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P.A.: SCATTA IL 6 GIUGNO L’OBBLIGO DI FATTURAZIONE ELETTRONICA.

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Il prossimo 6 giugno partirà l’obbligo per i fornitori della PA di fatturare le cessioni di beni e le prestazioni di servizio realizzate nei confronti di ministeri, agenzie fiscali ed enti
di previdenza soltanto con modalità elettroniche. In questa prima fase l’obbligo sarà valido per le sole Amministrazioni centrali, ma sarà esteso a tutti gli Uffici periferici entro il 31 marzo 2015, data in cui nei rapporti con tutte le altre PA le fatture emesse o trasmesse in forma cartacea non potranno più essere né accettate né pagate. Il termine originariamente stabilito era quello del 6/6/2015, ma è stato anticipato al 31 marzo 2015 dal recente Decreto Legge 24 aprile 2014, n. 66 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale 24 aprile 2014, n. 95 (cd. Decreto Renzi).

Il processo, porterà ad un risparmio complessivo di circa 60 milioni di euro coinvolgendo, a regime, 21.200 Uffici, oltre a tutti i soggetti in relazione con essi.

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Il vantaggio principale sarà che l‘Ente Pubblico avrà l’obbligo di assolvere al pagamento nei tempi previsti; altrettanto importante è il fatto che il fornitore avrà la certezza che il proprio documento sia stato recapitato all’ufficio di destinazione in tempi e modalità certe. Ne consegue che sia le aziende private, come i fornitori, che le PA dovranno obbligatoriamente attivare un processo di archiviazione e Conservazione Elettronica delle fatture. Gestire un archivio elettronico significa diminuire i tempi di ricerca, eliminare le duplicazioni dei documenti, ridurre i costi di stampa e consumo di carta e degli spazi dedicati all’archiviazione. Insomma, questo percorso di digitalizzazione che la PA ha iniziato produrrà un effetto benefico anche sulle aziende private. L’obbligo sarà un’opportunità concreta per innovare ed economizzare la gestione di tutti i documenti, non solo delle fatture.

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L’obbligo di fatturazione in forma elettronica risale alla Finanziaria 2008 (art. 1 commi dal 209 al 214 L. 244/2007) e prevede che la trasmissione delle fatture elettroniche destinate alle Amministrazioni dello Stato sia effettuata attraverso il Sistema di Interscambio (SDL), sistema informatico di supporto al processo di “ricezione e successivo inoltro delle fatture elettroniche alle Amministrazioni destinatarie” nonché alla “gestione dei dati in forma aggregata e dei flussi informativi anche ai fini della loro integrazione nei sistemi di monitoraggio della finanza pubblica”. Le modalita` di funzionamento dello SDL sono state definite con il decreto ministeriale 3 aprile 2013, n. 55.

Gli utenti coinvolti nel processo di fatturazione elettronica sono:
– gli operatori economici, cioè i fornitori di beni e servizi verso le PA, obbligati alla compilazione/trasmissione delle fatture elettroniche e all’archiviazione sostitutiva prevista dalla legge. Va precisato che le fatture emesse dagli intermediari per la trasmissione delle dichiarazioni dei redditi e per la riscossione mediante modello F24 sono, al momento, derogate dagli obblighi;
– le Pubbliche Amministrazioni, che devono effettuare una serie di operazioni collegate alla ricezione della fattura elettronica;
– gli intermediari (banche, Poste, altri intermediari finanziari, intermediari di filiera, commercialisti, imprese ICT), vale a dire quei soggetti terzi ai quali gli operatori economici possono rivolgersi per la compilazione/trasmissione della fattura elettronica e per l`archiviazione sostitutiva prevista dalla legge. Possono servirsi degli intermediari anche le PA per la ricezione del flusso elettronico dei dati e per l’archiviazione sostitutiva.

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Le prime indicazioni operative sono state fornite dal Dipartimento delle Finanze con Circolare 1/2014, oltreché indicato una stretta tempistica per l’inserimento nell’IPA delle anagrafiche degli uffici adibiti alla ricezione delle fatture elettroniche. Infatti, ad oggi il sito dell’Indice delle Pubbliche Amministrazioni (IPA) è già in grado di fornire l’elenco di tutti gli Enti che aderiscono al processo di Fattura Elettronica: testimonianza, questa, che le PA sono pronte ad accogliere questo nuovo documento.

La fattura elettronica consiste in un documento in formato XML, sottoscritto con firma elettronica qualificata o digitale, da inviare mediante il Sistema di interscambio. Una volta predisposta dal fornitore, la fattura va inviata allo SDI il quale assegna un identificativo ed effettua una serie di controlli propedeutici all’inoltro del documento. Tuttavia, come già accennato, per poter ricevere la fattura elettronica attraverso lo SDI, le PA sono prima tenute ad inserire all’interno dell’Indice delle Pubbliche Amministrazioni (IPA) l’anagrafica degli Uffici (centrali o periferici) destinatari delle stesse. Tali uffici saranno identificati con un Codice Univoco da comunicare ai fornitori i quali dovranno indicarlo in fattura.

La fattura elettronica riporterà i dati e le informazioni contenute nell’allegato A al D.M. 55/2013; in particolare, sarà d’obbligo riportare le informazioni fiscali e quelle per la trasmissione attraverso il sistema di interscambio. Nell’ambito dell’art. 25 del recente D.L. 66/2014, viene stabilito, inoltre, che le fatture elettroniche emesse nei confronti delle PA, devono indicare, tra gli altri elementi previsti:
– il Codice identificativo di gara (CIG), salvo gli specifici casi di esclusione della tracciabilità ex L. n. 136/2010;
– il Codice Unico di Progetto (CUP) per le fatture riferite a opere pubbliche, manutenzioni straordinarie, interventi finanziari da contributi comunitari nonché se previsto ai sensi dell’art. 11, L. n. 3/2003. In carenza di detti codici, la PA non può effettuare il pagamento della fattura.

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La trasmissione delle fatture allo SDI e da questo alle PA destinatarie avverà attraverso l’utilizzo di uno dei seguenti canali:
– PEC o analogo sistema di posta elettronica basato su tecnologie che certifichino data e ora dell’invio e della ricezione delle comunicazioni, nonché l’integrità del contenuto delle stesse;
– SDICoop un sistema di cooperazione applicativa esposto su rete internet fruibile attraverso protocollo HTTPS per i soggetti non attestati su rete SPC (Sistema Pubblico di Connettività);
– SPCoop un sistema di cooperazione applicativa tramite porte di dominio attestate su rete SPC (Sistema Pubblico di Connettività);
– SDIFTP un sistema di trasmissione dati tra terminali remoti basato su protocollo FTP all’interno di circuiti chiusi che identificano in modo certo i partecipanti e assicurano la sicurezza del canale;
– Internet un sistema di trasmissione telematica esposto su rete internet fruibile attraverso protocollo HTTPS per i soggetti accreditati (sito http://www.fatturapa.gov.it per i soggetti abilitati a Entratel, Fisconline o Carta nazionale dei servizi).

Si precisa che il divieto di accettare le tradizionali fatture, in realtà, non sarà immediatamente operativo; l’art. 6 del D.M. 55/2013 prevede, infatti, che le PA fino a tre mesi dalla data di decorrenza dell’obbligo potranno ancora accettare e pagare le fatture emesse in forma cartacea. Per i fornitori, invece, sarà già valido il divieto di emettere fattura cartacea.

Da ultimo, corre l’obbligo di ricordare che restano salve tutte le disposizioni in merito ai termini di pagamento delle fatture; in particolare, il D.Lgs 231/2002 fissa in 30 giorni il termine ordinario per il pagamento delle fatture, con decorrenza dalla data di ricevimento della fattura, trascorsi i quali sono dovuti al creditore gli interessi moratori sull’importo dovuto senza che sia necessaria la costituzione in mora.

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Continua, quindi, il cammino delle riforme della PA. L’Italia riparte e cambiano le abitudini, soprattutto in ambito lavorativo. La percezione di efficienza data dall’abitudine nello svolgere le azioni quotidiane sarà, forse, un freno nei primi tempi, che impedirà ai soggetti coinvolti di valutare positivamente l’introduzione di questi nuovi sistemi organizzativi, che il cambiamento richiede. Ma oggi l’informatica offre la possibilità di valutare la gestione dei documenti aziendali in modo più agile, introducendo anche sistemi di archiviazione elettronica graduale. La gestione delle fatture elettroniche permetterà, perciò, di capire ‘sul campo’ in che modo il lavoro quotidiano possa cambiare. Eliminare la stampa quando non serve, oltreché annullare la duplicazione dei documenti ed archiviarli elettronicamente: queste saranno presto azioni possibili, attivando semplici strumenti e a costi inferiori di quelli finora sostenuti per gestire un archivio cartaceo. Il Governo sembra davvero avere intenzione di snellire e svecchiare una volta per tutte l’Amministrazione Pubblica. E, intanto, si avvicina l’altro appuntamento promesso con le riforme in questo campo. Il 13 giugno ci sarà la tanto attesa ‘rivoluzione’ della PA? Noi ve ne daremo notizia. Voi continuate a seguirci, anche su FACEBOOK E TWITTER.

MDS
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Il 40,1% delle Pubbliche Amministrazioni utilizza software open source

 

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di Germano De Sanctis

Recentemente, l’ISTAT ha pubblicato i risultati del censimento delle istituzioni pubbliche italiane, secondo il quale il 40,1% delle Pubbliche Amministrazioni utilizza software open source.
Inoltre, si è riscontrato che il 96,4% delle Pubbliche Amministrazioni ha un accesso ad internet, in quanto, a fronte di un campione di rilevamento di ben 12.146 istituzioni pubbliche, soltanto il 11.715 dispongono di un proprio sito web, presso il quale i cittadini possono accedere ad informazioni su orari degli uffici, come richiedere alcune documentazioni etc.. Inoltre, soltanto il 57,5% delle istituzioni pubbliche è dotato di una propria rete Intranet.
Sempre stando all’ISTAT, i dipendenti degli enti locali (Regioni, Province, Comuni, etc.), utilizzano principalmente pc desktop (73%), mentre solo il 7% utilizza pc portatili. Il rimanente 20% dei dipendenti interessati dal censimento utilizza device mobili come smartphone e tablet.
Si evidenzia che i dati rilasciati dall’ISTAT riguardano un censimento effettuato nel corso dell’anno 2011. Pertanto, è molto probabile che la percentuale di istituzioni pubbliche che attualmente utilizza software open source sia superiore al poc’anzi indicato 40,1%.

Venendo all’esame più dettagliato dell’utilizzo del software open source presso le Pubbliche Amministrazioni italiane, risulta interessante riscontrare subito che all’interno della platea del 40,1% delle istituzioni censite e che hanno dichiarato di utilizzare software open source, vi sono tutte le Regioni e oltre il 90% delle Province e delle Università.
Inoltre, emerge che il territorio italiano più votato all’uso del software libero è la Provincia Autonoma di Bolzano, dove l’86,2% dei Comuni utilizza software liberi.
Invece, le Regioni presso le quali si registra un basso ricorso all’open source sono il Molise (30,9%), l’Abruzzo (25,9%o) ed il Piemonte (23,7%).
A seguito dell’esame dell’utilizzo del software open source presso i Comuni, l’ISTAT ha riscontrato che la sua percentuale di utilizzo si è attestata al 40,7%. Inoltre, tale utilizzo risulta crescente all’aumentare dell’ampiezza demografica, passando dal 25,9% cento per i Comuni fino a 5.000 abitanti al 79,8%o per quelli oltre 100.000 abitanti. I più virtuosi sono risultati essere (come già detto) i Comuni della Provincia Autonoma di Bolzano (86,2%), seguiti da quelli della Toscana (67,9%) e dell’Emilia Romagna (61,4%).

 

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Il censimento dell’ISTAT è l’occasione per soffermarci sul fatto che la scelta operativa dalle Pubbliche Amministrazioni di utilizzare software open source deriva da un preciso fondamento normativo, spesso disatteso, se non, addirittura, ignorato.

Infatti, il rapporto tra software libero (meglio noto come open source) e Pubblica Amministrazione italiana è sempre stato problematico. Tuttavia, in data 12 agosto 2012, è entrata in vigore una modifica dell’articolo 68 del Decreto Legislativo 7 marzo 2005, nr. 82, meglio noto come Codice dell’Amministrazione Digitale, che ha mutato il quadro di riferimento.
Tale novella legislativa ha suscitato molti entusiasmi nell’immediatezza della sua approvazione, per, poi, generare grandi delusioni per la sua difficoltosa attuazione pratica.
Infatti, in virtù della norma citata, le Pubbliche Amministrazioni devono, di regola, acquisire software libero, mentre l’acquisto di software proprietario con licenza d’uso è stato circoscritto a casi eccezionali, ammissibili soltanto in particolari circostanze.
Dunque, come dicevamo, il 12 agosto 2012, si è avuta una riscrittura dell’articolo 68 del Decreto Legislativo 7 marzo 2005, nr. 82 (c.d. “Codice dell’Amministrazione digitale”), ad opera della Legge 7 agosto 2012, n. 134. Con tale riforma, è stata anche istituita l’Agenzia per l’Italia Digitale, in sostituzione di DigitPa.
Il nuovo articolo 68 del Decreto Legislativo 7 marzo 2005, nr. 82 prevede solo tre possibili modalità di acquisizione del software:

  1. software sviluppato per conto della Pubblica Amministrazione;
  2. riutilizzo di software o parti di esso sviluppati per conto della Pubblica Amministrazione;
  3. software libero o a codice sorgente aperto, oltre alla combinazione fra queste soluzioni.

In altri termini, il software proprietario non è compreso nel range delle possibili scelte, se non, come si evince leggendo nella prosecuzione della norma in questione, come extrema ratio.
Di conseguenza, è consentita l’acquisizione di programmi informatici di tipo proprietario mediante ricorso a licenza d’uso soltanto quando la valutazione comparativa di tipo tecnico ed economico dimostri l’impossibilità di accedere a soluzioni open source o già sviluppate all’interno della Pubblica Amministrazione ad un prezzo inferiore. Pertanto, il dettato normativo è talmente chiaro che la Pubblica Amministrazione può ricorrere al software proprietario solo quando sussista “l’impossibilità” di ricorrere al software libero od a programmi commissionati ad hoc.
Si tratta di una enorme novità. Se, da un lato, è possibile il verificarsi di casi in cui una Pubblica Amministrazione necessiti di applicazioni legate a specifiche attività istituzionali che non sono disponibili sotto forma di free software, e di cui non è economicamente conveniente commissionare la realizzazione, d’altro canto, è sicuramente certo che, relativamente ad altre esigenze, come, in primo luogo, i sistemi operativi e le suite da ufficio, sia assolutamente da escludere una evidente impossibilità di ricorrere all’open source. Infatti, sostenere che è “impossibile”, sia da un punto di vista tecnico, che economico, adoperare sistemi operativi open source come Ubuntu (o Linux Mint, o Fedora, o Open Suse etc.) al posto di Windows (o di Apple OSX), appare decisamente difficile. Analogo discorso vale per le suite da ufficio, dove LibreOffice (o Apache OpenOffice) possono tranquillamente sostituire Microsoft Office (come, d’altronde, è già avvenuto in molte Amministrazioni Pubbliche).

Ovviamente, una norma di tale portata ha scatenato nelle varie Pubbliche Amministrazioni reazioni diverse, in relazione alla eventuale presenza (sovente aleatoria) nelle dotazioni organiche di impiegati competenti nell’area del software open source, ovvero in stretta connessione alla necessità di aggiornare software obsoleto, o di rinnovare le licenze proprietarie scadute.
Infatti, la casistica disponibile ha dimostrato che la presenza di tecnici abituati a interfacciare le comunità del software libero ha permesso di garantire una decisa attuazione della citata disposizione di legge in questione. Al contempo, anche la necessità di aggiornare le licenze del software proprietario in scadenza ha trasformato in opportunità una migrazione attesa da tempo, a favore dei magri bilanci delle Amministrazioni Pubbliche italiane condizionati dalle forti ristrettezze economiche e dalle nuove regole di spending review.

 

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In attuazione di quanto previsto dall’articolo 68 del D.Lgs. n. 82/2005, l’Agenzia per l’Italia Digitale ha emanato la Circolare 6 dicembre 2013 n. 63 , avente ad oggetto le Linee Guida per la valutazione comparativa prevista dal citato art. 68 del Codice dell’Amministrazione digitale. In particolare, La Circolare in questione illustra, attraverso l’esposizione di un percorso metodologico e di una serie di esempi, le modalità e i criteri per l’effettuazione della valutazione comparativa delle soluzioni prevista dall’articolo 68 del D.Lgs. n. 82/2005. Tali Linee Guida sono indirizzate alle Pubbliche Amministrazioni elencate nell’art. 2, comma 2 del D.Lgs. n. 82/2005, che devono acquisire prodotti e soluzioni software da utilizzare nell’ambito dei propri compiti istituzionali. Alcuni dei contenuti delle Linee Guida sono peraltro d’interesse anche per gli operatori del mercato ICT.

Orbene, la Circolare n. 63/2013, pur sancendo l’obbligo di preferire il software libero e ed il riuso, ha lasciato delle ombre sulla corretta applicazione dell’articolo 68 D.Lgs. n. 82/2005.
Venendo all’esame specifico del contenuto della Circolare in questione, si rileva che essa è partita dall’assunto già contenuto nell’art. 68 D.Lgs. n. 82/2005, secondo il quale le Pubbliche Amministrazioni che devono procedere ad acquisire i software necessari allo svolgimento della propria attività, hanno l’obbligo di procedere ad una valutazione comparativa di tipo tecnico ed economico tra le differenti soluzioni disponibili (software sviluppato per conto della PA, riuso, software libero, cloud computing, software proprietario), da svolgersi secondo modalità e criteri definiti dall’Agenzia per l’Italia Digitale.
Tuttavia, siffatta valutazione comparativa è apparsa priva di un un vero e proprio criterio di preferenzialità, in quanto il legislatore ha disposto che, ove dalla valutazione comparativa di tipo tecnico ed economico risulti motivatamente l’impossibilità di accedere a soluzioni già disponibili all’interno della pubblica amministrazione, o a software liberi o a codici sorgente aperto, adeguati alle esigenze da soddisfare, è consentita l’acquisizione di programmi informatici di tipo proprietario mediante ricorso a licenza d’uso.
In sede di redazione della Circolare n. 63/2013, ci si è divisi sull’interpretazione da fornire a questa norma (che, come detto in precedenza, è apparentemente chiara). Infatti, i diversi operatori seduti al tavolo tecnico costituito presso Agenzia per l’Italia Digitale si sono divisi: da un lato coloro che ritenevano l’assenza nel testo dell’art. 68 D.Lgs. n. 82/2005 di una specifica preferenza tra le diverse soluzioni, dall’altro coloro che rilevavano una inequivocabile preferenza del legislatore a favore delle soluzioni di riuso e di software libero o a sorgente aperto.
Alla fine del confronto, la Circolare n. 63/2013 ha dato ragione a questi ultimi, definendo i criteri che ciascuna Pubblica Amministrazione deve seguire per l’acquisizione di prodotti e soluzioni software da utilizzare per l’assolvimento dei propri compiti istituzionali.
Infatti, la Circolare n. 63/2013 ha chiarito definitivamente che le Amministrazioni Pubbliche che devono procedere all’approvvigionamento di software hanno l’obbligo di:

  1. definire le proprie esigenze, identificando i requisiti (funzionali e non) dei programmi da acquisire;
  2. ricercare le soluzioni disponibili;
  3. confrontare le soluzioni “eleggibili”.

Nell’ambito di tale processo, è richiesto alle Pubbliche Amministrazioni di redigere una griglia di valutazione sulla base dei criteri di valutazione definiti dal legislatore. Tali criteri sono i seguenti:

  1. il costo complessivo;
  2. il livello di utilizzo di formati di dati aperti, con particolare riferimento al livello di utilizzo delle interfacce e degli standard per l’interoperabilità e per la cooperazione applicativa;
  3. le garanzie del fornitore in materia di livelli di sicurezza;
  4. la conformità del fornitore alla normativa in materia di protezione dei dati personali;
  5. i livelli di servizio offerti dal fornitore.

Solo dopo aver assegnato, alle diverse soluzioni confrontate, un punteggio su ciascuno dei criteri di valutazione, l’Amministrazione Pubblica procedente può procedere a determinare il risultato complessivo della valutazione.
Inoltre, al punto 3.3.9 della Circolare n. 63/2013, è previsto che, nel caso in cui all’esito della valutazione comparativa, la soglia minima di accettabilità venga superata da più soluzioni alternative, di cui una o più nelle categorie “software libero o a sorgente aperto” e/o “software in riuso“, queste ultime dovranno essere preferite a soluzioni proprietarie, salvo che l’Amministrazione non ne motivi l’impossibilità.

Tuttavia, a fronte di queste chiare indicazioni a favore del software open source, la Circolare n. 63/2013 si distingue anche per essere un documento molto pesante e farraginoso, il cui rispetto risulta essere particolarmente oneroso, specialmente per gli Enti Pubblici di piccole dimensioni.
Per di più, bisogna sottolineare il rischio di un potenziale contenzioso che può facilmente essere generato da una scorretta od incompleta valutazione comparativa, la quale, così come è stata descritta dalla Circolare in questione, riserva margini ancora troppo ampi di discrezionalità. In altri termini, sussiste un elevato rischio generato dalla possibilità di poter facilmente impugnare la scelta operata dalla Pubblica Amministrazione procedente, chiedendone la declaratoria di illegittimità e, quindi, del successivo affidamento, con relativo contenzioso dinanzi al TAR e conseguente responsabilità dirigenziale.
Per fortunatamente, in presenza di dubbi interpretativi, le Pubbliche Amministrazioni procedenti possono chiedere all’Agenzia per l’Italia Digitale di esprimere un parere (seppur non vincolante) sul rispetto delle norme in materia di valutazione comparativa.
In definitiva, l’analisi comparativa delle possibili soluzioni che una Pubblica Amministrazione deve effettuare prima di acquisire programmi informatici non può prescindere dalla preventiva conoscenza, da parte delle stessa Pubblica Amministrazione, delle diverse tipologie di licenza d’uso presenti sul mercato. Inoltre, la Circolare n. 62/2013 si sottolinea che, in ogni caso, la scelta del percorso metodologico da intraprendere per l’acquisizione di programmi informatici nelle PA dovrà essere basata sulla valutazione della complessità organizzativa della Pubblica Amministrazione interessata, sulle sue competenze informatiche e sulla rilevanza strategica della specifica acquisizione di software.

In conclusione, l’analisi fin qui svolta dimostra che la Pubblica Amministrazione italiana è all’inizio di un lungo cammino che la deve portare all’effettivo e generalizzato utilizzo del software open source, non soltanto per rispettare precise indicazioni fornite dal legislatore nazionale, ma anche e specialmente per liberare importanti risorse finanziare da poter destinare ad altri servizi che, in questi tempi di ristrettezze dei bilanci delle Amministrazioni Pubbliche, rischiano seriamente di non essere garantiti in maniera adeguatamente efficace.

 

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