La figlia di Salvador Allende, la prima donna alla Presidenza del Senato cileno

 

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di Luigia Belli

Isabel Allende Bussi, la minore delle tre figlie del deposto presidente cileno Salvador Allende, morto suicida l’11 settembre 1973 durante il sanguinoso colpo di stato guidato da Augusto Pinochet, è stata eletta Presidente del Senato l’11 marzo scorso. La senatrice socialista, con il suo nuovo incarico, ha scritto una pagina importante nella storia della politica cilena: è la prima donna a rivestire l’incarico di Presidente da quando il Senato venne fondato, nel 1812, ai tem pi della “Patria Vieja”. Il suo primo pensiero da Presidente è andato direttamente al padre: “É per me un grande onore essere qui, perché a questo stesso tavolo presidenziale è stato seduto mio padre, Salvador Allende Gossens, prima di diventare il Presidente del Cile. (…). Ha poi aggiunto, con la voce rotta dall’emozione: “So che lui sarebbe molto orgoglioso di vedermi qui”.
La Allende, eletta senatrice nella regione di Atacama, la più settentrionale del Cile, è stata candidata alla presidenza del Senato dalla coalizione di centro sinistra, che sostiene la neo eletta Presidente Michelle Bachelet.

Poche ore dopo, la Allende ha realizzato il suo primo atto ufficiale, conferendo a Michelle Bachelet il secondo mandato.
La celebrazione, che ha avuto luogo nella città di Valparaiso, a poco più di 100 km dalla capitale, Santiago, ha rappresentato un momento pregno di simbolismo e altamente significativo nella storia politica del Cile: due donne alla testa del paese, due socialiste, due vittime della violenza impunita del pinochetismo (entrambe hanno perso i propri padri, assassinati durante il colpo di stato del 1973) che, a distanza di 40 anni, giungono al vertice del paese, dimostrando che il Cile ha superato la terribile fase della “sospensione di ogni democrazia” ed è tornato, seppur con fatica, a percorrere i binari della sua vita repubblicana.
La celebrazione si è conclusa con l’abbraccio fraterno ed emozionato delle due leader che, a sua volta, si è sciolto nelle parole della Allende: “Ora, finalmente, i nostri padri sono al nostro fianco”.

Rocío Montes, inviata della testata spagnola El País in Cile, intervista Isabelle Allende.

R.M.: La scena in cui Lei conferisce il mandato alla Bachelet ha fatto il giro del mondo …
I.A.: E’ stata una scena inedita e densa di emozioni. Ho ricevuto una quantità impressionante di congratulazioni che provenivano dal Cile, ma anche da tanti altri paesi … dal Belgio, per esempio, dall’Olanda, dalla Spagna, dalla Svezia, dal Brasile, dall’Ecuador … La vita non è unilineare, sembra piuttosto un circolo.
R.M.: Si riferisce al fatto che suo padre è stato Presidente del Senato tra il 1966 e il 1969, prima di diventare il Presidente del Cile al quarto tentativo?
I.A.: Mio padre è arrivato a rivestire la carica più alta del paese perché la gente lo aveva visto portare avanti il suo incarico con grande dignità e offrire garanzie a tutti i diversi gruppi politici. Perciò, per molte persone, vedere una Allende sedere al tavolo presidenziale del Senato ha rappresentato una specie di ricompensa. E poi, nessuna donna aveva mai rivestito questo incarico prima.
R.M.: La cerimonia di passaggio di consegne dal leader della destra, Sebastián Piñera, a Michelle Bachelet è stata vista come un riflesso della maturità democratica raggiunta dal Cile. Lei crede che davvero il paese abbia raggiunto questa meta?
I.A.: Abbiamo dato un esempio di vita profondamente repubblicana e ciò è stato per me fonte di grande orgoglio. È importante che un presidente uscente, di un altro colore politico, riceva l’applauso che è stato dato a Piñera nella sala d’onore del Congresso. Ciò ci fa veramente onore.
R.M.: Lei riesce ad immaginarsi nel Palazzo presidenziale de La Moneda?
I.A.: In politica è difficile affermare “non berrò da questa fonte”, però, in effetti, non mi sono mai posta l’obiettivo di arrivare alla presidenza della Repubblica del Cile. Sto bene così, bisogna fare spazio alle nuove generazioni.
R.M.: Cosa ha provato quando ha presieduto la prima seduta del Senato? Tra i 37 senatori, ci sono solo 6 donne …
I.A.: È stato un momento bello e impressionante. Le racconto un aneddoto. C’era un senatore che, ogni volta che finiva un suo intervento, si rivolgeva alla mia persona dicendo “signor presidente”. Lo ha detto due volte; poi, quando ha terminato, gli ho detto: “comprendo perfettamente che è una situazione nuova e che è anche una questione culturale, comprendo che dopo così tanti anni si faccia fatica, ma le chiedo la gentilezza, in futuro, di rivolgersi alla mia persona chiamandomi “signora presidente”. Quindi, mi ha chiesto scusa, aggiungendo che non si era reso conto dell’errore e ha chiesto che la sua espressione venisse cancellata dai verbali.
R.M.: La visibilità data alle donne dal suo incarico e da quello della Bachelet non trova una giusta corrispondenza nel resto del mondo politico. In tutte e due le Camere del Congresso, per esempio, la presenza di parlamentari donne si attesta solo al 15,9%.
I.A.: È simbolico che le due principali cariche dello stato siano in mano a delle donne, la Presidenza della Repubblica e la Presidenza del Senato. Tuttavia, le donne hanno una rappresentanza in politica quasi insignificante. È molto faticoso. Per una donna, fare politica è davvero molto difficile e la stessa Bachelet non è riuscita ad ottenere una assoluta parità al Governo.
R.M.: Anche nel suo partito, il partito socialista, è così complesso fare politica per una donna, pur essendo la figlia dell’icona della sinistra cilena?
I.A.: All’interno del nostro partito c’è molto maschilismo.
R.M.: Farà valere la sua autorità, considerando anche che le forze di governo hanno la maggioranza al Senato?
I.A.: Passare sugli altri come un rullo compressore credo che sia sempre un esempio di cattiva politica. Il Parlamento è, per antonomasia, il luogo dove si sanciscono accordi, dove di instaura il dialogo e si discute democraticamente. Tuttavia, abbiamo preso degli impegni e intendiamo portare avanti i progetti scritti nel programma di governo di Michelle Bachelet. Se i parlamentari che non fanno parte della nostra coalizione vogliono accompagnarci in questo percorso, saranno i benvenuti.
R.M.: Che analisi propone della situazione politica della regione?
I.A.: Ogni paese vive la propria realtà ed è difficile generalizzare. Però chiaramente hanno avuto luogo cambiamenti importanti e non mi riferisco solo alla presenza di donne in Costa Rica, Brasile, Argentina e Cile. Mi riferisco soprattutto a quel processo di sviluppo che ha avuto luogo in tutta la regione e che ha permesso a Governi progressisti di promuovere politiche sociali e combattere le disuguaglianze.
R.M.: Lei crede che la figura di suo padre è ancora d’attualità nella sinistra latinoamericana?
I.A.: L’eredità che Salvador Allende ha lasciato al Latino America è ancora viva. E lo è più che mai in alcuni settori. Oggi nessuno può ignorare il fatto che la disuguaglianza impedisce la coesione e non permette la governabilità. Sono trascorsi 40 anni e le persone lo ricordano ancora con grande forza.
R.M.: La prima crisi all’interno della coalizione di governo, che va dalla Democrazia Cristiana al Partito Comunista, è sorta intorno a ciò che sta accadendo in Venezuela. Lei cosa pensa del Governo di Maduro?
R.M.: Che sia chiaro che la Nueva Mayoría (n.d.t. coalizione al governo) si è formata su un programma di governo la cui colonna vertebrale – un’educazione di qualità e gradualmente gratuita, la riforma fiscale e una nuova Costituzione – può essere in grado di cambiare per sempre la nostra società. La politica estera è appannaggio della nostra Presidente della Repubblica.
R.M.: Ma qual è la sua posizione in merito?
I.A.: Come ha già spiegato la Bachelet, sono i venezuelani che devono risolvere la questione e non riteniamo che sia necessario programmare un intervento. I venezuelani devono trovare la propria strada, considerando che hanno al potere un Governo democraticamente eletto. In Cile, nel 2011, abbiamo avuto migliaia di studenti nelle strade, i quali, però, reclamavano un sistema educativo gratuito e di buona qualità e non, come accade in Venezuela, che il Governo venisse rimosso.
R.M.: E di Cuba? Cosa ne pensa?
I.A.: Cuba sta passando attraverso una fase di cambiamenti che, a mio avviso, sono, però, ancora troppo timidi. Preferirei vedere una Cuba più aperta, che non abbia un solo partito, ma che garantisca multiple espressioni. Un Governo, ovviamente, che eserciti le proprie funzioni, ma anche una Opposizione che abbia diritto ad esprimersi.
R.M.: Lei ha vissuto momenti molto difficili: suo padre morì a La Moneda nel 1973, sua sorella e suo figlio si sono suicidati rispettivamente nel 1977 e nel 2010. Come si è ripresa da questi duri colpi?
I.A.: Non si apprende solo dalle sconfitte, si apprende anche dai grandi dolori.

Traduzione alla lingua italiana a cura di Luigia Belli

Pillole di Jobs Act. Le semplificazioni in materia di Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC)

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di Germano De Sanctis

Il dato normativo.

Il Jobs Act inizia a compiere i suoi primi passi. Come è noto, il Consiglio dei Ministri del 12 marzo 2014 ha suddiviso tale iniziativa governativa in due atti, un decreto legge ed una legge delega. Orbene, sulla Gazzetta Ufficiale n. 66 del 20-03-2014, è stato emanato il D.L., 20-03-2014, n. 34 ”Disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell’occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese. Tale decreto legge è in vigore dal 21-03-2014.
In particolare, L’art. 4, D.L. n. 34/2014 si occupa delle semplificazioni in materia di Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC), uno strumento ormai indispensabile in tutti i rapporti con la Pubblica Amministrazione e nell’edilizia privata, oltre che nei rapporti tra privati. Si tratta di una riforma “a costo zero”, in quanto, l’art. 4, comma 6, D.L. n. 34/2014, dispone che, all’attuazione di quanto previsto dell’articolo in questione, le Pubbliche Amministrazioni provvederanno con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

La non immediata applicabilità della norma in questione.

Bisogna subito evidenziare che tale norma non è di immediata applicazione, in quanto, l’art. 4, comma 2, D.L. n. 34/2014 dispone che la sua effettiva operatività è subordinata all’emanazione di un decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze e, per i profili di competenza, con il Ministro per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione, sentiti INPS e INAIL, da emanarsi entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione.

I criteri che ispireranno le semplificazioni in materia di DURC.

L’esame dell’art, 4, comma 2, D.L. n. 34/2014 rende evidente la volontà del legislatore d’introdurre importanti semplificazioni in materia di Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC). Infatti, attraverso il decreto ministeriale in questione, saranno definiti i requisiti di regolarità, i contenuti e le modalità della verifica nonché le specifiche ipotesi di esclusione. Il decreto in questione sarà ispirato ai seguenti criteri:
a) la verifica della regolarità in tempo reale riguarderà i pagamenti scaduti sino all’ultimo giorno del secondo mese antecedente a quello in cui la verifica dovrà essere effettuata, a condizione che sia scaduto anche il termine di presentazione delle relative denunce retributive e comprenderà anche le posizioni dei lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa anche a progetto operanti nell’impresa (cfr., art, 4, comma 2, D.L. n. 34/2014);
b) la verifica dovrà avvenire tramite un’unica interrogazione negli archivi dell’INPS, dell’INAIL e delle Casse Edili che, anche in cooperazione applicativa, opereranno in integrazione e riconoscimento reciproco, indicando esclusivamente il codice fiscale del soggetto da verificare (cfr., art, 4, comma 2, D.L. n. 34/2014);
c) nelle ipotesi di godimento di benefici normativi e contributivi saranno individuate le tipologie di pregresse irregolarità di natura previdenziale ed in materia di tutela delle condizioni di lavoro, verranno evidenziate gli elementi da considerare ostativi alla regolarità (trattasi del c.d. DURC interno), ai sensi dell’art. 1, comma 1175, Legge, 27-12-2006, n. 296 (cfr., art, 4, comma 2, D.L. n. 34/2014);
d) ai fini della verifica della dichiarazione sostitutiva relativa al requisito di cui all’art. 38 (requisiti di ordine generale), comma 1, lett. i) (esclusione dall’appalto o dall’affidamento o dalla fornitura, chi ha commesso violazioni grave definitivamente accertate in materia contributiva), D.Lgs., 12-04-2006, n. 163 (c.d. “Codice dei Contratti Pubblici”) ed in tutti i casi in cui in luogo del Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC) è prevista l’acquisizione della dichiarazione sostitutiva, non dovrà rilevare la data alla quale l’interessato ha dichiarato di essere in regola ai fini contributivi e assicurativi ovvero la data in cui la dichiarazione è stata resa dall’interessato. In altri termini, dalla data di entrata in vigore del decreto ministeriale attuativo, cesserà l’obbligo di verificare la sussistenza del “requisito di carattere generale” presso la banca dati nazionale dei contratti pubblici, istituita presso l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, dall’art. 62-bis, D.Lgs., 07-03-2005, n. 82. Inoltre, dalla data di entrata in vigore del decreto ministeriale di cui al secondo comma, saranno abrogate tutte le disposizioni di legge incompatibili con i contenuti dell’art. 4 D.L. n. 34/2014 (cfr., art. 4, comma 3, D.L. n. 34/2014);
e) al fine di garantire l’effettiva operatività delle norme in questione, il predetto decreto ministeriale potrà esere aggiornato annualmente, sulla base delle modifiche normative, o della evoluzione dei sistemi telematici di verifica della regolarità contributiva (cfr., art. 4, comma 4, D.L., n. 34/2014).

La smaterializzazione del DURC.

Secondo quanto disposto dall’art. 4, comma 1, D.L. n. 34/2014, a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto ministeriale attuativo, chiunque vi abbia interesse potrà verificare con modalità esclusivamente telematiche ed in tempo reale la regolarità contributiva nei confronti dell’INPS, dell’INAIL e, per le imprese tenute ad applicare i contratti del settore dell’edilizia, nei confronti delle Casse Edili. L’esito dell’interrogazione avrà validità di 120 giorni dalla data di acquisizione e sostituirà ad ogni effetto il Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC), ovunque previsto, fatta eccezione per le ipotesi di esclusione individuate dal citato decreto ministeriale.

In altri termini, l’art. 4 D.L. n. 34/2014 prevede la smaterializzazione del Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC), il quale, come visto, sarà possibile ottenere in tempo reale. In particolare, la verifica della regolarità in tempo reale riguarderà i pagamenti scaduti sino all’ultimo giorno del secondo mese antecedente a quello in cui la verifica è effettuata, a condizione che sia scaduto anche il termine di presentazione delle relative denunce retributive e comprenderà anche le posizioni dei lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa anche a progetto che operano nell’impresa.

Nell’attesa di conoscere il contenuto del decreto ministeriale, appare evidente la necessità di coordinare le disposizioni operative con le norme che regolano la “compensazione”, ai fini della regolarità, dei debiti contributivi con i crediti certi, liquidi ed esigibili vantati, dal soggetto destinatario del Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC), nei confronti della Pubblica Amministrazione. Infatti, resta insoluta la questione relativamente alla permanenza o meno dell’obbligo di attivarsi in capo al soggetto che vanta il credito, così come pare probabile.

Analogo ragionamento è riscontrabile per quanto concerne il c.d. DURC interno, ai fini dell’applicazione di eventuali benefici contributi e normativi, con la particolarità che, per tale ipotesi, i criteri per l’emanazione del decreto ministeriale attuativo prevedono che dovranno essere individuate le irregolarità pregresse che costituiranno cause ostative alla regolarità.

Infine, resta oscuro con quale modalità s’inserirà la procedura che prevede, prima di dichiarare lo stato di irregolarità (c.d. DURC negativo), l’invito al soggetto inadempiente, da parte dell’ente interessato, di sanare il debito entro il termine massimo di 15 giorni o, in mancanza, di accedere alla richiesta del documento che attesti uno p più crediti certi d’importo almeno pari al debito contributivo complessivo.

Sovvenzioni, contributi e sussidi.

L’art., 4, comma 5, D.L. n. 34/2014, modificando l’art. 31, comma 8-bis, D.L., 21-06-2013, n. 69 (c.d. Decreto del Fare), convertito, con modificazioni, dalla Legge, 09-08-2013, n. 98, ha precisato che, per quanto concerne l’erogazione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari, vantaggi economici, di qualunque genere:
a) deve essere sempre richiesta dalla data di entrata in vigore del D.L. n. 34/2014 (cioè, dal 21-02-2014) l’acquisizione del Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC);
b) risulta sempre applicabile la disposizione che regola l’intervento diretto del committente pubblico a sanare le inadempienze contributive del suo appaltatore/subappaltatore, trattenendo dal certificato di pagamento l’importo corrispondente alle citate inadempienze.

Cottarelli: tagli alle invalidità civili

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di Michele De Sanctis

«Se sarà necessario non è da escludere una mobilitazione nazionale, tale da esprimere, con tutta la forza possibile, la disperazione che tali misure generano in una già grave situazione per le persone con disabilità e le loro famiglie». 
La società civile all’attacco del piano Cottarelli. Queste sono state, infatti, le prime dichiarazioni a caldo rilasciate da Pietro Barbieri e Giovanni Pagano, presidenti rispettivamente della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) e della FAND (Federazione tra le Associazioni Nazionali delle Persone con Disabilità), le due organizzazioni che rappresentano la quasi totalità delle Associazioni impegnate sul fronte della disabilità, dopo la diffusione delle Proposte di revisione della spesa pubblica, elaborate da Carlo Cottarelli, commissario straordinario per la Spending Review, fra le cui ipotesi sono contemplati anche alcuni interventi sulla spesa per le invalidità civili «particolarmente preoccupanti».

Parliamo di 500 euro per 12 mensilità che l’INPS corrisponde, spesso dopo mesi di attesa, a famiglie sull’orlo della disperazione, che si trovano in casa una persona non più autosufficiente, gravemente malata e che necessita di un accudimento costante. Accudimento, rispetto al quale quel misero forfait è poco o nulla, tant’è che spesso non è neanche sufficiente a coprire quanto previsto dal contratto nazionale delle collaboratrici familiari e le famiglie si ritrovano costrette a ricorrere al lavoro nero o a dichiarare nel contratto con la badante un numero di ore di assistenza inferiori a quelle effettivamente prestate. Ad ogni buon conto, la stretta sulle pensioni di invalidità e accompagnamento si aggira intorno ai 30.000 euro individuali e ai 45.000 euro di reddito familiare: oltre questa soglia di reddito le stesse potrebbero essere negate.

«Le nostre Federazioni – dichiarano i Presidenti di FISH e FAND – rigettano ogni ipotesi di intervento sulle uniche provvidenze certe a favore delle gravi disabilità e intendono intervenire in tutte le sedi istituzionali, senza escludere il ricorso a una mobilitazione nazionale, per contrastare questa previsione».

La principale critica mossa ai rilievi di Cottarelli è quella circa la rilevata disomogeneità del territorio che non corrisponderebbe alla distribuzione demografica dei disabili; sul punto, le associazioni fanno notare che il «Commissario non ha incrociato i dati con la spesa per i non autosufficienti in quelle stesse Regioni». Diversamente, avrebbe scoperto che, «laddove le Regioni (esempio Calabria) spendono pochissimo per i disabili gravi, il numero delle indennità di accompagnamento lievita proporzionalmente. E soprattutto non ha presente i tagli massicci che la spesa sociale ha subito nell’ultimo decennio che spingono gli stessi Comuni a consigliare i propri cittadini ad avviare le procedure di riconoscimento dell’indennità di accompagnamento».

E’ come dire che, dove ci sono più servizi a livello locale, meno si ricorre al parastato che, nelle realtà prive di assistenza alla persona a livello sanitario, quindi regionale, viene visto come l’ultima (e forse la sola) spiaggia, cui far ricorso per chiedere un aiuto.

Il cuore della questione è quindi il grafico, presentato da Cottarelli, che visualizza la distribuzione territoriale delle prestazioni di indennità di accompagnamento, dimostrandone lo squilibrio interregionale: i numeri, riferiti solo alle persone con 65 e più anni, evidenziano che per 100 prestazioni di accompagnamento riconosciute in Piemonte (regione con il numero più basso) ce ne sono oltre 200 in Calabria (regione con il numero più alto) e picchi evidenti anche in Campania, Umbria e Sardegna, seguite da Puglia e Sicilia. All’estremo opposto, con il Piemonte, anche Liguria, Lombardia, Emilia Romagna, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Toscana. Le altre, chi più chi meno, nel mezzo. “Tale andamento – scrive la FISH – dimostra sicuramente una differente distribuzione territoriale delle prestazioni di indennità di accompagnamento, ma nulla ci dice rispetto alle motivazioni che potrebbero stare alla base degli squilibri evidenziati”.

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«Il documento del Commissario Straordinario – dichiarano Barbieri e Pagano – ripropone vetuste e discutibili proiezioni, evidenziando come in alcune Regioni vi siano percentuali maggiori di indennità di accompagnamento rispetto ad altre. Abusi, quindi, che sarebbero dimostrati appunto dai “picchi territoriali” e da un aumento della spesa non dimostrata da “flussi demografici”. Ma, come appena evidenziato, è “piuttosto semplicistico” affermare che il maggior numero di indennità di accompagnamento concesse in alcune regioni rispetto ad altre derivi da una serie di “abusi” che andrebbero contrastati. Lo si legge anche su una fonte autorevole in questo campo come Superabile, il portale che INAIL ha dedicato alle tematiche della disabilità. E’, perciò, diventata una guerra di numeri quella che in queste ore vede contrapposti da un lato chi spinge per una stretta sulle pensioni di invalidità e sulle indennità di accompagnamento e dall’altro chi invece quegli stessi interventi vorrebbe evitarli.

La FISH sul suo portale Condicio.it critica aspramente questi dati apparentemente incomprensibili e incontrovertibili rispondendo con altri numeri e tabelle, usando elaborazioni ISTAT che provano a dare una spiegazione al fenomeno, rilevato da supercommissario. Senza mancare di far notare che le indennità di accompagnamento sono concesse soprattutto agli ultra65enni (a loro va il 73% del totale, dati Istat al 1° gennaio 2012) e che la stessa presenza di “picchi territoriali” risulta alquanto strana sia in considerazione del ruolo che, nella validazione dei verbali di invalidità, hanno i medici INPS (che agiscono secondo criteri omogenei in tutta Italia), e sia considerando il fatto che fra il 2009 e il 2014 oltre un milione di posizioni è stato sottoposto a controllo. Evidente il riferimento alle azioni contro i cosiddetti “falsi invalidi”, da sempre criticate dalla Fish per gli scarsi risultati raggiunti. Lo stesso neo Presidente dell’Istituto di previdenza sociale, Vittorio Conti, ha, peraltro, ribadito che i controlli contro i falsi invalidi sono già stati fatti e che, comunque, se davvero si volessero ottenere tagli consistenti, occorrerebbe abbassare ancora di più la soglia degli aventi diritto all’indennità di accompagnamento. 

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Come dire che il programmato taglio non sarebbe, evidentemente, sufficiente. La sperequazione a livello regionale tra aree virtuose e meno, d’altro canto, ne risulterebbe incrementata, con il solo risultato che i disabili residenti in quelle zone prive di una sanità pubblica efficiente resterebbero di fatto senza una tutela garantita, peraltro, dalla Costituzione. Secondo chi scrive, c’è poi da considerare un ultimo aspetto: discriminare la concessione dell’accompagnamento con una simile soglia di reddito, non porterebbe questo beneficio a perdere la sua natura previdenziale, divenendo quasi un contributo assistenziale per disabili non abbienti? Previdenza e assistenza: sono concetti di legislazione sociale su cui si basa la differenza di taluni interventi che il nostro stato sociale ha previsto in situazioni diverse di bisogno. E mi viene anche un sospetto, a breve si tornerà a parlare di assoggettamento a IRPEF delle pensioni di invalidità civile? Questa spending che è stata presentata come la cura che ci salverà dalla lunga malattia che avvilisce la nostra economia, necesssaria per finanziare le promesse riforme del jobs act, millantato dal premier col fare di un teleimbonitore che illustra le caratteristiche del prodotto del giorno, mi sembra una specie di ‘fake’. E alla fine mi resta un dubbio: era così indispensabile colpire di nuovo questa categoria di soggetti, che è già stata nel mirino di tutti gli ultimi governi?

Turchia, luna calante su Twitter

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Fonte: Osservatorio Balcani e Caucaso

La Turchia ha bloccato giovedì sera l’accesso a Twitter. Solo poche ore prima, il premier Recep Tayyip Erdoğan aveva pronunciato in un comizio elettorale a Bursa – in vista delle ormai prossime amministrative – parole minacciose verso il social network: “Elimineremo Twitter e simili alla radice. Non m’interessa quello che potrà dire comunità internazionale”.
La “misura di protezione” invocata da Erdoğan è stata quindi subito adottata dalle autorità giudiziarie turche che hanno chiuso l’accesso a Twitter tramite DNS di default in Turchia.
Twitter in Turchia ha avuto un particolare ruolo durante le proteste di Gezi Park del giugno scorso. In quel periodo si è visto crescere il numero di utenti attivi fino a oltre 9,5 milioni.
La rabbia del premier contro Twitter, ha origine dalle proteste di Gezi Park ma ora Erdoğan si è scagliato anche contro i falsi profili Twitter che sarebbero stati creati negli ultimi mesi per prendere di mira il governo, con intenti a suo avviso “manipolativi”.
Immediata la reazione del popolo di Twitter che ha cercato di ripristinare il servizio, tentando di aggirare il blocco modificando i DNS.
Suggerimenti per aggirare il blocco attraverso il semplice espediente di passare a server DNS esterni alla Turchia sono addirittura apparsi con scritte spray sui cartelloni pubblicitari esposti per la campagna elettorale delle amministrative.

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Pillole di Jobs Act. La delega al Governo in materia di servizi per il lavoro e politiche attive.

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di Germano De Sanctis

 Il dato normativo.

Dopo tante indiscrezioni ed anticipazioni a mezzo stampa, cominciano a trapelare le prime bozze del decreto legge e del disegno di legge delega che costituiranno l’ormai famoso Jobs Act. In particolare, l’articolo 2 del disegno di legge in questione concentra la sua attenzione sulla delega al Governo in materia di servizi per il lavoro e politiche attive.

Il primo comma della norma in questione, persegue lo scopo di garantire la fruizione dei servizi essenziali in materia di politica attiva del lavoro su tutto il territorio nazionale, nonché di assicurare l’esercizio unitario delle relative funzioni amministrative. A tal fine, il Governo è delegato ad adottare, entro sei mesi dall’entrata in vigore della presente legge, su proposta del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, previa intesa in sede di Conferenza Permanente per i Rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province Autonome di Trento e di Bolzano, ai sensi dell’art. 3 D.Lgs. 28-08-1997, n. 281, uno o più decreti legislativi finalizzati al riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e le politiche attive. In mancanza della predetta intesa nel termine di cui all’art. 3 del citato D.Lgs. n. 281/1997, il Consiglio dei Ministri provvederà con deliberazione motivata ai sensi del medesimo articolo 3.

Invece, il secondo comma della norma in esame, specifica che, nell’esercizio della delega di cui al primo comma, il Governo si deve attenere ai seguenti principi e criteri direttivi:

a) razionalizzazione degli incentivi all’assunzione esistenti, da collegare alle caratteristiche osservabili per le quali l’analisi statistica evidenzi una minore probabilità di trovare occupazione;

b) razionalizzazione degli incentivi per l’autoimpiego ed autoimprenditorialità, con la previsione di una cornice giuridica nazionale volta a costituire il punto di riferimento anche per gli interventi posti in essere da regioni e province autonome;

c) istituzione, ai sensi dell’art. 8, D.Lgs. 30-07-1999, n. 300, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, di una Agenzia Nazionale per l’Occupazione, partecipata da Stato, Regioni e Province autonome, vigilata dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, al cui funzionamento si provveda con le risorse umane e strumentali già disponibili a legislazione vigente;

d) coinvolgimento delle parti sociali nella definizione delle linee di indirizzo generali dell’azione dell’Agenzia Nazionale per l’Occupazione;

e) attribuzione all’Agenzia Nazionale per l’Occupazione delle competenze gestionali in materia di servizi per l’impiego, politiche attive e ASPI;

f) razionalizzazione degli enti ed uffici che, anche all’interno del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, delle regioni e delle province, operano in materia di politiche attive del lavoro, servizi per l’impiego e ammortizzatori sociali, allo scopo di evitare sovrapposizioni e di consentire l’invarianza di spesa, mediante l’utilizzo delle risorse umane e strumentali già disponibili a legislazione vigente;

g) possibilità di far confluire nei ruoli delle amministrazioni vigilanti o dell’Agenzia Nazionale per l’Occupazione il personale proveniente dalle amministrazioni o uffici soppressi o riorganizzati in attuazione della lettera f) nonché di altre Amministrazioni Pubbliche;

h) rafforzamento delle funzioni di monitoraggio e valutazione delle politiche e dei servizi;

i) valorizzazione delle sinergie tra servizi pubblici e privati, al fine di rafforzare le capacità d’incontro tra domanda e offerta di lavoro, prevedendo, a tal fine, la definizione dei criteri per l’accreditamento e l’autorizzazione dei soggetti che operano sul mercato del lavoro e la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni nei servizi pubblici per l’impiego;

l) introduzione di modelli sperimentali, che prevedano l’utilizzo di strumenti per incentivare il collocamento dei soggetti in cerca di lavoro e che tengano anche conto delle esperienze più significative realizzate a livello regionale;

m) previsione di meccanismi di raccordo tra l’Agenzia Nazionale per l’Occupazione e l’INPS, sia a livello centrale che a livello territoriale;

n) previsione di meccanismi di raccordo tra l’Agenzia Nazionale per l’Occupazione e gli enti che, a livello centrale e territoriale, esercitano competenze in materia di incentivi all’autoimpiego e all’autoimprenditorialità;

o) mantenimento in capo al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali delle competenze in materia di definizione dei livelli essenziali delle prestazioni che devono essere garantite su tutto il territorio nazionale;

p) mantenimento in capo alle Regioni e Province Autonome delle competenze in materia di programmazione delle politiche attive del lavoro;

q) attivazione del soggetto che cerca lavoro, in quanto mai occupato, espulso o beneficiario di ammortizzatori sociali, al fine di incentivarne la ricerca attiva di una nuova occupazione, secondo percorsi personalizzati, anche mediante l’adozione di strumenti di segmentazione dell’utenza basati sull’osservazione statistica;

r) valorizzazione del sistema informativo per la gestione del mercato del lavoro e il monitoraggio delle prestazioni erogate;

s) completamento della semplificazione amministrativa in materia di lavoro e politiche attive, con l’ausilio delle tecnologie informatiche, allo scopo di reindirizzare l’azione dei servizi pubblici nella gestione delle politiche attive.

Innanzi tutto, la norma in esame si caratterizza per aver concesso al Governo soltanto sei mesi, per l’esercizio della delega ad emanare, su proposta del Ministro del Lavoro, uno o più decreti legislativi finalizzati al riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e politiche attive, allo scopo di garantire la fruizione dei servizi essenziali su tutto il territorio nazionale ed assicurare l’esercizio unitario delle relative funzioni amministrative. A tal fine, è stata anche prevista una intesa preventiva “debole” in Conferenza Stato- Regioni ex D.Lgs. 281/1997.

 Abbiamo visto poc’anzi come, il secondo comma dell’art. 2 abbia individuato analiticamente i criteri e i principi identificati per l’esercizio della delega. In particolare, alcuni di essi merito qualche ulteriore considerazione specifica.

La razionalizzazione degli incentivi all’assunzione.

La lettera a) del secondo comma in questione prevede la razionalizzazione degli incentivi all’assunzione, con l’intento di collegarli e/o modularli, sulla base di parametri statistici, alle caratteristiche del soggetto in relazione alla distanza ed al suo grado di difficoltà nell’accesso al mercato del lavoro. Tale previsione normativa sembra richiamare, anche se in modo indiretto, le attività di profilazione dell’utenza previste dalla c.d. “Garanzia Giovani”, nell’ambito del sistema dei servizi per il lavoro, le quali sono, tuttavia, ancora in corso di definizione. Appare evidente come il successo di questa norma sia strettamente legato alla espressa previsione di un ampio margine di flessibilità e di adattabilità in relazione al contesto territoriale di riferimento. In altri termini, in sede di esercizio della delega, appare necessario concedere alle Regioni il maggior livello possibile di discrezionalità, nello spirito di una sana sussidiarietà verticale. Siffatta ultima considerazione trova conforto nell’ulteriore richiamo operato verso il sistema di profilazione riscontrabile nel disposto della lettera q), dove viene ribadito il principio, già codificato nella normativa vigente (cfr., D.Lgs. n. 181/2000 ss.mm.ii.) e, di recente, confermato dalle Linee Guida condivise per la regolazione e la gestione dello stato di disoccupazione approvate in Conferenza Stato- Regioni in data 05-12-2013, dell’attivazione del soggetto disoccupato/inoccupato (beneficiario o non di ammortizzatori sociali) per la ricerca attiva di una nuova occupazione, nell’ambito di una presa in carico personalizzata.

La razionalizzazione degli incentivi per l’autoimpiego ed autoimprenditorialità.

La lettera b) prevede espressamente la razionalizzazione degli incentivi per l’autoimpiego ed autoimprenditorialità, con la previsione di una cornice giuridica nazionale quale riferimento anche per l’attuazione degli interventi regionali. A tal proposito, si evidenzia che, già nell’ambito dell’istruttoria realizzata dalla IX Commissione sul D.L. n. 76/2013, in relazione agli incentivi ivi previsti, le Regioni avevano evidenziato in generale la necessità di prevedere delle forme di raccordo, in merito al campo di applicazione degli incentivi con gli altri esistenti a livello statale e regionale. La norma in questione pare recepire questa istanza, tanto è vero che, la lettera n) dispone l’introduzione di meccanismi di raccordo tra gli enti che, a livello nazionale e territoriale, esercitano competenze in materia di incentivi all’autoimpiego e autoimprenditorialità e la costituenda Agenzia Nazionale per l’Occupazione.

L’Agenzia Nazionale per l’Occupazione.

Proprio relativamente ai meccanismi di raccordo, appare particolarmente rilevante la previsione contenuta nella lettera c), la quale statuisce l’istituzione di una Agenzia Nazionale per l’Occupazione. Si tratta di un organismo posto sotto la vigilanza del Ministero del Lavoro e partecipato da Stato, Regioni e Province Autonome. La norma si inserisce nell’alveo di una linea di intervento sovente ventilata dal legislatore nazionale sin dalla legislatura precedente e, da tempo, oggetto di confronto anche con le Regioni. Infatti, si ricorda che l’ipotesi di una Agenzia Nazionale per l’Occupazione era fugacemente apparsa anche nelle bozze intermedie del D.L. n. 76/2013 (cfr., articolo 5).

D’altro canto, si sottolinea la scelta legislativa di annoverare nella composizione dell’Agenzia i soli soggetti istituzionali Stato, Regioni e Province Autonome, limitando, alla lettera d), il ruolo delle parti sociali alla sola definizione delle linee di indirizzo. Si tratta di una differenza sostanziale con i precedenti tentativi di analogo tenore, ove erano state previste forme più allargate di partecipazione , relativamente alle quali erano state sollevate molte critiche da parte delle Regioni.

Per quanto concerne l’organico da far confluire nell’Agenzia Nazionale per l’Occupazione, si ricorda che la lettera c) ha specificato il fatto che il nuovo organismo debba essere istituito senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e che al suo funzionamento si debba provvedere tramite le risorse umane e strumentali disponibili a legislazione vigente. A tal proposito, il combinato disposto della lettera f) e della lettera g), prevede una razionalizzazione degli enti ed uffici che, anche all’interno del Ministero del Lavoro, delle Regioni e delle Province, operano in materia di politiche attive del lavoro, servizi per l’impiego e ammortizzatori sociali.

Appare evidente come la costituzione di tale Agenzia Nazionale per l’Occupazione possa comportare una invasione di competenze , con particolare riguardo alla possibilità di un intervento sugli uffici regionali. Pertanto, sarà fondamentale che il legislatore nazionale, nell’esercizio della delega, preveda adeguate forme di raccordo con la parallela attività di revisione costituzionale dell’assetto delle Province. Tale necessità appare ancor più necessaria se si considera il fatto che la lettera e) statuisce l’unificazione in capo all’Agenzia Nazionale per l’Occupazione delle funzioni relative alle politiche attive del lavoro, ai servizi per l’impiego ed agli ammortizzatori sociali e la successiva lettera m) rinvia a meccanismi di raccordo tra Agenzia Nazionale per l’Occupazione ed INPS.

Abbiamo appena detto che la lettera e) dispone l’attribuzione all’Agenzia Nazionale per l’Occupazione di competenze gestionali in materia di servizi per l’impiego, politiche attive e ASPI. Si tratta di una previsione normativa particolarmente rilevante, sia per la sua portata operativa, sia per gli effetti che essa produrrà nei confronti dei rapporti istituzionali esistenti tra Stato, Regioni e Province Autonome. Tale considerazione appare ancor più evidente se si considera quanto previsto alla lettera o), la quale stabilisce il mantenimento in capo al Ministero del Lavoro delle competenze in materia di definizione dei livelli essenziali delle prestazioni che devono essere garantite su tutto il territorio nazionale. Siffatta rilevanza della lettera e) emerge ancor di più se la si raccorda con la previsione contenuta nella lettera p), la quale prevede il mantenimento in capo alle Regioni e Province Autonome delle competenze in materia di programmazione delle politiche attive del lavoro. In altri termini, siamo di fronte ad un complesso sistema di delega al legislatore, in virtù del quale varierà significativamente il sistema dei rapporti istituzionali sul versante delle materie afferenti al lavoro. Si ricorda che tali materie sono attualmente ricomprese nella potestà legislativa concorrente ed, al netto dei possibili scenari di evoluzione istituzionale legati alle ipotesi di modifica della Carta Costituzionale, il quadro delineato dalla legge delega appare sostanzialmente in linea con la normativa vigente, seppur modificando significativamente il baricentro decisionale a favore dell’Amministrazione Statale. Pertanto, sarà fondamentale che, nella individuazione dei compiti attribuiti all’Agenzia Nazionale per l’Occupazione, venga preservato il ruolo delle Regioni nella definizione, programmazione e attuazione delle politiche attive aventi dirette ricadute sul territorio, nonché nella gestione degli interventi in materia di occupazione nei confronti dei cittadini. Infatti, tali compiti istituzionali rappresentano una competenza prioritaria regionale, rispetto al quale lo Stato, nell’ambito di linee condivise e nel rispetto dei LEP, può ben svolgere una funzione di supporto e di sostegno, ma non sostitutiva delle Regioni stesse. In particolare, con riferimento alla formazione professionale, quale materia a potestà legislativa esclusiva delle Regioni e che sembrerebbe non essere coinvolta dagli attuali progetti di revisione della Costituzione, si rileva nella formulazione della delega al Governo il rischio latente di un’invasione di competenze regionali da parte dello Stato.

La definizione dei criteri per l’accreditamento e l’autorizzazione dei soggetti che operano sul mercato del lavoro e la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni dei servizi per l’impiego.

Nell’ambito della valorizzazione delle sinergie tra servizi pubblici e servizi privati, la lettera i) prevede la definizione dei criteri per l’accreditamento e l’autorizzazione dei soggetti che operano sul mercato del lavoro e la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni dei servizi per l’impiego. Rispetto a tale principio, si ricorda che nella normativa vigente contenuta nel D.Lgs. n. 276/2003, il regime di accreditamento degli operatori per lo svolgimento dei servizi per il lavoro risulta essere una competenza regionale, accanto al regime di autorizzazione nazionale. Appare, quindi, evidente la necessità che l’attuazione di tale criterio avvenga secondo linee condivise e in modo non invasivo rispetto a quanto già disciplinato sul territorio. Si tratta di una materia delicata che, dopo, quasi dieci anni di “messa a regime”, comincia a dare i primi segnali di definizione normativa ed istituzionale. Un intervento non rispettoso delle discipline approvate dalle singole Amministrazioni Regionali comporterebbe soltanto confusione in capo ai cittadini che accedono ai servizi per il lavoro.

La valorizzazione del sistema informativo del lavoro, in un’ottica di completamento della semplificazione amministrativa.

Il combinato disposto della lettera r) e della lettera s) dispone espressamente la valorizzazione del sistema informativo del lavoro, in un’ottica di completamento della semplificazione amministrativa, attraverso l’ausilio ed il reindirizzo dei servizi pubblici nella gestione delle politiche attive e nel monitoraggio delle prestazioni erogate. Tale principio, da una parte, si pone in continuità con il lavoro svolto, da tempo, dalle Regioni e dalle Province Autonome nell’ambito del Tavolo tecnico interistituzionale SIL, anche con particolare riferimento alle ultime attività sviluppate sul versante dell’attuazione della c.d. “Garanzia Giovani”, in relazione agli aspetti gestionali ed all’aggiornamento della scheda anagrafico-professionale dell’utente dei servizi. D’altra parte, il principio in questione si collega ai profili di attuazione della Banca Dati delle Politiche Attive e Passive del Lavoro, prevista dall’art. 8 D.L. n. 76/2013, la quale, tuttavia, non è ancora stata realizzata. In altri termini, appare necessario procedere ad una immediata ed efficace implementazione degli strumenti in questione, affinché la previsione contenuta nella delega in questione non si trasformi, di fatto, in una mera affermazione programmatica.

 

Coltiva funghi dagli scarti del caffè: il business green di Daniele

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Fonte: Millionaire di Giancarlo Donadio

Produrre funghi dallo scarto del caffè. Questa l’idea sostenibile di una coppia lucana, Daniele Gioia e Annarita Marchionna:

I bar buttano via una quantità impressionante di fondi del caffè che possono anche essere usati come ammendanti (fertilizzanti che migliorano il suolo, ndr). Allora abbiamo fatto qualche esperimento per far crescere funghi. Ho frequentato la facoltà di agraria e sapevo come fare. Risultato: un prodotto che si cucina più facilmente, che dura nel tempo e dalle forti proprietà aromatiche» spiega Daniele.

Dopo la scoperta hanno iniziato le prime coltivazioni domestiche e a partecipare a competizioni del settore. Finalisti degli Oscar Green (la competizione per startup sostenibili promossa da Coldiretti, ndr) hanno ricevuto un finanziamento bancario di 50mila euro grazie all’aiuto di Coldiretti, affittato un capannone e sono partiti:

La nostra filiera è cortissima. Vendiamo a ristoranti che condividono la nostra filosofia del km zero. Oggi produciamo 800 chili al mese di alcune varietà di funghi (cardoncello, pennella, pioppino…) e li vendiamo a un prezzo che va dai 7 ai 10 euro al chilo.

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Il materiale lo recuperano da una quindicina di bar con cui hanno preso accordi:

Passiamo a prenderlo ogni due settimane per far partire la produzione nel capannone. Coltiviamo anche a campo aperto su tre ettari di terreno».

Ancora piccoli non hanno la forza di esportare il prodotto in altre regioni. Ci sarebbe poi il rischio di far perdere al fungo la sua freschezza. Allora Daniele si è inventato un modo originale per riuscirci:

Abbiamo ideato dei kit: chi li compra può, seguendo poche istruzioni, produrre funghi freschi a casa sua e mangiarli come se giungessero direttamente dai campi.

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Ai giovani che vogliono avvicinarsi alla campagna Daniele consiglia di: scegliere coltivazioni di nicchia. Mantenere una filiera corta senza fare il passo più lungo della gamba. I risultati ci sono anche perché la qualità ti permette di aumentare i prezzi. Poi tanta passione: l’agricoltura non deve essere un ripiego, ma una scelta sentita. Per ultimo prepararsi alle tante sfide e difficoltà (burocrazia, reperimento fondi, promozione…). Ce ne saranno tante e bisognerà saperle affrontare.

Info: http://www.recofunghi.com/

Filoeuropeo o euroscettico? Sono i fatti che contano

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Fonte: Osservatorio Balcani e Caucaso

Per orientarsi nel mare delle informazioni e dei dati in vista delle elezioni europee di maggio, la Rete ci offre un interessante strumento di controllo della veridicità delle dichiarazioni espresse dai politici europei: FactchechEU, la prima piattaforma europea di crowd-checking.
Nato dal lavoro di un gruppo di giovani professionisti italiani che avevano già creato una piattaforma di fact-checking operativa a livello nazionale (Pagella Politica), FactcheckEU è uno strumento online con cui è possibile verificare e monitorare le dichiarazioni dei candidati in corsa alle elezioni europee e valutarne la veridicità confrontando le parole con numeri e fonti di riferimento.
La piattaforma è concepita in modo interattivo e gli utenti hanno un ruolo chiave: possono caricare dichiarazioni e verificarle insieme al team di FactcheckEU, oppure navigare alla ricerca di dati già verificati suddivisi nelle principali policy area dell’UE e corredati da grafici e tabelle.
Loggandosi sul sito, si può partecipare in quattro modi diversi: verificando direttamente una dichiarazione impugnando studi e tabelle; traducendo per rendere un’affermazione disponibile in altre lingue europee; dando un voto ad una dichiarazione in una scala graduata da “Vero” a “Panzana pazzesca”, oppure caricando un’affermazione che suona sospetta e che si vuole controllare.
Per capire meglio come funziona il Fact-checking, prendiamo l’ultimo caso riportato sulla piattaforma: l’affermazione di Jean-Claude Junker, candidato alla presidenza della Commissione dal Partito Popolare Europeo, che afferma che tra trent’anni nessun paese europeo preso singolarmente rientrerà nel club dei sette paesi più ricchi del mondo.
FactcheckEU ha verificato, fonti alla mano, ed ha concluso che la validità di questa frase dipende dall’indicatore economico a cui si fa riferimento.
La Germania e la Gran Bretagna avrebbero un posto in un ipotetico G7 nel 2050 (rispettivamente al 5° e al 6° posto in una classifica che vedrebbe la Cina, gli USA e l’India ai primi tre posti) nel caso in cui l’indicatore economico di riferimento è il valore in dollari USA delle economie considerate. Al contrario, se l’indicatore del Pil usato è corretto rispetto al costo della vita (tecnicamente, parità del potere d’acquisto) nel 2050 nessun paese europeo comparirebbe nella classifica dei primi sette al mondo, con la Germania, la più forte, al nono posto dopo Messico e Indonesia. FactCheckEU conclude: “Junker non sbaglia a denunciare il collasso relativo del peso delle singole economie europee a livello mondiale. La scelta di un indicatore piuttosto che un altro non è sbagliata, ma rende la sua dichiarazione in qualche modo incompleta”.
Il factchecking è una forma di partecipazione civica e dal basso all’informazione. Aiuta a rendere il dibattito pubblico più trasparente, e a ridare fiducia alle parole e alla possibilità dei cittadini di comprendere i fenomeni, anche i più complessi. Come si legge sul sito, “nasce dalla convinzione che con la crescente integrazione europea diventa sempre più importante avere dei watchdogs in grado di monitorare il dibattito pubblico”. Perché dopo tutto i fatti sono fatti, e le bugie hanno le gambe corte.

Pillole di Jobs Act. L’apprendistato.

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di Germano De Sanctis

La finalità dell’intervento riformatore in materia di apprendistato.

Nel corso del Consiglio dei Ministri del 12 marzo scorso, il Governo ha varato il tanto atteso provvedimento in materia di riforma del lavoro, meglio conosciuto come Jobs Act. Come è noto, si tratta della combinata emanazione di un decreto legge e di un disegno di legge delega.

In particolare, il decreto legge interviene anche sul contratto di apprendistato, con l’intento di attenuare le rigidità introdotte all’istituto dell’apprendistato dalla Legge. n. 92/2012 (c.d “Riforma Fornero”), le quali lo hanno reso meno facilmente utilizzabile rispetto alla sua originaria formulazione contenuta nel D.Lgs. n. 167/2011 (c.d. “Testo Unico dell’Apprendistato”).

Lo scorso 15 marzo, le anticipazioni governative sull’apprendistato, divulgate subito dopo il Consiglio dei Ministri del 12 marzo scorso, sono state oggetto di un comunicato del Ministero del Lavoro, il quale ha ulteriormente specificato alcuni passaggi che sono risultati essere particolarmente controversi.

L’abrogazione dell’obbligo della forma scritta per il piano formativo.

Il decreto legge prevede l’abrogazione della necessità di redigere in forma scritta il piano formativo individuale. La forma scritta permane esclusivamente per il contratto di apprendistato tout court e per il patto di prova.

L’abrogazione dell’obbligo di forma scritta per il piano formativo individuale rischia di snaturare il rapporto di apprendistato stesso, in quanto una sua assenza potrebbe comportare una più facile elusione del suo momento formativo.

L’abrogazione della quota percentuale di apprendisti da stabilizzare.

Inoltre, è prevista l’abrogazione dell’art. 2, commi 2-bis e 2-ter, D.Lgs. n. 167/2011, introdotti dalla Legge n. 92/2012 (c.d. Riforma Fornero), con la conseguenza che vengono eliminate le previsioni normative, in virtù delle quali l’assunzione di nuovi apprendisti è condizionata alla conferma in servizio di una ben determinata quota percentuale di precedenti apprendisti al termine del loro percorso formativo (fissata al 30% fino al 2015, per, poi, salire al 50%).

Tale previsione normativa non è stata coordinata con la disciplina di settore prevista dalla contrattazione collettiva, la quale non risulta essere minimamente condizionata dalla novella in questione. In altri termini, fin quando permarranno i vincoli di stabilizzazione contenuti nei contratti collettivi, tale norma rischia di rimanere una mera affermazione di principio.

Gli interventi in materia di apprendistato di primo livello.

Il decreto legge interviene anche in materia di apprendistato di primo livello, cioè quella forma di apprendistato finalizzata al conseguimento di un diploma o di una qualifica.

Infatti, in vista dell’ormai prossima sperimentazione biennale (anni 2013-2015) dell’apprendistato a scuola contenuto nel c.d. “Decreto Carrozza”, è stata prevista una norma a favore delle imprese, la quale stabilisce che la parte di retribuzione dell’apprendista concernente le ore di formazione, debba essere pari al 35% della retribuzione del livello di inquadramento.

Gli interventi in materia di apprendistato di secondo livello.

Per quanto concerne l’apprendistato di secondo livello, il decreto legge elimina l’obbligo in capo al datore di lavoro dintegrare la formazione professionalizzante, con la formazione trasversale e di base contenuta nell’offerta formativa pubblica, diventando quest’ultima un mero elemento discrezionale.

Di conseguenza, scompare l’obbligatorietà, per il datore di lavoro, di assicurare all’apprendista di secondo livello una formazione «pubblica» avente carattere trasversale e di base, ovvero di garantirgli la frequenza dei corsi regionali, qualora essi risultino istituiti, oppure di organizzarglieli ad hoc. L’immediata conseguenza di tale previsione normativa consisterà nel fatto che la formazione trasversale e di base, perdendo la sua natura obbligatoria, smetterà di essere oggetto di sanzioni cospicue (anche in termini di contributi versati).

Tale eliminazione dell’obbligatorietà della formazione pubblica può creare seri problemi con l’Unione Europea, atteso che l’apprendistato gode di sgravi contributivi proprio in virtù della sua valenza formativa. In altri termini, rendere la formazione pubblica soltanto eventuale comporta il rischio fondato che i predetti sgravi siano ritenuti dall’Unione Europea non più giustificabili, alla luce della vigente normativa comunitaria in materia di aiuti di Stato.

Pillole di Jobs Act. Il contratto di lavoro a tempo determinato senza causale

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di Germano De Sanctis

Premessa.

Il decreto legge varato nel corso del Consiglio dei Ministri del 12 marzo scorso ha apportato significative modifiche al contratto di lavoro a tempo determinato, suscitando numerose polemiche provenienti, sia dal fronte sindacale, che da quello degli studiosi del diritto.

Pertanto, il Governo è nuovamente intervenuto sul disegno di decreto legge in questione, rettificando quanto già annunciato dopo il citato Consiglio dei Ministri, al fine di assicurare forme di tutela più consistenti per i lavoratori interessati.

Pertanto, sarà bene esaminare la “nuova ed ulteriore” forma giuridica assunta da contratto di lavoro a tempo determinato nell’arco di così pochi giorni.

Il primo contratto a causale.

Prima di quest’ultima novella, era possibile sottoscrivere un contratto di lavoro a tempo determinato senza causale soltanto a condizione che esso non durasse più di dodici mesi e che esso fosse il primo contratto stipulato tra le parti contraenti (cfr., art. 1, comma 1-bis, lett. a), D.Lgs. n. 368/2001). L’assenza di una causale nel contratto in questione consiste nella possibilità riconosciuta in capo al datore di lavoro di non specificare le motivazioni tecniche, produttive, organizzative o sostitutive che lo inducono ad apporre un termine al rapporto. Orbene, tale limite di dodici mesi è stato elevato a trentasei mesi, facendo, in tal modo, coincidere l’assenza di causale con la durata massima di tre anni del contratto di lavoro a tempo determinato prevista dall’art. 4, comma 1, D.Lgs. n. 368/2001.

È bene sottolineare che il  Governo ha ritenuto opportuno optare per tale scelta, in quanto è stato riscontrato che la causale costituisce il motivo principale della maggior parte dei contenziosi esistenti in materia di lavoro a tempo determinato.

Chiaramente, l’elevazione del tetto a trentasei mesi continua ad interessare esclusivamente il primo contratto di lavoro a tempo determinato stipulato tra il datore di lavoro ed il lavoratore interessato.

Di conseguenza, nel caso in cui il primo contratto abbia una durata inferiore a trentasei mesi, è sempre possibile prorogarlo fino a tale limite, ma, a questo punto, il datore di lavoro non è più agevolato dalla “acausalità” del rapporto di lavoro e deve necessariamente specificare le “ragioni oggettive” sottese all’estensione contrattuale.

Il numero massimo delle proroghe

Inoltre, il Governo ha, in un primo momento, privilegiato la possibilità di prorogare più volte il contratto di lavoro a tempo determinato entro il limite di tre anni, purché ne sussistano “ragioni oggettive” e faccia riferimento alla medesima attività lavorativa.

La decisione iniziale di non prevedere una durata minima ai contratti di lavoro a tempo determinato che si sarebbero succeduti nell’arco del triennio, avrebbe potuto comportare un frazionamento intollerabile per i lavoratori.

Infatti, qualche commentatore ha subito evidenziato che, per assurdo, se un datore di lavoro avesse voluto stipulare soltanto contratti di durata settimanale, il lavoratore interessato sarebbe stato oggetto di ben 156(!) assunzioni consecutive nell’arco di trentasei mesi.

A fronte di questi rilievi, è intervenuta una nota del Ministero del Lavoro, la quale ha chiarito che è prevista la possibilità di prorogare fino ad un massimo di otto volte il contratto a tempo determinato entro il limite dei tre anni. Inoltre, la nota ministeriale ha specificato che le proroghe in questione sono ammissibili a condizione che esse si riferiscano alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato inizialmente stipulato. In altri termini, i contratti di lavoro a tempo determinato intercorrenti tra un lavoratore ed un datore di lavoro nell’arco di trentasei mesi, non possono avere una durata inferiore a quattro mesi e mezzo ciascuno.

La correzione apportata permette di tutelare il lavoratore a tempo determinato che ha concluso il suo rapporto di lavoro, attraverso il ricorso al nuovo sussidio di disoccupazione universale (la c.d. NASPI). Infatti, tale nuova assicurazione, pur prevedendo un enorme ampliamento della platea dei suoi beneficiari rispetto agli attuali ammortizzatori sociali, dovrebbe essere comunque essere corrisposta a favore di coloro che hanno terminato un rapporto di lavoro durato almeno tre mesi. Pertanto, i lavoratori a tempo determinato, avendo il riconoscimento giuridico di almeno quattro mesi e mezzo di lavoro consecutivi, saranno tutelati con un sostegno al loro reddito.

L’eliminazione delle pause lavorative tra un contratto e l’altro.

In aggiunta a quanto finora esaminato, bisogna sottolineare il fatto che il decreto legge in questione ha abrogato anche la previsione normativa che prevedeva la pausa di dieci giorni o venti giorni tra un contratto di lavoro a tempo determinato e l’altro, a seconda del fatto che il contratto concluso avesse avuto una durata rispettivamente inferiore o superiore a sei mesi (cfr., art. 5, comma 3 D.Lgs. n. 368/2001).

Pertanto, dato che la durata massima del contratto di lavoro a tempo determinato resta fissata in trentasei mesi (superati i quali, il rapporto di lavoro si trasforma a tempo indeterminato) e che fra un contratto e l’altro non esiste più l’obbligo di una pausa di dieci o venti giorni, ne consegue che, nel rispetto del citato tetto massimo di otto proroghe (mentre, lo ricordiamo, la Legge n. 92/2012 ne prevedeva una sola), i rinnovi possono essere uno successivo all’altro, senza alcuna interruzione dell’attività lavorativa.

Il limite nell’utilizzo dei contratti di lavoro a tempo determinato.

Infine, il decreto legge in questione ha introdotto un limite massimo all’utilizzo del contratto di lavoro a tempo determinato presso ciascun datore di lavoro. Infatti, i lavoratori a tempo determinato non possono eccedere la quota del 20% dell’organico complessivo del datore di lavoro.

Con la nota ministeriale, si evidenzia che il decreto legge fa, comunque, salvo quanto disposto dall’art. 10, comma 7, D.lgs. n. 368/2001, il quale, da un lato riconosce alla contrattazione collettiva la possibilità di modificare tale limite quantitativo e, dall’altro, tiene conto delle esigenze connesse alle sostituzioni e alla stagionalità.

Sempre relativamente al tetto massimo in questione, la nota ministeriale ha volto la sua attenzione nei confronti delle realtà imprenditoriali più piccole ed ha previsto che le imprese che occupano fino a cinque dipendenti possono comunque stipulare un contratto di lavoro a tempo determinato con un solo lavoratore.

La permanenza di varie criticità.

L’esame della novella dell’istituto del contratto di lavoro a tempo determinato evidenzia un numero pari di luci ed ombre.

Infatti, da un lato, appare evidente la volontà di rendere appetibile una forma contrattuale che, pur costituendo una forma di precariato, è comunque in grado di garantire, sebbene per un limitato lasso temporale, le medesime tutele retributive e contributive dei lavoratori subordinati ex art. 2094 c.c.. Infatti, appare evidente il ragionamento svolto dal legislatore, basato sulla convinzione che, eliminando alcuni dei vincoli burocratici introdotti dalla Legge, n. 92/2012 (c.d. “Riforma Fornero”), sarà possibile aumentare il numero delle assunzioni di lavoratori subordinati.

Dall’altro lato, si deve riscontrare l’introduzione di fatto di un periodo di prova della durata di tre anni, durante il quale è possibile il licenziamento del lavoratore senza preavviso, essendo i lavoratori a tempo determinato protetti dalla normativa in materia di licenziamento soltanto durante la vigenza del rapporto contrattuale. Si ricorda che tale limitazione era compensata dall’abrogata (con il presente decreto legge) previsione contenuta nel D.Lgs. n. 368/2001 di poter stipulare al massimo due rinnovi dello medesimo contratto con lo stesso datore di lavoro nell’arco di un triennio. Invece, si potrebbe assumere un lavoratore con contratti della durata anche di soli quattro mesi e mezzo, comportando la possibilità di ben otto assunzioni consecutive nell’ambito dei tre anni di durata massima del rapporto di lavoro a tempo determinato.

In altri termini, si corre il rischio che una novella introdotta per favorire l’occupazione possa essere utilizzata in maniera distorta ed eversiva, comportando un’ulteriore accentuazione del dualismo esistente tra contratti di lavoro a tempo determinato e quelli a tempo indeterminato.

Non resta che aspettare l’evoluzione che avrà la novella in questione in sede di conversione del decreto legge in legge, auspicando che il Parlamento intervenga nei punti maggiormente “critici”, garantendo un equo contemperamento tra le esigenze di tutela dei lavoratori e le necessità produttive dei datori di lavoro.

Una prima analisi del contenuto del Jobs Act.

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di Germano De Sanctis

Dopo tanta attesa, è stato finalmente reso noto il contenuto del Jobs Act. A sorpresa, il Governoha abbandonato l’idea di riformare il mercato del lavoro a colpi di decreto legge ed ha scelto una strada diversa. Infatti, il Consiglio dei Ministri del 12 marzo ha licenziato un disegno di legge delega al Governo, avente ad oggetto unaa riforma del mercato del lavoro, che demolisce l’intero impianto normativo delineato dalla c.d. legge Fornero.

In particolare ildisegno di legge delega prevede il conferimento in capo al Governo di specifiche deleghe finalizzate all’introduzione di misure aventi ad oggetto la riforma della disciplina degli ammortizzatori sociali, la riforma dei servizi per il lavoro e le politiche attive, la semplificazione delle procedure e degli adempimenti in materia di lavoro, il riordino delle forme contrattuali, il miglioramento della conciliazione tra tempi di lavoro e tempi di vita.

Contestualmente, il Consiglio dei Ministri ha anche varato anche un decreto legge avente ad oggetto alcuni interventi di semplificazione sul contratto a tempo determinato e sul contratto di apprendistato, finalizzati a renderli più coerenti con le esigenze attuali del contesto occupazionale e produttivo.

Non bisogna dimenticare, che l’intero pacchetto varato dal Consiglio dei Ministri deve essere “messo a sistema”, con la c.d. “Garanzia Giovani”, che dovrebbe partire il 30 marzo p.v. e che interesserà i giovani di età compresa tra i 15 ed i 24 anni, non occupati e non coinvolti in alcun percorso formativo o d’istruzione. Si tratta di un programma comunitario del valore di 1,5 miliardi di euro che durerà fino alla fine del 2015. Lo scopo di tale iniziativa comunitaria consiste nell’offrire ai giovani interessati un’offerta qualitativamente valida di lavoro, di proseguimento degli studi, di apprendistato, di tirocinio o di altra misura di formazione, entro quattro mesi dall’uscita dal sistema di istruzione formale o dall’inizio della disoccupazione.

Appare evidente come la scelta di affidare gran parte delle riforme in questione ad un disegno di legge delega diluisca, nel tempo, l’impatto sul mercato del lavoro dell’attività riformatrice, in quanto bisognerà attendere, in primo luogo, l’approvazione del disegno di legge in questione da parte del Parlamento, e successivamente l’attuazione governativa della delega concessa attraverso l’emanazione di uno o più decreti legislativi

Fatta questa premessa, esaminiamo meglio, nel dettaglio, le novita contenute nei due citati provvedimenti, raggruppando gli argomenti per aree tematiche.

Il contratto di lavoro a tempo determinato.

Per il contratto a tempo determinato viene prevista l’elevazione da 12 a 36 mesi della durata del primo rapporto di lavoro a tempo determinato, per il quale non è richiesto il requisito della c.d. causalità.

Al fine di mantenere in equilibrio il sistema delle tutele, viene fissato un tetto massimo per i contratti di lavoro a tempo determinato, pari al 20% del totale dei dipendenti del datore di lavoro.

Inoltre, si prevede la possibilità di prorogare anche più volte il contratto di lavoro a tempo determinato, ovviamente entro il limite dei tre anni, sempre che sussistano ragioni oggettive e si faccia riferimento alla stessa attività lavorativa.

Tale novella legislativa avrà un enorme impatto sul mercato del lavoro, in quanto il contratto di lavoro a tempo determinato interessa attualmente il 58% dei lavoratori italiani.

Il contratto di apprendistato.

Per il contratto di apprendistato, si prevede l’obbligo della forma scritta per il solo contratto e per il patto di prova, e non, come ora previsto, anche per il relativo piano formativo individuale.

Inoltre, sono state eliminate le vigenti previsioni, in virtù delle quali l’assunzione di nuovi apprendisti è necessariamente condizionata alla trasformazione in lavoratori subordinati dei precedenti apprendisti al termine del percorso formativo.

Si è anche previsto che la retribuzione dell’apprendista, per la parte riferita alle ore di formazione, sia pari al 35% della retribuzione del livello contrattuale dinquadramento.

Scompare l’obbligo in capo al datore di lavoro dintegrare la formazione di tipo professionalizzante e di mestiere con l’offerta formativa pubblica, che diventa un elemento discrezionale.

In altri termini, il decreto legge in questione, prova a rendere più appetibile il contratto di apprendistato, il quale attualmente interessa soltanto il 10% dei rapporti di lavoro in essere.

La smaterializzazione del DURC.

Viene previsto uno specifico intervento di semplificazione amministrativo, avente ad oggeto la smaterializzazione del DURC.

L’intento è di superare l’attuale sistema che impone ripetuti adempimenti burocratici alle imprese.

Secondo le stime del Governo, il provvedimento in questione avrà un impatto di grande rilevanza, tenendo conto del fatto che, nel corso dell’anno 2013. sono stati presentati circa 5 milioni di DURC.

Le delega al Governo in materia di ammortizzatori sociali.

Tale delega persegue lo scopo di assicurare un sistema di garanzia universale per tutti i lavoratori, prevedendo, in caso di disoccupazione involontaria, tutele uniformi e legate alla storia contributiva dei lavoratori, di razionalizzare la normativa in materia di integrazione salariale.

Questo nuovo sistema dovrebbe essere in grado di garantire il coinvolgimento attivo di tutti coloro che sono stati espulsi dal mercato del lavoro, o che risultino essere beneficiari di ammortizzatori sociali.

Inoltre, l’intero riformatore dovrà semplificare le procedure amministrative e dovrà ridurre gli oneri non salariali del lavoro.

Per raggiungere tutti questi obiettivi, la delegaha individuato i seguenti principi e criteri direttivi:

  1. rivedere i criteri di concessione ed utilizzo delle integrazioni salariali, escludendo i casi di cessazione aziendale;

  2. semplificare le procedure burocratiche anche con la introduzione di meccanismi automatici di concessione;

  3. prevedere che l’accesso alla cassa integrazione possa avvenire solo a seguito di esaurimento di altre possibilità di riduzione dell’orario di lavoro;

  4. rivedere i limiti di durata, da legare ai singoli lavoratori;

  5. prevedere una maggiore compartecipazione ai costi da parte delle imprese utilizzatrici;

  6. prevedere una riduzione degli oneri contributivi ordinari e la loro rimodulazione tra i diversi settori in funzione dell’effettivo utilizzo;

  7. rimodulare l’ASPI, omogeneizzando tra loro la disciplina ordinaria e quella breve;

  8. incrementare la durata massima dell’ASPI per i lavoratori con carriere contributive più significative;

  9. estendere l’applicazione dell’ASPI ai lavoratori con contratti di collaborazione a progetto, prevedendo, in una fase iniziale, un periodo biennale di sperimentazione a risorse definite;

  10. introdurre massimali correlati alla contribuzione figurativa;

  11. valutare la possibilità che, dopo l’ASPI, possa essere riconosciuta un’ulteriore prestazione in favore di soggetti con indicatore ISEE particolarmente ridotto;

  12. eliminare la previsione normativa che impone lo stato di disoccupazione come requisito per l’accesso alle prestazioni di carattere assistenziale.

Nell’esercizio di tale delega dovranno essere individuati i meccanismi necessari per assicurare il coinvolgimento attivo del soggetto beneficiario di prestazioni di integrazione salariale, ovvero di misure di sostegno in caso di disoccupazione, al fine di favorirne lo svolgimento di attività in favore della comunità locale di appartenenza.

La delega al Governo in materia di servizi per il lavoro e di politiche attive.

La delega in questione intende garantire la fruizione dei servizi essenziali in materia di politica attiva del lavoro su tutto il territorio nazionale, nonché vuole assicurare l’esercizio unitario delle relative funzioni amministrative.

A tal fine, la delega ha individuato i seguenti principi e criteri direttivi:

  1. razionalizzazione degli incentivi all’assunzione già esistenti, i quali dovranno essere collegati a specifiche caratteristiche osservabili per le quali l’analisi statistica evidenzi una minore probabilità di trovare occupazione;

  2. razionalizzazione degli incentivi per l’autoimpiego e l’autoimprenditorialità;

  3. istituzione, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, di un’Agenzia Nazionale per l’Impiego per la gestione integrata delle politiche attive e passive del lavoro, partecipata da Stato, Regioni e Province Autonome e vigilata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Tale Agenzia avrebbe l’attribuzione di compiti gestionali in materia di servizi per l’impiego, politiche attive e ASPI e si connoterebbe anche per il coinvolgimento delle parti sociali nella definizione delle linee di indirizzo generali. Sono, altresì, previsti meccanismi di raccordo tra l’Agenzia e l’INPS, sia a livello centrale, che a livello territoriale, così come sono previsti ulteriori meccanismi di raccordo tra l’Agenzia e gli Enti che, a livello centrale e territoriale, esercitano competenze in materia di incentivi all’autoimpiego e all’autoimprenditorialità. Il ruolo di tale Agenzia potrebbe essere molto interessante nell’ambito della poc’anzi citata “Garanzia Giovani”;

  4. razionalizzazione degli enti e delle strutture, anche all’interno del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, che operano in materia di ammortizzatori sociali, politiche attive e servizi per l’impiego, allo scopo di evitare sovrapposizioni e garantire l’invarianza di spesa;

  5. rafforzamento e valorizzazione dell’integrazione pubblico/privato, al fine di migliorare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro;

  6. conferma del ruolo svolto dal Ministero del lavoro e delle Politiche Sociali per la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni che debbono essere garantite su tutto il territorio nazionale;

  7. conferma delle competenze delle Regioni e delle Province Autonome in materia di programmazione delle politiche attive del lavoro;

  8. promozione di azioni volte al coinvolgimento attivo del soggetto che cerca lavoro;

  9. valorizzazione del sistema informativo per la gestione del mercato del lavoro e del monitoraggio delle prestazioni erogate.

La delega al Governo in materia di semplificazione delle procedure e degli adempimenti.

Questa specifica delega intendeperseguire la semplificazione e la razionalizzazione delle procedure di costituzione e gestione dei rapporti di lavoro, al fine di ridurre gli adempimenti a carico di cittadini e imprese.

A tal fine, la delega ha individuato i seguenti principi e criteri direttivi:

  1. razionalizzazione e semplificazione delle procedure e degli adempimenti connessi con la costituzione e la gestione del rapporto di lavoro, con l’obiettivo di dimezzare il numero di atti di gestione del rapporto di carattere burocratico ed amministrativo;

  2. eliminazione e semplificazione, anche mediante norme di carattere interpretativo, delle disposizioni interessate da rilevanti contrasti interpretativi, giurisprudenziali e amministrativi;

  3. unificazione delle comunicazioni alle Pubbliche Amministrazioni per i medesimi eventi (ad es., gli infortuni sul lavoro), ponendo a carico delle stesse Amministrazioni l’obbligo di trasmetterle alle altre amministrazioni competenti;

  4. promozione delle comunicazioni in via telematica ed abolizione dell‘obbligo di tenuta di documenti cartacei;

  5. revisione delsistema sanzionatorio, valorizzando gli istituti di tipo premiale, che tengano conto della natura sostanziale o formale della violazione e che favoriscano l’immediata eliminazione degli effetti della condotta illecita (a parità di costo);

  6. individuazione delle modalità organizzative e gestionali capaci di svolgere, anche in via telematica, tutti gli adempimenti di carattere burocratico e amministrativo connesso con la costituzione, la gestione e la cessazione del rapporto di lavoro;

  7. revisione degli adempimenti in materia di libretto formativo del cittadino.

La delega al Governo in materia di riordino delle forme contrattuali.

Lo scopo di tale delega consiste nella volontà di rafforzare le opportunità dingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, nonché di riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto produttivo nazionale e internazionale.

A tal fine, la delega ha individuato i seguenti principi e criteri direttivi:

  1. individuazione ed analisi di tutte le forme contrattuali esistenti, al fine di poterne valutare l’effettiva coerenza con il contesto occupazionale e produttivo nazionale e internazionale, anche in funzione di eventuali interventi di riordino delle medesime tipologie contrattuali;

  2. redazione di un testo organico di disciplina delle tipologie contrattuali dei rapporti di lavoro, riordinate secondo quanto indicato alla lettera a), che preveda anche l’introduzione, eventualmente in forma sperimentale, di ulteriori tipologie contrattuali espressamente volte a favorire l’inserimento nel mondo del lavoro, con tutele crescenti per i lavoratori coinvolti;

  3. introduzione, eventualmente anche in forma sperimentale, del compenso orario minimo, applicabile a tutti i rapporti di lavoro subordinato, previa consultazione delle parti sociali;

  4. abrogazione di tutte le disposizioni che disciplinano le singole forme contrattuali, incompatibili con il testo organico di cui alla lettera b), al fine di assicurare certezza agli operatori, eliminando le eventuali duplicazioni normative e difficoltà interpretative ed applicative.

La delega al Governo in materia di conciliazione dei tempi di lavoro con le esigenze genitoriali.

Tale delega vuole garante una effettiva conciliazione tra i tempi di vita ed i tempi di lavoro dei genitori. In particolare, il Governo vorrebbe raggiungere l’obiettivo di garantire alle donne un sistema di conciliazione tale da non costringerle a scegliere fra l’accudimento dei figli e la permanenza nel mondo del lavoro.

A tal fine, la delega ha individuato i seguenti principi e criteri direttivi:

  1. introduzione di un’indennità di maternità a carattere universale, la quale, pertanto, interesserà anche le lavoratrici che versano i propri contributi alla gestione separata;

  2. garantire il diritto alla prestazione assistenziale a favore delle lavoratrici madri parasubordinate, anche in caso di mancato versamento dei contributi da parte del datore di lavoro;

  3. abolizione della detrazione per il coniuge a carico ed introduzione del c.d. tax credit, inteso quale incentivo al lavoro femminile, per le donne lavoratrici, anche autonome, con figli minori e che si trovino al di sotto di una determinata soglia di reddito familiare;

  4. incentivazione degli accordi collettivi volti a favorire la flessibilità dell’orario lavorativo e l’impiego di premi di produttività, per favorire la conciliazione dell’attività lavorativa con l’esercizio delle responsabilità genitoriali e dell’assistenza alle persone non autosufficienti;

  5. integrazione dell’offerta di servizi per la prima infanzia forniti dalle imprese nel sistema pubblico-privato dei servizi alla persona, anche mediante la promozione del loro utilizzo ottimale da parte dei lavoratori e dei cittadini residenti nel territorio in cui sono attivi.