”.

Entrando nello specifico, è possibile riscontrare, in primo luogo, iniziative a livello nazionale e contenute in apposite previsioni legislative. Questa tipologia di misure prevede una serie incentivi di tipo contributivo, economico, fiscale e/o normativo.
Per quanto concerne lo sconto contributivo, l’art. 1, Legge n. 99/2013 prevede  un’agevolazione pari a un terzo della retribuzione lorda mensile imponibile ai fini  previdenziali per un periodo di 18 mesi. Tale agevolazione è attivabile tramite l’istituto del conguaglio  contributivo mensile. In ogni caso, questo importo ha un tetto massimo pari ad € 650 mensili. Il medesimo importo è corrisposto per 12 mesi in caso di trasformazione a tempo indeterminato di un rapporto di lavoro a tempo determinato già in essere, a condizione che  ricorrano determinate condizioni soggettive e che rappresenti un incremento dell’organico, Il beneficio in questione non è riconosciuto se il datore ha già ottenuto, per quel lavoratore, il già citato bonus assunzionale di € 650  euro mensili. Inoltre, la trasformazione deve esser accompagnata da un’altra assunzione di (con l’avvertenza che la norma non indica, né una particolare tipologia contrattuale, né  una durata minima del nuovo rapporto di lavoro) di un altro lavoratore, rispetto al quale non è richiesto il possesso di una delle caratteristiche  sopra indicate.
Invece, gli incentivi di tipo economico sono collegati a politiche di promozione dell’occupazione femminile, oppure a programmi di sostegno ai tirocini. Relativamente al sostegno dell’occupazione femminile, l’art. 4, Legge nr. 92/2012, prevede che, in caso di  assunzione di donne di qualsiasi età, purché prive di un impiego regolarmente retribuite da almeno 6 mesi,  sussista una riduzione pari al 50% dei contributi posti a carico del datore di lavoro per un periodo massimo di 12 mesi qualora l’assunzione sia a tempo determinato e di 18 mesi qualora l’assunzione sia a tempo indeterminato. Invece, per quanto concerne i tirocini, l’art. 2, commi 5-bis, 6 e 10, D.L.. nr. 76/2013 (convertito, con modificazioni, nella Legge nr. 99/2013) , ha previsto lo stanziamento di € 2.000.000, per ciascuno degli anni 2013, 2014 e 2015, affinché le Amministrazioni dello Stato prive di proprie specifiche risorse possano corrispondere le indennità per la partecipazione ai tirocini formativi e di  orientamento.
Venendo all’esame degli incentivi di  tipo fiscale, si deve riscontrare che essi si sono concentrati nell’ipotesi di assunzioni agevolate di giovani ricercatori, attraverso specifici finanziamenti previsti nell’art. 14, comma 3, D,M. nr. 593/2000, nell’art. 24, D.L. nr. 83/2012, negli artt. 4 e 5, Legge nr. 449/1997, nell’art. 44, D.L. nr. 78/2010 e nell’art. art. 3, Legge n. 238/2010.
Esiste anche la previsione di un intervento congiunto degli incentivi normativi, contributivi e fiscali con particolare riferimento al contratto di apprendistato così come disciplinato dal D.Lgs., nr. 167/2011 (c.d. Testo Unico dell’Apprendistato). Da un punto di vista normativo, l’art. 7, D.Lgs. nr. 167/2011 prevede che i lavoratori assunti con contratto di apprendistato sono esclusi dal computo dei limiti  numerici previsti da leggi e contratti collettivi per l’applicazione di particolari  normative e istituti. Invece, l’incentivo contributivo degli apprendisti è rinvenibile nella Legge n. 183/2011 (c.d. Legge di Stabilità 2012),  la quale prevede un regime di sgravi contributivi differenziati per le imprese che assumono apprendisti, a seconda che abbiano più o meno di dieci dipendenti. L’incentivo è economico a favore dell’assunzione degli apprendisti è previsto dall’art. 2, D.lgs. n. 167/2011, il quale opera una serie deroghe alle previsioni contenute nei CCNL, relativamente all’inquadramento professionale ed al trattamento economico.

Le citate iniziative legislative sono affiancate da diversi bandi nazionali, attuati in prevalenza da ItaliaLavoro S.p.a.. Si tratta di misure che cercano di attivare specifiche linee di azione a favore dell’occupazione giovanile, attraverso la realizzazione di misure concrete, ma settoriali, nell’ambito del mercato del lavoro.
In tale contesto, si rileva l’importante ruolo svolto dagli interventi a favore della promozione del contratto di apprendistato, con particolare attenzione a quello di alta formazione e ricerca. Il Programma Progetto FiXo – Scuola & Università – Università e alto apprendistato ha previsto a favore dei datori di lavoro che assumono apprendisti l’erogazione di un incentivo pari ad € 6.000 in caso di assunzione con contratto di lavoro a tempo pieno ed ad € 4.000 in caso di contratto di lavoro parziale. Tale intervento prevede un minimo di coordinamento a livello territoriale, in quanto le Regioni sono delegate a dare attuazione al progetto nei rispettivi territori, attraverso l’emanazione di specifici bandi prevalentemente a valere su fondi europei.

Passando all’analisi poste in essere dalle singole Regioni, risulta difficile avere un quadro sintetico ed analitico, in quanto ogni Amministrazione Regionale, con fondi propri, o provenienti dalla programmazione del Fondo Sociale Europeo, si è distinta per la realizzazione di iniziative di tale tenore.
Infatti, basta visitare i siti internet istituzionali delle singole Regioni, per rinvenire una miriade di iniziative, talvolta ben esplicate, altre volte, pubblicizzate in modo oscuro. Tale difformità comunicativa rende anche difficile l’individuazione, sia dell’intera platea dei vari interventi avviati, sia dei criteri di eleggibilità per ottenerli.
Appare evidente come questa nebulosità limiti la capacità d’impatto delle singole misure, in quanto i datori di lavoro rischiano di non avere una idea chiara delle opportunità assunzionali di cui possono disporre nei vari territori, ove operano. Anzi, si corre il rischio che gli imprenditori che operano in più Regioni rilevino come l’incentivo assunzionale posto in essere da una Regione sia più vantaggioso rispetto a quello di un’altra, con conseguenti effetti di “dumping sociale” nei flussi del mercato del lavoro, in quanto potrebbe risultare più conveniente favorire uno stabilimento a discapito di un altro, soltanto perché il primo insiste nel territorio di una Regione che garantisce misure di sostegno più robuste.
Inoltre, alcune Regioni (come, ad esempio, l’Abruzzo) hanno previsto misure di sostegno all’occupazione giovanile molto più sostanziose di quelle nazionali poc’anzi meglio esplicitate.
Inoltre, le misure di sostegno regionali non si distinguono soltanto per la loro diversa capacità di leva finanziaria, ma anche per la loro difformità anche dal punto di vista degli obiettivi, talvolta non sono sempre coerenti fra loro.
Inoltre, alcune misure regionali (realizzate in Campania, Emilia Romagna e Lombardia), si sono concentrate sull’attivazione delle c.d.“staffette generazionali” (realizzate nell’ambito della misura nazionale di Welfare-to-Work “Staffetta generazionale” promossa da ItaliaLavoro), che si sono basate su un assunto concettuale che, in seguito, numerosi studi empirici hanno dimostrato essere errato, ovvero che, per creare lavoro per i giovani, si debba ridurre quello dei più anziani.
Non sono mancate le Regioni che, pur promuovendo l’accesso dei giovani al mercato del lavoro attraverso la massiccia incentivazione del tirocinio (anche di tipo curriculare), accanto a quella dell’apprendistato, hanno comunque dovuto porre in essere misure per la stabilizzazione dei rapporti di lavoro c.d. “precari”. Inoltre, l’attuazione dei tirocini finanziati a livello regionale si è anche talvolta caratterizzata per il suo spirito meramente assistenziale, cercando di limitarsi a garantire un’occasione d’inclusione (teorica) nel mercato del lavoro di soggetti svantaggiati.

A fronte di questa eterogenea galassia d’incentivi assunzionali, l’acuirsi della crisi occupazionale giovanile ha comportato un significativo aumento delle iniziative d’incentivazione dell’auto-imprenditorialità.
Infatti, le misure di autoimprenditorialità sono state ritenute una valida alternativa alla domanda di lavoro senza risposta. In particolare, i percorsi di autoimprenditorialità sono stati molto sostenuti dalle iniziative poste in essere dalle Regioni, le quali hanno previsto un gran numero di forme di sostegno all’autoimprenditorialità, principalmente caratterizzate dal massiccio ricorso al microcredito ed ai contributi a fondo perduto.
Tuttavia, le valutazioni ex post degli esiti di tali interventi hanno rilevato il rischio di incorrere nell’elevata mortalità delle nuove imprese finanziate, in assenza di adeguati percorsi di preparazione del capitale umano interessato dal percorso di autoimprenditorialità.

Infine, il quadro delle misure di sostegno all’occupazione giovanile risulta essere poco chiaro anche relativamente all’individuazione dei destinatari delle azioni in questione.
Tale scarsa chiarezza è anche dovuta dalla gravità della crisi economica che ha creato enormi difficoltà nell’entrare nel mercato del lavoro a conclusione dei percorsi di istruzione e/o formazione, al punto da ritardare siffatto ingresso per anni. Ne consegue che le misure di aiuto ai giovani si estendono ben oltre i 25 anni (lo standard internazionale), arrivando fino ai 35 anni (sovente in presenza di soggetti laureati), o, addirittura, in alcuni casi si prevedono interventi a favore di “giovani con età non superiore ai 40 anni”.
Tale difficoltà nell’individuare i giovani destinatari delle misure si è riverberato anche nella Garanzia Giovani, la quale dovrebbe essere dedicata ai giovani età compresa tra i 15 ed i 24 anni di età, ma l’Italia sta cercando di estendere il limite massimo a 29 anni, proprio a causa del ritardato ingresso nel mercato del lavoro da parte dei giovani interessati.
Ad ogni buon conto, la Garanzia Giovani, essendo declinata in un Programma Operativo Nazionale che vedrà le Regioni svolgere il ruolo di Organismi Intermedi, potrebbe essere una buona occasione per eliminare le frammentarietà provocate dalle varie misure di sostegno nazionali e regionali, riducendole nell’ambito in un quadro unitario, al cui interno troveranno allocazione le risorse comunitarie allocate.

Germano De Sanctis

Politica e questione morale.

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La questione morale è divenuta oggi la questione nazionale più importante. È impensabile, infatti, governare il Paese e risolvere i problemi che lo assillano se non si ristabilisce un saldo rapporto di fiducia tra i cittadini e lo Stato.

Attuale come non mai, vero?
A parlare, invece, è Enrico ‪Berlinguer‬ in un Comunicato della Direzione del P.C.I. del 27 novembre 1980.
È evidente che la questione morale è un problema storico della politica di questo Paese.

2014. Fuga dall’Italia.

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Secondo il 19° rapporto della Fondazione ISMU – Istituto per lo Studio della Multietnicità, nel 2012 sono stati circa 68.000 gli italiani che si sono trasferiti all’estero, ossia 18.000 in più del 2011. Le cause? Mancanza di lavoro e sistema sanitario insufficiente. Non è che sia una sorpresa, ma la realtà in cifre preoccupa, è inutile negarlo.
La prima causa è senza dubbio quella del mercato del lavoro bloccato, che non lascia possibilità ai giovani e ai disoccupati e inoccupati. Per questa ragione, in particolare, gli italiani emigrano e vanno a vivere in altri Paesi.
Il diciannovesimo rapporto sulle migrazioni presentato a Milano dall’ISMU lo scorso 13 dicembre riporta le cifre relative al 2012, ma non ci stupiremmo se il trend nel 2013 fosse ulteriormente peggiorato. Tant’è che l’Istituto prevede che entro il 2050 dal sud Italia se ne saranno andati 4 milioni di persone. Sembra quasi che tutti vogliano scappare dall’Italia. (Sembra?) Sembra anzi di essere tornati indietro di un secolo. Nel 1913 un italiano ogni 40 partiva in cerca di fortuna altrove. Il problema della disoccupazione, tuttavia, non è solo dei cittadini italiani ma anche di quelli stranieri: cala, infatti, anche il numero dei permessi di lavoro: 67 mila contro i 350 mila nel 2010.
Per gli stranieri, poi, al problema del lavoro si aggiunge anche quello della salute: uno su dieci non si rivolge al Sistema Sanitario Nazionale per motivi economici. Un problema che sta divenendo comune anche a noi cittadini, peraltro. A ciò si aggiunge, inoltre, la condizione degli irregolari (circa il 6 per cento del totale degli stranieri in Italia) che preferiscono non avere rapporti con le istituzioni per paura di essere denunciati.
Le cifre che riassunte fin qui sono disponibili sul sito dell’ISMU:
http://www.ismu.org/

Michele De Sanctis

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Che cos’è il Documento di Valutazione dei Rischi?

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L’aumento degli infortuni sul lavoro ha fatto emergere l’esigenza di predisporre misure di sicurezza via via maggiori in ordine alla tutela della salute nei luoghi di lavoro.
Il testo unico per la salute e sicurezza nei luoghi di lavoro (D.Lgs. 81/08 e ss.mm.ii.) ha previsto alcune provvedimenti finalizzati alla tutela della salute dei lavoratori, come per esempio i corsi di formazione per i lavoratori (Accordo Stato – Regioni), il Documento di Valutazione dei Rischi (DVR), la sorveglianza sanitaria ect ect.

In particolare, il DVR rappresenta il punto di partenza nella gestione della sicurezza di ogni azienda (privata e pubblica). In esso il datore di lavoro deve procedere all’individuazione di tutti i fattori di rischio esistenti in azienda e delle loro reciproche interazioni, nonché alla valutazione della loro entità. Egli deve inoltre individuare le misure di prevenzione e pianificarne l’attuazione, il miglioramento ed il controllo al fine di verificarne l’efficacia e l’efficienza.
La valutazione è effettuata in collaborazione con il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (RSPP) e con il Medico Competente (nei casi in cui è obbligatoria la sorveglianza sanitaria), previa consultazione del Rappresentante per la Sicurezza dei Lavoratori (RLS).
Al termine della valutazione viene redatto un apposito documento, che verrà poi conservato presso l’azienda, e che costituisce il punto di riferimento per tutti i soggetti che intervengono nelle attività rivolte alla sicurezza in azienda.
Il Documento di Valutazione dei Rischi è elemento fondamentale per garantire la sicurezza all’interno dei luoghi di lavoro e per la tutela della salute dei lavoratori.
Per redigere il DVR bisogna preventivamente effettuare una valutazione dei rischi: a questa si procede con l’analisi dei luoghi in cui si svolge l’attività dell’azienda ed effettuando osservazioni, analisi e misurazioni per individuare i pericoli presenti e per determinare l’entità con cui incidono sulla sicurezza e sulla salute dei lavoratori. Il DVR è, quindi, quella relazione scritta circa l’attività di valutazione, arricchita da un piano di miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza.
Ma il Documento Valutazione Rischi non individua solamente la rappresentazione dello stato dell’azienda dal punto di vista della sicurezza: è, infatti, anche una guida che indica a tutti gli operatori preposti alla sicurezza all’interno dell’azienda gli interventi da attuare per raggiungere un miglioramento significativo.
In carenza della valutazione dei rischi e dell’adozione del documento in collaborazione con l’RSPP e il MC, il datore di lavoro è sanzionato con l’arresto da 3 a 6 mesi o ammenda da € 2.500 a € 6.400. Tuttavia, la sostituzione dell’arresto con la sanzione pecuniaria non è consentita qualora la violazione abbia avuto un contributo causale nel verificarsi di un infortunio da cui sia derivata la morte o una lesione con prognosi superiore ai 40 giorni.

Redazione BlogNomos