di Germano De Sanctis
Nei giorni scorsi, è scoppiato il caso Uber. Uber è una start-up con sede a San Francisco, che offre ai propri clienti una rete di trasporto realizzata attraverso una sua app per smartphone e tablet, la quale crea un collegamento tra passeggeri e autisti, offrendo un servizio navetta per raggiungere la destinazione prescelta. La società è presente in decine di città in tutto il mondo.
Entrando nello specifico, l’app permette di prenotare le auto a noleggio con conducente, mediante l’invio di un messaggio di testo, oppure utilizzando direttamente l’applicazione mobile poc’anzi descritta. Utilizzando l’applicazione, i clienti possono tenere traccia, in tempo reale, della posizione dell’auto prenotata.
Come è noto, l’utilizzo sempre più diffuso di questa app, ha scatenato le proteste dei tassisti milanesi, i quali hanno contestato il fatto che Uber violi le norme nazionali che disciplinano i servizi di trasporto pubblico erogati dai tassisti “tradizionali”, a seguito di rilascio di apposita licenza.
I tassisti milanesi sono in buona compagnia, in quanto molti altri loro colleghi di altre città del mondo hanno posto in essere fenomeni di protesta del tutto simili.
Tuttavia, al di la dei fatti di cronaca legati alla situazione dei tassisti milanesi e di altre città del mondo, resta da affrontare il tema del complesso tema dell’intreccio tra innovazione tecnologica, globalizzazione, regole della concorrenza e privilegi corporativi.
Uber, come molte altre innovazioni tecnologiche, è il prodotto (non la causa) di una innovazione senza permesso, in quanto, anche da un punto di vista della reddittività, ogni app del genere punta solo a raccogliere, a livello globale, utenti, consensi e, quindi, a coinvolgere il numero maggiore possibile di persone, senza preoccuparsi delle singole normative nazionali di settore. Anzi, essendo presente soltanto sul web ed operando su server lontani migliaia di chilometri, si assiste alla diffusione di operazioni commerciali connotate da una indefinibile extraterritorialità.
Nel caso di specie, i tassisti si scagliano contro l’app in questione e protestano, accusandola di concorrenza sleale, citando le leggi nazionali che tutelano la loro categoria. Tuttavia, la loro protesta contro Uber risulta essere sterile, in quanto l’origine del loro problema non è Uber, poiché siamo di fronte ad una conseguenza inaspettata ed incontrollabile dell’innovazione senza permesso.
Infatti, l’app, diventando un operatore nell’ambito del mercato di riferimento, deve confrontarsi con esso. In altri termini, un’app come Uber si pone come intermediaria e, di conseguenza, trattiene una percentuale per la sua attività di mediazione.
Prima dell’avvento di Internet, tale forma d’intermediazione era una pratica diffusa, ma in alcun modo equiparabile per portata a un servizio professionale. Infatti, si pubblicava un annuncio sul giornale, si veniva contattati e si noleggiava un’auto con un conducente. Uber ha trasformato la classica telefonata dall’autorimessa al collega (che, ad esempio, già stava andando, per avvisarlo dell’arrivo di un nuovo cliente) in un rapporto diretto fra utenti e autisti via smartphone. In tal modo, un gruppo di Ncc od un Ncc singolo può organizzarsi per ottimizzare la giornata lavorativa ed alternare la sua attività con quella delle chiamate dirette.
Pertanto, la vera domanda da porsi è se una simile innovazione tecnologica è un problema, oppure un’opportunità.
Per quanto concerne la categoria dei tassisti, i loro veri problemi esulano dal singolo caso Uber, in quanto costoro devono confrontarsi quotidianamente con il car sharing, con la diffusione delle aree pedonali, i costi di manutenzione, l’imposizione fiscale etc.. A confronto Uber, è un piccolo fastidio, poiché la sua platea è decisamente ridotta, rispetto a quanti regolarmente utilizzano i tradizionali taxi. Difatti, bisogna tenere a mente che, per usare Uber, bisogna avere uno smartphone ed una carta di credito ed essere, altresì, disposti a comunicare gli estremi della propria carta di credito alla società che gestisce l’applicazione in questione. Vista la diffusione in Italia delle connessioni internet mobili e delle commercio elettronico, appare evidente che stiamo parlando di un ridotto numero di persone sottratto ai tradizionali servizi taxi.
Invece, la domanda iniziale circa la natura di problema o di opportunità di Uber deve essere posta in riferimento all’intero mercato globale. In linea di principio, un’app come Uber non può essere considerata immediatamente un problema, in quanto con erode, in prima istanza, fette di mercato riservate ai servizi tradizionali, perché ne offre di nuovi ed alternativi.
Questa affermazione è sicuramente veritiera nel breve e medio periodo. Invece, nel lungo periodo, i confini tra i servizi tradizionali e quelli tecnologicamente innovativi si fanno sempre più labili, poiché i settori merceologici sono gli stessi (nel caso di Uber, ad esempio, è il trasporto pubblico). Nel corso del tempo, interviene l’assuefazione da parte degli utenti ai nuovi servizi, fino a rendere non più appetibili (probabilmente anche al di là dei costi reali) i servizi tradizionali.
Pertanto, un’app come Uber è un opportunità per tutti, anche per coloro che erogano servizi tradizionali nel medesimo settore merceologico, a condizione che esista una classe imprenditoriale capace di studiare un servizio “glocal” economicamente profittevole, in quanto basato sulle reali esigenze locali e non strutturato su una indifferenziata proposta contrattuale su base globale.
Ovviamente, necessita anche un quadro normativo adeguato ed al passo dei tempi. Invece, in Italia, la questione digitale è stata finora costantemente rimandata, senza rendersi conto, né dell’urgenza di tale problema, né delle opportunità di sviluppo imprenditoriale ed occupazionale insite nelle nuove tecnologie.
Un legislatore moderno non può ignorare l’esigenza di disciplinare strumenti per cui esiste già una domanda e li deve inquadrare tempestivamente da un punto di vista normativo, garantendone, al contempo, uno sviluppo regolamentato e rispettoso dei diritti di tutti gli attori di un determinato settore macroeconomico.
Per di più, un intervento legislativo porrebbe immediatamente rimedio all’annoso problema delle c.d. “web tax”, che si pone ogni qual volta una nuova piattaforma tecnologica inizia ad erogare servizi a pagamento sul territorio nazionale, pur risiedendo in un server e facendo capo ad una società stabilmente impiantati uno Stato estero.
Si tratta di decisioni da assumere con la massima urgenza, in quanto la nuova globalizzazione digitale ha generato un nuovo mercato mondiale, dove i consumatori non acquistano più beni materiali con monete reali, ma fanno esclusivamente ricorso a transazioni elettroniche per accedere a servizi vari, senza mai comprarli.
Si è arrivati a pagare soltanto per condividere oggetti, capacità, tempo e spazi. Si tratta della c.d. “sharing economy”, la quale si sta sempre più affermando rubando consistenti fette di mercato al capitalismo tradizionale.
Infatti, queste piattaforme di condivisione sono capaci di incidere sul “core bussines” dei monopoli commerciali più consolidati, erodendo il potere delle lobby che dominano i mercati, in quanto gli impianti normativi a tutela degli assetti commerciali tradizionali risultano inadeguati a regolamentare i nuovi flussi commerciali dettati dalle tecnologie emergenti.
Si ribadisce che non si è di fronte a fenomeni isolati ed episodici. Basti pensare che in un Paese tecnologicamente arretrato come l’Italia, nel solo anno 2013, sono sorte 136 piattaforme digitali di “sharing economy”, interessando il 13% della popolazione italiana. In altri termini, l’anno scorso, almeno, sette milioni italiani hanno utilizzato almeno una volta una piattaforma digitale, condividendo con degli sconosciuti servizi a pagamento (come ad esempio, l’automobile, la baby sitter, un posto letto etc.).
Probabilmente questa dirompente diffusione è stata anche favorita dal combinato disposto degli effetti della perdurante crisi economica e della crescente diffusione dell’utilizzo degli smartphone e dei social network.
Inoltre, l’assenza di una chiara regolamentazione rispettosa dei diritti dei consumatori e dei doveri dei nuovi imprenditori digitali può generare fenomeni eversivi anticoncorrenziali ed antoconsumieristici, come già avvenuto in altri Paesi esteri, ove questo tipo di economia è già ben più sviluppato.
Quest’ultima considerazione appare ancor più rilevante se si considera il fatto che la “sharing economy” ed il suo connesso consumo collaborativo non stanno progressivamente decretando la fine del concetto di proprietà esclusiva, a favore di una proprietà condivisa di tipo “socialista”, bensì stanno favorendo la diffusione di una nuova forma acquisto che ha come oggetto l’acquisizione di un mero servizio, piuttosto che di un bene.
Il vantaggio per il consumatore risiede nel fatto che la spesa da affrontare è ridotta al minimo, in quanto, si paga soltanto il costo legato al consumo di un servizio (che può anche avere ad oggetto un bene: ad esempio, il noleggio di un’auto), per il solo tempo necessario.
Secondo alcuni siamo di fronte alla nascita di una nuova forma di capitalismo. Probabilmente, è troppo presto per dirlo. Intanto, si può rilevare che questa rivoluzione commerciale generata dalla diffusione di internet produce due immediate conseguenze. In primo luogo, incide sul sistema infrastrutturale, diffondendo le offerte e domande di consumi collaborativi in forma immateriale. In secondo luogo, favorisce la diffusione di scambi commerciali privi del famoso “intuitu personae”, in quanto la “sharing economy” ti impone di fidarti di sconosciuti, anche se nel web nessuno è realmente sconosciuto, in quanto sono facilmente rinvenibili le tracce digitali e le referenze che rilasciate da quelli che hanno già avuto a che fare con noi.
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