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CASSAZIONE SHOCK: ATTENUANTI PER STUPRO ALL’UOMO CHE VIOLENTAVA LA MOGLIE SOTTO L’INFLUENZA DELL’ALCOL.

di Michele De Sanctis

Pur se la violenza sessuale è stata completa, è lecito concedere l’attenuazione della pena. È questo quanto è stato recentemente deciso dalla Terza Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione, con Sentenza n. 39445 depositata lo scorso 25 settembre (udienza del primo luglio). La Corte ha annullato (con rinvio) la precedente decisione della Corte di Appello di Venezia, che condannava un uomo per violenze ripetute sulla moglie, confermando, peraltro, il giudizio di I grado. Avverso la sentenza di II grado, l’imputato aveva presentato ricorso in Cassazione, sostenendo che andava valutata la ‘qualità’ del gesto (e segnatamente il grado di coartazione, il danno arrecato e l’entità della compressione), più che la ‘quantità’ della violenza fisica esercitata.

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Infatti, i giudici veneziani nel condannarlo per stupro e maltrattamenti in famiglia, avevano negato la concessione di attenuanti alla pena, rilevando che una violenza sessuale non è mai un “fatto di minore gravità”. Tuttavia, a giudizio degli Ermellini, non può negarsi tale concessione, anche in un caso come quello di specie, in cui la violenza perpetrata ai danni della vittima è stata completa, dal momento che la “tipologia” dell’atto sarebbe “solo uno degli elementi indicativi dei parametri”, in base a cui stabilire la gravità della violenza e non costituirebbe, dunque, un elemento “dirimente”.

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In particolare, la Suprema Corte ha sottolineato che “così come l’assenza di un rapporto sessuale ‘completo’ non può, per ciò solo, consentire di ritenere sussistente l’attenuante, simmetricamente la presenza dello stesso rapporto completo non può, per ciò solo, escludere che l’attenuante sia concedibile, dovendo effettuarsi una valutazione del fatto nella sua complessità”. Nel caso di specie, la decisione dei giudici d’appello risulta viziata, in quanto sarebbe “mancata ogni valutazione globale”, in particolare “in relazione al fatto che le violenze sarebbero sempre state commesse sotto l’influenza dell’alcol”.

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Davvero singolare, in realtà, risulta la valutazione della commissione di un reato in stato di ebbrezza quale circostanza meritevole di valutazione ai fini della concessione dell’attenuazione della pena, ove, per altri reati, la stessa è, invece, una circostanza aggravante. Né lo stato di alterazione psichica procuratosi dall’aggressore può considerarsi alla stregua di un’attenuante generica ex art. 62bis cp, ossia come una di quelle circostanze indeterminate e non tipizzate, che il giudice può prendere in considerazione quando le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena. Tuttavia, lo stato di ebbrezza dell’aggressione non è il solo parametro di riferimento. La Corte, a tal proposito, rileva che “ai fini della concedibilità dell’attenuante di minore gravità, assumono rilievo una serie di indici, segnatamente riconducibili, attesa la ‘ratio’ della previsione normativa, al grado di coartazione esercitato sulla vittima, alle condizioni fisiche e mentali di quest’ultima, alle caratteristiche psicologiche, valutate in relazione all’età, all’entità della compressione della libertà sessuale ed al danno arrecato alla vittima anche in termini psichici”.
Se così non fosse, – prosegue la Corte – si verrebbe a riprodurre la “vecchia distinzione, ripudiata dalla nuova disciplina, tra ‘violenza carnale’ e ‘atti di libidine’ che lo stesso legislatore ha ritenuto di non focalizzare preferendo attestarsi sulla generale clausola di ‘casi di minore gravità’”.

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Il problema, però, è che per mezzo di questa clausola, il reato in parola, a prescindere dalla fattispecie in esame, sembra uscire in qualche misura ‘derubricato’. Come se l’analisi formale delle parole del Legislatore avesse scoperto che la norma, in realtà, prevede una sorta di bonus per tutti quei rispettabili padri di famiglia, che, nel chiuso delle pareti domestiche, in preda ai fumi dell’alcol, sono soliti picchiare e violentare la moglie. In effetti, per come è impostato il ricorso dell’aggressore, che la Cassazione ha accolto, si è quasi portati a pensare che l’ebbrezza fosse addirittura propedeutica alla violenza. Se così fosse, tuttavia, le attenuanti non sarebbero concedibili: la fattispecie si configurerebbe come ‘actio libera in causa’, ossia come quel fenomeno (giuridicamente rilevante) che si verifica quando un soggetto si ponga in stato di incoscienza al fine di commettere un reato o di procurarsi una scusante. In tal caso, infatti, viene applicata la pena anche se chi ha commesso il fatto era in stato di incapacità di intendere e di volere al momento della consumazione del reato. Ma dobbiamo sempre ricordare che la Corte di Cassazione non giudica i fatti nel loro merito. La Corte, piuttosto, ha precisato che la circostanza attenuante “deve considerarsi applicabile tutte quelle volte in cui – avuto riguardo ai mezzi, alle modalità esecutive ed alle circostanze dell’azione – sia possibile ritenere che la libertà sessuale della vittima sia stata compressa in maniera non grave”. E questo vale anche nel caso di specie.

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La Corte di Appello di Venezia, per negare l’attenuante, aveva fatto riferimento soltanto “ai plurimi rapporti sessuali completi ottenuti con la violenza e senza il minimo rispetto della dignità e libertà di determinazione della donna”. L’attenuante, però, può essere applicata tutte le volte in cui è possibile ritenere “che la libertà sessuale della vittima sia stata compressa in maniera non grave”. Per la Cassazione, infatti, è necessaria “una disamina complessiva, con riferimento alla valutazione delle ripercussioni delle condotte, anche sul piano psichico, sulla persona della vittima”: i giudici, in casi come quello esaminato, non possono fare come i magistrati della Corte di Appello di Venezia che si sono piuttosto “limitati” a “descrivere il fatto contestato, necessariamente comprensivo, per la stessa definizione normativa, di violenza, senza tuttavia analizzarne, come necessario, gli effetti”.
Il caso viene, quindi, rinviato ad altra sezione della Corte di Appello del Capoluogo lagunare.

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Gay o etero, ma con amore. Elogio dei genitori imperfetti.

da Repubblica.it Cultura del 10/5/2014

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di Michela Marzano

François Hollande l’aveva promesso durante la campagna elettorale: se fosse stato eletto presidente della Repubblica, avrebbe riaperto il dibattito sul matrimonio e sull’adozione delle coppie omosessuali. Pochi mesi dopo la vittoria del candidato socialista, il primo ministro francese Jean-Marc Ayrault annuncia che il progetto di legge sarà finalmente presentato in Consiglio dei Ministri il 31 ottobre 2012, scatenando immediatamente le polemiche. Perché i gay e le lesbiche non si accontentano del Pacs e vogliono anche loro sposarsi? Il matrimonio non dovrebbe essere riservato alle coppie eterosessuali?

Per tutti coloro che si oppongono all’estensione del matrimonio e dell’adozione alle coppie omosessuali, è soprattutto la questione dell’adozione ad essere problematica. Permettere alle coppie omosessuali di adottare, significherebbe per loro non solo impedire ad un bimbo di avere un padre e una madre, ma anche privarlo della possibilità di crescere in modo armonioso, identificandosi con la figura maschile (se si tratta di un bambino adottato da una coppia di lesbiche) o con la figura femminile (se si tratta invece di una bambina adottata da una coppia di gay). Per non parlare poi dei danni a livello psicologico: per poter avere accesso a quello che alcuni psicoanalisti chiamano “l’ordine simbolico”, sembrerebbe infatti necessario vivere in una “famiglia normale”. Ma che cosa vuol dire “normale”? Esiste un unico modo di occuparsi dei bambini oppure questa normalità è solo un modo per discriminare gli omosessuali?

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In realtà, l’idea di normalità non ha alcun senso quando si parla dell’educazione dei figli. Esistono solo tanti percorsi diversi, per i bambini, di imparare a “tenersi su”, come direbbe il pediatra e psicoanalista Donald Winnicott. Ossia tanti modi diversi per capire che si ha diritto di essere quello che si è, indipendentemente dalle aspettative altrui. E che l’amore che si riceve non ha né sesso né orientamento sessuale. Non è vero che le madri hanno tutte un istinto materno. Esattamente come non è vero che i padri sono tutti, per natura, incapaci di occuparsi dei propri figli.

Dietro la maggior parte delle obiezioni al matrimonio e all’adozione delle coppie omosessuali, si nascondono contraddizioni e luoghi comuni. Tanto per cominciare, in Francia, è possibile già da molti anni adottare anche quando si è single. Questo significa che, fino ad ora, l’eventuale problema dell’assenza dell’altro genitore non si era posto. E che lo si solleva solo nel momento in cui entra in gioco l’orientamento sessuale dei genitori adottivi. Ma il nodo del problema è altrove, visto che l'”ordine simbolico” di cui si parla tanto, altro non è che la capacità di integrare il fatto che al mondo esistono due categorie di persone: gli uomini e le donne. Peccato che le scelte sessuali di una persona non c’entrino affatto con la negazione della differenza dei sessi, a meno che non si confonda il concetto di “identità sessuale” con quello di “orientamento sessuale”. Ma questo tipo di confusione, in fondo, sono solo alcuni eterosessuali a farla, non capendo che l’identità sessuale dell’oggetto del desiderio di una persona non rimette affatto in discussione la consapevolezza del fatto che ognuno di noi sia “maschio” o “femmina”.

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Il vero problema dell’adozione non è quello dell’orientamento sessuale della coppia che adotta, ma quello del posto che si lascia a un bambino. Questo problema, però, lo si ha sempre, indipendentemente dal fatto che un bimbo cresca accanto a due uomini, due donne, o un uomo e una donna. Quando si ha a che fare con un figlio, la cosa più difficile è riconoscerne l’alterità. Per poter accedere a quel famoso “ordine simbolico”, per crescere, ogni bimbo ha bisogno di essere accettato nella propria alterità, e quindi di essere riconosciuto come “altro” rispetto ai propri genitori. Proprio perché è unico.

È solo in questo modo che si ha poi accesso all’ordine simbolico secondo cui non solo la donna è diversa dall’uomo, ma ogni persona è diversa da tutte le altre. Incentrare il dibattito sulla questione dell’unicità e dell’individualità, però, costringerebbe ognuno di noi ad interrogarsi sulla propria capacità di tollerare ciò che è diverso. Sapendo benissimo che i bambini, quando crescono, si identificano non solo con i genitori, ma anche con tutti gli altri adulti che contribuiscono alla loro educazione. E che tanti problemi, nella vita, nascono quando non si è stati accettati e riconosciuti per quello che si era. Anche quando si è cresciuti in una famiglia “normale”, con un papà e una mamma.

Fonte: La Repubblica

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“Non licenziate i nostri papà”: il dramma della crisi nei disegni dei bambini

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I figli dei dipendenti di un’azienda torinese hanno realizzato una serie di “ritratti di vita”, raccolti in un video struggente, per raccontare il dramma dei loro genitori che hanno perso il lavoro.

TORINO – “Mio papino, non c’è bisogno che piangi di nascosto, perché anche se davanti a tutti noi sorridi io ho capito tutto. Stai tranquillo, ci sarò anch’io nelle tue lotte perché non lascerò mai la mano che tu stringi per 11 anni”. Firmato “figlia di un dipendente”.

A Collegno, in provincia di Torino, sono i bambini a raccontare la crisi economica che stritola il Paese e “annienta” le persone. Lo fanno nel modo più semplice e naturale possibile, prendendo un paio di fogli bianchi, pennarelli colorati e disegnando quello che vedono: una vita priva di soddisfazioni. I loro “ritratti di vita” sono stati raccolti in un video pubblicato su YouTube: il risultato è struggente (GUARDA IL VIDEO QUI).

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I bambini che raccontano a modo loro il bisogno di uscire fuori da questa crisi sono i figli dei dipendenti della Fivit Colombotto di Collegno, l’ennesima azienda torinese specializzata in produzione di viti e bulloni per elettrodomestici che chiude i battenti e lascia a casa 82 persone. Inevitabile che ad accorgersi del dramma siano anche loro, i più piccoli e innocenti.

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Perché anche comprare una maglietta nuova o un pezzo di cioccolato è diventato faticoso: i bimbi disegnano i beni di primario consumo e li barrano con una grossa “X”, perché i loro genitori non riescono ad acquistare neanche quelli. Perché “state rovinando i nostri sogni”, scrivono Giulia di sei anni e Francesco di tre. Un segnale forte, perché spesso i bambini vedono più di quello che dovrebbero vedere. E lo sanno che i loro genitori non sono numeri e che “il lavoro è un diritto di tutti”, come scrivono Sara e Gianluca.

Fonte: Torino Today