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MOLESTIE SU FACEBOOK: PER LA CASSAZIONE IL SOCIAL NETWORK VA CONSIDERATO ‘LUOGO APERTO AL PUBBLICO’.

di Michele De Sanctis

La Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione con Sentenza n. 37596 ha affermato che, ai fini della configurabilità del reato di molestie o disturbo alle persone, di cui all’art. 660 c.p., la piattaforma sociale Facebook va considerata alla stregua di un luogo aperto al pubblico, in quanto luogo ‘virtuale’ aperto all’accesso di chiunque utilizzi la rete.

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Pertanto, l’invio di messaggi molesti mediante l’uso di Facebook integra la fattispecie descritta dall’art. 660 c.p., che sanziona «chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo». Il contravventore è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda fino a euro 516.

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Nel caso di specie, vittima del reato in parola era una donna, all’epoca dei fatti, nel 2008, caporedattore di una testata locale toscana, che aveva ricevuto ripetuti e continui apprezzamenti volgari e a sfondo sessuale sia presso gli uffici del quotidiano per cui lavorava, che sul proprio account Facebook. Sul social, il molestatore aveva, peraltro, celato la propria identità con un falso profilo.

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In un primo momento il Tribunale di Livorno aveva assolto l’imputato con la formula “il fatto non sussiste” quanto ai fatti commessi presso gli uffici del giornale, escludendo che una redazione fosse luogo pubblico, e con la formula “il fatto non è previsto dalla legge come reato” quanto ai fatti «commessi utilizzando l’indirizzo di posta elettronica». Tuttavia, la Corte di Appello di Firenze, riformando la decisione di primo grado, rilevava come la redazione di un quotidiano fosse paragonabile a un luogo aperto al pubblico, in quanto frequentato dai dipendenti del giornale stesso oltreché da eventuali soggetti estranei che ivi portano notizie o chiedono la pubblicazione di annunci. Quanto poi alla condotta realizzata mediante i messaggi inviati sotto pseudonimo tramite la chat di Facebook al profilo della vittima, il Giudice di II grado, ritenendo che tale comportamento integrasse il reato di cui all’art. 660 c.p., evidenziava come il profilo della vittima sul social network costituisse una community aperta «evidentemente accessibile a chiunque».

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L’imputato, a questo punto, ricorreva in Cassazione per chiedere l’annullamento della sentenza di secondo grado per violazione dell’art. 660 c.p., con riguardo alla nozione di luogo aperto al pubblico accolta in sede di gravame. In particolare, quanto alla condotta posta in essere su Facebook, rilevava l’imputato che l’invio dei messaggi era avvenuto tramite la chat privata del social network e non sul diario e che ciò escludesse l’analogia con altri luoghi aperti al pubblico. In verità, l’invio dei messaggi tramite la chat di Facebook lascerebbe, piuttosto, propendere per l’assimilabilità della comunicazione telematica alla comunicazione telefonica (l’altra modalità di realizzazione delle molestie di cui all’art 660 c.p.), ma resterebbero dei profili da chiarire per quanto concerne i principi di tassatività e legalità. Tuttavia, poiché il gravame aveva liquidato il caso come molestia in luogo aperto al pubblico, secondo gli Ermellini il ricorso non risulta manifestamente infondato, per difetto della sentenza di II grado nella sua base fattuale, laddove si fa riferimento all’invio di messaggi su un profilo evidentemente accessibile a tutti, trascurando, invece, la fattispecie concreta dell’invio tramite chat privata.

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A prescindere dalle risultanze del caso di specie, ciò che più rileva e che merita di essere commentato, ancorché non si tratti di una decisione delle Sezioni Unite, è tuttavia l’estensione da parte dei Giudici della I Sez. della Cassazione del concetto di luogo aperto al pubblico in riferimento al social network. Infatti, la Corte, ritiene «innegabile che la piattaforma sociale Facebook (disponibile in oltre 70 lingue, che già nel 2008 contava più di 100 milioni di utenti) rappresenti una sorta di piazza immateriale che consente un numero indeterminato di accessi e visioni, rese possibili da una evoluzione scientifica che il Legislatore non era arrivato ad immaginare. Ma che la lettera della legge non impedisce di escludere dalla nozione di luogo e che, a fronte della rivoluzione portata alle forme di aggregazione e alle tradizionali nozioni di comunità sociale, la sua ratio impone, anzi, di considerare».

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In definitiva, la molestia sul diario di Facebook integra la contravvenzione di cui all’art. 660 c.p. (lo stesso potrebbe, forse, dirsi anche per l’invio di messaggi molesti via Facebook, se fosse possibile assimilarli alla molestia telefonica). E quindi, nel caso di specie, il giudice di rinvio avrebbe dovuto riformare il proprio giudizio, non censurando la molestia nella chat di Facebook come se fosse stata fatta in luogo pubblico, perché è solo la bacheca ad essere assimilata a un’agorà, non anche la mailbox. Avrebbe, perché la sentenza di appello per il caso finora illustrato è stata cassata, ma senza rinvio per intervenuta prescrizione del reato contravvenzionale contestato.

Cassazione Penale, Sez. I, 12 settembre 2014 (ud. 11 luglio 2014), n. 37596 Presidente Chieffi, Relatore Di Tommasi

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Lavorare 2.0: il recruitment passa per Facebook.

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Ragazzi, attenti! Le stime più recenti sul rapporto tra aziende e social network vedono un notevole incremento dell’uso che ne viene fatto in occasione della selezione di nuovo personale. Dal 17% del 2008 si è, infatti, passati al 40% delle aziende che “spiano” i loro candidati. E viene valutato tutto, errori (anzi, orrori) ortografici compresi. Inoltre, il 65% delle imprese che ricorre ai social giudica con più favore i candidati che abbiano avuto esperienze di volontariato.
In un momento in cui il mercato del lavoro ristagna, questa prassi può risultare antipatica. Personalmente, la ritengo odiosa a prescindere. Ma se il mercato è questo, occorre equipaggiarsi.
Cosa fare allora?
Riconsiderare la propria immagine sul web innanzitutto. È inevitabile!
Saprete sicuramente che a quanto raccontate di voi o alle foto che pubblicate in rete non è offerta una tutela al 100% da occhi indiscreti: basti pensare alla timeline di Facebook, detta anche copertina, che non può essere limitata ai soli amici. Tuttavia bisognerebbe soffermarsi un po’ anche sul fatto che queste informazioni sono accessibili a persone che intendono “studiarvi” per motivi professionali e non solo a semplici curiosi, stalker, maniaci ed ex compagni di classe indiscreti.
L’immagine che terrete a dare a chi può potenzialmente offrirvi un lavoro è sicuramente diversa da quella che utilizzate per interfacciarvi con i vostri amici. Per esempio, andreste mai ad un colloquio di lavoro coi rasta o con i capelli verde fluo, magari mentre siete in preda alla migliore sbornia della vostra vita, indossando una comoda tuta o un succinto completino da spiaggia? Io non credo, se a quel lavoro ci tenete davvero. Per chi non dovesse capirmi, consiglio la lettura di Trainspotting: il pezzo dedicato al colloquio di lavoro è uno dei migliori che Irvine Welsh abbia mai scritto.

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Tornando a noi, se tenere distinte le due sfere sociali non sempre è possibile visto che, come già detto, le informazioni che si seminano in rete sul proprio conto sono in qualche modo sempre raggiungibili, si dovrebbe allora reinterpretare questa tendenza delle aziende come un cambiamento della società rispetto agli inevitabili canali che il web ha aperto e messo a disposizione e giocare questa carta a proprio favore. Se già sapete che chi dovrà giudicarvi probabilmente farà qualche ricerca in più sul vostro conto, sfruttate i social a vostro vantaggio. Prima di tutto proteggete, per quanto possibile, i vostri profili sui social network controllando sempre le impostazioni della privacy. Il Grande Fratello di Orwell esiste veramente e non è una trasmissione televisiva. Ma se vivete con Instagram e Facebook sempre a portata di mano e se proprio non potete evitare di far sapere al mondo quanto ve la siate spassata sabato scorso, create un profilo ufficiale e dignitoso, con il vostro nome, cognome e una bella foto della vostra laurea o del matrimonio di una cugina di secondo grado e inventate un alter ego per il vostro tempo libero. So che Facebook impone di usare il proprio nome, ma sono in molti a non farlo. Io, ad esempio: non provate a cercarmi, perché non mi troverete mai. Anzi, no, non provateci nemmeno. Questo post non lo firmo, visto il tema affrontato. Per mia fortuna FB si usava poco, anzi in Italia nemmeno esisteva, credo, quando dieci anni fa ho iniziato a cercare lavoro, ma non si sa mai di questi tempi e se dovesse servirmi, darò vita al più noioso account che si possa immaginare!
Infine, qualche ultimo consiglio…
Oltre ai social si usa sempre più il cosiddetto curriculum vitae 2.0.: mi riferisco soprattutto a Linkedin, stavolta. Ebbene, nel redigere il vostro CV assecondate sempre i desideri di chi vi sta valutando, soprattutto quello di capire qualcosa in più su chi siete davvero (cioè su chi vorrebbero che voi foste, visto che si parla di recruiting) e su come vi rapportate con gli altri, visto che è uno degli aspetti di voi che un datore di lavoro vorrebbe sapere sempre prima di farvi firmare un contratto, specie se il lavoro offerto prevede un’attività di team.
A questo punto fatevi furbi e buttatevi nella giungla. E ricordate, guai a lasciar trapelare sul lavoro anche una sola mezza notizia sul vostro conto. Anche dopo l’assunzione. Anche coi colleghi (anzi, soprattutto).
Per adesso è tutto: non resta che augurarvi in bocca al lupo! E crepi…!

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