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Nel nome del plagio, colpevole di essere diverso. Il caso Braibanti.

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Si è spento lo scorso 6 aprile, a 91 anni, Aldo Braibanti, artista, poeta e scrittore piacentino. Negli anni ’60 divenne famoso per l’accusa di plagio rivoltagli dai familiari di Giovanni Sanfratello, compagno di Braibanti che da Piacenza lo aveva seguito, quando questi si era trasferito a Roma.
Secondo il padre del ragazzo, Braibanti aveva “sottomesso” alla sua volontà il giovane figlio, plagiandolo e imponendogli il suo stile di vita. Braibanti fu quindi condannato per plagio, reato previsto dal codice Rocco, rimasto in vigore fino al 1981 quando il Giudice delle Leggi ne dichiarò l’incostituzionalità. “Il giovane Sanfratello – dichiarò il P.M. durante il processo – era un malato, e la sua malattia aveva un nome. “Aldo Braibanti! Quando appare lui tutto è buio”. Il “caso Braibanti” è stato il primo e unico di condanna per plagio. Ma il reato che si voleva, in realtà, ascrivere a carico di Braibanti era la sua omosessualità. Il caso Braibanti costituisce, ancora oggi, una delle vicende giudiziarie più oscure ed infamanti della nostra storia.

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Braibanti era diverso. Intellettuale avanguardista, così diverso dagli artisti dell’epoca. Diverso politicamente, né a sinistra, né a centro né con la destra reazionaria. Dalla rubrica “Il Caos” di una copia del 1968 del quotidiano “Il Tempo”, Pasolini rilevava come quello di Braibanti fosse un caso di intellettuale che aveva rifiutato precocemente l’autorità che gli sarebbe provenuta dall’essere uno scrittore dell’egemonia culturale comunista, ma che poi aveva altresì rifiutato l’autorità di uno scrittore creato dall’industria culturale. Nel medesimo articolo, si legge che il suo delitto fu quello di assecondare la sua debolezza. Ma questa debolezza egli se l’era scelta e voluta, rifiutando qualsiasi forma di autorità: autorità, che, come autore, in qualche modo, gli sarebbe venuta naturalmente, a patto che egli avesse accettato, anche in misura minima, una qualsiasi idea comune di intellettuale: o quella comunista o quella borghese o quella cattolica, o quella, semplicemente, letteraria. E questa debolezza era conseguenza della sua solitudine. Una debolezza scontata che egli pagò con l’accusa, pretestuale, di plagio e la successiva condanna. Vero è che dalla sua debolezza gli derivava un’altra autorità: la sua. Autorità, dunque, più pericolosa di tutte, perché indipendente, autonoma, fuori dagli schemi e da qualunque categoria.

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Sì, Braibanti era diverso. Da tutti, anche come uomo. E quella che Pasolini chiamava “debolezza” al tempo in cui scriveva, era, invece, la sua forza. La stessa forza che apparteneva a Pasolini, in fondo. Quella diversità che ti spinge oltre il comune sentire, che ti consente di percepire la realtà e raccontarla con modulazioni tanto peculiari quanto estranee alla società di massa. Che ti rende inevitabilmente solo. Sempre. Comunque. E inevitabilmente diverso, per quanti sforzi tu possa fare.
La principale condanna di Braibanti, perciò, non è stata il carcere. Ma la solitudine cui è stato relegato dopo, l’isolamento intellettuale che l’ha accompagnato fino alla morte. L’emarginazione: la condanna che gli italiani piccolo-borghesi impongono alla diversità per sentirsi tranquilli, davanti a ogni forma di scandalo, se questo scandalo ha dietro una qualsiasi forma di opinione pubblica o di potere. Così avvertiva lo stesso Pasolini, perché essi riconoscono subito, in tale scandalo, una possibilità di istituzionalizzazione, e, con questa possibilità, essi fraternizzano. Del resto, quante volte sentiamo gente dichiarare la propria tolleranza verso i gay, purché non si facciano vedere?
E allora processo sia. E processo fu. All’omosessuale, nel nome del plagio. L’obiettivo era distruggere Braibanti per dimostrare al Paese quanto sbagliato fosse accettare la propria diversa identità sessuale.

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Anche il capo d’accusa rientrava nel tipico schema attraverso cui la cattolicissima società italiana condanna da anni una parte cospicua dei suoi cittadini. Veniva, infatti, invocato l’art. 603 c.p., il plagio, per censurare, invece, la condotta tenuta dalla coppia Braibanti-Sanfratello. Tant’è che mai, in nessun’occasione, l’Italia bigotta dell’epoca riuscì a rilevare che il processo fosse un’istruttoria contro l’omosessualità. I gay vanno condannati prima di tutto col silenzio. Ancora oggi. Nel nostro Paese, dove l’omosessualità non costituisce reato, il Legislatore continua a far finta che i gay non esistano, condannandoli all’isolamento, alla solitudine e a un silenzio rumoroso che, necessariamente, conduce alla negazione dei loro diritti positivi e naturali. In primis, quello di esistere come soggetti giuridici titolari degli stessi diritti civili degli altri cittadini. A Braibanti, infatti, non venne contestata la relazione con Sanfratello, non era giuridicamente possibile né socialmente accettabile. Gli venne, invece, contestato d’essere frustrato in quanto basso e ‘stortignaccolo’, d’essere un buono a nulla perché artista e, in quanto artista, corruttore d’anime. Tra i testimoni chiamati in aula ci furono i piacentini Piergiorgio e Marco Bellocchio, e il musicista Sylvano Bussotti. A quest’ultimo che la Corte ebbe a chiedere: “Lei è omosessuale?”. La domanda fece scalpore, poiché fu uno dei rari passaggi processuali in cui si accennò all’omosessualità. In un saggio intitolato “Il Processo Braibanti”, edito nel 2003 per i tipi dell’editore Silvio Zamorani, lo studioso Gabriele Ferluga rileva, appunto, come questo tema, all’epoca, fosse cassato con imbarazzo anche dall’intellettualità di sinistra che, pure, difendeva Braibanti. Uniche eccezioni, Pasolini, Moravia, Umberto Eco e Dacia Maraini, che del caso Braibanti fece un racconto, e i radicali.

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Cattolici nel DNA, noi italiani cresciamo tutti con lo spettro del peccato e della sua espiazione, perché ci insegnano da piccoli che è sbagliato assecondare le nostre pulsioni. Ma la realtà è che peccato sarebbe sprecare un’esistenza, non amare, vivere un inferno terreno per la promessa di un paradiso oltre la vita. Peccato è l’imposizione all’altro delle proprie ragioni e del proprio credo. Peccato è condannare un amore, bollandolo come diverso, innaturale, sporco. Criminale, perciò, non fu la relazione che Braibanti ebbe con Sanfratello, ma il processo che lo condannò. Ad essere sporche erano le anime di quelli che giudicarono la storia di Aldo e Giovanni.

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Allora mi chiedo: se la società moderna ha chiesto che la Chiesa dopo secoli di storia rivedesse le posizioni assunte ai tempi della Santa Inquisizione, non sarebbe etico pretendere dalla Repubblica Italiana un’ammissione di colpa, sia pur postuma, per questo processo farsa? Con Sent. n. 96/1981, la Corte Costituzionale ha ‘cancellato’ il plagio dall’ordinamento giuridico italiano. Braibanti non ottenne neppure la revisione del processo. A 33 anni da quella sentenza di incostituzionalità, malgrado il tentativo nel 2005 di alcuni esponenti di AN di reintrodurre questo delitto, unico nel quadro giuridico europeo, è necessaria una presa di coscienza collettiva. L’Italia non è diversa dalla Russia, solo più discreta. Ieri come oggi.
Bisogna, invece, restituire dignità alla memoria di Braibanti, per l’inferno subito a causa dell’imputazione di un reato che, nell’Italia democratica, è esistito solo per lui, che per quell’ingiustizia ha ottenuto solo un parziale riconoscimento, quando, nel 2006, il governo Prodi, viste le sue condizioni economiche, gli ha concesso il vitalizio della legge Bacchelli. Una revisione almeno morale di quel giudizio è un’azione necessaria per interrompere l’iniqua e vergognosa damnatio memoriae subita da lui e dalle sue opere. Nulla ripagherà ormai Aldo del carcere scontato e dell’onta subita, durante il dibattimento, dalla magistratura e dalla stampa. Ma il suo riscatto (dopo il suo sacrificio) servirebbe oggi alla società civile che lo ha condannato, a quella parte che ancora si ostina a non vedere, a non capire. L’educazione alla legalità di un popolo è innanzitutto una lezione di rispetto. Una lezione per orientare tutti gli italiani verso quella tolleranza che ispirò i Costituenti dello stesso Stato che distrusse la vita di Aldo Braibanti.

Andrea Serpieri per

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LICENZIATO? MI VENDO SU EBAY!

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di Michele De Sanctis

A proposito di fuga di cervelli, stavolta a metterne alla porta circa 400 è l’americana Micron, operativa in Italia da tre anni dopo l’acquisto di Numonyx, azienda fondata nel 2008 da St Microelectronics e Intel, con circa 1100 dipendenti in tutto il Paese. E parliamo di manodopera qualificata, 419 eccellenze della microelettronica che dal 7 aprile verranno allontanate per esuberi dalle sedi di Agrate, Vimercate, Avezzano, Arzano e Catania. Tra meno di una settimana, quindi, anche queste persone saranno in mezzo a una strada. lI sito produttivo più colpito dai tagli è quello milanese di Agrate: 223 ‘eccedenze’ su 507 addetti. Ma sorte simile toccherà pure a quello di Vimercate, mentre sono 17 quelli che verranno fatti fuori dallo stabilimento abruzzese di Avezzano, che conta 92 dipendenti. A Catania saranno in 127, su 324 impiegati, a restare a casa, ad Arzano 52 su 131.
Ma stavolta i lavoratori non ci stanno. E hanno deciso di ingaggiare una battaglia mediatica, sfruttando al massimo le risorse della rete: tra hashtag su Twitter, post su Facebook e foto, la vicenda sta diventando un caso nazionale. Anche (e soprattutto) perché negli anni scorsi la Micron ha ricevuto 150 milioni di euro di contributi pubblici per creare 1.500 posti di lavoro. E se la Fiat fa scuola tra le aziende più spregiudicate, allora si spera che i dipendenti Micron la facciano tra tutti i lavoratori. E si auspica che anche l’Unione Europea intervenga in merito al comportamento di certe aziende che con una mano racimolano denari pubblici e con l’altra tagliano o chiudono. Anche perché quei soldi non vengono mica restituiti.

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Forse non è ancora chiaro a chi sta nelle cosiddette ‘stanze dei bottoni’, ma i lavoratori italiani non sono burattini che possono essere presi e riposti in una cassa, perché non servono più. Adesso anche basta…È il caso, allora, di alzare la voce per farsi sentire meglio, proprio come stanno facendo queste persone. Noi, pertanto, riportiamo la notizia per contribuire, nel nostro piccolo, a diffondere ulteriormente la notizia, affinché più gente possibile sappia cosa sta accadendo alla Micron, a circa 400 lavoratori, che dopo la protesta sui social hanno ora deciso di mettersi letteralmente in vendita su eBay. Da eccellenze St a eccedenze Micron, recita così l’annuncio che accompagna l’asta dei 419 ingegneri, fisici e tecnici specializzati.
L’annuncio ritwittato con l’hashtag #casomicron, oltreché eBay e sui social, è stato altresì pubblicato su cartelloni sei per tre esposti in tutta Italia. Peraltro, su questi poster i lavoratori hanno chiesto a “perditempo e delocalizzatori di astenersi”. Forse perché è a causa di questo genere di persone che sono finiti all’asta?

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Intanto, ad Arzano, per tenere alta l’attenzione sulla loro vertenza, i lavoratori adottano anche sistemi di protesta più tradizionali, come il picchettaggio di ieri al Consiglio Regionale. Mentre già all’indomani dell’annuncio di un taglio del 50% del personale da parte della multinazionale americana in Italia, i dipendenti avevano proclamato una serie di scioperi e da ultimo redatto una lettera a Renzi.
Proprio ieri il premier è intervenuto sul tema del lavoro, dopo che l’Istat ha reso noto il picco del 13% che la disoccupazione ha fatto registrare a febbraio scorso. Renzi ha inoltre definito questi dati “sconvolgenti”. Occorre più flessibilità per risanare il mercato del lavoro. Così si sarebbe espresso. Di diverso avviso pare essere, invece, il governatore di Bankitalia Ignazio Visco, che ha parlato di flessibilità non utile e di un cambio necessario.
Nel frattempo il 7 aprile si avvicina. Facciamo girare questa notizia, condividiamola tutti sulle nostre bacheche. Noi stiamo con i lavoratori della Micron. E voi?

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LEZIONI DI TOLLERANZA ALL’UNIVERSITÀ.

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Una ‘queer week’. Sarà questo il progetto che un gruppo autonomo di studenti e studentesse (alcuni dei quali già attivisti nel collettivo post-femminista “Laboratorio Le Antigoni” e nel collettivo LGBT “La Mala Educacion”) ha in programma di organizzare presso l’Università d’Annunzio di Chieti-Pescara.

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Il programma sarà intitolato “Primavera Queer” e in Abruzzo sarà la prima iniziativa di approfondimento sugli studi di genere e la Queer Theory, ancora poco conosciuta in Italia, ma molto diffusa nel mondo anglosassone. L’obiettivo sarà quello di dare una risposta a certe domande che per molti italiani costituiscono ancora un tabù. Quando nasce l’omosessualità? E l’identità eterosessuale? Cosa sono il ruoli di genere? Chi sono le persone intersessuali e transessuali? Qual è la differenza tra sesso e genere? Quali solo le origini delle categorie oppositive uomo-donna, eterosessuale-omosessuale?

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L’approccio sarà multidisciplinare, passando dalla psicologia alla medicina fino ad approdare alla linguistica e alla sociologia. Dal 5 al 9 maggio 2014, con una giornata introduttiva il 28 aprile 2014, docenti, autori e autrici, noti anche a livello internazionale, si alterneranno in una sei giorni di seminari di approfondimento e laboratori pratici. Interverranno personalità del mondo accademico come Marco Pustianaz (Università del Piemonte Orientale), Laura Corradi (Università di Cosenza) e Rachele Borghi (della Sorbonne di Parigi), oltreché individualità e collettivi provenienti dalla militanza LGBTQ come Renato Busarello del Laboratorio ‘Smaschieramenti’, noto collettivo queer bolognese, Porpora Marcasciano del MIT (Movimento di Identità Transessuale) e BellaQueer di Perugia. Gli ospiti si alterneranno all’interno del campus di Chieti Scalo, tra il Rettorato e gli spazi dell’ex Facoltà di Lettere per analizzare alla radice le cause culturali e sociali delle discriminazioni e delle violenze di genere.

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La “Primavera Queer” sarà soprattutto un momento di autoformazione: un’occasione di incontro e discussione rivolto a tutti gli studenti e le studentesse dell’università.
Il progetto, presentato al bando 2013/2014 per le attività sociali e culturali degli studenti dell’Università d’Annunzio, è stato selezionato e finanziato tra tanti altri.

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Oggi, martedì 1 aprile, dalle ore 10:30, presso il piazzale della ex Facoltà di Lettere, è stata convocata una conferenza stampa durante la quale sarà illustrato il programma dettagliato dell’evento e saranno date ulteriori informazioni.

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Noi di BlogNomos diffondiamo con piacere questa notizia, nella speranza che iniziative di questo tipo vengano presto assunte anche in altre realtà accademiche, convinti che un’informazione sana e consapevole possa portare al definitivo superamento della paura del ‘diverso’ che isola ingiustamente una larga fetta di popolazione e giunge alla negazione di taluni diritti civili che, sebbene scontati all’interno delle famiglie tradizionali, restano ancora la meta da raggiungere in ambito LGBTQ. Il che inevitabilmente allontana il nostro bel Paese dall’Europa e dall’occidente più evoluto, avvicinandoci, peraltro, alla Russia di Putin e a certe realtà dove l’omosessualità è ancora un reato. Perché indifferenza, negazione e silenzio costituiscono, comunque, una condanna che la società infligge in virtù del ‘peccato originale’ di essere omosessuale.

Andrea Serpieri per

BlogNomos

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‘PANE IN ATTESA’: LA SOLIDARIETÀ PARTE DAL SUD.

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di Michele De Sanctis

E’ partita da Messina, per il tramite della Onlus Invisibili, l’iniziativa ‘Pane in attesa’. Così, come con il tradizionale ‘caffè pagato’ tipico della tradizione partenopea, al panettiere si lascia un’offerta, anche di pochi centesimi, ma, a differenza del ‘caffè sospeso’, sono solo le persone in difficoltà, già segnalate dall’associazione promotrice dell’iniziativa umanitaria e munite di uno speciale tesserino, a poter ritirare dal fornaio un sacchetto con cinque panini. La scelta di ricorrere a criteri rigidi come la segnalazione da parte della Onlus e la consegna di un tesserino identificativo risponde a un’evidente esigenza di controllo, affinché ad usufruire di quest’iniziativa sia soltanto chi ha davvero bisogno.

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Nel decalogo presentato da Invisibili Onlus si legge che l’offerta per il pane sospeso è libera: anche un solo panino sarà accettato. Quando un cliente metterà in attesa il pane i soldi dovranno essere messi in un apposito contenitore. Quando si preparerà il sacchetto, con 5 panini, si prenderanno i soldi dal contenitore. Se i soldi non bastano per coprire la spesa di cinque panini si aspetterà di avere la somma necessaria. Il sacchetto con il pane dovrà essere messo dentro la cesta in modo da poter essere visto da chi dovrà ritirare il pane. La cesta dovrà avere un cartello con la scritta ‘Pane in attesa’. Quando un sacchetto verrà ritirato si dovrà battere il relativo scontrino fiscale e un altro sacchetto verrà messo nella cesta per rimpiazzarlo. Il pane verrà ritirato da chi esibirà il tesserino del progetto ‘Pane in attesa’. Se le somme donate in un giorno non verranno spese per il pane di quella giornata, perché non ci saranno abbastanza ritiri, potranno essere utilizzate per pagare il pane dei giorni successivi.
La catena della solidarietà, vista la buona riuscita in Sicilia, sarà probabilmente esportata anche nelle Marche e nel Lazio. Mentre a Napoli il pane sospeso si è già affiancato al caffè pagato, secondo le medesime regole: dopo aver comprato il pane si può, infatti, decidere di acquistarne altro per i più bisognosi.
Qualunque sia la regola adottata, si spera che l’iniziativa venga replicata anche in altre città.

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I MERCANTI DEL TEMPO

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di Michele De Sanctis

C’era una volta una strana bambina che, scappata dall’orfanotrofio, era andata a vivere da sola tra le rovine di un anfiteatro di una grande città. Agli abitanti dei dintorni, che la guardavano incuriositi, diceva di chiamarsi Momo e di non conoscere la sua età. Subito dopo il suo arrivo, però, si era già conquistata la fiducia e la simpatia di tutti: chiunque avesse un problema andava da Momo che non dava consigli e non esprimeva opinioni. Semplicemente si limitava ad ascoltare l’interlocutore, che, da solo, trovava la risposta ai suoi quesiti. Era l’ascolto, che Momo offriva. Era il suo tempo. Un giorno, però, giunsero in città gli agenti della Cassa di Risparmio del Tempo, signori grigi che miravano ad impadronirsi del tempo degli uomini, indispensabile per la loro sopravvivenza. Al di là della storia, che in molti conoscono, il tema centrale del libro è quello del tempo, anzi, del modo in cui esso viene impiegato nella moderna società occidentale. Ed è del tempo che oggi voglio parlarvi. Del tempo, come bene economico.

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I signori grigi sono tra noi, siamo noi stessi, vivendo della frenesia contemporanea, a quel ritmo consumistico e compulsivo che Ende criticava, simbolicamente, nella storia di Momo. Il progresso tecnologico e produttivo ci ha, infatti, lasciato perdere di vista l’obiettivo della qualità della vita, del piacere di assaporare, nell’attimo, le piccole cose belle della vita. Se poi ai ritmi frenetici con cui ai tempi della crisi si rincorre la meta della competitività, aggiungiamo salari inadeguati, precarietà e, in generale, l’umana necessità di sopravvivere nelle jungle urbane del XXI secolo, il tempo da dedicare alla felicità è davvero poco, forse non ne abbiamo proprio. Ma c’è un modo per recuperare le ore perdute? In effetti, non sarebbe male se, ad un prezzo alla portata delle tasche di tutti, potessimo comprare il tempo che altrove ci viene sottratto.

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Anche il lavoro che svolgiamo è, in realtà, misurato in ore ed è per quelle ore lavorate che si percepisce un salario. Ma il tempo retribuito è tempo sottratto a noi stessi, alla nostra felicità personale. Comprare del tempo, pertanto, sarebbe come acquistare la possibilità di essere felici. Pensate se, ad esempio, una volta usciti dai vostri uffici, poteste passeggiare liberamente nel parco, scambiare quattro chiacchiere con i vostri amici davanti a un Apertas o a uno Spritz, piuttosto che andare alle poste e mettervi in fila per ore, dedicarvi alla cura della famiglia o a quei piccoli lavoretti che in ogni casa ci sono sempre da fare. Immaginate se ci fosse qualcuno disposto a farlo per voi a un prezzo forfettario. Qualcuno disposto a vendervi il proprio tempo. Sigori grigi, Momo è entrata nel mercato ed è disposta ad ascoltarvi, anzi, di più, a darvi una mano. E siccome è una lavoratrice autonoma, non vi chiederà altro che il giusto corrispettivo per ogni singola prestazione, come da tariffario. La sua è un’obbligazione di risultato.

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Ma a Momo conviene? Certo, perché se Momo lavora solo sei ore al giorno per dieci euro all’ora, ogni giorno avrà guadagnato 60 euro, se lo fa per cinque giornate lavorative a settimana arriverà a 1200 euro lordi in un mese, che è molto più di quanto avrebbe percepito restando per otto ore al giorno in un call center. Momo avrà ottenuto una mensilità dignitosa, ma, nel contempo, non avrà rinunciato alle sue ‘orefiori’. Ma anche il manager, l’impiegato e perfino la casalinga, che si sono avvantaggiati delle prestazioni offerte da Momo avranno guadagnato un’ora di vita al ragionevole prezzo di dieci euro. La segretaria che si è rivolta a Momo affinché questa si recasse al supermercato al posto suo, oggi è potuta andare alla recita dei suoi figli e quanto vale un’ora con vostro figlio? Dieci euro? O di più?

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La storia raccontata da Ende è qualcosa di più di una semplice fiaba, è un libro sul valore del tempo, il tempo da dedicare agli altri, a noi stessi, alle cose che ci fanno star bene e ai nostri pensieri. Ma se questo tempo viene sottratto da ritmi lavorativi sempre più frenetici, cercare di risparmiar tempo adesso, per essere felici poi, altro non fa che spegnere la vita, distruggendo così il tempo stesso. Diversamente, vivere consuma sì il tempo, ma ne conserva la qualità vitale. La fiaba di Ende racconta l’antico conflitto tra la vita e la morte in termini più sottili e moderni: a Momo, la bambina capace di ascoltare tanto da udire e fare udire le musiche, i silenzi e le avventure della vita interiore, si oppongono i signori grigi, nebbiosi, freddi e insinuanti che possono trasformare la vita in un vuoto insensato e ripetitivo e il cuore umano in un luogo sterile e chiassoso. Se non è possibile, al giorno d’oggi, opporsi a questi signori, possiamo, però, sconfiggerli, pur continuando a giocare alle loro regole, posto che riuscire a volare tra i petali e ridare agli uomini il tempo perduto è pressoché improbabile.

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Se, quindi, pensavate che l’unica cosa che il denaro non potesse comprare fosse proprio il tempo, vi sbagliavate. La mia non era solo teoria. C’è, infatti, gente che offre di ‘vendere’ il proprio tempo agli altri. La settimana tra scuola o lavoro, impegni vari, sport, imprevisti, hobby disparati si riempie subito e con molta facilità, tant’è che diventa praticamente impossibile realizzare tutto. Avremmo bisogno di un clone per farcela.

Pioniera in questa fetta di mercato finora ignorata è stata qualche anno fa una donna cinese, Chen Xiao, che, dopo aver perso il lavoro e aver sofferto per il terremoto del Sichuan, ha avuto l’idea di vendere il suo tempo alle altre persone. Molto semplicemente, ha iniziato a fare quello che gli altri le chiedevano, vendendo la propria vita secondo un tariffario ben preciso: otto minuti per un euro. Non parliamo di proposte indecenti o ai margini della legalità, ma di impegni quotidiani. Le richieste per Chen Xiao variavano dalla consegna di un libro a una persona che lo aveva dimenticato all’università, al portare un caffè, al ritirare lettere presso l’ufficio postale o altro. Sempre per conto di terzi. Vi dirò di più, la donna ha svolto anche occupazioni in cui davvero sembrava immedesimarsi nell’altra persona: leggere un libro, vedere un film, comunicare un messaggio, e così via. E ancora, richieste di andare a svegliare una persona ad una determinata ora, incoraggiare qualcuno, chiedere scusa a un altro. Il risultato? La sua idea non è andata per nulla male: nel primo mese accumulò una cifra che corrispondeva a circa 1250 euro. Aveva inventato un lavoro.

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Anche in Italia la crisi ha portato qualcuno a scoprirsi ‘tuttofare’, vendendo, appunto, il proprio tempo e riuscendo a sopravvivere alla disoccupazione. E’ solo di qualche mese fa la notizia di un meridionale trapiantato a Milano che per dieci euro all’ora si offriva di svolgere le nostre piccole e noiose commissioni quotidiane. Ed oggi è sempre più frequente trovare in rete annunci simili, provenienti da ogni regione.

A ciò si aggiungano, inoltre, le Banche del Tempo, associazioni no profit, nate in Gran Bretagna ed oggi molto diffuse anche da noi, che, in cambio di tempo e di un eventuale rimborso spese, offrono ai soci lezioni di cucina, di manutenzione casalinga, accompagnamenti e ospitalità, baby sitting, cura di piante e animali, scambio, prestito o baratto di attrezzature varie, ripetizioni scolastiche e italiano per stranieri. Anche il tempo dedicato all’organizzazione, all’accoglienza, e alle riunioni o feste viene in genere valutato come tempo scambiato e quindi accreditato o addebitato nel conto personale del socio. Il tempo viene, praticamente, ‘conferito’ nel patrimonio della Banca: ciascun socio, infatti, mette a disposizione qualche ora per dare ad un altro socio una certa competenza. Le “ore” date vengono “calcolate” e “accreditate” ovvero “addebitate” nella Banca. Può succedere, così, che non sia la stessa persona a “rimborsarle”, ma un’altra. Impropriamente, dunque, potremmo dire che il conferimento delle ore sostituisce quello dei beni nel capitale societario.

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Siete ancora sicuri che il tempo non sia un bene economico? Sebbene l’idea possa sembrarvi eccentrica e particolare, bisogna, però, pensare come il limite del tempo sia uno dei più grandi freni a cui è ancorato l’uomo dei nostri tempi. Negli ultimi anni il progresso ha fatto passi da gigante, ma nulla è ancora riuscito né a renderci immortali, né a permetterci di fare più cose contemporaneamente. La clonazione umana esiste solo nei film e, d’altra parte, il nostro cervello non è capace di gestire consciamente pensieri diversi nello stesso momento; oltretutto, è impossibile trovarsi fisicamente in posti diversi, la bilocazione appartiene ai santi, non agli uomini. Per giunta, sebbene da Adam Smith in poi nei processi produttivi sia divenuta prassi quella di suddividere un’operazione tra diversi individui, ognuno atto ad uno specifico compito, ciò, tuttavia, non è possibile per quanto riguarda strettamente la persona in sé: non possiamo domandare a qualcuno di imparare qualcosa per noi, come non possiamo chiedere che magari esca al posto nostro con i nostri amici. Questi soggetti, che ho chiamato ‘mercanti del tempo’, servono proprio a consentirci di fare ciò che non possiamo delegare ad altri: vivere. E noi stessi possiamo entrare in questo business. O, più modestamente, contribuire, su base volontaria, alla Banca del Tempo più vicina alla nostra comunità. Il nostro tempo ha un valore!

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Siete ancora scettici? Pensate che un’ora sola non basti? Ovviamente, questo dipende da voi. Di una cosa io sono certo: se il tempo è suscettibile di valutazione economica, il prezzo della felicità che deriverà da questo acquisto non è stimabile. La felicità appartiene, infatti, ad ognuno di noi ed è soltanto nostra, come nostra ne è la percezione. La felicità non ha prezzo perché è soggettiva (quanto effimera), perciò, se domani qualcuno suonerà al vostro campanello, proponendovi l’acquisto di un’ora di felicità, chiudetegli la porta in faccia: è soltanto un ciarlatano!

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Cottarelli: tagli alle invalidità civili

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di Michele De Sanctis

«Se sarà necessario non è da escludere una mobilitazione nazionale, tale da esprimere, con tutta la forza possibile, la disperazione che tali misure generano in una già grave situazione per le persone con disabilità e le loro famiglie». 
La società civile all’attacco del piano Cottarelli. Queste sono state, infatti, le prime dichiarazioni a caldo rilasciate da Pietro Barbieri e Giovanni Pagano, presidenti rispettivamente della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) e della FAND (Federazione tra le Associazioni Nazionali delle Persone con Disabilità), le due organizzazioni che rappresentano la quasi totalità delle Associazioni impegnate sul fronte della disabilità, dopo la diffusione delle Proposte di revisione della spesa pubblica, elaborate da Carlo Cottarelli, commissario straordinario per la Spending Review, fra le cui ipotesi sono contemplati anche alcuni interventi sulla spesa per le invalidità civili «particolarmente preoccupanti».

Parliamo di 500 euro per 12 mensilità che l’INPS corrisponde, spesso dopo mesi di attesa, a famiglie sull’orlo della disperazione, che si trovano in casa una persona non più autosufficiente, gravemente malata e che necessita di un accudimento costante. Accudimento, rispetto al quale quel misero forfait è poco o nulla, tant’è che spesso non è neanche sufficiente a coprire quanto previsto dal contratto nazionale delle collaboratrici familiari e le famiglie si ritrovano costrette a ricorrere al lavoro nero o a dichiarare nel contratto con la badante un numero di ore di assistenza inferiori a quelle effettivamente prestate. Ad ogni buon conto, la stretta sulle pensioni di invalidità e accompagnamento si aggira intorno ai 30.000 euro individuali e ai 45.000 euro di reddito familiare: oltre questa soglia di reddito le stesse potrebbero essere negate.

«Le nostre Federazioni – dichiarano i Presidenti di FISH e FAND – rigettano ogni ipotesi di intervento sulle uniche provvidenze certe a favore delle gravi disabilità e intendono intervenire in tutte le sedi istituzionali, senza escludere il ricorso a una mobilitazione nazionale, per contrastare questa previsione».

La principale critica mossa ai rilievi di Cottarelli è quella circa la rilevata disomogeneità del territorio che non corrisponderebbe alla distribuzione demografica dei disabili; sul punto, le associazioni fanno notare che il «Commissario non ha incrociato i dati con la spesa per i non autosufficienti in quelle stesse Regioni». Diversamente, avrebbe scoperto che, «laddove le Regioni (esempio Calabria) spendono pochissimo per i disabili gravi, il numero delle indennità di accompagnamento lievita proporzionalmente. E soprattutto non ha presente i tagli massicci che la spesa sociale ha subito nell’ultimo decennio che spingono gli stessi Comuni a consigliare i propri cittadini ad avviare le procedure di riconoscimento dell’indennità di accompagnamento».

E’ come dire che, dove ci sono più servizi a livello locale, meno si ricorre al parastato che, nelle realtà prive di assistenza alla persona a livello sanitario, quindi regionale, viene visto come l’ultima (e forse la sola) spiaggia, cui far ricorso per chiedere un aiuto.

Il cuore della questione è quindi il grafico, presentato da Cottarelli, che visualizza la distribuzione territoriale delle prestazioni di indennità di accompagnamento, dimostrandone lo squilibrio interregionale: i numeri, riferiti solo alle persone con 65 e più anni, evidenziano che per 100 prestazioni di accompagnamento riconosciute in Piemonte (regione con il numero più basso) ce ne sono oltre 200 in Calabria (regione con il numero più alto) e picchi evidenti anche in Campania, Umbria e Sardegna, seguite da Puglia e Sicilia. All’estremo opposto, con il Piemonte, anche Liguria, Lombardia, Emilia Romagna, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Toscana. Le altre, chi più chi meno, nel mezzo. “Tale andamento – scrive la FISH – dimostra sicuramente una differente distribuzione territoriale delle prestazioni di indennità di accompagnamento, ma nulla ci dice rispetto alle motivazioni che potrebbero stare alla base degli squilibri evidenziati”.

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«Il documento del Commissario Straordinario – dichiarano Barbieri e Pagano – ripropone vetuste e discutibili proiezioni, evidenziando come in alcune Regioni vi siano percentuali maggiori di indennità di accompagnamento rispetto ad altre. Abusi, quindi, che sarebbero dimostrati appunto dai “picchi territoriali” e da un aumento della spesa non dimostrata da “flussi demografici”. Ma, come appena evidenziato, è “piuttosto semplicistico” affermare che il maggior numero di indennità di accompagnamento concesse in alcune regioni rispetto ad altre derivi da una serie di “abusi” che andrebbero contrastati. Lo si legge anche su una fonte autorevole in questo campo come Superabile, il portale che INAIL ha dedicato alle tematiche della disabilità. E’, perciò, diventata una guerra di numeri quella che in queste ore vede contrapposti da un lato chi spinge per una stretta sulle pensioni di invalidità e sulle indennità di accompagnamento e dall’altro chi invece quegli stessi interventi vorrebbe evitarli.

La FISH sul suo portale Condicio.it critica aspramente questi dati apparentemente incomprensibili e incontrovertibili rispondendo con altri numeri e tabelle, usando elaborazioni ISTAT che provano a dare una spiegazione al fenomeno, rilevato da supercommissario. Senza mancare di far notare che le indennità di accompagnamento sono concesse soprattutto agli ultra65enni (a loro va il 73% del totale, dati Istat al 1° gennaio 2012) e che la stessa presenza di “picchi territoriali” risulta alquanto strana sia in considerazione del ruolo che, nella validazione dei verbali di invalidità, hanno i medici INPS (che agiscono secondo criteri omogenei in tutta Italia), e sia considerando il fatto che fra il 2009 e il 2014 oltre un milione di posizioni è stato sottoposto a controllo. Evidente il riferimento alle azioni contro i cosiddetti “falsi invalidi”, da sempre criticate dalla Fish per gli scarsi risultati raggiunti. Lo stesso neo Presidente dell’Istituto di previdenza sociale, Vittorio Conti, ha, peraltro, ribadito che i controlli contro i falsi invalidi sono già stati fatti e che, comunque, se davvero si volessero ottenere tagli consistenti, occorrerebbe abbassare ancora di più la soglia degli aventi diritto all’indennità di accompagnamento. 

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Come dire che il programmato taglio non sarebbe, evidentemente, sufficiente. La sperequazione a livello regionale tra aree virtuose e meno, d’altro canto, ne risulterebbe incrementata, con il solo risultato che i disabili residenti in quelle zone prive di una sanità pubblica efficiente resterebbero di fatto senza una tutela garantita, peraltro, dalla Costituzione. Secondo chi scrive, c’è poi da considerare un ultimo aspetto: discriminare la concessione dell’accompagnamento con una simile soglia di reddito, non porterebbe questo beneficio a perdere la sua natura previdenziale, divenendo quasi un contributo assistenziale per disabili non abbienti? Previdenza e assistenza: sono concetti di legislazione sociale su cui si basa la differenza di taluni interventi che il nostro stato sociale ha previsto in situazioni diverse di bisogno. E mi viene anche un sospetto, a breve si tornerà a parlare di assoggettamento a IRPEF delle pensioni di invalidità civile? Questa spending che è stata presentata come la cura che ci salverà dalla lunga malattia che avvilisce la nostra economia, necesssaria per finanziare le promesse riforme del jobs act, millantato dal premier col fare di un teleimbonitore che illustra le caratteristiche del prodotto del giorno, mi sembra una specie di ‘fake’. E alla fine mi resta un dubbio: era così indispensabile colpire di nuovo questa categoria di soggetti, che è già stata nel mirino di tutti gli ultimi governi?

Governo-Sindacati: dialogo tra sordi?

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di Michele De Sanctis

Il braccio di ferro tra Renzi e Susanna Camusso, che negli ultimi giorni ha esacerbato le polemiche scaturite dalla divulgazione del Jobs Act, merita alcune brevi osservazioni, nell’imminenza della presentazione ufficiale del ddl lavoro.
Sebbene i rapporti tra sinistra e CGIL siano sempre stati ispirati da un tacito principio collaborazionista, negli ultimi anni, complice la crisi e le pressanti richieste della trojka, abbiamo assistito a un decisivo cambiamento di rotta fino ad arrivare all’attuale premier che non si fa scrupolo nel dichiarare le sue intenzioni di procedere nel cammino delle riforme promesse con o senza l’approvazione delle principali sigle sindacali. Anche perché è opinione di Renzi che i sindacati, così come storicamente si sono configurati nella società italiana, siano forze più conservative che progressiste. Posizione opinabile e facilmente confutabile, a mio avviso. Eppure si tratta di un Presidente del Consiglio espressione di un partito che, nella sua duplice natura, conserva non solo la matrice d’ispirazione socialdemocratica e, quindi, di cooperazione con i sindacati, ma che, pure nella sua matrice centrista, non è comunque avulso dallo spirito associazionista dei trait d’union.

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Del resto, la cd. concertazione, siglata dagli accordi del luglio ’93 tra sindacati e politica, ha dato frutti importanti e duraturi per l’economia italiana. E’ solo con il secondo governo Berlusconi e lo scellerato Patto per l’Italia del 2002 che si assiste a un progressivo deterioramento dei rapporti tra istituzioni e parti sociali. Il tentativo dei governi di centrodestra è stato, infatti, quello di mettere fuori gioco la CGIL, pur trattandosi del sindacato maggiormente rappresentativo del Paese, al fine di creare una frattura tra questa Confederazione e le altre sigle. Di tale situazione, radicatasi nel corso dell’ultimo decennio, Confindustria e i rappresentanti delle parti datoriali sono stati i principali beneficiari. L’esautoramento della forza rappresentativa della CGIL si è protratto fino al caso Pomigliano, quando nel 2010 FIAT riuscì a tagliarla fuori del tutto dagli accordi decentrati.

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Ma l’esclusione della CGIL dai tavoli di trattativa ha portato ad accordi impopolari, quanto iniqui e, successivamente, all’indebolimento di tutto il movimento sindacale nel suo complesso. Tant’è vero che, nel governo Monti, il ministro Fornero, ignorando i suggerimenti delle parti sociali, ha varato la sua riforma del mercato del lavoro e del sistema previdenziale seguendo le sole linee governative, le raccomandazioni di Bruxelles, quelle di Berlino e, soprattutto, quelle delle principali banche d’affari, creando più di 100.000 esodati, problema a tutt’oggi irrisolto. Considerando un tale precedente ed il danno sociale che ne è stato determinato, sarebbe buona regola riprendere la prassi degli accordi concertati, anche perché un uomo solo, per quanto si proclami risolutivo, non può, in un sistema democratico, mettere mano da solo a nessun tipo di riforma, tanto più a quelle che impattano sensibilmente la società civile. Ci auspichiamo, dunque, un’immediata ripresa del dialogo, lasciando da parte atteggiamenti di sufficienza nei confronti di quelle associazioni che rappresentano i diretti destinatari della riforma che il Governo si appresta a varare.

Annunciata per domani la presentazione del Piano Casa.

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di Michele De Sanctis

Rinviato alle 10.00 di domani mattina il pre-Consiglio, già in programma per oggi, cui seguirà la riunione del Governo durante la quale verrà ufficialmente presentato il Piano Casa del Governo Renzi.

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La relazione tecnica al decreto legge che sarà esaminato domani dall’esecutivo indica un recupero fino a 68.000 alloggi in quattro anni, vale a dire 12.000 alloggi all’anno. Ciò sarà possibile tramite «il ripristino di quelli di risulta», più altri 5.000 «attraverso il finanziamento della pregressa manutenzione straordinaria».

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Il d.l., peraltro, ridurrà dal 15% al 10% la misura della cedolare secca sugli immobili locati a canone concordato, determinando, secondo quanto stimato dal Governo, un aumento del 5% almeno di adesioni a questo regime. La valutazione è stata effettuata su una base imponibile interessata pari a 540.000.000 Euro (prendendo a riferimento la dichiarazione dei redditi anno 2012).
La copertura prevista sarà pari a 1,35 miliardi in 4 anni. Nella relazione tecnica leggiamo che tale finanziamento avrà «un notevole impatto occupazionale sul settore dell’edilizia attualmente in crisi».

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Verranno, inoltre, stanziati 568.000.000 per il recupero degli alloggi ex IACP. Ma il finanziamento riguarderà soltanto i conduttori con reddito annuo lordo familiare inferiore a € 27.000 e che abbiano nel proprio nucleo persone di oltre 65 anni, malati terminali ovvero portatori di handicap con invalidità superiore al 66%. La relazione stima che «il costo di intervento per ciascun alloggio da recuperare si può ragionevolmente stimare in 30-40 mila euro».

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Il Piano Casa del Governo Renzi prevede, inoltre, una detrazione media IRPEF di 530 euro per gli inquilini che prenderanno in locazione alloggi popolari a canone concordato. La detrazione sarà di un massimo di € 900 per redditi complessivi fino a 15.493,71 Euro e un minimo di € 450 per redditi tra i 15.493,71 e i 30.987,41 Euro. Il numero di alloggi interessati é calcolato nella misura di 40.000 unità. In termini di competenza la relazione tecnica stima una perdita di gettito di 21,2 milioni l’anno, mentre in termini di cassa, se quest’anno non ci sarà aggravio, dal 2015 la perdita di gettito passerà dai 37,1 milioni ai 21,2 dei prossimi anni, fino al 2018 quando il conto dovrebbe tornare positivo con +15,9 milioni.

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La riforma del settore in parola sarà presentata insieme al ddl lavoro.
BlogNomos, che ha già esaminato i punti del Jobs Act e con oggi la relazione tecnica al Piano Casa, vi terrà informati sulle novità ufficializzate dalla squadra di Governo non appena si renderanno disponibili.
Continuate a seguirci…

MDS

340 euro al mese? No, grazie.

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Questa è la storia di Giorgia. Le offrono 340 euro al mese, ma dice no. E in una lettera aperta pubblicata su La nuvola del lavoro esorta tutti a fare lo stesso. Abbiate il coraggio, dice, fatelo anche voi. Basta compromessi con i datori di lavoro furbetti.
Giorgia ha 26 anni, è marchigiana ed è laureata in Lettere. Il suo sogno è quello di fare la giornalista. Una storia come tante, penserete. Invece non è solo una storia di tristezza e difficoltà. È anche una storia di coraggio e di speranza nell’Italia di oggi. Questa ragazza lancia un messaggio importante, chiaro e forte. Di messaggi così ne vorremmo di più. Vorremo che la forti parole di Giorgia potessero raggiungere il più ampio numero di giovani, perché finché ci sarà qualcuno disposto a cedere a certi compromessi l’Italia non cambierà.

MIchele De Sanctis per BlogNomos

5 giorni su 7 a 340 euro
di Giorgia D.

Dobbiamo imparare, a volte, a dire no. Dire no a quel datore di lavoro furbetto che ti offre due spiccioli per un impiego che meriti e per il quale hai studiato.

Io ho detto di no ma, finché ci saranno ragazzi che accetteranno qualsivoglia compromesso, la situazione in Italia non cambierà.

Ho 26 anni e sono una giornalista praticante. Vivo nelle Marche ma sto cercando lavoro dove si dice che ancora qualcosina ci sia: Milano. Ho mandato il curriculum a un’agenzia di comunicazione che, dopo un primo colloquio, ha deciso di assumermi. Bello vero?

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Sì, peccato che mi offrivano 500 euro con partita Iva. Chiamo immediatamente il mio commercialista che mi spiega come funziona. Ecco la sintesi. Per gli under 35 la partita Iva è agevolata al 5 per cento quindi significa che ai 500 euro iniziali avrei dovuto togliere 25 euro. Totale stipendio mensile: 475 euro. Ma non finisce qui. A questa somma va sottratto il 27% della Gestione Separata dell’Inps.

Ho studiato Lettere ma due calcoli riesco a farli. Al mese il guadagno sarebbe stato di 340 euro. Con questa cifra sarebbe stato impossibile prendere una stanza in affitto e sopravvivere, così ho detto subito di no. Arrivederci, senza grazie.

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Un altro ragazzo invece ha accettato l’offerta. Lui è di Milano e ha deciso di svegliarsi cinque giorni su sette per prendere 340 euro. Chi finora ha accettato questi compromessi, si deve ritenere colpevole della crisi economica e della disoccupazione giovanile.

Basta a dire “fa curriculum”, “fa esperienza”. Abbiate il coraggio di dire che vi meritate di più.

Fonte: La nuvola del Lavoro. Corriere della Sera

Riflessioni di un pendolare qualunque

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Il vero metro è la ferrovia che come la CIA te può insegnà che una differenza sostanziale e profonda tra prima e seconda ci deve stà, così cantava il dissacrante Rino Gaetano tanti anni fa. Ed è ancora quello il metro. Per noi viaggiatori dei giorni feriali lo è sempre. Ma al sabato e alla domenica torniamo gente normale che, nel conforto delle proprie dimore, prova a non sentirsi in seconda classe. E per due giorni ci concediamo il lusso di essere cittadini. Punto.

di Michele De Sanctis

È notizia recente: due treni si sono scontrati in un tratto a binario unico tra Gimigliano e Cicala, nei pressi di Catanzaro. È  solo l’ultimo di una serie di incidenti ferroviari, che sebbene in diminuzione negli ultimi tempi, restano comunque un fenomeno preoccupante per chi sul treno sale ogni giorno per andare a lavorare e per tutti quelli che, anche se sporadicamente, scelgono di viaggiare con Trenitalia. Anche il presidente del Codacons, Carlo Rienzi, in seguito a quest’ultimo fatto di cronaca ha sottolineato l’emergenza del sistema ferroviario italiano, segnalando che gli incidenti ferroviari in Italia sono ancora troppi e che è necessario intervenire per incrementare la sicurezza sulle rotaie del nostro Paese, aggiungendo, inoltre, che è assolutamente necessario migliorare controlli e manutenzione.

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È vero. Serve manutenzione. Soprattutto sui trasporti locali in tutta Italia, sulle Frecce della tratta adriatica, dove la Freccia Bianca “corre” su binari insufficienti, nelle giornate di pioggia quasi lambiti dalle onde del mare in tempesta nel tratto fermano ed ascolano e quasi sommersi tra San Benedetto e Pescara da innocui fiumi secondari che l’imperizia, la negligenza e la connivenza dei nostri amministratori hanno trasformato in bombe ad orologeria. Treni regionali cancellati, Eurostar che viaggiano con 30, a volte anche 60 minuti di ritardo a causa di un guasto ai motori. E il ritardo non è un avvenimento così raro, così come la cancellazione dei treni regionali, quando il ritardo non è più recuperabile. La scorsa settimana l’Intercity per Rimini, con partenza da Ancona Marittima, ha impiegato quasi venti minuti per arrivare ad Ancona Centrale. Io ero su quel treno. Non so come sia proseguita la corsa, perché alla stazione centrale ho effettuato il cambio per salire sulla Freccia per Taranto, che, per fortuna, era in ritardo di dieci minuti, ma vi giuro che venti minuti sono quelli che avrei impiegato dal porto alla stazione se avessi scelto di muovermi sulle mie gambe.

E che dire del tratto ligure dove a gennaio un treno Intercity è deragliato, a causa di una frana, sulla linea Genova-Ventimiglia, in un tratto a binario unico, bloccando tutto il traffico ferroviario, anche quello con la Francia? Lo sapete che quel treno è rimasto lì fino a metà febbraio, quando finalmente è stata portata a termine la demolizione della  terrazza parcheggio franata per lo smottamento? Le foto che circolavano in rete con quel treno in bilico tra terra e mare sembravano quasi simboleggiare l’immobilismo in cui versa attualmente il nostro Paese tra crollo e ripresa e nessuna azione per rimetterlo sui binari. Un’istantanea di questi anni terribili di crisi. La tempistica per ripristinare il tratto ferroviario non sarà breve e nel frattempo la viabilità di questa linea resterà un inferno. E a pagarne il prezzo saranno principalmente i pendolari, cui verrà intanto negato (o quanto meno diminuito) un servizio essenziale. Per non parlare, poi, dei danni sotto il profilo commerciale e turistico. Merci provenienti dalla vicina Francia che non potranno transitare verso il porto di Genova per settimane, la provincia di Imperia isolata, il timore che a inizio stagione la Riviera sarà ancora interrotta con pesanti ripercussioni sul settore alberghiero.

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Ma i disagi che i pendolari italiani devono affrontare non sono solo quelli dovuti alla scarsa manutenzione dei binari. Anche i treni lasciano un po’ a desiderare. Quando c’è un guasto ai motori, non solo il treno non riparte, nemmeno l’aria condizionata funziona. Sapete che vuol dire stare per più di mezz’ora in pieno inverno alle sei di mattina in un treno fermo e al buio? Vi auguro di non scoprirlo mai, non è una bella esperienza. Ma è sicuramente meglio che viaggiare in agosto con l’aria condizionata fuori servizio, quando la temperatura percepita dai viaggiatori si avvicina a quella di termofusione. E vogliamo parlare di ciò che è accaduto lo scorso 21 novembre ai viaggiatori del treno Pisa-Aulla? Fuori pioveva e anche nel treno le condizioni meteo non erano delle migliori: i pendolari sono stati costretti a viaggiare con l’ombrello aperto per ripararsi dall’acqua. La scena è stata immortalata in una foto scattata e pubblicata su Facebook da uno degli utenti del gruppo ‘I problemi della Linea Fs Pisa-Aulla’ che commenta ”i pendolari ormai ci sono abituati… è bello vedere le facce delle persone che usano la nostra linea per la prima volta”. Un altro utente del gruppo aggiunge che ”era già successo! Ed era successo d’estate per giunta quando si era rotto il condizionatore e gocciolava in testa alla gente. Mamma mia… ridiamo per non piangere”. La foto ha fatto il giro della rete fino a diventare virale tra i pendolari di tutto il Paese.

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Intanto si spera che a Roma vengano prese delle iniziative immediate per trovare soluzioni. Invece no. È il solito scaricabarile all’italiana, con Trenitalia che punta il dito contro Governo e Regioni, Regioni che accusano Trenitalia e chiedono iniziative al Governo, il Governo che promette e i cittadini, intanto, trattati come merci, le bestie forse viaggiano con confort maggiori sui treni italiani. Lupi prometteva un tavolo di incontro (o scontro?), ma non ne sono riuscito a reperire notizia alcuna in rete. C’è mai stato?

E poi e poi…e poi ci sono tutti quei treni soppressi per carenza di fondi nel corso del 2013. A ottobre varie Regioni hanno deciso di usare le forbici. In Piemonte tagli per 5 milioni con la soppressione di 18 treni che collegano la regione con la Liguria e disagi per oltre duemila pendolari. Gli interregionali Milano-Venezia sono diventati una barzelletta: a luglio la Regione Veneto ne aveva soppressi 8, sostituendoli con i più lenti regionali, causando disagio per circa diecimila utenti. A dicembre la Lombardia ha ripristinato la tratta, ma solo fino a Verona senza, peraltro, garantire le coincidenze. Così per andare a Venezia ed evitare il trasbordo a Verona, i quattromila pendolari giornalieri tra le due regioni sono ora costretti a servirsi dei Frecciabianca, che costano dal doppio al triplo di un interregionale. Un favore all’Alta Velocità. A settembre in Calabria 14 sono stati i treni locali soppressi, decisione che aveva spinto il Pd a presentare un’interrogazione alla Camera. La scure si è poi abbattuta anche sugli Intercity: a fine ottobre Trenitalia ha deciso di tagliarne 12 tra la Toscana e altre 8 Regioni, dal Friuli alla Campania. I pendolari sono scesi sul piede di guerra e la politica si è mossa: il 24 ottobre i governatori interessati hanno scritto al presidente del Consiglio Enrico Letta e il Pd ha presentato un’interpellanza alla Camera.

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Intanto, il 20 novembre 2013 l’Italia è finita nel mirino della Commissione UE per lo scarso interesse mostrato verso le condizioni di vita dei suoi 3 milioni di pendolari. Bruxelles ha inviato a Roma un parere motivato (secondo stadio della procedura di infrazione) perché lo Stato, a 4 anni dal regolamento che avrebbe dovuto essere attuato entro il 3 dicembre 2009, non ha ancora istituito un’agenzia nazionale permanente per vigilare sulla corretta applicazione dei diritti dei passeggeri nelle ferrovie, né stabilito norme volte a sanzionare le violazioni della legislazione comunitaria. Se l’Italia non avesse provveduto entro 2 mesi, la Commissione avrebbe avuto facoltà di deferire lo Stato alla Corte di Giustizia del Lussemburgo. Cosa aspetta la Commissione a deferirci. Che sia la volta buona per i pendolari d’Italia.

Da Trenitalia, poi, Mauro Moretti, amministratore delegato della società, che da tempo sostiene che il trasporto locale è un problema, perché non si ripaga con i biglietti, ha prima minacciato, a fine 2012, di interrompere il servizio, mentre nel 2013 ha proposto di tassare i pendolari per fare cassa e svuotare i treni locali, istituendo fasce tariffarie differenziate, con sistemi di incentivazione e disincentivazione di certi orari. Per l’a.d. di Trenitalia i biglietti dei treni più affollati dovrebbero costare più degli altri. A novembre ha inoltre dichiarato: “Stiamo investendo 3 miliardi per comprare treni locali, peccato che dalla politica non abbiamo visto un centesimo”.

Per gennaio il gruppo aveva annunciato l’arrivo di 70 nuovi treni per il trasporto locale in Piemonte, Lazio, Umbria, Marche, Abruzzo e Calabria, per un investimento di 450 milioni di euro. Utili, peccato per le quotidiane inefficienze. Sapevate che per andare da Ancona a Fabriano, provincia di Ancona, con un regionale, ci vuole circa mezz’ora in più che per arrivare a Pescara sulla Frecciabianca? Treno nuovo, ma stessi binari.

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Vero è che ai nostri politici il trasporto ferroviario sta particolarmente a cuore. Ma negli ultimi anni, il trasporto che più attira il loro interesse è quello sulle Frecce e Italo. A fine anno, il Ministro Lupi aveva persino annunciato sconti sull’alta velocità, per incentivarne lo sviluppo. Sembra quasi che sul fronte trasporti il nostro Paese abbia sposato il concetto europeista delle due velocità. C’è chi viaggia lento e male sui treni locali e gli utenti dell’Alta Velocità, che, come recita lo slogan, viaggiano sulla metropolitana d’Italia. Sulla tratta tirrenica e al Nord. Provate a farvi Taranto Milano sulla Frecciabianca: tranquilli, non va così veloce, anche se siete deboli di cuore, sarà come un viaggio in calesse.

La verità è che i treni ad alta velocità stanno uccidendo la rete ferroviaria italiana. Se la storia ci insegna che ogni volta che la società è avanzata economicamente, la velocità dei trasporti è aumentata, per facilitare gli scambi commerciali è, altresì, vero che questa volta è arrivata l’onda lunga di una rete ferroviaria che prima di essere completata era già stata investita da una crisi economico-finanziaria senza precedenti. Il risultato è che per incentivare l’uso dei treni ad alta velocità vengono meno i servizi ferroviari essenziali, il tempo di percorrenza finisce per essere più o meno lo stesso ma con costi tre volte superiori. E s’inverte la parabola per cui il trasporto ferroviario giocherebbe un ruolo chiave nel contenimento delle emissioni dannose all’ambiente, poiché il suo diretto concorrente, il trasporto aereo, paradossalmente prolifica. L’aumento di linee ferroviarie ad alta velocità produce un aumento di compagnie aeree low-cost, così che invece di sottrarre viaggiatori al trasporto aereo lo favoriscono, cambiando di fatto la tipologia stessa dei viaggiatori: mentre prima a utilizzare l’aereo era il benestante mentre il treno risultava accessibile a tutti, oggi il treno ad alta velocità diventa prerogativa di pochi e i molti approfittano di tariffe aeree competitive.

Restano, infine, quei pendolari qualunque che ogni giorno affrontano la sfida dei trasporti locali, sperando ogni mattina di riuscire a smarcare il cartellino a un orario decente. E magari di riuscire anche a tornare a casa.

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