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Ammortizzatori Sociali per Tutte e Tutti (oppure Solidali e Universali): Estendere, Includere, Garantire. Sostenere il Lavoro per garantire Reddito

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Ieri la CGIL ha presentato una propria proposta di riforma degli ammortizzatori sociali a carattere inclusivo ed universale. Cosa significa? Significa un meccanismo che funzioni per tutti, subordinati e parasubordinati, atipici e partite IVA. Un meccanismo che da un lato sostenga chi ha perso il posto di lavoro o ha subito una riduzione dell’orario o la sospensione. Dall’altro che punti al reinserimento lavorativo.
Vediamo come.

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L’idea di fondo è quella di rovesciare i termini di solito il dibattito ed incentrato sul sostegno al reddito, di cui il lavoro è componente variabile, la prospettiva della CGIL è, invece, opposta: guardare al lavoro, accompagnando la transizione con un sostegno al reddito.

Una proposta semplice e sostenibile…

…costruire un sistema totalmente pubblico e assicurativo che tuteli chi perde l’occupazione e chi è coinvolto dalla crisi e che, nel contempo, non gravi sulla fiscalità generale è possibile estendendo la contribuzione a tutti i lavoratori e a tutte le imprese.

Una proposta inclusiva…

…se tutti i lavoratori e tutte le imprese contribuiscono al sistema universale di ammortizzatori, si può estendere il sostegno al reddito anche ai precari, includendo tutte le tipologie contrattuali subordinate e parasubordinate.

Una proposta equa…

…se tutte le imprese di qualsiasi dimensione e settore contribuiscono in base alle specificità ad un sistema universale, le prestazioni erogate alle stesse imprese e il carico contributivo sulle stesse sarà più sostenibile e solidaristico.

Una proposta che risponde al presente ed al futuro…

…a prescindere dagli andamenti dell’economia e delle relative fluttuazioni del mercato del lavoro un sistema di questo tipo può rispondere all’esigenza di affrontare le crisi congiunturali, di settore, territoriali con strumenti che rispondano al nuovo mercato del lavoro caratterizzato da sempre maggiori transizioni dei lavoratori da una condizione di occcupazione a quella di non occupazione, da un lavoro ad un altro, da contratto a contratto, tra lavoro e formazione.

Le ragioni e il senso della proposta
La Cgil da anni chiede e propone una vera Riforma degli Ammortizzatori Sociali a carattere inclusivo e universale.
Pensiamo a due soli istituti : uno per la tutela della disoccupazione, l’altro per la sospensione di attività e ore lavorate.
Entrambi gli strumenti devono ricollegarsi alle politiche attive di modo che il sostegno al reddito di modo che sempre il fine ultimo sia l’inclusione sociale e l’inserimento lavorativo, guardando alla riqualificazione, aggiornamento, ricollocazione delle lavoratrici e dei lavoratori.
In questi anni di crisi prolungata e di assenza di politiche di settore che sviluppassero nuove e innovative attività produttive il lavoro è diminuito, si è svalorizzato ed impoverito.
Senza aumento dell’occupazione qualsiasi politica di regolazione o deregolazione del mercato del lavoro cambia solo la condizione dei soggetti esclusi o inclusi, non ha effetti di crescita del ciclo economico ma anzi rischia di aumentare l’effetto recessivo di maggiore difficoltà di collocazione nel mercato del lavoro, tempi più lunghi di disoccupazione, minore disponibilità di reddito, con pesanti effetti sociali che hanno riflessi sull’altra gamba della protezione sociale che è quella previdenziale.
Per questa ragione la proposta della Cgil ha sempre guardato al tema del sostegno al reddito come diritto del lavoratore o disoccupato ad avere insieme ad una politica “passiva” una prestazione “attiva” che ricollegasse il lavoratore al lavoro sia come fonte di realizzazione; di espressione della propria professionalità e attitudine; come elemento di dignità, libertà dalla povertà e di cittadinanza democratica.
La legge 92 ha introdotto una prima rivisitazione degli Ammortizzatori ipotizzando scenari di crescita irrealistici e contrapponendo una logica estensiva sulla rimodulazione della tutela della disoccupazione (aspi/miniaspi invece di indennità ordinaria di disoccupazione/indennità a requisiti ridotti) ad una logica parcellizzante, divisiva e non inclusiva del sostegno al reddito in costanza di rapporto di lavoro (ovvero l’istituzione dei Fondi di Solidarietà che non estendono tutele a tutte le imprese e a tutti i lavoratori).
Per questo oggi più che mai è necessario correggere il sistema rivedendo l’Aspi e Mini aspi, superando gli ammortizzatori in deroga e i fondi di solidarietà con un modello assicurativo simile agli ammortizzatori ordinari basato sui contributi di imprese e lavoratori.
Le risorse che oggi dalla fiscalità generale vanno verso gli ammortizzatori in deroga dovrebbero sostenere la fase di avvio del nuovo sistema e il potenziamento delle risorse stanziate per le nuove politiche attive necessarie a superare la logica dell’assistenza.

Disoccupazione : Aspi, Mini Aspi, Mobilità.
Nella tutela per disoccupazione involontaria occorre intervenire sulle previsioni, sulle modalità e sulle articolazioni dell’assicurazione sociale per l’impiego, anche in relazione a quanto si è evidenziato nel primo anno di utilizzo dell’istituto.La lettura delle criticità presenti, il cui superamento è necessario, conduce alle proposte di rivisitazione.
Nello strumento di tutela per la perdita del posto di lavoro, articolato nella indennità di disoccupazione ASPI e Mini ASPI, non sono comprese le tipologie contrattuali non in subordinazione, escludendo quindi dal campo di applicazione la para-subordinazione e il lavoro autonomo ( a partire dalle collaborazioni a progetto alle Partite Iva).
In ragione della differente tipologia tra queste due fattispecie, sia per gli aspetti contributivi che per la natura dei contratti, occorre individuare le necessarie soluzioni d’intervento: la natura del rapporto di collaborazione – per temporalità, limiti di reddito e progressivo allineamento della contribuzione al lavoro dipendente – può agevolare l’estensione della tutela a fronte del versamento del contributo individuato.
Per il lavoro autonomo occorre aprire uno spazio di riflessione, anche attraverso la eventuale natura volontaria della copertura assicurativa. Resta evidente la necessità di una previsione che garantisca una tutela più ampia – commisurata evidentemente all’anzianità contributiva – dalla disoccupazione ( Es: una Partita Iva, fatta la media tra reddito percepito per anno fiscale ed anno solare che sia sotto il parametro definito per l’esclusione del trattamento in ragione di una contribuzione volontaria al sistema assicurativo pubblico potrebbe ricevere una prestazione parametrata alla minore contribuzione ma comunque accedere ad un’indennità di mancata occupazione)
Nel finanziamento del sistema persiste una disomogeneità nell’aliquota di contribuzione: per alcuni settori in termini transitori, con un progressivo allineamento previsto al 2017 che ha avuto effetto sulla entità delle prestazioni (soci lavoratori cooperative settore industria e commercio, personale dipendente dello spettacolo settore industria).
Per altri (artigianato, radio-televisione, pubblici esercizi) la riduzione del contributo ordinario ha confermato quanto già in essere nel finanziamento della indennità di disoccupazione ponendo a rischio le coperture.
Relativamente alla prestazione dell’ASPI occorre superare il decalage del 15% prevsito dopo il 6° mese di fruzione e dell’ulteriore 15% previsto dopo il 12° mese.
La transizione della indennità di mobilità verso l’ASPI si presenta troppo rapida, anche in ragione – come era prevedibile – del perdurare della crisi e di come questa ricade in alcuni settori produttivi e in alcune realtà geografiche.
Tra il 2015 e il 2016 da una copertura massima di 36/48 mesi si passa a una copertura di 12/18 mesi.
Occorre ampliare il periodo di transizione con l’esigenza, però, d’incrementare strutturalmente i periodi di copertura dell’ASPI ad almeno 18/24 mesi.
Il superamento della indennità di disoccupazione a requisiti ridotti, sostituita dalla Mini ASPI, sul versante dei requisiti ha introdotto elementi di rigidità che penalizzano nell’accesso alla prestazione: le 13 settimane non sono l’equivalenza delle 78 giornate lavorative.
Costituiscono un limite rigido all’accesso alla prestazione, in considerazione dei periodi di lavoro brevi e discontinui.
Per questo occorre riportare il requisito alle 78 giornate lavorative, superando la rigidità introdotta con il vincolo delle 13 settimane di contribuzione nell’anno.
Inoltre la corresponsione della indennità per la metà delle settimane lavorate ha prodotto una riduzione sensibile della prestazione se paragonata per analoghi periodi al precedente sistema di calcolo.
Nel quadro di una rivisitazione dell’ ASPI, per l’ esigenza di superare le difficoltà di accesso alla prestazione, occorre valutare il superamento del vincolo del biennio di anzianità assicurativa e dell’anno di contribuzione (le 52 settimane con contribuzione erogata o dovuta): l’incrocio tra questi due criteri costituisce spesso un “muro” non superabile per ottenere la prestazione.
Commisurando la durata della prestazione alla anzianità lavorativa (agli anni di versamento del contributo DS/ASPI) si potrebbe superare il vincolo biennio assicurazione/anno di contribuzione individuando un requisito minimo che possono essere le 78 giornate lavorative nell’anno.
Tale intervento ridurrebbe l’area di esclusione dalla prestazione e questa sarebbe comunque commisurata alla durata della contribuzione, come è in un sistema di natura assicurativa quale quello di tutela della perdita dell’occupazione.
Resta da approfondire la questione del contributo straordinario, oggi previsto nella misura del 1,4%, per le tipologie contrattuali non subordinate che comunque hanno la caratteristica di essere “a termine” e quindi omogenee alla specificità dei contratti a tempo determinato per le quali la Cgil chiede la generalizzazione del contributo del 1,4%.
L’orizzonte di una tutela a carattere universale per la perdita involontaria dell’occupazione passa necessariamente attraverso un intervento sugli strumenti in essere.
In realtà la Mini Aspi potrebbe essere assorbita dall’Aspi, che potrebbe agire anche su periodi variabili a seconda del numero di giornate lavorative annue accumulate per i precari e allungando anche al di là dei 24 mesi massimi, previsti nella proposta della Cgil, nel caso di lavoratori che volontariamente prima del raggiungimento dei requisiti di anzianità contributiva decidano di interrompere il rapporto di lavoro. In questo caso l’Aspi assorbirebbe la funzione che in parte ha avuto la Mobilità ma nella previsione di riforma la condizione è che parte della prestazione venga pagata dall’impresa che avvii la procedura garantendo l’occupazione di un nuovo lavoratore.

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Tutele in costanza di rapporto di lavoro
Per le tutele in costanza di rapporto di lavoro, pur tenendo conto dell’articolazione tra settori e degli strumenti oggi previsti, occorre una rivisitazione profonda per realizzare l’obiettivo non raggiunto della universalità per settori merceologici e classi dimensionali neanche con l’istituzione dei Fondi di Solidarietà.
Sulle tutele in costanza di rapporto di lavoro l’intervento legislativo di riforma rischia di produrre frammentazione, eccesso di articolazione e non inclusività del sistema e non rispondere alle esigenze di superamento della cassa integrazione e mobilità in deroga.
Inclusività e universalità contrastano con la differenziazione per settori e classi dimensionali che si sta profilando.
Nel contesto attuale, inoltre, il progressivo superamento degli strumenti in deroga rischia di ridurre gli strumenti di protezione e di difesa dell’occupazione a disposizione delle aziende e dei lavoratori, soprattutto perche non si incentivano adeguatamente e generalizzano i contratti di solidarietà espansivi e difensivi.
Per queste ragioni il sistema delle tutele in costanza di rapporto di lavoro va profondamente ripensato e ridisegnato alla luce delle criticità già evidenti.
L’orizzonte da intraprendere doveva essere quello di prevedere un unico strumento di sostegno al reddito, da garantire attraverso l’obbligatorietà, articolando il livello di contribuzione per settori e per classi dimensionali (incidenza delle sospensioni per settore non sono omogenee, come non lo sono le coorti di addetti e quindi il monte retributivo/contributivo), di versare un’aliquota ad hoc ripartita nella misura di 2/3 a carico dell’impresa e 1/3 a carico del lavoratore per tutte le aziende e tutte le tipologie contrattuali, una sorta di “assicurazione contro la sospensione momentanea dell’attività” in ragione delle causali che già oggi operano: crisi per riconversione, riorganizzazione, cessazione attività.
I nuovi Fondi di Solidarietà, compresi il Fondo cd “residuale”, non prevedono alcuna forma obbligatoria di copertura per le imprese con meno di 15 dipendenti né per i lavoratori non subordinati.
C’è il rischio di una frammentazione per settori, con fondi articolati sulla dimensione contrattuale; una pluralità di fondi che non avrebbero la massa critica per garantire le prestazioni.
Al momento nei fondi per i quali sono intervenute intese l’aliquota di finanziamento va dallo 0,20% allo 0,5%, mentre l’aliquota del fondo residuale è stata fissata – nella legge di stabilità – nella misura dello 0,5%.
Il raffronto delle aliquote di contribuzione della cassa integrazione evidenzia, in termini oggettivi, questo limite: per la straordinaria l’aliquota di finanziamento è fissata nello 0,90% della retribuzione con lo 0,3% a carico del lavoratore, mentre per il finanziamento della ordinaria le aliquote variano dal 1,90% (industria con meno di 15 dipendenti) al 5,20% del settore edile.

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Inoltre la valutazione sulla entità di finanziamento della cassa integrazione in deroga, che copre settori e classi dimensionali che fanno riferimento all’ambito dei fondi di solidarietà, rende evidente il rischio di sotto-finanziamento e quindi d’impossibilità di erogazione delle prestazioni che comunque sono di molto inferiori a quelle della cassa ordinaria, straordinaria e deroga come periodi di copertura ( massimo 1/8 delle ore lavorate).
E’ utile evidenziare due aspetti: sia il finanziamento della cassa integrazione in deroga che l’erogazione dell’ASPI ai lavoratori sospesi sono soggetti a finanziamenti a carattere transitorio che cesseranno – cosi è previsto dall’attuale legislazione – nel 2016.
Quindi tutto il carico della copertura delle prestazioni ricadrà sui fondi già attivati e su quello residuale, secondo il perimetro di copertura degli stessi: i fondi per legge hanno l’obbligo del pareggio di bilancio e non potranno erogare prestazioni in assenza di disponibilità.
In tal caso la norma prevede o una rimodulazione della prestazione oppure la modifica dell’aliquota di contribuzione, su proposta del Comitato Amministratore.
Per queste ragioni, sinteticamente esposte, il sistema delle tutele in costanza in rapporto di lavoro ha necessità di un ripensamento profondo e radicale.
Il rischio che all’attivazione dei fondi segua l’incapacità di erogazione delle prestazioni è oggettivamente misurabile.
Obbligatorietà, inclusione di tutte le classi dimensionali e tipologia di lavoratori, aliquota di finanziamento articolata per settori merceologici e per dimensione delle aziende: di fatto l’estensione del modello della cassa integrazione ma includendo i precari.

Fonte: CGIL

BACK TO 1977. Disoccupazione da record: sale al 12,9%

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Record dei senza lavoro a gennaio 2014. Nello scorso mese di gennaio la disoccupazione è balzata al 12,9%, un aumento dell’1,1% su base annuale, mentre la disoccupazione giovanile è salita al 42,4%. Le rilevazioni sono state effettuate dall’Istat. Un tasso così alto di disoccupazione non si vedeva dal 1977. La percentuale dei disoccupati è, infatti, la più alta tra quelle registrate dall’Istituto di statistica dall’inizio delle serie sto­ri­che nel 1977.
Secondo i rilevamenti Istat, aumenta anche il numero dei cd. “scoraggiati”, quelli cioè che hanno ormai rinunciato a cercare lavoro: il dato si attesta intorno ai 2 milioni.
L’Istat segnala, inol­tre, il crollo dell’occupazione anche tra i pre­cari. Gli «ati­pici», così ven­gono defi­niti, sono dimi­nuiti di 197 mila unità.

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Di fronte a queste cifre e alle voci sempre più insistenti sul contenuto del Jobs Act, non siamo certi che sia sufficiente introdurre altra flessibilità nel mercato del lavoro per innescare un fenomeno di controtendenza e così miglio­rarne l’efficienza. L’Italia ha già assecondato il FMI e la Commissione UE (oltreché la Signora Merkel) e il risultato è stata una disastrosa riforma che ha persino creato una nuova categoria di senza lavoro e senza reddito, quella degli esodati. Dai rumors intorno al Jobs Act si apprende infatti la volontà dell’Esecutivo di intro­durre un nuovo con­tratto di inse­ri­mento, sospen­dendo l’articolo 18 (sic!) per tre anni a bene­fi­cio delle imprese. La finalità è quella di creare nuova occu­pa­zione, ma sospen­dere i diritti sui nuovi con­tratti di inse­ri­mento, impro­pria­mente defi­niti dal Jobs Act ‘con­tratto unico’ equivale a pre­ca­riz­zare ulteriormente il lavoro.
Bisogna puntare, invece, al repe­ri­mento delle risorse neces­sa­rie a finan­ziare il sus­si­dio uni­ver­sale di disoc­cu­pa­zione, prima di mirare alla riforma dei contratti di lavoro. L’estensione dell’Aspi isti­tuita dalla riforma For­nero, infatti, susciterà nei prossimi giorni forti polemiche, soprattutto se quei fondi verranno tolti alla Cassa Integrazione in deroga, come pare dalle prime indiscrezioni. Ma l’estensione è oramai divenuta necessaria per tanti, vitale per troppi. Nel contempo, il mondo del lavoro ha altresì bisogno di inve­sti­menti pub­blici per far ripar­tire la cre­scita, e di finanziamenti finalizzati al taglio del cuneo fiscale, almeno da 10 miliardi di euro come prospettato anche dal leader della minoranza PD Cuperlo e dalla CGIL.
Le cifre sulla disoccupazione sono più che preoccupanti: aumentano un allarme sociale, giunto ormai a livelli altissimi, a cui il Governo sarà chiamato a breve a dare una risposta.

Michele De Sanctis

I PUNTI DEL JOBS ACT DI MATTEO RENZI. SARÀ LA VERA CONTRORIFORMA FORNERO O LO SPIRITO RIFORMISTA RESTERÀ SOLO NEI TWEET DEL PREMIER 2.0?

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Annunciata da un tweet: la riforma del lavoro che il Governo Renzi si appresta a varare. L’obiettivo dichiarato è quello di creare posti di lavoro, rendendo semplice il sistema, incentivando la voglia di investire dei nostri imprenditori, attraendo capitali stranieri. Tra il 2008 e il 2012 l’Italia ha attratto 12 miliardi di euro all’anno di investimenti stranieri: metà della Germania, 25 miliardi, un terzo della Francia e della Spagna, 37 miliardi. Per la Banca Mondiale siamo al 73° posto al mondo per facilità di fare impresa (dopo la Romania, prima delle Seychelles). Per il World Economic Forum siamo al 42° posto per competitività (dopo la Polonia, prima della Turchia).
Sul suo sito, il Presidente del Consiglio, dopo questa premessa e l’invito a mettersi sotto per cambiare l’Italia, lasciando da parte l’ideologia, elenca i punti cruciali di quello che sarà il suo Jobs Act, che trovate anche di seguito.

Parte A – Il Sistema

1. Energia. Il dislivello tra aziende italiane e europee è insostenibile e pesa sulla produttività. Il primo segnale è ridurre del 10% il costo per le aziende, soprattutto per le piccole imprese che sono quelle che soffrono di più (Interventi dell’Autorità di Garanzia, riduzione degli incentivi cosiddetti interrompibili).
2. Tasse. Chi produce lavoro paga di meno, chi si muove in ambito finanziario paga di più, consentendo una riduzione del 10% dell’IRAP per le aziende. Segnale di equità oltre che concreto aiuto a chi investe.
3. Revisione della spesa. Vincolo di ogni risparmio di spesa corrente che arriverà dalla revisione della spesa alla corrispettiva riduzione fiscale sul reddito da lavoro.
4. Azioni dell’agenda digitale. Fatturazione elettronica, pagamenti elettronici, investimenti sulla rete.
5. Eliminazione dell’obbligo di iscrizione alle Camere di Commercio. Piccolo risparmio per le aziende, ma segnale contro ogni corporazioni. Funzioni delle Camere assegnate a Enti territoriali pubblici.
6. Eliminazione della figura del dirigente a tempo indeterminato nel settore pubblico. Un dipendente pubblico è a tempo indeterminato se vince concorso. Un dirigente no. Stop allo strapotere delle burocrazie ministeriali.
7. Burocrazia. Intervento di semplificazione amministrativa sulla procedura di spesa pubblica sia per i residui ancora aperti (al Ministero dell’Ambiente circa 1 miliardo di euro sarebbe a disposizione immediatamente) sia per le strutture demaniali sul modello che vale oggi per gli interventi militari. I Sindaci decidono destinazioni, parere in 60 giorni di tutti i soggetti interessati, e poi nessuno può interrompere il processo. Obbligo di certezza della tempistica nel procedimento amministrativo, sia in sede di Conferenza dei servizi che di valutazione di impatto ambientale. Eliminazione della sospensiva nel giudizio amministrativo.
8. Adozione dell’obbligo di trasparenza: amministrazioni pubbliche, partiti, sindacati hanno il dovere di pubblicare online ogni entrata e ogni uscita, in modo chiaro, preciso e circostanziato.

Parte B – I nuovi posti di lavoro

Per ognuno di questi sette settori, il JobsAct conterrà un singolo piano industriale con indicazione delle singole azioni operative e concrete necessarie a creare posti di lavoro.
a) Cultura, turismo, agricoltura e cibo.
b) Made in Italy (dalla moda al design, passando per l’artigianato e per i makers)
c) ICT
d) Green Economy
e) Nuovo Welfare
f) Edilizia
g) Manifattura

Parte C – Le regole

I. Semplificazione delle norme. Presentazione entro otto mesi di un codice del lavoro che racchiuda e semplifichi tutte le regole attualmente esistenti e sia ben comprensibile anche all’estero.
II. Riduzione delle varie forme contrattuali, oltre 40, che hanno prodotto uno spezzatino insostenibile. Processo verso un contratto di inserimento a tempo indeterminato a tutele crescenti.
III. Assegno universale per chi perde il posto di lavoro, anche per chi oggi non ne avrebbe diritto, con l’obbligo di seguire un corso di formazione professionale e di non rifiutare più di una nuova proposta di lavoro.
IV. Obbligo di rendicontazione online ex post per ogni voce dei denari utilizzati per la formazione professionale finanziata da denaro pubblico. Ma presupposto dell’erogazione deve essere l’effettiva domanda delle imprese. Criteri di valutazione meritocratici delle agenzie di formazione con cancellazione dagli elenchi per chi non rispetta determinati standard di performance.
V. Agenzia Unica Federale che coordini e indirizzi i centri per l’impiego, la formazione e l’erogazione degli ammortizzatori sociali.
VI. Legge sulla rappresentatività sindacale e presenza dei rappresentanti eletti direttamente dai lavoratori nei CDA delle grandi aziende.

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Dal 2008 ad oggi in Ita­lia si sono persi un milione di posti di lavoro. Circa 3 milioni e 300 mila disoc­cu­pati. Più del dop­pio dal gen­naio 2007. E tutti gli osser­va­tori con­fer­mano, ormai da anni, che anche dinanzi ad una ripresa, non si recu­pe­re­ranno i posti di lavoro persi. D’altro canto, l’Italia non vede neppure la timida luce di un inizio di ripresa.
Il Pre­si­dente del Con­si­glio, tuttavia, sa bene che serve qual­cosa di più con­creto di un semplice tweet e una serie di dichiarazioni di principio sul suo sito, perché gli italiani possano guardare al Jobs Act con fiducia. E infatti, sul punto sono già arrivate un paio di inter­vi­ste al respon­sa­bile eco­no­mia del PD Filippo Tad­dei (La Stampa) e a Ste­fano Sac­chi (La Repub­blica), quest’ultimo stu­dioso di Wel­fare, co-autore del libro Flex-insecurity (2009) e, probabilmente, neo con­su­lente del Governo Renzi. Ambe­due riten­gono prio­ri­ta­ria la tutela delle per­sone più svan­tag­giate. Si parla di Naspi, Nuova Aspi, per dif­fe­ren­ziarla da quell’ASPI intro­dotta dal Mini­stro For­nero. Sem­bre­rebbe una uni­ver­sa­liz­za­zione del sus­si­dio di disoc­cu­pa­zione, per venire incon­tro ai milioni di per­sone escluse dall’attuale sus­si­dio. Una risposta alle richieste dell’opposizione, peraltro: SEL e M5S, in particolare. Sembra positivo.

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Tuttavia i dati che forniscono sia Taddei che Sacchi sono pressoché discordanti. Se, infatti, dalle parole di Tad­dei leggiamo che «la pla­tea dei poten­ziali bene­fi­ciari si allar­ghe­rebbe di oltre 300mila» lavo­ra­tori a pro­getto, attual­mente senza garan­zie, Sac­chi aggiunge un altro milione di dipen­denti a ter­mine, som­mi­ni­strati, inte­ri­nali, anche loro fuori dai para­me­tri della Riforma For­nero. Qualcosa non torna, evidentemente. 300.000 o 1.300.000? E poi c’è da considerare cosa le parti sociali, sindacati e rappresentanze dei datori di lavoro, opporranno a questa riforma, anche per­ché i soldi andreb­bero presi dalla Cassa Inte­gra­zione Guadagni in deroga, fino ad oggi pro­lun­gata per far fronte alla crisi e a quegli effetti perversi della Riforma Fornero non preventivati dall’ex Ministro né dall’esecutivo del Prof. Monti. Ed è, inoltre, preoccupante il fatto che colla NASPI, comunque, rimar­reb­bero fuori dall’estensione del sus­si­dio i lavo­ra­tori auto­nomi, molti dei quali ridotti in con­di­zioni di pro­gres­sivo impo­ve­ri­mento, con fisco e ver­sa­menti alla Gestione Sepa­rata INPS che restano impla­ca­bili, con Equitalia alla porta, ancor più implacabile. Si paventa, perciò, una riforma priva di una concreta equità sociale: assenza, questa, che man­tiene la nostra demo­cra­zia fuori da qual­siasi para­me­tro di redi­stri­bu­zione delle ric­chezze in favore delle per­sone a rischio di esclu­sione sociale. E ciò mentre il Paese resta immo­bile, anzi no, il Paese si muove, ma in caduta libera verso la defla­zione, tanta è ormai la carenza di liqui­dità economica. E nel frattempo si assiste ad una quotidiana guerra tra poveri. Sui social, per strada, negli Uffici Pubblici. Adesso chi spiegherà ai lavoratori autonomi per quale ragione dovranno versare i contributi INPS e pagare le tasse, anche se l’accesso al sussidio è a loro precluso. L’impiegato di turno allo sportello dell’INPS e dell’A.E.? E quale compagine politica lucrerà sul malcontento di un’intera classe di lavoratori? Lo vedremo presto: su certi blog, su Facebook e Twitter compariranno slogan e notizie recriminatorie annunciate da titoli shock e abbinate a immagini sommariamente photoshoppate e a banner sgrammaticati.
L’augurio e la speranza di chi scrive è che la Riforma sia concertata, che il dialogo con le parti sociali porti in primis equità sostanziale. Perché è di questo che abbiamo bisogno. Senza non ci sarà alcuna ripresa. Un guru che prometteva soluzioni miracolose c’è già stato: ed è dal ’94 che aspettiamo quel milione di posti di lavoro. Una riforma che comprenda tutti, nessuno escluso, è ciò che il Paese merita, perché senza, nessun Jobs Act potrebbe funzionare davvero. Il resto sono solo tweet, post e reblog: dal Governo all’Opposizione. Ma di concreto ancora niente…

Michele De Sanctis

Gli invisibili dell’Europa

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Di Barbara Spinelli, pubblicato su La Repubblica 26/02/2014

Il dolore sta producendo risultati”: fa impressione, proprio ora che è divenuto ministro dell’Economia, rileggere quel che Pier Carlo Padoan disse il 29 aprile 2013 al Wall Street Journal, quando era vice segretario generale dell’Ocse.

Già allora i dati sull’economia reale smentivano una così impudente glorificazione dell’austerità – e addirittura dei patimenti sociali che infliggeva – ma l’ultimo numero di Lancet, dedicato alla sanità pubblica in Grecia dopo sei anni di Grande Depressione, va oltre la semplice smentita. Più che correggersi, il ministro farebbe bene a scusarsi di una frase atroce che irresistibilmente ricorda Pangloss, quando imperterrito rassicura Candide mentre Lisbona è inghiottita dal terremoto raccontato da Voltaire: “Queste cose sono il meglio che possa accadere. La caduta dell’uomo e la maledizione entrano necessariamente nel migliore dei mondi possibili”.

Lancet non è un giornale di parte: è tra le prime cinque riviste mediche mondiali. Il suo giudizio sulla situazione ellenica, pubblicato sabato in un ampio dossier (lo ha ripreso Andrea Tarquini sul sito di Repubblica), è funesto: la smisurata contrazione dei redditi e i tagli ai servizi pubblici hanno squassato la salute dei cittadini greci, incrementando il numero di morti specialmente tra i bambini, tra gli anziani, nelle zone rurali. Nella provincia di Acaia, il 70 per cento degli abitanti non ha soldi per comprare le medicine prescritte. Emergency denuncia la catastrofe dal giugno 2012. Numerose le famiglie che vivono senza luce e acqua: perché o mangi, o paghi le bollette. Nel cuore d’Europa e della sua cultura, s’aggira la morte e la chiamano dolore produttivo.
“Siamo di fronte a una tragedia della sanità pubblica”, constata la rivista, “ma nonostante l’evidenza dei fatti le autorità responsabili insistono nella strategia negazionista”. Qualcuno deve spiegare a chi agonizza come sia possibile che il dolore e la morte siano “efficaci”, e salvifiche per questo le riforme strutturali fin qui adottate.

Né è solo “questione di comunicazione” sbagliata, come sosteneva nell’intervista Padoan: sottolineare gli esiti promettenti del consolidamento fiscale, ammorbidendo magari qualche dettaglio tecnico, non toglie la vittoria al pungiglione della morte. Trasforma solo un’improvvida teoria economica in legge naturale, perfino divina. Moriremo, certo, ma in cambio il Paradiso ci aspetta. Soprattutto ci aspetta se non cadremo nel vizio disinvoltamente rinfacciato agli indebitati-impoveriti: la “fatica delle riforme” (reform fatigue), peccato sempre in agguato quando i governi “sono alle prese con resistenze sociali molto forti”. Quando siamo ingrati, come Atene, alle iniezioni di liquidità che l’Unione offre a chi fa bancarotta: nel caso greco, due bailout tardivi, legati a pacchetti deflazionistici monitorati dalla trojka. I contribuenti tedeschi hanno già dato troppo, dicono in Germania. Non è vero, i contribuenti non hanno pagato alcunché perché di prestiti si tratta, anche se a tassi agevolati e destinati in primis alle banche.

Difficile dar torto alle “forti resistenze sociali”, se solo guardiamo le cifre fornite su Lancet dai ricercatori delle università britanniche di Cambridge, Oxford e Londra. A causa della malnutrizione, della riduzione dei redditi, della disoccupazione, della scarsità di medicine negli ospedali, dell’accesso sempre più arduo ai servizi sanitari (specie per le madri prima del parto) le morti bianche dei lattanti sono aumentate fra il 2008 e il 2010 del 43%. Il numero di bambini nati sottopeso è cresciuto del 19 %, quello dei nati morti del 20.

Al tempo stesso muoiono i vecchi, più frequentemente. Fra il 2008 e il 2012, l’incremento è del 12,5 fra gli 80-84 anni e del 24,3 dopo gli 85. E s’estende l’Aids, perché la distribuzione di siringhe monouso e profilattici è bloccata. Malattie rare o estinte ricompaiono, come la Tbc e la malaria (quest’ultima assente da 40 anni. Mancano soldi per debellare le zanzare infette).
La rivista inglese accusa governi e autorità europee, ed elogia i paesi, come Islanda e Finlandia, che hanno respinto i diktat del Fondo Monetario o dell’Unione. Dopo la crisi acuta del 2008, Reykjavik disse no alle misure che insidiavano sanità pubblica e servizi sociali, tagliando altre spese scelte col consenso popolare. Non solo: capì che la crisi minacciava la sovranità del popolo, e nel 2010-2011 ridiscusse la propria Costituzione mescolando alla democrazia rappresentativa una vasta sperimentazione di democrazia diretta.

Non così in Grecia. L’Unione l’ha usata come cavia: sviluppi islandesi non li avrebbe tollerati. Proprio nel paese dove Europa nacque come mito, assistiamo a un’ecatombe senza pari: una macchia che resterà, se non cambiano radicalmente politiche e filosofie ma solo questo o quel parametro. Il popolo sopravvive grazie all’eroismo di Ong e medici volontari (tra cui Médecins du Monde, fin qui attivi tra gli immigrati): i greci che cercano soccorso negli ospedali “di strada” son passati dal 3-4% al 30%. S’aggiungono poi i suicidi, in crescita come in Italia: fra il 2007 e il 2011 l’aumento è del 45%. In principio s’ammazzavano gli uomini. Dal 2011 anche le donne.
Lancet non è ottimista sugli altri paesi in crisi. La Spagna, cui andrebbe assommata l’Italia, è vicina all’inferno greco. Alexander Kentikelenis, sociologo dell’università di Cambridge che con cinque esperti scrive per la rivista il rapporto più duro, spiega come il negazionismo sia diffuso, e non esiti a screditare le più serie ricerche scientifiche (un po’ come avviene per il clima). L’unica istituzione che si salva è il Centro europeo di prevenzione e controllo delle malattie, operativo dal 2005 a Stoccolma.

La Grecia prefigura il nostro futuro prossimo, se le politiche del debito non mutano; se scende ancora la spesa per i servizi sociali. Anche in Italia esistono ospedali di volontari, come Emergency. La luce in fondo al tunnel è menzogna impudente. Senza denunciarla, Renzi ha intronizzato ieri la banalità: “L’Europa non dà speranza se fatta solo di virgole e percentuali” – “l’Italia non va a prendere la linea per sapere che fare, ma dà un contributo fondamentale”. Nessuno sa quale contributo.

Scrive l’economista Emiliano Brancaccio che i nostri governi “interpretano il risanamento come fattore di disciplinamento sociale”. Ma forse le cose stanno messe peggio: il risanamento riduce malthusianamente le popolazioni, cominciando da bambini e anziani. Regna l’oblio storico di quel che è stata l’Europa, del perché s’è unita. Dimentica anche la Germania, che pure vive di memoria. Dopo il ’14-18 fu trattata come oggi la Grecia: sconfitto, il paese doveva soffrire per redimersi. Solo Keynes insorse, indignato. Nel 1919 scrisse: “Se diamo per scontata la convinzione che la Germania debba esser tenuta in miseria, i suoi figli rimanere nella fame e nell’indigenza […], se miriamo deliberatamente all’umiliazione dell’Europa centrale, oso farmi profeta, la vendetta non tarderà”.

La vendetta non tardò a farsi viva, ed è il motivo per cui ben diversa e più saggia fu la risposta nel secondo dopoguerra. Quella via andrebbe ripercorsa e potrebbe sfociare in una Conferenza europea sul debito, che condoni ai paesi in difficoltà parte dei debiti, connetta i rimborsi alla crescita, dia all’Unione poteri politici e risorse per lanciare un New Deal di ripresa collettiva e ecosostenibile. È già accaduto, in una conferenza a Londra che nel 1953 ridusse quasi a zero i debiti di guerra della Germania. I risultati non produssero morte, ma vita. Fecero rinascere la democrazia tedesca. Non c’era spazio, a quei tempi, per i Pangloss che oggi tornano ad affollare le scene.

Fonte ALBA SOGGETTO POLITICO NUOVO

Renzi, Grillo e la grande balena italica

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Di Gian Pietro “Jumpi” Miscione (L’Undici)

Quando nel 1978 le Brigate Rosse (BR) rapirono Aldo Moro, credettero di trovarsi di fronte ad uno dei massimi rappresentanti ed esecutori di un “regime” organizzato, monolitico, perfettamente riconoscibile, che combatteva la classe operaia e prendeva ordini da grandi e lontane centrali cospirative: la CIA, gli USA, la Germania, ecc..Seppure era ed è certamente vero che l’Italia è una democrazia incompiuta, la stampa non è libera, esistono profonde ingiustizie e via dicendo, di fronte a Moro, le BR furono costrette a rendersi conto che quel regime non esisteva (e non esiste) o meglio non esisteva (e non esiste) nelle forme secondo cui esse credevano esistesse o altri credono che ora esista. Se cioè sono chiari ed evidenti i beceri effetti ed i deprimenti risultati, le cause invece sono assolutamente sfuggenti, evasive, “anguillose”. Oltretutto, l’eliminazione di un suo presunto esecutore, Moro, che – fra l’altro – come ebbe a dire Pasolini era “il meno implicato di tutti”, non fece altro che rafforzare le forze contro cui le BR combattevano.

Oggi, come allora, fortunatamente con ben altre modalità, il Movimento 5 Stelle sta combattendo le stesse battaglie e, commettendo, gli stessi ingenui errori. Come magistralmente recitato da Volonté in questo spezzone del film “Il caso Moro” (dal minuto 1.00 a 2.50), il “regime” che mantiene l’Italia in questo stato di ingiustizie e marciume è tutt’altro che monolitico, tutt’altro che impegnato a perseguire grandi e lontani disegni o complotti, tutt’altro che identificabile e quindi possibile a mettersi in un mirino. Il “regime” è invece fatto di piccole meschinerie, miseri interessi di parte, millenari e gretti meccanismi atti a preservare il personale status quo. E dunque l’Italia che abbiamo sotto gli occhi (da secoli) è piuttosto il risultato “della concatenazione, più o meno casuale, di tutta una serie di circostanze piccole”.

Per questo, oggi come allora, l’errore del M5S è concettuale: i grandi registi e cospiratori del “regime” non hanno nomi o hanno i nomi di milioni di persone. Il “regime” è un mastodonte, una balena (non a caso la Democrazia Cristiana veniva detta “la balena bianca”), senza identità, senza forma e, allo stesso tempo, ha l’identità e la forma dell’Italia intera. Ed, ormai, gridare ossessivamente e nevroticamente al complotto ogni pomeriggio o mandare “affanculo” un qualche politico un giorno sì e l’altro pure, oltre a tradire frustrazione, non fa che rafforzare questo mastodonte, esattamente come lo rafforzarono le azioni brigatiste.

Allo stesso modo, questa balena ha ora fagocitato anche Renzi, semplicemente attendendo che finisse nella sua grande bocca. Una balena con una grande bocca aperta che inghiotte e digerisce qualsiasi cosa, da qualche millennio. Sceso da Firenze a Roma pieno d’energia e grandi e nuovi propositi, si è trovato impelagato nelle millenarie paludi del “regime” e, per non perdere l’impulso derivatogli dalle primarie e dal suo essere “homus novus”, è stato costretto ad andare al governo secondo i più antichi, meschini, democristiani e fratricidi meccanismi. Il suo governo è un rimpasto del precedente, un collage di pezzi di partiti non destinati a stare insieme ed uniti più che altro dall’ansia di perdere il posto e confrontarsi con gli elettori, un governo già vittima di ricatti e capriccetti, nel quale ogni spinta di rottura rispetto al passato (qualsiasi essa sia) verrà “prudentemente” e inesorabilmente ammortizzata e spenta. Insomma: un tipico governo della nostra Repubblica. In altre parole, Renzi è già finito avvolto nelle spire del mastodonte che ne bloccheranno ogni spinta verso il cambiamento. Neanche il fascismo è riuscito a scalfire questi meccanismi, figuriamoci uno scout di Firenze.

E’ da decenni (secoli?) che sentiamo dire che “è la settimana decisiva”, che è “l’ultima chance”…Gli italiani sono incombustibili, gli italiani rimangono sempre a galla, in Italia non c’è mai stata una autentica rivoluzione in duemila anni. Perché, come diceva il poeta Umberto Saba: “gli italiani non sono parricidi; sono fratricidi… Vogliono darsi al padre, ed avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli”. E se non si “uccide il padre”, non si può cambiare nulla.

Presto o tardi, in Italia, ogni rivoluzionario o rottamatore, finisce e finirà per prendersela con gli italiani, per i quali “il cambio” e “la rivoluzione” sono irricevibili. E la balena, intanto, continua a navigare, anzi…a lasciarsi navigare…

Fonte: L’Undici

Pizzaiolo si uccide dopo aver ricevuto una multa dell’Ispettorato del lavoro.

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Tragedia a Casalnuovo, nel napoletano: all’uomo – sposato con tre figli – era stata consegnata una sanzione di duemila euro dopo che gli ispettori del lavoro avevano scoperto che sua moglie, che lavorava a tutti gli effetti nel negozio, era irregolare.

Il capo degli ispettori: «Non siamo i suoi assassini»

La crisi economica ha una nuova vittima: questa volta è un pizzaiolo che dopo aver ricevuto una multa di 2 mila euro dalla DPL, si è suicidato. A quanto pare, gli affari non andavano bene e, in seguito alla notifica della sanzione, non ha retto il colpo.

Il 2013 è stato un annus horribilis per gli italiani: 149 (60 più del 2012) le persone che hanno deciso di togliersi la vita, perché incapaci di affrontare la crisi che ancora attanaglia il Paese, che piega i cittadini lasciandoli senza speranze per il futuro, fagocitandone la vita, la storia. Tutto. E anche il 2014, purtroppo, ha già offerto notizie di cronaca altrettanto tristi, come quella di oggi che giunge da Casalnuovo, in provincia di Napoli.

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Eduardo De Falco, piccolo imprenditore titolare di un panificio, era disperato: non ha retto a quella multa da 2 mila euro da parte dell’Ispettorato del Lavoro. Ha scelto di farla finita. Eduardo se n’è andato. Gli erano state riscontrate delle irregolarità relative alla gestione della sua attività commerciale e di lì è scattata la sanzione. Ma lui, che da tempo versava in gravissime condizioni economiche, incapace di trovare una soluzione ai suoi problemi, ha deciso di suicidarsi. Così, dopo un periodo nero in cui gli affari gli andavano male, è arrivato il tragico epilogo di una storia comune, che sta diventando in Italia quella di tanti, troppi, lavoratori: togliersi la vita. Eduardo l’ha fatto sotto casa, all’interno della sua auto, inalando i gas di scarico del motore.

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Un cartello con la scritta «Non siamo ladri, né sfruttatori» e una corona di orchidee, con la firma «Tutti i commercianti» sono stati collocati davanti al panificio-pizzeria di Eduardo, “Eddy” De Falco, al Corso Umberto I di Casalnuovo. Gli amici giunti sul posto dopo la diffusione della notizia sono ancora pochi, e tra loro domina l’incredulità. «Sono allibito», dice un commerciante. Altri parlano di una iniziativa di protesta contro fisco e burocrazia.

Diversamente da altri bloggers, noi non riteniamo giusto rivolgere alcun rimprovero agli ispettori, che hanno semplicemente fatto ciò che per legge andava fatto. È il loro compito: non hanno scelta in questi casi. Ma non possiamo non restare basiti di fronte ad uno Stato che consente il ripetersi di queste tragedie, siamo stupiti e soprattutto preoccupati dall’indifferenza con cui una parte della classe politica passa oltre dinanzi a queste storie e dalla costante strumentalizzazione che ne fa la restante parte.

MDS
BlogNomos

Il lavoro ruba la vita.

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Storia sociale. Per la casa editrice Angeli esce «Come servi», uno studio di Maria Luisa Pesante sulla figura del salariato visto come possibile nuovo schiavo, soprattutto alla luce della precarietà dell’esistenza e dei contratti. Di Michele Nani (Il Manifesto).

Le tra­sfor­ma­zioni del pre­sente, quando hanno carat­tere strut­tu­rale e non sem­pli­ce­mente con­giun­tu­rale, impon­gono di ricon­si­de­rare le let­ture del pas­sato. Non solo in quanto, secondo l’abusato ada­gio cro­ciano, «ogni sto­ria è sto­ria con­tem­po­ra­nea» e dun­que l’interpretazione del pas­sato è anche una posta in gioco delle lotte poli­ti­che del presente.

Piut­to­sto per­ché, con Kosel­leck e Har­tog, siamo ancora nel regime di sto­ri­cità instau­rato dalle rot­ture euro­pee del tardo Set­te­cento: per cui la nostra per­ce­zione della sto­ria con­tem­po­ra­nea è frutto di una con­trap­po­si­zione radi­cale fra pas­sato e pre­sente. Siamo dun­que por­tati a pen­sare il mondo attra­verso una serie di cop­pie con­cet­tuali, che un radi­ca­liz­zano le distin­zioni fra le società «tra­di­zio­nali» di Antico regime e le nuove società «moderne». Anche quando par­liamo di post-moderno o di fine della moder­nità siamo di fronte a un aggior­na­mento di quella logica.

Fa parte di que­ste rap­pre­sen­ta­zioni oppo­si­tive anche l’idea che la lunga tran­si­zione a for­ma­zioni sociali a domi­nante capi­ta­li­stica abbia deter­mi­nato una tra­sfor­ma­zione qua­li­ta­tiva e irre­ver­si­bile delle rela­zioni di lavoro. Dal pieno e asso­luto domi­nio dei signori sui corpi al lavoro dei loro servi e sui loro pro­dotti si sarebbe pas­sati a un mer­cato del lavoro «libero», ove la pre­sta­zione si scam­bia con un sala­rio sta­bi­lito da un con­tratto. Cer­ta­mente anche il con­tratto, come vide luci­da­mente lo stesso Max Weber, san­ci­sce i rap­porti di forza fra parti tutt’altro che «eguali», dato che gli uni sono pro­prie­tari che cer­cano di valo­riz­zare il pro­prio capi­tale e gli altri nul­la­te­nenti che cer­cano un sala­rio per non morire di fame. Tut­ta­via un con­tratto scritto è meglio del patto orale (o dell’assenza di patto) che carat­te­rizza la dipen­denza per­so­nale: per­ché postula l’equivalenza dello scam­bio, pre­sup­pone l’accordo fra i con­traenti e pone qual­che limite all’arbitrio e alla discre­zio­na­lità del comando.

Patti oscuri

Per chi non l’avesse già ripen­sato guar­dando alle peri­fe­rie del capi­tale o agli imperi colo­niali, le vicende degli ultimi decenni hanno dis­si­pato come illu­sione ottica la pre­tesa irre­ver­si­bi­lità non solo delle forme con­trat­tuali più avan­zate e delle garan­zie con­qui­state dai lavo­ra­tori, ma anche la stessa idea di un pas­sag­gio sto­rico epo­cale dalla coa­zione ser­vile al libero con­tratto. Il lavoro sala­riato con­ti­nua a dif­fon­dersi, ma l’idea «evo­lu­tiva» e il suo segno «pro­gres­sivo» sono state ridi­men­sio­nate. È dun­que ora più age­vole rico­struire sto­ri­ca­mente le can­gianti e plu­rali costel­la­zioni delle rela­zioni di lavoro: per farsi un’idea basti sca­ri­care le Outli­nes di sto­ria del lavoro che Jan Lucas­sen ha com­pen­diato in un sag­gio qual­che mese fa (http://​socia​lhi​story​.org/​e​n​/​p​u​b​l​i​c​a​t​i​o​n​s​/​o​u​t​l​i​n​e​s​-​h​i​s​t​o​r​y​-​l​a​b​our). Fra lavoro «libero» (salariato-contrattuale) e lavoro «non libero» (servile-schiavile) non si dà alter­na­tiva secca, né nei sin­goli con­te­sti, né sto­ri­ca­mente, bensì cicli di pre­va­lenza rela­tiva e, soprat­tutto, intrecci e gra­da­zioni inter­me­die. Allo stesso modo non è age­vole distin­guere le forme di coa­zione al lavoro e di potere sul lavoro o porle su una scala evo­lu­tiva: alle matrici economico-sociali si intrec­ciano costan­te­mente ele­menti extra-economici, in par­ti­co­lare giu­ri­dici e istituzionali.

A que­sto can­tiere di sto­ria sociale delle pra­ti­che lavo­ra­tive si è affian­cata, con la stessa dif­fi­denza verso tipo­lo­gie e schemi evo­lu­tivi e con la mede­sima atten­zione alle inso­spet­tate con­ti­nuità, una sto­ria delle rap­pre­sen­ta­zioni del lavoro, che ha trac­ciato una genea­lo­gia cri­tica dei para­digmi del lavoro ancora impe­ranti. Uno sti­mo­lante con­tri­buto in quest’ultima dire­zione viene dalla recente ricerca di Maria Luisa Pesante, una «sto­ria intel­let­tuale» delle «figure del lavoro sala­riato» nella cul­tura euro­pea, la cui tesi è lim­pi­da­mente sin­te­tiz­zata dal titolo (Come servi, Milano, Angeli 2013) e dall’immagine di coper­tina: un dise­gno cin­que­cen­te­sco che ripro­duce la scena dell’ingresso in miniera di alcuni ope­rai, sor­ve­gliati da arci­gni per­so­naggi muniti di robu­sti bastoni.

Antro­po­lo­gia al negativo

Il punto di par­tenza della ricerca è la dif­fusa con­vin­zione che la teo­riz­za­zione del mer­cato del lavoro, e dun­que del lavoro come merce il cui prezzo (il sala­rio) è deter­mi­nato dalle «leggi» della domanda e dell’offerta, risalga al sapere dell’«economia poli­tica», giunto a matu­rità nel Set­te­cento, come descri­zione e inter­pre­ta­zione del nuovo modo capi­ta­li­stico di pro­durre. Attra­verso un ser­rato con­fronto con i testi, una raf­fi­na­tis­sima filo­lo­gia che non si esau­ri­sce nell’esegesi interna, ma col­loca i testi nel con­te­sto intel­let­tuale e sociale più largo, Pesante mostra come die­tro la con­si­de­ra­zione del lavoro come merce vi sia invece un’altra sto­ria. Non è l’osservazione e for­ma­liz­za­zione teo­rica delle moderne rela­zioni capi­ta­li­sti­che di pro­du­zione ad ispi­rare l’analisi del lavoro in quanto merce, ma l’incorporazione nell’economia poli­tica di teo­riz­za­zioni pre­ce­denti sui lavoratori.

La matrice dell’idea del lavoro-come-merce risale ai teo­rici sei­cen­te­schi del diritto natu­rale (Gro­zio, Pufen­dorf ed altri), che nel ten­ta­tivo di inqua­drare in ter­mini con­trat­tuali tutte le rela­zioni sociali leg­ge­vano il sala­riato come variante tem­po­ra­nea della ser­vitù per­pe­tua. L’uno e l’altra rap­pre­sen­ta­vano ai loro occhi sot­to­mis­sioni volon­ta­rie al potere altrui, dovute all’indigenza. Seguendo le fonti del diritto romano, il sala­riato si doveva inqua­drare nel con­tratto di «loca­zione», si pen­sava cioè come un affitto di lavoro. Però l’erogazione di lavoro è dif­fi­cil­mente scin­di­bile dalla persona-al-lavoro e dun­que il sala­riato restava in una posi­zione ambi­gua, fra equi­va­lenza dello scam­bio (che apre, per altro, a nuove ambi­guità: a cosa dev’essere equi­va­lente il sala­rio, al tempo di lavoro, alla quan­tità di pro­dotto o ad altro?) e rica­duta nella con­di­zione ser­vile (domi­nio sulla per­sona, senza limiti di com­pito, pro­dotto o tempo). A que­sta rap­pre­sen­ta­zione giu­ri­dica si affian­cava un’antropologia nega­tiva del lavo­ra­tore sala­riato, che rical­cava quella del servo e dello schiavo: inca­pace poli­ti­ca­mente e civil­mente, la sua sog­get­ti­vità si ridu­ceva a una costante pul­sione verso l’ozio e la frode.

Que­sta let­tura del sala­riato aveva due corol­lari: primo, l’idea che i salari non pos­sano cre­scere oltre un certo, ristretto limite det­tato dalla sus­si­stenza del lavo­ra­tore — e se cre­scono troppo è neces­sa­rio l’intervento dello Stato ad abbas­sarli per legge, ripri­sti­nando l’ordine natu­rale; secondo, l’impensabilità di un con­flitto «ver­ti­cale» fra per­sone e gruppi dallo sta­tuto diverso, se non nei ter­mini pato­lo­gici della vio­la­zione o rot­tura del con­tratto, che rap­pre­senta un reato e come tale va represso.

Buona parte di que­sto baga­glio è alle ori­gini dalla nuova «eco­no­mia poli­tica», che si vuole scien­ti­fica e ogget­tiva: è invece attra­verso le lenti della giu­ri­spru­denza natu­rale e dun­que del lavo­ra­tore come schiavo o servo che si teo­rizza il lavoro come merce fra le altre e quindi il mer­cato del lavoro. L’approccio di Pesante non è sem­pli­ci­stico: non si tratta di errori o di distor­sioni ideo­lo­gi­che, quanto di vere e pro­prie apo­rie, di dif­fi­coltà reali. Gli inter­preti pas­sati in ras­se­gna, dai giu­sna­tu­ra­li­sti ai filo­sofi poli­tici, dagli eco­no­mi­sti «pra­tici» ai teo­rici illu­mi­ni­sti di un nuovo sapere, fino al caso emble­ma­tico di David Hume, fati­cano a leg­gere una realtà nuova e mute­vole, per­ché si ser­vono di vec­chi stru­menti e anche quando ne costrui­scono di nuovi devono appog­giarsi, anche solo par­zial­mente, su pre­sup­po­sti pre­ce­denti. Nono­stante i suc­ces­sivi ten­ta­tivi di chiu­derle dell’economia poli­tica clas­sica (Smith, Ricardo) e poi del neo­clas­si­ci­smo (da Jevons ai suoi eredi dell’ultimo qua­ran­ten­nio «neo­li­be­ri­sta»), quelle apo­rie sono soprav­vis­sute e sono tut­tora vive. L’Autrice rico­no­sce che que­ste apo­rie non impe­di­rono all’epoca approcci alter­na­tivi e meno rigidi al sala­riato, come ad esem­pio quelli degli eco­no­mi­sti fran­cesi (ad es. Tur­got), desti­nati tut­ta­via a rima­nere mino­ri­tari nel farsi della nuova disci­plina eco­no­mica. Nem­meno in seguito sono man­cate prese di posi­zione e teo­riz­za­zioni alter­na­tive, ma anch’esse sono rima­ste subal­terne: come la Dichia­ra­zione di Fila­del­fia dell’Organizzazione inter­na­zio­nale del lavoro, che si apriva nel 1944 negando che il lavoro fosse una merce; come, negli stessi anni, la Grande tra­sfor­ma­zione di Karl Pola­nyi, nella quale si soste­neva che la mer­ci­fi­ca­zione di lavoro, moneta e terra era alle ori­gini degli squi­li­bri delle società capi­ta­li­sti­che; o, ancora, come l’economia delle con­ven­zioni e la socio­lo­gia eco­no­mica, che hanno cri­ti­cato il ridu­zio­ni­smo mer­can­tile e i suoi formalismi.

Invece Pesante non dà troppo cre­dito alla decli­na­zione mar­xiana della cri­tica all’economia poli­tica. È vero che Marx teo­rizzò il pas­sag­gio al lavoro «libero» nel capi­ta­li­smo maturo, ma que­sto non signi­fi­cava una libe­ra­zione dei lavo­ra­tori, bensì un espro­prio: l’«accumulazione ori­gi­na­ria» è la sto­ria del pas­sag­gio della pro­prietà dei mezzi di pro­du­zione dai con­ta­dini e dagli arti­giani ai mercanti-imprenditori e della con­se­guente tra­sfor­ma­zione dei pro­dut­tori indi­pen­denti in «pro­le­tari» che vivono di lavoro sala­riato. Inol­tre se la forza-lavoro (non il «lavoro», né il lavo­ra­tore) viene acqui­stata come una merce, per Marx non era una merce come le altre.

In primo luogo, la capa­cità lavo­ra­tiva viene com­prata con un sala­rio, che esprime il costo della sua ripro­du­zione: ma non si tratta di un’equivalenza astratta, quanto di una rap­porto di forza sto­ri­ca­mente varia­bile, per cui quel costo può essere abbas­sato dalla pres­sione dell’offerta sovrab­bon­dante delle brac­cia dell’«esercito indu­striale» dei disoc­cu­pati, ma può essere anche alzato dal con­flitto orga­niz­zato, dal «movi­mento ope­raio». In seguito, una volta nego­ziato il prezzo, si passa dal mer­cato del lavoro ai luo­ghi della pro­du­zione, ove la forza-lavoro socia­liz­zata e coo­pe­rante rivela di essere una merce unica, per la sua pecu­liare capa­cità di aggiun­gere valore e dun­que di pro­durre non solo merci, ma soprat­tutto profitto.

Il domi­nio simbolico

Oggi il dibat­tito su classe e lavoro è e non man­cano visioni cri­ti­che su Marx anche in coloro che al suo arse­nale teo­rico si ispi­rano (occor­rerà tor­nare, ad esem­pio, su Beyond Marx, appena uscito per le cure di Mar­cel Van der Lin­den e Karl-Heinz Roth), ma la posi­zione dell’autore del Capi­tale resta impre­scin­di­bile e fer­tile. Altri, ad esempio, hanno esteso la valenza dell’«accumulazione pri­mi­tiva» per espro­pria­zione al di là del momento «ori­gi­na­rio», come pro­cesso che si ripro­pone con­ti­nua­mente (accanto ad Har­vey sono da ricor­dare Mez­za­dra, Sac­chetto e Tomba).

Ispi­rata dall’esperienza con­creta delle rela­zioni capi­ta­li­sti­che, ma tal­volta anche da Marx, la rea­zione sog­get­tiva dei por­ta­tori della merce-lavoro ha inciso sulla società con­tem­po­ra­nea ben più di quanto non abbiano potuto fare le pur ricor­renti e radi­cali rivolte di schiavi e di servi dei secoli pre­ce­denti. Sin­da­cati e scio­peri, par­titi politici e rivo­lu­zioni hanno segnato l’Otto e il Nove­cento e dimo­strato pratica­mente che il lavoro non è solo una merce. Eppure oggi tanti con­ti­nuano a pen­sarlo in quel modo e il domi­nio mate­riale del capi­tale è così rad­dop­piato in un domi­nio sim­bo­lico, che ci porta a inte­rio­riz­zare la riduzione a merce, con­cor­renza e impresa di qual­siasi aspetto della vita sociale, dal sapere alle risorse, dalla for­ma­zione alla salute. Con il risul­tato, evi­den­ziato con discre­zione ma non senza ama­rezza anche dall’autrice di que­sto pre­zioso volume, che l’odierna pre­ca­riz­za­zione ripro­pone lavori salariati con­trat­tati al di sotto del livello di sussistenza.

Questi nuovi servi, come i loro pre­de­ces­sori pie­na­mente dispo­ni­bili e senza diritti né tutele, nuovi eco­no­mi­sti e nuovi filo­sofi spie­gano quo­ti­dia­na­mente che quelle tri­sti con­di­zioni si devono alla pigri­zia: solo lavo­rando più a lungo e più inten­sa­mente (o, variante post-moderna, facen­dosi «impren­di­tori di se stessi») i lavo­ra­tori pos­sono godere di qual­che miglio­ramento. Non certo ricor­rendo col­let­tiva­mente al con­flitto, che que­sti buoni eredi degli autori sei-settecenteschi stu­diati in Come servi esor­ciz­zano come inu­tile o dan­noso pro­prio per­ché, in fondo, fa sal­tare la mer­ci­fi­ca­zione del lavoro e con essa le teo­rie che ne cele­brano la naturalità.

Fonte: Il Manifesto

“Non licenziate i nostri papà”: il dramma della crisi nei disegni dei bambini

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I figli dei dipendenti di un’azienda torinese hanno realizzato una serie di “ritratti di vita”, raccolti in un video struggente, per raccontare il dramma dei loro genitori che hanno perso il lavoro.

TORINO – “Mio papino, non c’è bisogno che piangi di nascosto, perché anche se davanti a tutti noi sorridi io ho capito tutto. Stai tranquillo, ci sarò anch’io nelle tue lotte perché non lascerò mai la mano che tu stringi per 11 anni”. Firmato “figlia di un dipendente”.

A Collegno, in provincia di Torino, sono i bambini a raccontare la crisi economica che stritola il Paese e “annienta” le persone. Lo fanno nel modo più semplice e naturale possibile, prendendo un paio di fogli bianchi, pennarelli colorati e disegnando quello che vedono: una vita priva di soddisfazioni. I loro “ritratti di vita” sono stati raccolti in un video pubblicato su YouTube: il risultato è struggente (GUARDA IL VIDEO QUI).

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I bambini che raccontano a modo loro il bisogno di uscire fuori da questa crisi sono i figli dei dipendenti della Fivit Colombotto di Collegno, l’ennesima azienda torinese specializzata in produzione di viti e bulloni per elettrodomestici che chiude i battenti e lascia a casa 82 persone. Inevitabile che ad accorgersi del dramma siano anche loro, i più piccoli e innocenti.

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Perché anche comprare una maglietta nuova o un pezzo di cioccolato è diventato faticoso: i bimbi disegnano i beni di primario consumo e li barrano con una grossa “X”, perché i loro genitori non riescono ad acquistare neanche quelli. Perché “state rovinando i nostri sogni”, scrivono Giulia di sei anni e Francesco di tre. Un segnale forte, perché spesso i bambini vedono più di quello che dovrebbero vedere. E lo sanno che i loro genitori non sono numeri e che “il lavoro è un diritto di tutti”, come scrivono Sara e Gianluca.

Fonte: Torino Today

A rischio 25mila posti in tutta Italia. Addetti alle pulizie nelle scuole in stato di agitazione.

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I 25mila lavoratori che si occupano delle pulizie nelle scuole italiane, e che rischiano in questi giorni il posto di lavoro, non sono e non devono essere un problema di ordine pubblico. Sono un problema sociale a cui la politica deve dare risposte credibili e convincenti.
Leggete qui cos’è successo a Pomezia:

http://ilmanifesto.it/pomezia-la-polizia-sgombera-con-molta-forza-le-addette-alle-pulizie-di-una-scuola/

Una brutta vicenda che poteva e doveva essere evitata.

MDS

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