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Capital Economics: gli Olandesi Starebbero Meglio se Uscissero dall’Euro

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Bruno Waterfield (The Telegraph – Londra)
Bruno Waterfield commenta sul Telegraph un recente studio pubblicato dall’istituto internazionale di ricerca macroeconomica Capital Economics, già vincitore del Premio Wolfson per l’Economia nel 2012 con uno studio sul miglior modo per smantellare la moneta unica. Secondo Capital Economics gli Olandesi avrebbero grandi vantaggi economici ad abbandonare sia l’euro che l’Unione Europea. Lo studio è stato commissionato dal politico “euroscettico” Geert Wilders, tuttora in testa ai sondaggi in Olanda. L’articolo del Telegraph: “Secondo un importante studio, ci sarebbero grandi benefici economici per gli olandesi se lasciassero l’UE. Secondo un recente studio, se l’Olanda abbandonasse euro e Unione Europea la famiglia media olandese starebbe meglio per l’equivalente di oltre 8000 sterline l’anno e il reddito nazionale olandese crescerebbe di oltre mille miliardi. Lo studio sul Nexit, termine che designa una potenziale uscita dell’Olanda, condotto dalla sezione britannica della rispettabile società di ricerca Capital Economics, riporta che ci sarebbero significativi benefici durante i prossimi due decenni se il paese cambiasse la sua appartenenza all’UE con uno status simile a quello che hanno Svizzera o Norvegia. “Un’eventuale decisione di lasciare l’UE è prima di tutto una decisione sociale, culturale e politica. Ruota attorno a questioni che riguardano la sovranità nazionale, la cittadinanza e la libertà di autodeterminarsi,” sostiene il report. “Ci sono comunque anche delle buone ragioni per ritenere che un paese, svincolandosi dalla burocrazia di Bruxelles e diventando capace di prendere decisioni da solo, anziché lasciarsi imporre delle politiche in stile taglia-unica-adatta-a-tutti, trarrebbe dei benefici anche dal punto di vista economico.” La ricerca è stata colta al volo dagli euroscettici per contrastare quelli che essi ritengono degli avvertimenti allarmistici da parte di leaders del mondo delle imprese e politici mainstream sul presunto tracollo economico della Gran Bretagna se lasciasse l’UE. “Questo report è significativo perché è stato prodotto da un gruppo di ricerca credibile della City. Non può essere liquidato tanto facilmente,” ha dichiarato Douglas Carswell, un parlamentare conservatore del collegio elettorale di Clacton. “Dimostra che non siamo più soli. Non siamo solo noi britannici ad avere capito che l’integrazione europea è difettosa fin dalle basi. Noi siamo molto simili agli olandesi, un piccolo paese che ha prosperato commerciando su scala globale. Pensate cosa potrebbero essere paesi come i nostri in un tipo diverso di Europa.” Pur riconoscendo i rischi di un’uscita dall’UE, Capital Economics conclude il report sostenendo che l’Olanda, paese creditore dell’eurozona con rating AAA, starebbe meglio fuori dall’UE a causa della minaccia alla sua ricchezza a lungo termine posta dai problemi strutturali della moneta unica europea. “Ci sono ovviamente dei rischi a lasciare l’unione – e questi devono essere riconosciuti e affrontati da tutti nel momento in cui si considera il Nexit,” dice il report. “Ma ci sono anche dei rischi significativi nel restare dentro il blocco dei paesi che condividono una moneta che ha dei difetti fondamentali. Qui la nostra analisi mostra che l’Olanda farebbe meglio a riprendere il controllo del proprio destino, anzichè mantenere un atteggiamento del tipo ‘si vedrà’.” Il report conclude che il reddito nazionale olandese potrebbe crescere per un ammontare pari a 1500 miliardi entro il 2035, portando un aumento della ricchezza di circa 9800 euro a famiglia ogni anno. Anche se l’Olanda non fosse in grado di ottenere accordi come quelli concessi a Svizzera e Norvegia, che sono nel mercato unico europeo pur non essendo membri dell’UE, “l’economia sarebbe in condizioni migliori restando fuori piuttosto che dentro l’unione,” sostiene il report. Lo studio indipendente era stato commissionato da Geert Wilders, leader del partito olandese anti-UE, il Freedom Party, per valutare i costi che l’Olanda dovrebbe affrontare lasciando l’Unione, giacché lui è in testa ai sondaggi nazionali per la corsa alle elezioni europee di questa primavera. “Al contrario di quanto di quanto affermano gli allarmisti, la nostra economia non s’inchioderebbe. Anzi, guadagneremmo miliardi rispetto ad ora,” ha detto. “All’inizio ci sarebbe un periodo di transizione per passare, ad esempio, dall’euro al fiorino. Ma passato quello, l’economia crescerebbe molto più di ora, un dieci percento in più entro il 2024 e un tredici percento entro il 2035.” ha concluso. Sondaggi d’opinione svolti da Maurice de Hond in Olanda hanno rilevato che una maggioranza del 55 percento sarebbe favorevole a lasciare l’UE se si dimostra che ciò porterebbe una maggiore crescita economica e alla creazione di posti di lavoro. Nel 2012 Capital Economics aveva vinto il prestigioso premio Wolfson per uno studio su come gestire uno smantellamento ordinato dell’euro, durante il picco della crisi del debito in Europa. Lo studio, lungo 164 pagine, sdrammatizza i costi e la turbolenza implicati dall’uscita dall’euro. “Ci sono costi economici per lasciare l’UE, specialmente legati al fatto di dover rimpiazzare la moneta unica con una moneta nazionale. Ma questi costi sono modesti e gestibili,” afferma. Molta della crescita economica prevista in caso di abbandono dell’UE, in un paese dominato dal porto di Rotterdam, viene da una “crescita più veloce delle esportazioni verso i mercati non-europei, dovuta alla possibilità di negoziare e commerciare con economie emergenti in rapida crescita senza essere vincolati alle politiche comunitarie europee sul commercio”. Attualmente molti accordi di libero scambio nell’UE sono sospesi o impantanati nei dissensi interni tra paesi più orientati al libero scambio come Gran Bretagna e Olanda e i paesi più protezionisti del blocco latino guidati da Francia e Italia. Il report sul “Nexit”, un’espressione che mescola l’abbreviazione della parola “Netherlands” (cioè “Paesi Bassi”, ndt) e la parola “exit” (cioè “uscita”, ndt), considera anche che ci sono vantaggi economici nello stare fuori dall’UE, tra cui una riduzione dei costi per le imprese per “un minimo di 20 miliardi all’anno entro il 2034, attraverso il ritorno a una regolamentazione nazionale nelle aree attualmente sotto la giurisdizione delle istituzioni di Bruxelles”. Complessivamente, il rapporto conclude che gli olandesi sarebbero in grado di gestire la propria economia “in modo più efficiente avendo la libertà di stabilire delle politiche monetarie e fiscali su misura per le condizioni del loro paese, e non su misura dell’intera eurozona”. Lo studio riporta anche di una “riduzione della spesa pubblica di minimo 7,5 miliardi di euro all’anno sino al 2035, per il fatto di non essere più legati alle leggi UE sulla libera circolazione e “attraverso una revisione delle politiche sull’immigrazione per orientarle più strettamente su coloro che possono dare un contributo economico”. Lo studio contraddice un precedente studio ufficiale olandese sui benefici dell’appartenenza all’UE, calcolati in Olanda sui duemila euro all’anno a persona. Jeroen Dijsselbloem, il ministro delle finanze olandese nonché presidente dell’eurogruppo, ha attaccato l’idea del Nexit come “decisamente imprudente”, e ha difeso la moneta unica europea. “Lo leggerò, ma so una cosa per certo: l’Olanda è una potenza economica dell’Europa. Noi guadagnamo la maggior parte della nostra ricchezza commerciando con paesi dell’UE, per cui l’Olanda ha decisamente interesse ad avere un mercato interno in cui il commercio sia facilitato” ha detto. “C’è anche la moneta unica. Attualmente è molto forte e le condizioni dell’eurozona adesso appaiono molto migliorate rispetto ad alcuni anni fa. Non c’è motivo di intraprendere nuove avventure. Sarei decisamente contrario.”

Fonte: Voci dall’estero

Pizzaiolo si uccide dopo aver ricevuto una multa dell’Ispettorato del lavoro.

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Tragedia a Casalnuovo, nel napoletano: all’uomo – sposato con tre figli – era stata consegnata una sanzione di duemila euro dopo che gli ispettori del lavoro avevano scoperto che sua moglie, che lavorava a tutti gli effetti nel negozio, era irregolare.

Il capo degli ispettori: «Non siamo i suoi assassini»

La crisi economica ha una nuova vittima: questa volta è un pizzaiolo che dopo aver ricevuto una multa di 2 mila euro dalla DPL, si è suicidato. A quanto pare, gli affari non andavano bene e, in seguito alla notifica della sanzione, non ha retto il colpo.

Il 2013 è stato un annus horribilis per gli italiani: 149 (60 più del 2012) le persone che hanno deciso di togliersi la vita, perché incapaci di affrontare la crisi che ancora attanaglia il Paese, che piega i cittadini lasciandoli senza speranze per il futuro, fagocitandone la vita, la storia. Tutto. E anche il 2014, purtroppo, ha già offerto notizie di cronaca altrettanto tristi, come quella di oggi che giunge da Casalnuovo, in provincia di Napoli.

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Eduardo De Falco, piccolo imprenditore titolare di un panificio, era disperato: non ha retto a quella multa da 2 mila euro da parte dell’Ispettorato del Lavoro. Ha scelto di farla finita. Eduardo se n’è andato. Gli erano state riscontrate delle irregolarità relative alla gestione della sua attività commerciale e di lì è scattata la sanzione. Ma lui, che da tempo versava in gravissime condizioni economiche, incapace di trovare una soluzione ai suoi problemi, ha deciso di suicidarsi. Così, dopo un periodo nero in cui gli affari gli andavano male, è arrivato il tragico epilogo di una storia comune, che sta diventando in Italia quella di tanti, troppi, lavoratori: togliersi la vita. Eduardo l’ha fatto sotto casa, all’interno della sua auto, inalando i gas di scarico del motore.

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Un cartello con la scritta «Non siamo ladri, né sfruttatori» e una corona di orchidee, con la firma «Tutti i commercianti» sono stati collocati davanti al panificio-pizzeria di Eduardo, “Eddy” De Falco, al Corso Umberto I di Casalnuovo. Gli amici giunti sul posto dopo la diffusione della notizia sono ancora pochi, e tra loro domina l’incredulità. «Sono allibito», dice un commerciante. Altri parlano di una iniziativa di protesta contro fisco e burocrazia.

Diversamente da altri bloggers, noi non riteniamo giusto rivolgere alcun rimprovero agli ispettori, che hanno semplicemente fatto ciò che per legge andava fatto. È il loro compito: non hanno scelta in questi casi. Ma non possiamo non restare basiti di fronte ad uno Stato che consente il ripetersi di queste tragedie, siamo stupiti e soprattutto preoccupati dall’indifferenza con cui una parte della classe politica passa oltre dinanzi a queste storie e dalla costante strumentalizzazione che ne fa la restante parte.

MDS
BlogNomos

Ocse: Italia riformi tasse e lavoro e tagli i tempi della giustizia

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Gli obiettivi chiave per la politica economica italiana restano quelli di risolvere la pesante eredità della disoccupazione lasciata dalla crisi e di rianimare la competitività. Lo sottolinea l’Ocse nel rapporto “Obiettivo crescita”, pubblicato in occasione del G20 di Sydney, che fa il check up delle riforme strutturali realizzate dal 2012 nei Paesi industrializzati.

La lista di priorità per la Penisola resta lunga, secondo quanto riferisce sul rapporto l’agenzia Radiocor: si va dalla riforma del lavoro, all’istruzione, alle privatizzazioni, al rispetto della legge e ai tempi della giustizia, fino alla tassazione – tema su cui l’Ocse raccomanda semplificazione -, lotta all’evasione e riduzione della pressione sui salari più bassi. «Svariati anni di consolidamento fiscale, bassa fiducia e scarso credito hanno lasciato l’Italia con un tasso di disoccupazione a doppia cifra e nessun chiaro segnale di una rapida ripresa», scrivono gli esperti dell’Ocse.

La Penisola è in effetti al sesto posto tra i 34 Paese aderenti all’Organizzazione con un tasso di disoccupazione oltre il 12 per cento. Il rapporto torna a sottolineare la necessità di riequilibrare la protezione del lavoro, riducendola in alcuni tipi di contratto e migliorando la rete di salvataggio del welfare. Per ridurre il rischio della disoccupazione di lungo termine, l’Ocse raccomanda di rafforzare le politiche attive del lavoro. Inoltre, «riforme del mercato del lavoro mirate a ridurne la dualità – scrivono gli economisti dell’Organizzazione – con in particolare l’attuazione di una rete di salvataggio universale, una migliore istruzione professionale e il sostegno per l’apprendistato possono ridurre l’ineguaglianza dei redditi».

Sul fronte delle tasse, l’Ocse raccomanda di «migliorare la struttura delle imposte, semplificando il codice fiscale, combattendo l’evasione fiscale e, quando la situazione di bilancio lo permetterà, riducendo il cuneo fiscale sui lavoratori a basso reddito».

Vanno inoltre ridotte le barriere alla concorrenza «rafforzando il rispetto della legge a tutti i livelli di Governo, riducendo la proprietà pubblica e i ritardi della giustizia civile». L’Ocse ribadisce anche che va migliorata l’equità e l’efficienza del sistema di istruzione, sia per utilizzare meglio i fondi convogliati sull’istruzione, sia per migliorare le possibilità di quanti hanno basse qualifiche.

Il rapporto peraltro prende nota anche delle riforme fatte nei due ultimi anni, come l’assegno di disoccupazione universale o la nuova normativa per le industrie di rete, i maggiori poteri dati all’Antitrust e la liberalizzazione degli orari di apertura dei negozia. Con la postilla tuttavia, che «vanno fatti altri sforzi per assicurarsi l’effettiva attuazione delle riforme».

Fonte: Il Sole 24 Ore

Il lavoro ruba la vita.

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Storia sociale. Per la casa editrice Angeli esce «Come servi», uno studio di Maria Luisa Pesante sulla figura del salariato visto come possibile nuovo schiavo, soprattutto alla luce della precarietà dell’esistenza e dei contratti. Di Michele Nani (Il Manifesto).

Le tra­sfor­ma­zioni del pre­sente, quando hanno carat­tere strut­tu­rale e non sem­pli­ce­mente con­giun­tu­rale, impon­gono di ricon­si­de­rare le let­ture del pas­sato. Non solo in quanto, secondo l’abusato ada­gio cro­ciano, «ogni sto­ria è sto­ria con­tem­po­ra­nea» e dun­que l’interpretazione del pas­sato è anche una posta in gioco delle lotte poli­ti­che del presente.

Piut­to­sto per­ché, con Kosel­leck e Har­tog, siamo ancora nel regime di sto­ri­cità instau­rato dalle rot­ture euro­pee del tardo Set­te­cento: per cui la nostra per­ce­zione della sto­ria con­tem­po­ra­nea è frutto di una con­trap­po­si­zione radi­cale fra pas­sato e pre­sente. Siamo dun­que por­tati a pen­sare il mondo attra­verso una serie di cop­pie con­cet­tuali, che un radi­ca­liz­zano le distin­zioni fra le società «tra­di­zio­nali» di Antico regime e le nuove società «moderne». Anche quando par­liamo di post-moderno o di fine della moder­nità siamo di fronte a un aggior­na­mento di quella logica.

Fa parte di que­ste rap­pre­sen­ta­zioni oppo­si­tive anche l’idea che la lunga tran­si­zione a for­ma­zioni sociali a domi­nante capi­ta­li­stica abbia deter­mi­nato una tra­sfor­ma­zione qua­li­ta­tiva e irre­ver­si­bile delle rela­zioni di lavoro. Dal pieno e asso­luto domi­nio dei signori sui corpi al lavoro dei loro servi e sui loro pro­dotti si sarebbe pas­sati a un mer­cato del lavoro «libero», ove la pre­sta­zione si scam­bia con un sala­rio sta­bi­lito da un con­tratto. Cer­ta­mente anche il con­tratto, come vide luci­da­mente lo stesso Max Weber, san­ci­sce i rap­porti di forza fra parti tutt’altro che «eguali», dato che gli uni sono pro­prie­tari che cer­cano di valo­riz­zare il pro­prio capi­tale e gli altri nul­la­te­nenti che cer­cano un sala­rio per non morire di fame. Tut­ta­via un con­tratto scritto è meglio del patto orale (o dell’assenza di patto) che carat­te­rizza la dipen­denza per­so­nale: per­ché postula l’equivalenza dello scam­bio, pre­sup­pone l’accordo fra i con­traenti e pone qual­che limite all’arbitrio e alla discre­zio­na­lità del comando.

Patti oscuri

Per chi non l’avesse già ripen­sato guar­dando alle peri­fe­rie del capi­tale o agli imperi colo­niali, le vicende degli ultimi decenni hanno dis­si­pato come illu­sione ottica la pre­tesa irre­ver­si­bi­lità non solo delle forme con­trat­tuali più avan­zate e delle garan­zie con­qui­state dai lavo­ra­tori, ma anche la stessa idea di un pas­sag­gio sto­rico epo­cale dalla coa­zione ser­vile al libero con­tratto. Il lavoro sala­riato con­ti­nua a dif­fon­dersi, ma l’idea «evo­lu­tiva» e il suo segno «pro­gres­sivo» sono state ridi­men­sio­nate. È dun­que ora più age­vole rico­struire sto­ri­ca­mente le can­gianti e plu­rali costel­la­zioni delle rela­zioni di lavoro: per farsi un’idea basti sca­ri­care le Outli­nes di sto­ria del lavoro che Jan Lucas­sen ha com­pen­diato in un sag­gio qual­che mese fa (http://​socia​lhi​story​.org/​e​n​/​p​u​b​l​i​c​a​t​i​o​n​s​/​o​u​t​l​i​n​e​s​-​h​i​s​t​o​r​y​-​l​a​b​our). Fra lavoro «libero» (salariato-contrattuale) e lavoro «non libero» (servile-schiavile) non si dà alter­na­tiva secca, né nei sin­goli con­te­sti, né sto­ri­ca­mente, bensì cicli di pre­va­lenza rela­tiva e, soprat­tutto, intrecci e gra­da­zioni inter­me­die. Allo stesso modo non è age­vole distin­guere le forme di coa­zione al lavoro e di potere sul lavoro o porle su una scala evo­lu­tiva: alle matrici economico-sociali si intrec­ciano costan­te­mente ele­menti extra-economici, in par­ti­co­lare giu­ri­dici e istituzionali.

A que­sto can­tiere di sto­ria sociale delle pra­ti­che lavo­ra­tive si è affian­cata, con la stessa dif­fi­denza verso tipo­lo­gie e schemi evo­lu­tivi e con la mede­sima atten­zione alle inso­spet­tate con­ti­nuità, una sto­ria delle rap­pre­sen­ta­zioni del lavoro, che ha trac­ciato una genea­lo­gia cri­tica dei para­digmi del lavoro ancora impe­ranti. Uno sti­mo­lante con­tri­buto in quest’ultima dire­zione viene dalla recente ricerca di Maria Luisa Pesante, una «sto­ria intel­let­tuale» delle «figure del lavoro sala­riato» nella cul­tura euro­pea, la cui tesi è lim­pi­da­mente sin­te­tiz­zata dal titolo (Come servi, Milano, Angeli 2013) e dall’immagine di coper­tina: un dise­gno cin­que­cen­te­sco che ripro­duce la scena dell’ingresso in miniera di alcuni ope­rai, sor­ve­gliati da arci­gni per­so­naggi muniti di robu­sti bastoni.

Antro­po­lo­gia al negativo

Il punto di par­tenza della ricerca è la dif­fusa con­vin­zione che la teo­riz­za­zione del mer­cato del lavoro, e dun­que del lavoro come merce il cui prezzo (il sala­rio) è deter­mi­nato dalle «leggi» della domanda e dell’offerta, risalga al sapere dell’«economia poli­tica», giunto a matu­rità nel Set­te­cento, come descri­zione e inter­pre­ta­zione del nuovo modo capi­ta­li­stico di pro­durre. Attra­verso un ser­rato con­fronto con i testi, una raf­fi­na­tis­sima filo­lo­gia che non si esau­ri­sce nell’esegesi interna, ma col­loca i testi nel con­te­sto intel­let­tuale e sociale più largo, Pesante mostra come die­tro la con­si­de­ra­zione del lavoro come merce vi sia invece un’altra sto­ria. Non è l’osservazione e for­ma­liz­za­zione teo­rica delle moderne rela­zioni capi­ta­li­sti­che di pro­du­zione ad ispi­rare l’analisi del lavoro in quanto merce, ma l’incorporazione nell’economia poli­tica di teo­riz­za­zioni pre­ce­denti sui lavoratori.

La matrice dell’idea del lavoro-come-merce risale ai teo­rici sei­cen­te­schi del diritto natu­rale (Gro­zio, Pufen­dorf ed altri), che nel ten­ta­tivo di inqua­drare in ter­mini con­trat­tuali tutte le rela­zioni sociali leg­ge­vano il sala­riato come variante tem­po­ra­nea della ser­vitù per­pe­tua. L’uno e l’altra rap­pre­sen­ta­vano ai loro occhi sot­to­mis­sioni volon­ta­rie al potere altrui, dovute all’indigenza. Seguendo le fonti del diritto romano, il sala­riato si doveva inqua­drare nel con­tratto di «loca­zione», si pen­sava cioè come un affitto di lavoro. Però l’erogazione di lavoro è dif­fi­cil­mente scin­di­bile dalla persona-al-lavoro e dun­que il sala­riato restava in una posi­zione ambi­gua, fra equi­va­lenza dello scam­bio (che apre, per altro, a nuove ambi­guità: a cosa dev’essere equi­va­lente il sala­rio, al tempo di lavoro, alla quan­tità di pro­dotto o ad altro?) e rica­duta nella con­di­zione ser­vile (domi­nio sulla per­sona, senza limiti di com­pito, pro­dotto o tempo). A que­sta rap­pre­sen­ta­zione giu­ri­dica si affian­cava un’antropologia nega­tiva del lavo­ra­tore sala­riato, che rical­cava quella del servo e dello schiavo: inca­pace poli­ti­ca­mente e civil­mente, la sua sog­get­ti­vità si ridu­ceva a una costante pul­sione verso l’ozio e la frode.

Que­sta let­tura del sala­riato aveva due corol­lari: primo, l’idea che i salari non pos­sano cre­scere oltre un certo, ristretto limite det­tato dalla sus­si­stenza del lavo­ra­tore — e se cre­scono troppo è neces­sa­rio l’intervento dello Stato ad abbas­sarli per legge, ripri­sti­nando l’ordine natu­rale; secondo, l’impensabilità di un con­flitto «ver­ti­cale» fra per­sone e gruppi dallo sta­tuto diverso, se non nei ter­mini pato­lo­gici della vio­la­zione o rot­tura del con­tratto, che rap­pre­senta un reato e come tale va represso.

Buona parte di que­sto baga­glio è alle ori­gini dalla nuova «eco­no­mia poli­tica», che si vuole scien­ti­fica e ogget­tiva: è invece attra­verso le lenti della giu­ri­spru­denza natu­rale e dun­que del lavo­ra­tore come schiavo o servo che si teo­rizza il lavoro come merce fra le altre e quindi il mer­cato del lavoro. L’approccio di Pesante non è sem­pli­ci­stico: non si tratta di errori o di distor­sioni ideo­lo­gi­che, quanto di vere e pro­prie apo­rie, di dif­fi­coltà reali. Gli inter­preti pas­sati in ras­se­gna, dai giu­sna­tu­ra­li­sti ai filo­sofi poli­tici, dagli eco­no­mi­sti «pra­tici» ai teo­rici illu­mi­ni­sti di un nuovo sapere, fino al caso emble­ma­tico di David Hume, fati­cano a leg­gere una realtà nuova e mute­vole, per­ché si ser­vono di vec­chi stru­menti e anche quando ne costrui­scono di nuovi devono appog­giarsi, anche solo par­zial­mente, su pre­sup­po­sti pre­ce­denti. Nono­stante i suc­ces­sivi ten­ta­tivi di chiu­derle dell’economia poli­tica clas­sica (Smith, Ricardo) e poi del neo­clas­si­ci­smo (da Jevons ai suoi eredi dell’ultimo qua­ran­ten­nio «neo­li­be­ri­sta»), quelle apo­rie sono soprav­vis­sute e sono tut­tora vive. L’Autrice rico­no­sce che que­ste apo­rie non impe­di­rono all’epoca approcci alter­na­tivi e meno rigidi al sala­riato, come ad esem­pio quelli degli eco­no­mi­sti fran­cesi (ad es. Tur­got), desti­nati tut­ta­via a rima­nere mino­ri­tari nel farsi della nuova disci­plina eco­no­mica. Nem­meno in seguito sono man­cate prese di posi­zione e teo­riz­za­zioni alter­na­tive, ma anch’esse sono rima­ste subal­terne: come la Dichia­ra­zione di Fila­del­fia dell’Organizzazione inter­na­zio­nale del lavoro, che si apriva nel 1944 negando che il lavoro fosse una merce; come, negli stessi anni, la Grande tra­sfor­ma­zione di Karl Pola­nyi, nella quale si soste­neva che la mer­ci­fi­ca­zione di lavoro, moneta e terra era alle ori­gini degli squi­li­bri delle società capi­ta­li­sti­che; o, ancora, come l’economia delle con­ven­zioni e la socio­lo­gia eco­no­mica, che hanno cri­ti­cato il ridu­zio­ni­smo mer­can­tile e i suoi formalismi.

Invece Pesante non dà troppo cre­dito alla decli­na­zione mar­xiana della cri­tica all’economia poli­tica. È vero che Marx teo­rizzò il pas­sag­gio al lavoro «libero» nel capi­ta­li­smo maturo, ma que­sto non signi­fi­cava una libe­ra­zione dei lavo­ra­tori, bensì un espro­prio: l’«accumulazione ori­gi­na­ria» è la sto­ria del pas­sag­gio della pro­prietà dei mezzi di pro­du­zione dai con­ta­dini e dagli arti­giani ai mercanti-imprenditori e della con­se­guente tra­sfor­ma­zione dei pro­dut­tori indi­pen­denti in «pro­le­tari» che vivono di lavoro sala­riato. Inol­tre se la forza-lavoro (non il «lavoro», né il lavo­ra­tore) viene acqui­stata come una merce, per Marx non era una merce come le altre.

In primo luogo, la capa­cità lavo­ra­tiva viene com­prata con un sala­rio, che esprime il costo della sua ripro­du­zione: ma non si tratta di un’equivalenza astratta, quanto di una rap­porto di forza sto­ri­ca­mente varia­bile, per cui quel costo può essere abbas­sato dalla pres­sione dell’offerta sovrab­bon­dante delle brac­cia dell’«esercito indu­striale» dei disoc­cu­pati, ma può essere anche alzato dal con­flitto orga­niz­zato, dal «movi­mento ope­raio». In seguito, una volta nego­ziato il prezzo, si passa dal mer­cato del lavoro ai luo­ghi della pro­du­zione, ove la forza-lavoro socia­liz­zata e coo­pe­rante rivela di essere una merce unica, per la sua pecu­liare capa­cità di aggiun­gere valore e dun­que di pro­durre non solo merci, ma soprat­tutto profitto.

Il domi­nio simbolico

Oggi il dibat­tito su classe e lavoro è e non man­cano visioni cri­ti­che su Marx anche in coloro che al suo arse­nale teo­rico si ispi­rano (occor­rerà tor­nare, ad esem­pio, su Beyond Marx, appena uscito per le cure di Mar­cel Van der Lin­den e Karl-Heinz Roth), ma la posi­zione dell’autore del Capi­tale resta impre­scin­di­bile e fer­tile. Altri, ad esempio, hanno esteso la valenza dell’«accumulazione pri­mi­tiva» per espro­pria­zione al di là del momento «ori­gi­na­rio», come pro­cesso che si ripro­pone con­ti­nua­mente (accanto ad Har­vey sono da ricor­dare Mez­za­dra, Sac­chetto e Tomba).

Ispi­rata dall’esperienza con­creta delle rela­zioni capi­ta­li­sti­che, ma tal­volta anche da Marx, la rea­zione sog­get­tiva dei por­ta­tori della merce-lavoro ha inciso sulla società con­tem­po­ra­nea ben più di quanto non abbiano potuto fare le pur ricor­renti e radi­cali rivolte di schiavi e di servi dei secoli pre­ce­denti. Sin­da­cati e scio­peri, par­titi politici e rivo­lu­zioni hanno segnato l’Otto e il Nove­cento e dimo­strato pratica­mente che il lavoro non è solo una merce. Eppure oggi tanti con­ti­nuano a pen­sarlo in quel modo e il domi­nio mate­riale del capi­tale è così rad­dop­piato in un domi­nio sim­bo­lico, che ci porta a inte­rio­riz­zare la riduzione a merce, con­cor­renza e impresa di qual­siasi aspetto della vita sociale, dal sapere alle risorse, dalla for­ma­zione alla salute. Con il risul­tato, evi­den­ziato con discre­zione ma non senza ama­rezza anche dall’autrice di que­sto pre­zioso volume, che l’odierna pre­ca­riz­za­zione ripro­pone lavori salariati con­trat­tati al di sotto del livello di sussistenza.

Questi nuovi servi, come i loro pre­de­ces­sori pie­na­mente dispo­ni­bili e senza diritti né tutele, nuovi eco­no­mi­sti e nuovi filo­sofi spie­gano quo­ti­dia­na­mente che quelle tri­sti con­di­zioni si devono alla pigri­zia: solo lavo­rando più a lungo e più inten­sa­mente (o, variante post-moderna, facen­dosi «impren­di­tori di se stessi») i lavo­ra­tori pos­sono godere di qual­che miglio­ramento. Non certo ricor­rendo col­let­tiva­mente al con­flitto, che que­sti buoni eredi degli autori sei-settecenteschi stu­diati in Come servi esor­ciz­zano come inu­tile o dan­noso pro­prio per­ché, in fondo, fa sal­tare la mer­ci­fi­ca­zione del lavoro e con essa le teo­rie che ne cele­brano la naturalità.

Fonte: Il Manifesto

Guasta è l’economia. La crisi, il lavoro, le risposte del mercato e le proposte per un nuovo progetto comune.

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di Michele De Sanctis

Dal 2008 ad oggi, tutto ciò che è apparso come qualcosa di nuovo, fin dal default degli Usa, è, in realtà, la riproposizione di quanto accade dal 1971. Dall’abbandono da parte degli Stati Uniti degli accordi di Bretton Woods, per l’esattezza. Durante la conferenza di Bretton Woods del ’44, infatti, erano stati presi degli accordi che avevano dato vita ad un sistema di regole e procedure volte a regolare la politica monetaria internazionale con l’obiettivo di governare i futuri rapporti economici e finanziari, impedendo di ritornare alla situazione che diede vita al secondo conflitto mondiale. La decisione si rese necessaria poiché tra le cause del secondo conflitto mondiale andavano, altresì, annoverate le diffuse pratiche protezionistiche portate avanti dai singoli Stati, le svalutazioni dei tassi di cambio per ragioni competitive e la scarsa collaborazione tra i Paesi in materia di politica monetaria. I due principali compiti della conferenza furono, perciò, la creazione di condizioni idonee ad una stabilizzazione dei tassi di cambio rispetto al dollaro (eletto a valuta principale) e la eliminazione di quelle condizioni di squilibrio determinate dai pagamenti internazionali (tale compito fu affidato al FMI). Secondo il sistema definito da Bretton Woods il dollaro era l’unica valuta convertibile in oro in base al cambio di 35 dollari contro un oncia del metallo prezioso. Il dollaro venne così eletto valuta di riferimento per gli scambi, mentre alle altre valute furono consentite solo oscillazioni limitate entro un regime di cambi fissi a parità centrale. Per raggiungere l’obiettivo di vigilare sulle nuove regole e sul sistema dei pagamenti internazionali furono creati il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (Banca Mondiale), due importanti istituzioni esistenti ancora oggi, che diventarono operative nel 1946. Inizialmente il numero di Paesi aderenti al FMI era ridotto: per aderire ogni Stato doveva versare una quota in oro e una in valuta nazionale sulla base delle quali veniva deciso il proprio peso decisionale. L’obiettivo del Fondo era quello controllare la liquidità internazionale e coadiuvare i vari Paesi nel caso di difficoltà nella bilancia dei pagamenti.
Tuttavia, la guerra del Vietnam, il forte aumento della spesa pubblica e del debito americano segnarono la fine i questo sistema.
Infatti, il 15 agosto 1971 a Camp David Richard Nixon sospese la convertibilità del dollaro in oro, in quanto, con le crescenti richieste di conversione in oro le riserve americane si stavano sempre più assottigliando. Successivamente, il dicembre di quello stesso anno segnò il definitivo abbandono degli accordi di Bretton Woods da parte dei membri del G10 (il gruppo dei dieci Paesi formato da Germania, Belgio, Canada, Stati Uniti, Francia, Italia, Giappone, Paesi Bassi, Regno Unito, Svezia). Con lo Smithsonian Agreement il dollaro venne svalutato e si diede il via alla fluttuazione dei cambi.
Nondimeno, le istituzioni create a Bretton Woods sopravvissero ma si trovarono a ridefinire priorità e obiettivi. In particolare, il FMI, con la caduta di Bretton Woods, vide di fatto cambiare il proprio ruolo di sorveglianza. Con l’introduzione dei cambi flessibili e l’abbandono dello standard aureo, venne meno la necessità di gestire la liquidità internazionale e l’attenzione del FMI fu piuttosto portata sulle politiche macroeconomiche interne perseguite dai membri e sugli elementi strutturali dei loro mercati. Venne poi data priorità all’obiettivo di finanziamento degli squilibri della bilancia dei pagamenti dei Paesi in via di sviluppo trasformando il FMI da prestatore a breve termine a prestatore a lungo termine. Pertanto, il FMI si trovò investito del compito di effettuare prestiti vincolati al rispetto di specifiche condizioni e a piani di rigorosa stabilizzazione macroeconomica. Una funzione che il FMI mantiene ancora oggi, come dimostrano i recenti sviluppi collegati alla crisi dell’Euro e ai piani di salvataggio di Grecia, Irlanda e Portogallo, che vedono il Fondo quale prestatore di prima istanza insieme all’UE.
Con la fine degli accordi di Bretton Woods, dunque, gli USA hanno deciso, in base al loro potere politico e militare, di imporre il proprio indebitamento come peculiare modello di sviluppo, il cui costo, però, veniva fatto pagare agli altri. Debito privato, debito pubblico e consumo sostenuti dal mix tra debito interno ed esterno, tuttavia con dei fondamentali macroeconomici alquanto deboli: l’economia reale, già allora, mostrava, infatti, i caratteri della crisi strutturale e sistemica.
È da questo momento in poi che può analizzarsi la genesi dell’attuale crisi, che altro non è che un sintomo di esaurimento messo in moto dal capitale americano in quegli anni per continuare ad attrarre manodopera a basso costo privata, tra l’altro, della garanzia dei diritti sindacali minimi, oltreché risorse materiali dal resto del mondo in forma di merci. Sempre a credito.

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Lo scenario economico internazionale, peraltro, acuisce le proprie criticità sistemiche all’indomani della caduta del muro di Berlino e il successivo crollo dell’Unione Sovietica, quando si apre una fase di guida unipolare del mondo basata sullo strapotere politico e militare degli Stati Uniti, che, imponendo l’acquisto dei loro titoli hanno altresì imposto il sostegno della loro crescita basata su indebitamento ed economia di guerra. Successivamente, nel corso degli anni ’90 si aprì una fase di competizione globale, basata non tanto e non solo sul modello importatore degli americani, quanto segnata dai tentativi dell’Europa di trovare i suoi spazi di affermazione economica, puntando a un ruolo internazionale, con una forte posizione di esportatore svolto dalla Germania. Nel contempo, lo stesso modello di economia basata sulle esportazioni viene realizzato dalla Cina, che, grazie ai suoi avanzi nella bilancia dei pagamenti, decide di diventare il maggior compratore del debito statunitense. Il modello tirava e fu così che le banche tedesche e lo Stato cinese iniziarono ad acquistare titoli USA e, in parte, anche di altri Stati membri dell’UE. Questi ultimi, d’altro canto, dovevano subire lo strapotere tedesco e con questo la costruzione dell’Unione Europea come nuovo polo imperialista che, pur mancando di grande forza interna politica e militare, imponeva una logica economico-finanziaria tedesca.
Ma, come è ovvio, un sistema basato sull’indebitamento non può reggere all’infinito. Capita sempre che, a un certo punto, qualcuno presenti il conto!
Siamo a cavallo del 2007-2008. Negli USA scoppia la crisi dei subprime: il crack viene subito evidenziato come crisi finanziaria dovuto allo scoppio delle bolle speculative immobiliari e finanziarie, ma è solo la punta dell’iceberg. In realtà, più che finanziaria è una crisi dell’economia reale, dei meccanismi stessi dell’accumulazione: erano, cioè, gli stessi meccanismi del modo di produzione capitalistico che si erano ‘inceppati’ già nei primi anni ’70 e che nel 2008 dimostravano quanto quella crisi fosse divenuta ineluttabile, irreversibile e di carattere sistemico. Le privatizzazioni, l’attacco indiscriminato al costo del lavoro, al sistema del welfare e ai diritti, ma soprattutto la finanziarizzazione dell’economia finora hanno soltanto cercato di coprire una crisi dell’economia reale che si porta dietro il carattere della strutturalità e della sistemicità.
La competizione globale si inasprisce, così come pure il tentativo di centralizzare la ricchezza in poche mani, tentativo, peraltro, accompagnato da sempre più frequenti ‘guerre’: economico-finanziaria, commerciale e sociale. E infine da guerre militari per accaparrarsi nuove risorse. La caduta del regime di Gheddafi, per esempio, non è stata solo esportazione di democrazia, ma prima ancora è stata una conquista di matrice imperialista.
Contemporaneamente, la finanziarizzazione allargava il proprio giro, segnando l’arrivo dei Paesi che prima venivano denominati paesi in via di sviluppo, che ora divengono emergenti: i cosiddetti BRICS.
Sul fronte UE, invece, il modello esportatore tedesco, che aveva ormai sempre più bisogno di importatori, anche direttamente europei, porta la Germania ad investire l’avanzo che matura comprando titoli dei PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna). A loro volta, questi Paesi sono costretti ad indebitarsi per rispondere alle regole dell’euro, soffocando le proprie economie e massacrando il mondo del lavoro per garantire che la “questione” dell’Euro rimanga funzionale allo sviluppo esportatore della Germania (e in seconda battuta agli interessi francesi). Gli stessi Stati Uniti hanno un indebitamento in parte sostenuto dalla Germania oltre che dalla Cina. La competizione, però, oggi è ancora più aspra, come si è già accennato, perché ci sono nuovi competitor e i BRICS rivendicano il loro spazio.
A questo punto gli USA che non hanno più la forza politica e militare per imporre al mondo il proprio modello di sviluppo fondato sul loro indebitamento, si vedono costretti a chiedere l’innalzamento del debito appunto perché sanno che fuori dai loro confini non troverebbero poi tanti soggetti disposti a finanziare il Paese come avveniva nella vigenza del precedente modello economico. E questa è la prova che il mondo a guida unipolare basato sull’egemonia statunitense è ormai tramontato.
Quello di spostare il problema del debito più avanti, cioè di tentare di far fronte al deficit, che è un dato congiunturale di flusso, trasformandolo in esposizione strutturale di stock, è un problema non solo americano, ma anche italiano. L’Italia sembra, infatti, entrata in una spirale perversa tra recessione e maggiori interessi sulla vendita dei titoli che dovrebbero servire a finanziare il debito (sic!). Il dato preoccupante, però, è che un esposizione strutturale di stock oggi sarà debito sovrano domani. Cioè il debito che penderà sulle future generazioni di lavoratori. E i meccanismi per far fronte al deficit, certe manovre ‘lacrime e sangue’ che ci vengono imposte per la prima volta, diventeranno la norma. Perché fintantoché si continuerà a far cassa a discapito dei lavoratori ogni manovra sarà lacrime e sangue. Ma se il debito continuerà ad essere finanziato con altro debito, con la vendita, cioè, di altri titoli, il circolo vizioso che s’è creato potrà spezzarsi con molta difficoltà. Perché diventerà il sistema. La parte di deficit che si capitalizza, quindi, è una mannaia per le generazioni del futuro.

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Ho parlato di spirale perversa, di circolo vizioso, ma, in realtà, il meccanismo descritto altro non è che semplice speculazione finanziaria. Eppure, all’indomani del crollo dei subprime americani ad essere messi sotto accusa non era stata proprio la finanza speculativa? La risposta è ovvia quanto evidente. Il mercato non conosce sazietà. “Guasto e’ il mondo, preda di mali che si susseguono, dove la ricchezza si accumula mentre gli uomini vanno in rovina” recita la tomba del poeta inglese Oliver Goldsmith.
Guasto è il mondo, diceva Tony Judt nel testo che ha lasciato in eredità al l’umanità. Guasto perché il mercato è lasciato a se stesso, senza controlli o con meno controlli, perché il mercato che ha divorato se stesso ha ancor più necessità d’essere alimentato. Guasto perché gli appetiti personali sono diventati di colpo coraggiose virtù, la diseguaglianza s’è diffusa; la finanza, non più il lavoro e la produzione, è diventata la risorsa prima dell’economia. Guasto perché alla fine è arrivato il conto da pagare, salatissimo.
Il problema che si pone non è quello della crisi finanziaria ma di una crisi del modello di accumulazione: in crisi è quindi l’intero sistema capitalista. La finanza speculativa, che doveva essere quella in crisi, si sta, invece, riaffacciando in modo prepotente sfoderando armi diverse e combattendo su nuovi terreni. La speculazione finanziaria è ancora lì, come un avvoltoio, con quegli strumenti creativi con cui aggredisce chi non accetta le regole di dominio e che non effettua attacchi sempre più pesanti contro il salario diretto, indiretto e differito.
Sotto l’effetto di interessi particolari ed appetiti economici Gli ideali e la volontà di costruire una società coesa, prevalenti in Occidente nel dopoguerra, sono stati colpevolmente lasciati cadere. Per qualche decennio, hanno fatto da guida gli ideali keynesiani di un mercato temperato dall’intervento dello Stato. Le migliori leggi e le migliori politiche sociali adottate dall’America nel corso del XX secolo corrispondono in gran parte a ciò che gli europei chiamano socialdemocrazia. Ma poi qualcosa si è rotto: “Dovunque ti girassi” scrive Judt, “trovavi un economista o un ‘esperto’ che decantava le virtù della deregolamentazione, dello Stato minimo e delle tasse basse”. L’abbiamo sentita cantare anche noi questa canzone e ne stiamo sopportando i risultati.
Per uscire dal debito greco, per esempio, si stanno approntando nuovi strumenti di finanza creativa che dilazionano l’indebitamento e creano le premesse di nuovi collassi. La finanzia continua a svolgere il suo ruolo speculativo, in questo gioco al massacro ai danni delle casse pubbliche, dei salari e dello Stato sociale.
Il problema non è dunque la crisi finanziaria scoppiata nel 2008 ma il fatto – piuttosto – che per trent’anni abbiamo trasformato in virtù il perseguimento dell’interesse materiale personale, anzi, ormai questo è diventato l’unico scopo collettivo che ancora ci rimane.
In questo modo di fare, anzi di vivere, lo Stato è diventato un problema non una soluzione; le disuguaglianze sociali aumentano perché tutto si incentra sulla capacità e sulla furbizia di ciascun individuo, mentre i redditi tendono a concentrarsi nella cuspide della piramide in quanto lo sviluppo “sociale” del dopoguerra diventa “personale” per essere definitivamente abbandonato.
Il problema, pertanto, non è solo economico, ma altresì etico e politico. Secondo Hessel, le società civili, i giovani, in particolare, hanno il dovere morale di reagire di fronte a questa situazione. Di indignarsi! Secondo Judt, poi, avere idee nuove, per una società nuova, intendo, è fondamentale, in quanto è da qui che si parte per nuove correnti di pensiero, correnti che un giorno, magari, si trasformeranno in vere e proprie leggi.
Se la società è scomparsa a favore degli individui e se tutto ma proprio tutto verte sull’economia, ciò che riguarda l’etica – che implicitamente significa eguaglianza – diventa ogni giorno di più una cosa risibile. Ma questa cosa risibile è proprio il nostro punto da cui ripartire per riformare l’intera società. Oggi rivoluzione significa che dobbiamo tendere alla formazione di una “società nuova”. Bisogna, infatti, coniugare l’efficienza del capitalismo con la società, riducendo gli squilibri e permettendo allo Stato di rimanere un attore fondamentale all’interno del sistema sociale e del mercato.

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La politica, dunque, è la strada maestra, l’unica via percorribile affinché si possano regolamentare difendere i cittadini più deboli e vessati da questo sistema, cittadini che ogni giorno aumentano sempre di più. È, pertanto, indispensabile l’impegno politico e sociale di tutti i cittadini, che devono continuamente spronare e stimolare il dibattito pubblico, al fine di evitare che si spenga tra le ceneri del potere.
Se infatti ci si arrendesse, il gioco al massacro a cui stiamo assistendo continuerà finché il numero delle vittime non sarà superiore a quello dei salvati. E accadrà davvero se non ci riappropriamo di un’etica della politica e se, nel contempo, non smettiamo di pensarci come singoli individui, piuttosto che come membri di un’unica società.
Dal punto di vista pratico, per mettere un argine a questa situazione, per lo meno nel vecchio continente, bisogna innanzitutto abbandonare la via tracciata dalla Trojka. Infatti, la cosa assurda è che chi dovrebbe confezionare proposte in grado di tirarci fuori da questa situazione in realtà pensa agli interessi di una sola parte dei Paese di Eurolandia, i ricchi e i soliti noti, banchieri e finanzieri, come dimostrano le ultime leggi finanziarie e la legge di stabilità. Secondo Luciano Vasapollo, docente di Economia applicata a La Sapienza, una prima risposta può essere lanciare una campagna del mondo del lavoro non contro l’Europa, ma contro le regole del massacro sociale imposte dalle compatibilità economico-finanziarie dell’euro. La seconda questione che va posta all’ordine del giorno è rilanciare una serie di politiche in ordine ad un’efficiente nazionalizzazione e statalizzazione delle banche e dei settori strategici dell’economia. Il debito sovrano sta diventando un nodo nei Paesi deboli, perché con i soldi pubblici si sono finanziate le banche. Quindi la prima nazionalizzazione deve essere del sistema bancario. E poi è necessario porre immediatamente la soluzione del nodo dei settori strategici di energia, trasporti e comunicazioni che devono da subito ritornare in mano allo Stato. Quello che Vasapollo prospetta nel suo illuminante saggio del 2011 ‘Il risveglio dei maiali. PIIGS. Le proposte di CESTES-PROTEO’ sembrerebbe un ritorno agli anni 50-60, quando si creò in Italia una forte economia mista, con un welfare vero e un futuro per i giovani.
Tuttavia, le tesi di Vasapollo sono in linea con quelle di altri economisti critici ed eterodossi, che, nelle loro varie componenti, stanno cercando di trovare un accordo su un programma minimo di controtendenza da proporre e insieme praticare con il ruolo centrale del sindacalismo conflittuale di classe. In ogni caso, se da un punto di vista logico, esistono, infatti, varie alternative possibili alla attuale competizione globale, fino alla maggiore determinazione del superamento del modo di produzione capitalista, d’altro canto ognuna presenta distinti gradi di probabilità in funzione di ragioni tecnico-economiche o politico-sociali. Ciò che più rileva, comunque, è che qualsiasi proposta attuabile dovrà “fare i conti”, in primo luogo, con la tecnologia. Il cambio tecnologico può rappresentare un progresso tecnico e sociale solo se è frutto di una decisione collettiva dei lavoratori, maggioritaria, responsabile, aperta al dialogo, negoziata e contrattata. Dall’epoca “luddista” – l’epoca di quegli operai che distruggevano le macchine che andavano ormai a prendere il loro posto nelle fabbriche tessili -, i sindacati dei lavoratori hanno rinunciato a controllare, a regolare e a partecipare nel senso e nell’orientamento del cambio tecnico. È stata una decisione che si è lasciata sempre in mano agli imprenditori e al capitale. Invertire questa tendenza secolare implica intendere in altra maniera lo sviluppo democratico, comprendere che il dibattito sulla tecnologia, che è in fondo parte del dibattito tra marxisti, esige che tra i lavoratori vi sia una cultura tecnologica – che oggi non c’è -, delle strutture che servano a canalizzare e organizzare il dibattito sul cambio tecnico. L’attuale processo di privatizzazione delle risorse, per esempio, verrebbe superato proprio da questa nuova cultura tecnologica. In secondo luogo, anche l’economista Vasapollo dichiara la necessità etica di un cambiamento radicale di tipo socioculturale (quello che in termini gramsciani si chiama un cambio di egemonia che modifichi il senso comune): un cambio che inverta le relazioni causali tra l’economia e la politica. La politica, infatti, è sempre stata al servizio dell’economia, quantomeno dal XIX secolo. Il discorso politico occultava precedentemente questi interessi nell’essenza dell’economia; ma nel XX secolo c’è stata una svolta, il discorso politico è stato colonizzato dagli interessi economici, tanto che oggi sembra che parlare di politica sia esclusivamente parlare di economia, di spesa pubblica, di interessi, di imposte, di marche legali, di legislazione del lavoro o legislazione commerciale. Questo è logico solamente in un sistema che subordina lo sviluppo sociale agli interessi di mercato.

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Le proposte concrete e immediate sono quindi quelle offerte da nazionalizzazioni, investimenti in edilizia pubblica, lavoro e salario pieno e a totalità di diritti veri, di uscita dall’euro (o quantomeno di creazione di un euro debole nell’area mediterranea e in Irlanda), ma più importante di tutte è la proposta di azzeramento del debito. Questi sono i primi punti qualificanti il programma minimo di controtendenza.
Il problema è che l’economia finanziaria non crea risorse perché sul medio periodo è un gioco a somma zero, quindi in questo ballo mascherato delle celebrità , cioè dei potentati finanziari devono entrarci gli Stati, i lavoratori, in ultima istanza, su cui si scarica tutta la durezza e drammaticità della crisi. Per esempio, in Grecia non bisogna dilazionare ma dare un taglio netto. E del resto è quanto è già stato fatto in Sud America, ad esempio quando l’Argentina girò le spalle al Fondo Monetario Internazionale. Se si entra nella logica della diminuzione del tasso di interesse e di allungamento del debito, il ricatto diventa continuo e l’economia reale perde completamente i parametri di sostenibilità sociale e ambientale. Per questo, un’alternativa globale ridefinisce il discorso politico nel terreno del sociale e subordina, a questo discorso politico sul sociale, il discorso economico e il discorso politico sull’economia. L’Europa deve costruire in maniera indipendente le proprie prospettive muovendosi da subito in piena autonomia da qualsiasi modello consociativo, concertativo e di cogestione della crisi. Solo così l’autonomia di classe potrà assumere un vero connotato di indipendenza dai diversi modelli di sviluppo voluti e imposti dalle varie forme di capitalismo, ma soprattutto da quel sistema di sfruttamento imposto dall’unico modo di produzione che il capitale sia stato in grado di conoscere. E in tal senso il movimento dei lavoratori non può e non deve essere elemento cogestore della crisi, ma nella crisi deve trovare gli elementi del rafforzamento della sua soggettività politica. Ciò vuol dire che non è accettabile alcuna gestione della crisi da parte dei lavoratori, né è ammissibile un nuovo sistema compatibile con la sopravvivenza del capitalismo: l’indipendenza del mondo del lavoro dal cosiddetto ‘sviluppismo’ capitalista significa in primis non collaborare ma offrire un proprio programma minimo di classe al di là delle compatibilità del capitale, esprimendo, così, tutta la propria autonomia nella conflittualità. Entrare nel gioco significherebbe piuttosto morire nel gioco! Sono sempre i più deboli che soccombono: prosperano, cioè, i fondi pensione e di investimento e perdono i lavoratori con la privazione di pensioni e salari, del welfare e dei diritti sociali.

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Subordinare l’economia alla politica sarebbe quindi un’alternativa alla mondializzazione capitalista realmente esistente. Non è, in fondo, altra cosa del vecchio, ma non antico né superato, programma delle organizzazioni internazionali di classe: la subordinazione del capitale al lavoro, della produzione all’essere umano.

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I medici italiani lavorano troppo. La Ue pronta a sanzionare l’Italia

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Turni di 48 ore settimanali che sfiorano le 70 e l’assenza di un riposo settimanale garantito. Secondo Bruxelles negli ospedali italiani non vengono rispettate le direttive Ue sugli orari di lavoro. Per questo ha deferito il nostro paese alla Corte di giustizia dell’Unione europea.
di VALERIA PINI (La Repubblica)

TURNI estenuanti che sembrano non finire mai. Sulla carta sono 48 ore settimanali, ma spesso diventano 60 o 70. Negli ospedali italiani i medici lavorano troppo e per questo la Commissione europea ha deciso di deferire l’Italia alla Corte di giustizia dell’Unione europea per non aver applicato correttamente le normative in materia. Per la precisione si tratta della Direttiva sull’orario di lavoro ai medici che lavorano nel servizio sanitario pubblico. Tutto questo con rischi per i pazienti e per i camici bianchi, costretti ad affrontare situazioni stressanti e sempre più preoccupati per la paura di eventuali cause legali.

“Senza diritti”. Secondo la Ue, negli ospedali i dottori affrontano condizioni di lavoro difficili. Ad oggi, la normativa italiana priva questi medici del loro diritto a un limite nell’orario lavorativo settimanale e a un minimo di periodi di riposo giornalieri. Spulciando la normativa italiana gli esperti della Commissione hanno scoperto che non esiste neanche il diritto a un periodo minimo di riposo nell’arco della settimana.

Il primo avvertimento. Da tempo la questione è allo studio dei burocrati europei che già a maggio scorso aveva inviato un ‘parere motivato’ in materia al nostro paese. “In Italia diversi diritti fondamentali contenuti nella direttiva sull’orario di lavoro, come il limite di 48 ore stabilito per l’orario lavorativo settimanale medio e il diritto a periodi minimi giornalieri di riposo di 11 ore consecutive, non si applicano ai dirigenti operanti nel servizio sanitario nazionale – spiega la Commissione – . Invece la direttiva non consente agli Stati membri di escludere i dirigenti o le altre persone aventi potere di decisione autonomo dal godimento di tali diritti”.

La questione dei dirigenti. La Commissione ricorda che i medici attivi nel Servizio sanitario pubblico italiano sono formalmente classificati come dirigenti, senza necessariamente godere delle prerogative o dell’autonomia dirigenziali durante il loro orario di lavoro. Inoltre, “la normativa italiana contiene altre disposizioni e regole che escludono i lavoratori del servizio sanitario nazionale dal diritto di riposo giornaliero e settimanale minimo. Dopo aver ricevuto diverse denunce, la Commissione ha inviato all’Italia un “parere motivato” in cui le chiedeva di adottare le misure necessarie per assicurare che la legislazione nazionale ottemperasse alla direttiva”. Non c’è stata una risposta e e oggi Bruxelles ha deciso di rinviare il caso alla Corte europea di giustizia.

La direttiva Ue. La direttiva sull’orario di lavoro prevede che, per motivi di salute e sicurezza, si lavori in media un massimo di 48 ore alla settimana, compresi gli straordinari. I lavoratori hanno inoltre diritto a fruire di un minimo di 11 ore ininterrotte di riposo al giorno e di un ulteriore riposo settimanale ininterrotto di 24 ore. C’è peò una certa flessibilità che consente di posporre i periodi minimi di riposo per motivi giustificati, ma soltanto a condizione che il lavoratore possa recuperare subito dopo le ore di riposo di cui non ha fruito.

A chi si applica. La direttiva si applica a tutti i medici con un contratto di lavoro subordinato. Solo per i medici in formazione la limitazione dell’orario di lavoro è stata introdotta gradualmente, sulla base di regole speciali, nel periodo 2000-2009. Dal 1° agosto 2009, il limite di 48 ore si applica anche ai dottori in formazione, mentre i periodi minimi di riposo si applicavano anche a questa categoria in tutti gli Stati membri già dal primo agosto 2004. Ma l’Italia ha ignorato queste norme.

Fonte: La Repubblica

APPELLO DEI LAVORATORI DELLA BERLONI DI PESARO.

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Il distretto del mobile nelle Marche è piegato dalla crisi. I lavoratori della Berloni S.p.A. di Pesaro diffondono quest’immagine di cui chiedono la massima diffusione. Anche noi raccogliamo l’appello e nel condividere la foto vi preghiamo di fare altrettanto.

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“Non licenziate i nostri papà”: il dramma della crisi nei disegni dei bambini

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I figli dei dipendenti di un’azienda torinese hanno realizzato una serie di “ritratti di vita”, raccolti in un video struggente, per raccontare il dramma dei loro genitori che hanno perso il lavoro.

TORINO – “Mio papino, non c’è bisogno che piangi di nascosto, perché anche se davanti a tutti noi sorridi io ho capito tutto. Stai tranquillo, ci sarò anch’io nelle tue lotte perché non lascerò mai la mano che tu stringi per 11 anni”. Firmato “figlia di un dipendente”.

A Collegno, in provincia di Torino, sono i bambini a raccontare la crisi economica che stritola il Paese e “annienta” le persone. Lo fanno nel modo più semplice e naturale possibile, prendendo un paio di fogli bianchi, pennarelli colorati e disegnando quello che vedono: una vita priva di soddisfazioni. I loro “ritratti di vita” sono stati raccolti in un video pubblicato su YouTube: il risultato è struggente (GUARDA IL VIDEO QUI).

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I bambini che raccontano a modo loro il bisogno di uscire fuori da questa crisi sono i figli dei dipendenti della Fivit Colombotto di Collegno, l’ennesima azienda torinese specializzata in produzione di viti e bulloni per elettrodomestici che chiude i battenti e lascia a casa 82 persone. Inevitabile che ad accorgersi del dramma siano anche loro, i più piccoli e innocenti.

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Perché anche comprare una maglietta nuova o un pezzo di cioccolato è diventato faticoso: i bimbi disegnano i beni di primario consumo e li barrano con una grossa “X”, perché i loro genitori non riescono ad acquistare neanche quelli. Perché “state rovinando i nostri sogni”, scrivono Giulia di sei anni e Francesco di tre. Un segnale forte, perché spesso i bambini vedono più di quello che dovrebbero vedere. E lo sanno che i loro genitori non sono numeri e che “il lavoro è un diritto di tutti”, come scrivono Sara e Gianluca.

Fonte: Torino Today

A rischio 25mila posti in tutta Italia. Addetti alle pulizie nelle scuole in stato di agitazione.

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I 25mila lavoratori che si occupano delle pulizie nelle scuole italiane, e che rischiano in questi giorni il posto di lavoro, non sono e non devono essere un problema di ordine pubblico. Sono un problema sociale a cui la politica deve dare risposte credibili e convincenti.
Leggete qui cos’è successo a Pomezia:

http://ilmanifesto.it/pomezia-la-polizia-sgombera-con-molta-forza-le-addette-alle-pulizie-di-una-scuola/

Una brutta vicenda che poteva e doveva essere evitata.

MDS

Lavorare 2.0: il recruitment passa per Facebook.

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Ragazzi, attenti! Le stime più recenti sul rapporto tra aziende e social network vedono un notevole incremento dell’uso che ne viene fatto in occasione della selezione di nuovo personale. Dal 17% del 2008 si è, infatti, passati al 40% delle aziende che “spiano” i loro candidati. E viene valutato tutto, errori (anzi, orrori) ortografici compresi. Inoltre, il 65% delle imprese che ricorre ai social giudica con più favore i candidati che abbiano avuto esperienze di volontariato.
In un momento in cui il mercato del lavoro ristagna, questa prassi può risultare antipatica. Personalmente, la ritengo odiosa a prescindere. Ma se il mercato è questo, occorre equipaggiarsi.
Cosa fare allora?
Riconsiderare la propria immagine sul web innanzitutto. È inevitabile!
Saprete sicuramente che a quanto raccontate di voi o alle foto che pubblicate in rete non è offerta una tutela al 100% da occhi indiscreti: basti pensare alla timeline di Facebook, detta anche copertina, che non può essere limitata ai soli amici. Tuttavia bisognerebbe soffermarsi un po’ anche sul fatto che queste informazioni sono accessibili a persone che intendono “studiarvi” per motivi professionali e non solo a semplici curiosi, stalker, maniaci ed ex compagni di classe indiscreti.
L’immagine che terrete a dare a chi può potenzialmente offrirvi un lavoro è sicuramente diversa da quella che utilizzate per interfacciarvi con i vostri amici. Per esempio, andreste mai ad un colloquio di lavoro coi rasta o con i capelli verde fluo, magari mentre siete in preda alla migliore sbornia della vostra vita, indossando una comoda tuta o un succinto completino da spiaggia? Io non credo, se a quel lavoro ci tenete davvero. Per chi non dovesse capirmi, consiglio la lettura di Trainspotting: il pezzo dedicato al colloquio di lavoro è uno dei migliori che Irvine Welsh abbia mai scritto.

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Tornando a noi, se tenere distinte le due sfere sociali non sempre è possibile visto che, come già detto, le informazioni che si seminano in rete sul proprio conto sono in qualche modo sempre raggiungibili, si dovrebbe allora reinterpretare questa tendenza delle aziende come un cambiamento della società rispetto agli inevitabili canali che il web ha aperto e messo a disposizione e giocare questa carta a proprio favore. Se già sapete che chi dovrà giudicarvi probabilmente farà qualche ricerca in più sul vostro conto, sfruttate i social a vostro vantaggio. Prima di tutto proteggete, per quanto possibile, i vostri profili sui social network controllando sempre le impostazioni della privacy. Il Grande Fratello di Orwell esiste veramente e non è una trasmissione televisiva. Ma se vivete con Instagram e Facebook sempre a portata di mano e se proprio non potete evitare di far sapere al mondo quanto ve la siate spassata sabato scorso, create un profilo ufficiale e dignitoso, con il vostro nome, cognome e una bella foto della vostra laurea o del matrimonio di una cugina di secondo grado e inventate un alter ego per il vostro tempo libero. So che Facebook impone di usare il proprio nome, ma sono in molti a non farlo. Io, ad esempio: non provate a cercarmi, perché non mi troverete mai. Anzi, no, non provateci nemmeno. Questo post non lo firmo, visto il tema affrontato. Per mia fortuna FB si usava poco, anzi in Italia nemmeno esisteva, credo, quando dieci anni fa ho iniziato a cercare lavoro, ma non si sa mai di questi tempi e se dovesse servirmi, darò vita al più noioso account che si possa immaginare!
Infine, qualche ultimo consiglio…
Oltre ai social si usa sempre più il cosiddetto curriculum vitae 2.0.: mi riferisco soprattutto a Linkedin, stavolta. Ebbene, nel redigere il vostro CV assecondate sempre i desideri di chi vi sta valutando, soprattutto quello di capire qualcosa in più su chi siete davvero (cioè su chi vorrebbero che voi foste, visto che si parla di recruiting) e su come vi rapportate con gli altri, visto che è uno degli aspetti di voi che un datore di lavoro vorrebbe sapere sempre prima di farvi firmare un contratto, specie se il lavoro offerto prevede un’attività di team.
A questo punto fatevi furbi e buttatevi nella giungla. E ricordate, guai a lasciar trapelare sul lavoro anche una sola mezza notizia sul vostro conto. Anche dopo l’assunzione. Anche coi colleghi (anzi, soprattutto).
Per adesso è tutto: non resta che augurarvi in bocca al lupo! E crepi…!

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