L’UNIVERSITÀ CHE PARLA ALLE AULE VUOTE.

In Italia è crollo dei giovani laureati. Persi in un anno 34.000 neo dottori. E il trend per il futuro è in peggioramento.

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di Michele De Sanctis

Crolla il numero dei laureati: il bilancio vede quasi 18mila laureati triennali in meno – il 10 % – e circa 34mila laureati complessivi in meno, cioè l’11,5 % in un solo anno. A diffondere questi dati è il Cineca, il consorzio di università italiane che offre supporto alle attività della comunità scientifica tramite il cd. supercalcolo, realizza sistemi gestionali per le amministrazioni universitarie e il MIUR e, inoltre, progetta e sviluppa sistemi informativi per imprese, sanità e P.A. .

Il calo riguarda soprattutto le donne e l’area più colpita è quella sanitaria, medicina compresa, che accusa un crollo del 16 % sulle lauree brevi e del 13 % sul totale. L’area scientifica, invece, è quella che risente in misura minore di questa flessione: meno 8 %. Oltre alla discrepanza tra settori di studio, come appena accennato, si è resa evidente anche una certa differenza di genere: quasi 12mila laureati triennali in meno sui 18mila totali sono, infatti, donne. Ciò denoterebbe una propensione maggiore da parte del sesso maschile a voler conseguire il tanto agognato titolo di studio, ma è, altresì, conseguenza delle difficoltà che le donne, soprattutto nel meridione, incontrano nel momento in cui si approcciano al mercato del lavoro. L’Italia perde continuamente terreno rispetto agli altri Paesi europei, superata perfino da Romania, Repubblica Ceca, Slovacchia e Portogallo. Con il suo 22,4 % di giovani laureati, l’Italia è in coda alla classifica delle 28 nazioni dell’Unione Europea. Ancora più allarmante allo stato attuale è, poi, il distacco con la media del vecchio continente che è al suo massimo storico dal 2002, quando ci separavano solo 10,4 punti, a fronte dei 14 del 2012/2013.

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Il nostro Paese, così, rischia di perdere terreno rispetto ai partner europei per quota di 30/34enni laureati, obiettivo principale della strategia Education and Training 2020, che mira a trasformare l’economia europea nella più competitiva e dinamica del mondo, poiché basata sulla conoscenza, e in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e, contestualmente, una maggiore coesione sociale. Come ho già scritto lo scorso 15 febbraio, ET 2020 è obiettivo irrinunciabile, vista l’emergenza rappresentata dalle attuali dinamiche del mercato del lavoro.

Se analizziamo i dati dei nostri partner, per esempio, scopriamo che in Francia la percentuale di 30/34enni in possesso della laurea è pari al 44 %, cioè oltre 20 punti in più rispetto a noi. In Germania si attestano intorno al 33,1 %, oltre un punto in più rispetto all’anno precedente. L’Italia procede, invece, a rilento: appena 0,7 punti in più in un anno. Mentre nel Regno Unito si viaggia sull’invidiabile quota del 47,1 %.

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E in futuro, visto il crollo degli immatricolati degli ultimi anni, il solco con gli altri Stati europei potrebbe diventare addirittura incolmabile. Gli studenti, ormai da tempo, chiedono di cancellare il numero chiuso in ingresso e di mettere in cantiere interventi concreti sul fronte del diritto allo studio. Il nostro Paese, infatti, è stato penalizzato dalle pessime politiche in materia di istruzione e formazione degli ultimi vent’anni, dalla famigerata scuola ‘delle tre i’ col ministro Moratti e il premier Berlusconi fino alla disastrosa riforma Gelmini, la quale, con la sua teoria sul tunnel di neutrini che partiva dal Gran Sasso per arrivare a Ginevra, ha solo rappresentato la scuola dell’unica ‘i’ possibile all’epoca del ‘bunga bunga’, quella dell’ignoranza. La crisi, poi, ha introdotto un concetto perverso, veicolato dal peggior populismo di sempre, che si fa strada tra i più disperati di noi, tra chi ha rinunciato a credere in un futuro migliore: quello che la laurea non serva a nulla perché costa soldi e non porta pane a casa. Un concetto che al nord, quando la Lega spopolava, aveva già attecchito qualche anno fa. Lavorare e guadagnare subito. Efficace, nel breve periodo, ma fondamentalmente sbagliato. Lavorare senza aver studiato, senza quindi un particolare tipo di specializzazione, ha, infatti, reso vulnerabile un’intera classe di lavoratori, manodopera non qualificata, che con l’arrivo della crisi è rimasta priva di lavoro e per lo più incapace di ‘riciclarsi’.

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A dimostrazione di quanto affermo, ci sono i dati diffusi da AlmaLaurea lo scorso 10 marzo, che evidenziano come ad essere più colpiti, in questi tempi di recessione, siano proprio i giovani sprovvisti di titoli accademici: tra il 2007 e il 2013 il differenziale tra tasso di disoccupazione dei neolaureati e neodiplomati è passato dal 2,6 % all’11,9. La laurea, quindi, anche se destinata a ‘rendere’ nel medio periodo, piuttosto che nel breve, è ancora un importante strumento nella ricerca di un lavoro.

C’è chi è convinto che con i libri non si mangia, la gente ha fame, si dice. Vero, ma non leggere e non studiare, diversamente, neppure aiuta a trovare lavoro prima. Se non Italia all’estero: sono stati circa 68.000 gli italiani che nel 2012 si sono trasferiti fuori dai confini del belpaese, in posti dove, peraltro, i lavori migliori non sono certo destinati agli individui meno qualificati.

Non si possono trascurare questi dati così preoccupanti. L’istruzione d’ogni ordine e grado è una priorità. Sempre. E poi è anche una questione di dignità personale. Qualsiasi sacrificio vale la pena per l’istruzione. Un solo euro dedicato alla formazione vale più di un lingotto d’oro ed è l’investimento migliore che si possa fare. Vale per lo Stato come per i cittadini.

La lettura rende l’uomo completo, diceva Bacon. La capacità di ragionare con la propria testa, di avere gli strumenti per farlo non ha davvero prezzo e un Paese che rinuncia alla propria conoscenza è un Paese che ha deciso di morire.

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La Circolare n. 9/E dell’Agenzia delle Entrate chiarisce che il bonus di 80 euro spetta anche ai cassintegrati ed ai disoccupati

 

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di Germano De Sanctis

 

L’Agenzia delle Entrate ha pubblicato la Circolare, 14 maggio 2014, n. 9/E, con la quale ha fornito ulteriori chiarimenti su diverse questioni attinenti la definizione della platea dei soggetti beneficiari della riduzione del cuneo fiscale ex art. 1 D.L. n. 66/2014, nonché l’applicazione del credito da parte dei sostituti d’imposta ed il recupero del credito erogato.

Si ricorda che l’Agenzia delle Entrate era già intervenuta sull’argomento con la Circolare, 28 aprile 2014, n. 8/E, con la quale aveva fornito le prime indicazioni operative in merito al alle modalità di riconoscimento del credito in questione in capo ai titolari di reddito di lavoro dipendente e di taluni redditi assimilati a quelli da lavoro dipendente.
In tale occasione, era stato evidenziato che l’importo del predetto credito ammonta ad € 640 per i titolari di un reddito complessivo non superiore ad € 24.000. Qualora tale tetto venga superato, il credito deve decrescere fino ad azzerarsi al raggiungimento di un livello di reddito complessivo pari ad € 26.000.
Inoltre, La Circ. Ag Entrate n. 8/E del 2014 aveva anche sottolineato che la previsione contenuta nel D.L. n. 66/2014 dispone il riconoscimento automatico del credito da parte dei sostituti d’imposta, senza attendere alcuna richiesta esplicita da parte dei beneficiari.

Invece, con la Circ. n. 9/E del 2014, l’Agenzia delle Entrate si è preoccupata di chiarire il fatto che il bonus IRPEF ex art. 1 D.L. n. 66/2014 interessa anche i cassintegrati, i disoccupati che percepiscono l’indennità ed i lavoratori in mobilità.
Inoltre, l’Agenzia delle Entrate ha anche sottolineato che le somme percepite come incremento della produttività (tassate al 10%) non concorrono ai fini del bonus in questione.
Infine, i sostituti d’imposta dei contribuenti che hanno lavorato solo una parte dell’anno dovranno calcolare il credito sulla base del periodo di lavoro effettivo.

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Il Premier Matteo Renzi presenta le Linee Guida per la Riforma del Terzo Settore

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Nel corso della giornata di eri, il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha lanciato un tweet, con il quale ha annunciato la pubblicazione in rete delle Linee Guida per la Riforma del Terzo settore. Il confronto sul loro contenuto avverrà on line. Infatti, chiunque lo voglia fornire un contributo, può esprimere la propria opinione, inviando una e-mail entro il 13 giugno. Il testo delle Linee Guida in questione è rinvenibile  presso il link sotto indicato.

Il Premier Matteo Renzi presenta le Linee Guida per la Riforma del Terzo Settore

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MULTE INGIUSTE: COME MI DIFENDO?

Cosa fare quando ci viene ingiustamente elevata una sanzione? Quali sono gli strumenti giuridici che l’ordinamento offre in difesa dei nostri diritti (e dei nostri soldi)?

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di Michele De Sanctis

Comunemente le chiamiamo ‘multe’, ma sono in realtà sanzioni pecuniarie amministrative elevate per le infrazioni al Codice della Strada o agli ordinamenti locali, mentre la multa vera e propria consegue all’imputazione di un delitto. Diversa natura, quindi, diversi rimedi ai fini della tutela individuale. Ma per essere più chiaro, anche per chi è meno avvezzo ai termini giuridici, userò impropriamente il termine multa, per riferirmi alle sanzioni amministrative irrogate in occasione della circolazione stradale.

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Contro una multa considerata ingiusta esistono due tipi di ricorso (uno di natura giurisdizionale, l’altro di tipo amministrativo). Possiamo, infatti, impugnare il verbale davanti al Giudice di Pace (entro 30 giorni dalla notifica o dalla data di contestazione) ovvero davanti al Prefetto (entro 60 giorni).
Tra i motivi di nullità del verbale che possiamo impugnare troviamo:

1) la mancata notifica del verbale entro 90 giorni dalla data di accertamento (attenzione: non dalla data di infrazione) o 150 giorni (se siete residenti all’estero);
2) se la multa è stata irrogata per eccesso di velocità, la contestazione immediata è obbligatoria solo per gli autovelox mobili gestiti direttamente dalla Polizia su strade urbane o locali e su quelle extraurbane e urbane di scorrimento non segnalate dal Prefetto (in questi casi, a pena di nullità, i motivi della mancata contestazione immediata devono essere indicati a verbale);
3) la mancata segnalazione e/o mancata visibilità di un autovelox;
4) gli ausiliari del traffico possono elevare contravvenzioni solo per violazioni che riguardino la sosta o la fermata dei veicoli: se la multa è elevata per altre cause è nulla, ma state in guardia, perché la Cassazione ritiene costantemente che il potere sanzionatorio dell’ausiliario si estenda anche alla prevenzione e al rilievo di tutte le infrazioni ricollegabili alla sosta nella zona oggetto della concessione, anche se non strettamente collegate al parcheggio a pagamento cui sono adibiti;
5) quando gli apparecchi di rilevazione automatica delle infrazioni (autovelox, T-red) sono gestiti da enti privati e non direttamente dalla Polizia Stradale.

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Il ricorso contro la multa presentato al Giudice di Pace va depositato, in carta semplice, presso la cancelleria dello stesso giudice o inviato per posta raccomandata A/R, pagando un contributo unificato (in genere sui 37,00 €).

Sono, invece, più lunghi i termini per impugnare il verbale dinanzi al Prefetto. In questo caso, il ricorso dovrà essere presentato personalmente o con raccomandata A/R alla Prefettura territorialmente competente (ovvero all’Ufficio da cui dipende l’agente che ha accertato l’infrazione, ma sempre intestata al Prefetto del luogo della violazione) entro 60 giorni dalla notifica della multa.

La Prefettura ha 120 giorni di tempo per pronunciarsi sul ricorso ed emanare la relativa ordinanza, da notificare al ricorrente entro 150 giorni, pena l’annullamento del verbale. Il ricorrente può allegare al ricorso la documentazione ritenuta necessaria oltreché chiedere l’audizione personale. Sappiate che se il Prefetto respinge il vostro ricorso, la sanzione pecuniaria verrà raddoppiata. E ricordatevi che, qualora abbiate intenzione di fare ricorso, o al Prefetto o al Giudice di Pace, non dovete pagare la sanzione pecuniaria, neanche in misura ridotta, poiché il pagamento vi preclude la possibilità di impugnare il verbale, in ogni caso: è un comportamento concludente con cui accettate la contestazione. Anzi, contestualmente all’annullamento del verbale, sarebbe opportuno chiedere, nel ricorso dinanzi al Giudice di Pace, anche la sospensione della sua efficacia esecutiva, perché se non lo fate, in attesa dell’esito dell’impugnazione, vi potrebbe essere notificata anche la cartella di pagamento. E non credo che abbiate voglia di ricevere una cartella esattoriale…

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Da ultimo, in caso di vittoria del ricorso, insistete sull’addebito delle spese di giudizio (rimborso del contributo unificato versato, ecc.) all’Ente convenuto. Per la Suprema Corte di Cassazione, infatti, l’Amministrazione Pubblica, riconosciuta negligente, deve essere condannata al pagamento delle spese salvo che sussistano giustificati motivi, “che non possono essere ricercati solo nel modesto valore della controversia o nel semplice errore formale della multa” (Corte di Cassazione, Sezione II, sentenza 8 aprile 2011 n. 8114).

Nell’accomiatarmi, vi ricordo di allacciare sempre le cinture e di guidare con prudenza. Buona giornata!

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Roncalli e Wojtyła santi: un enorme ossimoro.

da MicroMega 27/4/2014

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di don Paolo Farinella

«Santo subito», gridava lo striscione a caratteri cubitali al quadrato che emergeva sulle teste della folla, il giorno del funerale di papa Giovanni Paolo II, il 5 aprile del 2005. «È morto un santo» disse la folla di credenti, non credenti e agnostici che gremivano piazza san Pietro il 3 giugno del 1963 alla morte di papa Giovanni XXIII. La differenza tra i due sta tutta qua: il polacco deve essere dichiarato «santo», il bergamasco lo è sempre stato senza bisogno di dimostrarlo.

Chi ha avuto l’idea di abbinare nello stesso giorno i due papi per la proclamazione della santità ufficiale, è stato un genio del maligno. Mettere insieme il papa del concilio Vaticano II e quello che scientemente e scientificamente l’ha abolito, svuotandolo di ogni residuo di vita, è il massimo del sadismo religioso, una nuova forma di tortura teologica. La curia romana della Chiesa cattolica, che Francesco non ha ancora scalfito, se non in minima parte, è riuscita ancora nel suo intento, imponendo al nuovo papa un calendario e una manifestazione politica che è più importante di qualsiasi altro gesto o dichiarazione ufficiale. La vendetta curiale è servita sempre fredda.

Il Vaticano sotto il papa polacco si trasformò in «santificio» fuori di ogni controllo e contro ogni decenza: più di mille santi e beati sono stati dichiarati da Giovanni Paolo II, superando da solo la somma di tutti i papi del II millennio. Un’orgia di santi e beati che annoverano figure dubbie o equivoche come Escrivá de Balaguer, padre Pio, Madre Teresa, per limitarci solo a tre nomi conosciuti e che ne escludono altre come il vescovo Óscar Arnulfo Romero, lasciato solo e isolato, offerto allo squadrone della morte del governo del Salvador che lo ammazzò senza problema.

Papa Giovanni XXIII non ha avuto fortuna da morto. Il 3 settembre dell’anno giubilare 2000 è stato dichiarato beato insieme a Pio IX, il papa del concilio Vaticano I, il papa che impose al concilio la dichiarazione sull’infallibilità pontificia, il papa del caso Mortara, il papa del «Sillabo», il papa che in quanto sovrano temporale faceva ammazzare i detenuti politici perché combattevano contro il «papa re». Il mite Roncalli, storico di professione, fu – perché lo era nel profondo – pastore e prete, il papa del Vaticano II che disse il contrario di quanto Pio IX aveva dichiarato e condannato in materia di coscienza, di libertà e di dignità: il primo s’identificava con la Chiesa, il secondo stimolava la Chiesa tutta a cercare Dio nella storia e nella vita. Accomunarli insieme aveva un solo significato: esaltare il potere temporale di Pio IX e ridimensionare il servizio pastorale di Giovanni XXIII. Un sistema di contrappeso: se avessero fatto beato solo Pio IX, probabilmente piazza san Pietro sarebbe stata vuota; papa Giovanni, al contrario, con il suo appeal ancora vivo e vegeto, la riempiva per tutti e due.

A distanza di quattordici anni, per la dichiarazione di santità, papa Giovanni si trova accomunato di nuovo con un altro papa agli antipodi dei suoi metodi e del suo pensiero, con Giovanni Paolo II, re di Polonia, Imperatore della Chiesa cattolica, idolo dei reazionari dichiarati e di quelli travestiti da innovatori. Wojtyła fu «Giano bifronte» nel bene e nel male. Nel bene, fu un papa con un carisma umano eccezionale perché aveva un rapporto con le persone che oserei definire «carnale»; non era finto e quando abbracciava, abbracciava in maniera vera, fisica. Diede della persona del papa un’immagine umana, carica di sentimenti e così facendo demitizzò il papato, accostandolo al mondo e alle persone reali. Fu un uomo vero e questo nessuno può negarglielo.

Come papa e quindi come guida della teologia ufficiale, come modello di pensiero e di prassi teologica fu un disastro, forse il papa peggiore dell’intero secondo millennio. Mise la Chiesa nelle mani delle nuove sètte che s’impadronirono di essa e la trasformarono in un campo di battaglie per bande. Gli scandali, scoppiati nel pontificato di Benedetto XVI, il papa insussistente, ebbero tutti origine nel lungo pontificato di Giovanni Paolo II, che ebbe la colpa di non rendersi conto che le persone di cui si era circondato, lo usavano per fini ignobili, corruzione compresa. Durante il suo pontificato, uccise i teologi della liberazione in America Latina, decapitò le Comunità di Base che vedeva come fumo negli occhi, estromise santi, ma in compenso nominò vescovi omologati e cardinali dal pensiero presocratico, più dediti a tramare che a pregare.

Il suo pontificato fu un ritorno di corsa verso il passato, ma lasciando le apparenze della modernità per confondere le acque, eclissò e tolse dall’agenda della Chiesa il Concilio Vaticano II e la sua attuazione, vanificando così i timidi sforzi di Paolo VI, il papa Amleto che non sapeva – o non volle? – nuotare, preferendo restare in mezzo al guado, né carne né pesce e lasciando al suo successore, il papa polacco – papa Luciani fu una meteora senza traccia visibile – la possibilità del colpo di grazia, ritardando il cammino della Chiesa che volle somigliante a sé e non a Cristo.

Il cardinale Carlo Maria Martini, interrogato al processo di santificazione, disse con il suo tatto e il suo stile, che sarebbe stato meglio non procedere alla santificazione di Giovanni Paolo II, lasciando alla storia la valutazione del suo operato che, con qualche luce, è pieno di ombre. Il cardinale disse che non fu oculato nella scelta di molti suoi collaboratori, ai quali, di fatto, delegò la gestione della Chiesa e questi ne approfittarono per fare i propri e spesso sporchi interessi. Per sé il papa scelse la «geopolitica»: fu padre e promotore di Solidarność, il sindacato polacco che scardinò il sistema sovietico e che Giovanni Paolo finanziò sottobanco, facendo alleanze, moralmente illecite: Comunione e Liberazione, l’Opus Dei e i Legionari di Cristo (e tanti altri) furono tra i principali finanziatori e sostenitori della politica papale, in cambio ebbero riconoscimento, santi propri e anche condoni morali come il fondatore dei Legionari, padre Marcial Maciel Degollado, stupratore, drogato, donnaiolo, puttaniere, sulle cui malefatte il papa non solo passò sopra, ma arrivò persino a proporre questo ignobile figuro di depravazione «modello per i giovani».

In compenso ricevette una sola volta mons. Romero, dopo una lotta titanica di questi per parlare con lui ed esporgli le prove delle violenze e degli assassinii che il governo salvadoregno ordinava tra il popolo e i suoi preti. Il papa non lo ascoltò nemmeno, ma davanti alla foto dello sfigurato prete padre Rutilio, segretario di mons. Romero, assassinato senza pietà e con violenza inaudita, il papa invitò il vescovo a ridimensionarsi e ad andare d’accordo con il governo. Il vescovo, racconta lui stesso, capì che al papa nulla interessava della verità, ma solo gl’importava di non disturbare il governo. Raccolse le sue foto e le sue prove e tornò piangendo in patria, dove fu assassinato mentre celebrava la Messa. No, non può essere santo chi ha fatto questo.

Papa Wojtyła ha esaltato lo spirito militare e militarista, vanificando l’enciclica «Pacem in Terris» di papa Roncalli. Con la costituzione pastorale «Spirituali Militum Curae» del 21 aprile 1986 fonda le diocesi militari e i seminari militari e la teologia militare e la formazione di preti militari che devono «provvedere con lodevole sollecitudine e in modo proporzionato alle varie esigenze, alla cura spirituale dei militari» che «costituiscono un determinato ceto sociale “per le peculiari condizioni della loro vita”». In altre parole la Chiesa assiste «spiritualmente» chi va in nome della pace ad ammazzare gli altri, con professionalità e «in peculiari condizioni». Passi che fuori dell’accampamento ci sia un prete con indosso la stola viola, pronto a confessare e a convertire alla obiezione di coscienza, ma che addirittura i preti e i vescovi debbano essere «soldati tra i soldati», con le stellette sugli abiti liturgici, funzionari del ministero della guerra, è troppo e ne avanza per fare pensare che la dichiarazione di santità si può rimandare a tempi migliori.

Il pontificato di Giovanni Paolo II ha bloccato la Chiesa, l’ha degenerata, l’ha fatta sprofondare in un abisso di desolazione e di guerre fratricide, esasperando il culto della personalità del papa che divenne con lui, idolo pagano e necessario alle folle assetate di religione, ma digiune di fede. La gerarchia e la curia alimentarono codesto culto che più si esaltava più permetteva alle bande vaticane di sbranarsi in vista della divisioni delle vesti di Cristo come bottino di potere, condiviso con corrotti e corruttori, miscredenti e amorali. La storia del ventennio berlusconista ne è prova sufficientemente laida per fare rabbrividire i vivi e i morti di oggi, di ieri e di domani.

Avremmo preferito che papa Francesco avesse avuto il coraggio di sospendere questa sceneggiata, ma se non l’ha fatto, è segno che si rende conto che la lotta dentro le mura leonine è solo all’inizio e lui, da vecchio gesuita, è determinato, ma è anche cauto e prudente. Il 27 aprile, dopo avere chiesto scusa a papa Giovanni, io celebrerò l’Eucaristia, chiedendo a Dio che ci liberi dai vitelli d’oro e di metallo, anche se portano il nome di un papa. Quel giorno pregherò per tutte le vittime, colpite da Giovanni Paolo II direttamente o per mano del suo esecutore, il card. Joseph Ratzinger, che, da suo successore, perfezionò e completò l’opera come papa Benedetto XVI.

Fonte: MicroMega

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Incentivi Inail alle imprese, il 29 maggio l’invio telematico delle domande.

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La seconda fase della procedura per l’assegnazione dei 307 milioni di euro a fondo perduto, stanziati con il bando Isi 2013 per sostenere progetti di miglioramento dei livelli di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, si svolgerà tra le ore 16 e le 16,30. Le informazioni tecniche online entro il 22 maggio.

ROMA – Si svolgerà giovedì 29 maggio, dalle ore 16 alle 16,30, la seconda fase dell’operazione incentivi Inail, per l’assegnazione dei 307 milioni di euro a fondo perduto messi a disposizione delle imprese italiane con il bando ISI 2013 per sostenere la realizzazione di progetti che migliorino i livelli di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.

I finanziamenti distribuiti fino a esaurimento dei budget regionali.

Come nelle edizioni precedenti, i fondi, ripartiti in budget regionali, saranno assegnati fino a esaurimento secondo l’ordine cronologico di arrivo delle domande, che potranno essere presentate in modalità telematica dalle aziende i cui progetti hanno superato la prima fase, in possesso del codice identificativo loro attribuito. Le regole e le informazioni tecniche di supporto alle imprese partecipanti all’invio online saranno pubblicate sul portale Inail entro il 22 maggio.

Nella prima fase un elevato livello di partecipazione.

La prima fase della procedura si è svolta dal 21 gennaio all’8 aprile, con un livello di partecipazione che ha confermato, ancora una volta, il grande interesse del mondo imprenditoriale per l’iniziativa dell’Istituto. Sono quasi 29mila, infatti, i progetti per i quali sono stati richiesti gli incentivi, per un investimento complessivo pari a oltre 1,7 miliardi di euro.

Fino a 130mila euro per ogni intervento.

Dopo i 60 milioni del 2010, i 205 del 2011 e i 155 del 2012, i 307 milioni previsti dal bando Isi 2013 sono il finanziamento più cospicuo messo a disposizione nell’ambito delle quattro edizioni dell’iniziativa promossa dall’Inail, che in considerazione della difficile congiuntura economica ha innalzato dal 50 al 65% la copertura dei costi ammissibili e da 100mila a 130mila euro l’importo massimo finanziabile per ciascun progetto.

Fonte: INAIL

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In cerca della piccola “M”. “Ma quei capelli biondi ad Auschwitz può averli visti solo per pochi minuti”

da Repubblica.it – Cultura 10/5/2014

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Dai ricordi di una donna tedesca sopravvissuta al campo di concentramento affiora l’immagine di una bambina italiana, a cui la giovane deportata si era affezionata. Ma nella sua memoria c’è solo l’iniziale del nome. Con il direttore scientifico del prossimo museo della Shoah di Roma abbiamo provato a ricostruire le circostanze di quell’incontro. Poche possibili “Marta”, tante Mirella, Mimma, Milena… “Ma il lavoro di documentazione non è mai finito, noi continuiamo a raccogliere testimonianze”

di SIMONA CASALINI

“Una bambina bionda italiana, col volto dolce, improvvisamente era sgattaiolata vicino a me…la trovavo incantevole…Era arrivata ad Auschwitz con un grande convoglio italiano, sicuramente non era giunta da sola…Le ho dato da mangiare, riuscivo a organizzare qualcosa per lei, perché avevo qualche libertà nel lager…Un giorno però l’ho persa di vista perché mi ero ammalata di nuovo… quando tornai in piedi era sparita, avevano già ucciso quella piccola ebrea”.

Renate Lasker Harpprecht, la sopravvissuta tedesca che racconta il suo Olocausto nel campo di sterminio degli ebrei nell’intervista a Die Zeit che Repubblica ha pubblicato oggi , si sofferma in questo piccolo, dolce e tremendo ricordo nei giorni peggiori. “Il suo nome? Cominciava con la “M” – risponde l’ebrea novantenne – Marta, o qualcosa del genere”

Chi poteva essere quella bimba? E come mai una “bimba” è riuscita a stare per un pò nelle baracche degli adulti, dal momento che ad Auschwitz la quasi totalità dei bambini al di sotto dei dieci anni visti venivano immediatamente eliminati. Marta? Ma davvero la signora ricorda bene il nome? E’ un nome che non rientra in quelli tipici della tradizione ebraica: a quanto risulta dal libro della Shoah in Italia, formidabile database italiano sul peggiore dei crimini del ‘900, sarebbero state solo sei le donne ebree di nome Marta deportate dall’Italia ai campi di sterminio.

Marcello Pezzetti, lei è il direttore scientifico del prossimo Museo della Shoah di Roma. Chi poteva essere la misteriosa bimba incontrata da Renate Lasker Harpprecht?
“La prima cosa che mi viene in mente dopo aver letto la testimonianza è terribile: e cioè che i capelli biondi di quella bimba la signora tedesca li ha potuti vedere per pochissimo tempo. Tutti i deportati che entravano nei campi venivano nel giro di mezz’ora rasati a zero, e dunque anche la misteriosa bambina “M” avrà subìto quel trattamento. E ancora. E’ verissima la scena raccontata dalla sopravvissuta, quel “sgattaiolare” della piccola. Abbiamo molte testimonianze di genitori o parenti che, nella confusione del momento dell’arrivo sulla Judenrampe dove in pochi minuti dovevano essere smistate le famiglie ebree, davano delle spinte ai figli per farli fuggire da qualche parte, tentavano di allontanarli da loro col disperato tentativo di salvarli. E i bambini sbucavano da qualche parte del campo, come dal niente”.

Shoah, cercando la piccola M. LO SPECIALE INTERATTIVO

Scampata, ma per poco tempo, alla Shoah grazie alla “protezione” di una giovane deportata tedesca
“Circa 220 mila bambini vennero deportati ad Auschwitz, e la quasi totalità venne subito eliminata. Nei Kinderblock, le baracche dei piccoli, ne sono finiti solo una piccola percentuale ma solo quelli con qualche particolarità genetica: gemelli, o bambini con qualche deformità o con dettagli apparentemente di poco conto come le iridi di colori diversi e anche figli di genitori “misti”, uno cattolico e l’altro di religione ebraica. Servivano a Mengele per i suoi folli studi sulla presunta ereditarietà dei fattori negativi nei cromosomi degli ebrei e di quelli positivi del carattere ariano. Questa è l’atrocità della Storia. E pochissimi tra loro si sono salvati. Ma forse la bimba “M” aveva più di dieci anni, età discriminante tra bambini e adulti. Magari era piccolina di fisico, minuta, dimostrava meno dell’età dei suoi documenti. Milena Zarfati, ad esempio, aveva appena compiuto 15 anni ma appariva talmente piccina che finì nel blocco dei bambini. No, la bimba “M” non poteva essere lei perché Milena fu una delle pochissime del Kinderblock che riuscì a sopravvivere perché era stata messa al lavoro nelle fabbriche di munizioni per via delle dita sottilissime. E’ scomparsa lo scorso anno”.

La signora tedesca pensa di ricordare il nome “Marta” ed effettivamente risulterebbero sei le donne ebree con quel nome deportate dall’Italia ai campi di sterminio. Lei cosa pensa?
“Marta non è un nome ebraico, così come è raro, per motivi religiosi, che una ebrea italiana si possa chiamare Maria. Forse Mimma, diminutivo tipico di tanti nomi ebraici romani… E comunque, a quanto si sa finora, nessuna delle sei deportate italiane di nome Marta aveva l’età di “una bambina”. Allora, la più giovane, Marta Ascoli, triestina, aveva 17 anni: ma fu l’unica di loro sopravvissuta allo sterminio ed è scomparsa nel marzo scorso all’età di 87 anni. Direi di ripartire da “M”.

Probabilmente, ma non con la totale certezza, la sopravvissuta ha incontrato quella bambina italiana nell’ inverno del ’43. E ricorda che era arrivata ad Auschwitz “con un grande convoglio italiano”…
“I treni dei deportati erano tutti “grandi”, avevano minimo 500 persone, ma se dobbiamo focalizzare meglio il momento “il più grande convoglio italiano nel ’43” è uno solo, e non c’è modo di sbagliare: è quello proveniente da Roma, due giorni dopo la razzia nazista nel ghetto di Roma il 16 ottobre del ’43, con dentro 1022 ebrei, la quasi totalità romani: pochi uomini, tante donne, anziani e bambini. Qui però non risulta esserci nessuna bambina di nome Marta, e invece erano 11 le giovanissime con un nome che iniziava con la lettera M: l’età variava dai 3 anni di Mara Sonnino ai 19 di Mirella Astrologo. Marisa Anticoli e Mirella Terracina avevano nove anni, Mirella Di Tivoli 14, Milena Zarfati 15, Marisa Frascati era una undicenne. Marina Mieli ne aveva 6 e Marina Tedeschi 16 anni. Tra tutte solo Milena Zarfati ne uscì viva ed è scomparsa lo scorso anno. Chissa mai se è una di loro…”

E gli altri convogli di ebrei italiani nel ’43?
“Uno arriva da Firenze e da Bologna il 14 novembre, con circa 400 deportati dopo le retate in Toscana, Emilia Romagna e Liguria, e l’altro l’11 dicembre: proviene da Milano, da Verona e si unisce un altro treno da Trieste, in tutto 600 ebrei stipati nei carri-merci. E da Borgo San Dalmazzo, in provincia di Cuneo, arriva i primi di dicembre del ’43 un altro carico di prigionieri, la gran parte di loro sono ebrei di origine francese. Ma non risultano arrivate bambine col nome “Marta” né nel ’43, né nel ’44, con i convogli che cominciarono a giungere dal campo di raccolta di Fossoli fino a fine luglio. E con l’ultimo treno di deportati per Auschwitz che partì da Bolzano nell’ottobre del ’44. Va ricordato però che piccole con nomi italiani potevano provenire dalle deportazioni dalle isole greche e in particolare da Rodi”.

Cosa dice dell’affetto provato dalla donna tedesca per quella bimba “sgattaiolata”?
“E’ da brividi. Abbiamo molte testimonianze di deportate che hanno cercato di proteggere i più deboli, dava forza anche a loro, ma in più qui c’è il fatto che la donna è tedesca, capisce la lingua degli aguzzini, sa bene che quella bambina lasciata sola non ne uscirà viva. Magari è sgattaiolata via dalla rampa della selezione e per puro caso è finita dalla parte dei deportati che lavorano nel campo. Poi la bimba sarà stata portata nella “sauna”, sarà stata tatuata e alla fine riesce ad avere un pò di sollievo, a stare vicino alla sua “protettrice”. Ma era chiaro che, nel momento in cui la donna l’avesse dovuta lasciare – non volutamente, ma perchè ricoverata in infermeria- per lei lì non ci sarebbe stato scampo”.

La sopravvissuta tedesca dice che forse gli italiani non avrebbero compiuto queste atrocità con i bambini, così come hanno fatto i nazisti.
“Non è vero. Forse non l’avrebbero fatto in quella forma organizzata, ma prendere un bambino e darlo in mano a un nazista, così come hanno fatto, e ci sono centinaia di testimonianze, cos’era? Una parte non irrilevante di italiani ha anche cercato di salvare gli ebrei, dunque i rischi che correvano si conoscevano bene. E poi non sono certo immuni da atrocità: in Eritrea, nell’Africa coloniale non dimentichiamoci che gli italiani hanno gasato la popolazione civile”.

Il prossimo anno, nel 2015, ricorrono i 70 anni dell’apertura dei cancelli di Auschwitz. A cosa serve oggi quella Memoria sempre più lontana?
“L’Italia non ha mai fatto i conti su quel passato, continua a aggrapparsi all’idea che il nostro paese fu “vittima” del furore nazista. E invece non è vero: in quei crimini ne fummo alleati consenzienti e collaborativi. Soprattutto sulla questione ebraica. Nel ’46, poi, l’amnistia di Togliatti di fatto sanò tutti i reati legati alla persecuzione razziale. Anno dopo anno, si vanno spegnendo le voci dei testimoni diretti e invece bisogna continuare ad aprire tutti “gli armadi della vergogna”.

Secondo lei qualcuno potrebbe ricordare qualche altro dettaglio su questa storia: un parente, uno che vide, qualcuno che ha dei documenti di allora?
“Noi ogni giorno andiamo a cercare testimonianze. Chi vuole può mettersi in contatto con noi alla mail “info@museodellashoah.it”. Lo scorso anno, grazie alle famiglie che ce le hanno inviate, abbiamo ritrovato foto in cui si vede il volto dei soldati nazisti che parteciparono alla retata del 16 ottobre ’43. Ancora possiamo mostrarle a qualche sopravvissuto alla razzia che potrebbe riconoscerli ma fra pochi anni, di loro, gli ultimi testimoni diretti della Shoah, non ne resterà più nessuno”.

Fonte: La Repubblica

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LA TOP 20 DEI PAESI IN CUI È PIÙ FACILE FARE SOLDI.

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di Michele De Sanctis

Loro ce l’hanno fatta da soli. Sono diventati miliardari partendo da zero. Parliamo dei ‘superimprenditori’, gente che è riuscita a creare imperi economici con le proprie mani. Richard Branson di Virgin, Amancio Ortega di Zara, Dietrich Mateschitz di Red Bull, Guy Laliberté de Cirque du Soleil, fino all’italianissimo Giorgio Armani. Sono questi alcuni esempi di persone che dal nulla hanno realizzato una vera fortuna.

Uno studio condotto dal London-based Centre for Policy Studies e recentemente riportato da BusinessInsider, analizzando le classifiche di Forbes degli uomini più ricchi del mondo dal ’96 ad oggi, identifica mille superimprenditori provenienti da 53 Paesi. Per essere considerato superimprenditore, è necessario aver guadagnato almeno un miliardo di dollari. La ricerca non prende in considerazione quei capitani d’industria che i miliardi e le attività li hanno ereditati. Oggetto, quindi, sono soltanto i veri Paperon de’ Paperoni, perché l’obiettivo è quello di individuare i Paesi che offrono le maggiori opportunità di realizzare il sogno di scalare la vette del business e diventare ‘billionaire’ a tutti gli effetti. In particolare, lo studio evidenzia che la terra promessa è essenzialmente frutto della giusta combinazione di tre fattori: 1) sistema educativo, 2) burocrazia e tasse 3) libertà di mercato.

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Vediamo insieme la classifica:

1. Hong Kong

2. Israele

3. Usa

4. Svizzera

5. Singapore

6. Norvegia

7. Irlanda

8. Taiwan

9. Canada

10. Australia

11. Gran Bretagna

12. Nuova Zelanda

13. Svezia

14. Germania

15. Giappone

16. Spagna

17. Repubblica Ceca

18. Turchia

19. Portogallo

20. Grecia

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Si noti che a Hong Kong e in Israele c’è una maggiore concentrazione di superimprenditori rispetto a qualunque altro Paese, considerando la loro percentuale sul totale della popolazione. Il che fa scendere gli USA dal primo e dal secondo posto, nonostante un numero elevato di paperoni, ma con una % sulla popolazione inferiore, restando, tuttavia, sul podio con la medaglia di bronzo. Nella top five si aggiungono, poi, Svizzera e Singapore.

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L’Italia è fuori dalla top 20. L’eccesso di burocrazia della nostra Pubblica Amministrazione non aiuta certo l’imprenditoria, ma speriamo che la ‘rivoluzione’ promessa dal Governo dia i frutti attesi e che il nostro PIL continui lungo la curva positiva degli ultimi tempi. Sorpresa finale: spuntano alla posizione 20 la Grecia e alla 19 il Portogallo. Fuori dalla classifica anche i nostri cugini d’oltralpe.

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Scajola e il “dopo Diaz” della polizia.

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da MicroMega 9/5/2014

di Lorenzo Guadagnucci, Comitato Verità e Giustizia per Genova

Claudio Scajola e Gianni De Gennaro condividono il poco lodevole primato d’essere stati responsabili del caso di peggiore gestione dell’ordine pubblico che sia avvenuto in Italia, anzi in Europa, negli ultimi decenni. A Genova durante il G8 del 2001 fu ucciso un cittadino (non accadeva dal ’77), furono violati numerosi articoli della Costituzione, del codice penale e di quello civile, migliaia di persone uscirono schioccate da un episodio di repressione di massa inimmaginabile.

Scajola era all’epoca il ministro dell’Interno, De Gennaro il capo della polizia e responsabile operativo dell’ordine pubblico. Nelle torride giornate genovesi rimasero entrambi a Roma: a presidiare il ministero, com’è tradizione, spiegò Scajola, che si fece tuttavia beffare e scavalcare dal collega Gianfranco Fini, all’epoca vice presidente del Consiglio, protagonista di una famosa, irrituale e ancora misteriosa lunghissima sosta nella centrale operativa dei carabinieri a Genova.

Sia Scajola sia De Gennaro riuscirono a mantenere i loro posti nonostante il disastro e l’enorme discredito che colpì il nostro paese sul piano internazionale. Un discredito, quanto ad affidabilità democratica delle forze dell’ordine, tutt’altro che superato, anche per le scelte che furono compiute nell’immediato, quindi sotto la gestione Scajola, che lasciò il ministero un anno dopo il G8 genovese, nel luglio 2002, a causa di una terribile gaffe a proposito di Marco Biagi, il professore ucciso un mese prima dalle Brigate Rosse e da lui definito, davanti ad alcuni giornalisti, un “rompiscatole”. Di fronte allo scandalo di tanta indelicata affermazione, il premier Berlusconi si vide costretto ad escludere Scajola dal governo (salvo ripescarlo qualche anno dopo).

Fu comunque Scajola a gestire l’immediato dopo-Genova, a compiere e legittimare quelle scelte che sono state il preludio per il disastro successivo, con le clamorose condanne di altissimi dirigenti nel processo Diaz e quelle di decine di agenti e funzionati per le torture nella caserma-carcere di Bolzaneto. Condanne giunte al termine di un durissimo contrasto fra i magistrati inquirenti da un lato, e la polizia di stato e il ministero dell’Interno dall’altro.

Fu sotto la gestione Scajola che prese forma questa velenosa e pericolosa contrapposizione. Gianni De Gennaro fu mantenuto al suo posto e si decise di non ammettere pubblicamente le responsabilità dei vertici di polizia nelle innumerevoli violazioni dei diritti umani compiute in particolare alla Diaz e a Bolzaneto. I funzionari finiti sotto inchiesta furono mantenuti al loro posto e ci si limitò a trasferire ad altri ruoli il debole questore di Genova Francesco Colucci (condannato poi in primo e secondo grado per falsa testimonianza nel processo Diaz), il potente ma isolato Arnaldo La Barbera (scomparso nel settembre 2002) e Ansoino Andreassi, il vice capo della polizia che si oppose invano alla perquisizione alla Diaz e che sarebbe stato in seguito l’unico alto dirigente a testimoniare in tribunale.

Gianni De Gennaro e il ministro Scajola, in quelle giornate in cui era in gioco la credibilità democratica del nostro paese, scelsero di ignorare i suggerimenti contenuti nel rapporto stilato a caldo da Pippo Micalizio, il dirigente spedito a Genova dal capo della polizia per una prima indagine interna sull’operazione Diaz, il caso che aveva esposto l’Italia a un moto di indignazione internazionale. Il rapporto Micalizio consigliava la sospensione degli alti dirigenti impegnati nell’operazione (i vari Gratteri, Caldarozzi, Luperi, lo stesso La Barbera); la destituzione di Vincenzo Canterini, capo del reparto mobile che per primo entrò nella scuola; l’introduzione di codici di riconoscimento sulle divise degli agenti.

Il rapporto restò chiuso in un cassetto, ma la storia ha dimostrato che Micalizio si comportò con lealtà e obiettività, fornendo buoni consigli: i dirigenti dei quali consigliava la sospensione sono stati processati e condannati in via definitiva e sono attualmente agli arresti domiciliari; la necessità dei codici di riconoscimento, resa evidente dal fatto che tutti i picchiatori della scuola Diaz sono sfuggiti sia alla legge sia a eventuali provvedimenti disciplinari, ha trovato negli anni successivi numerose conferme.

Il ministro Scajola porta dunque la responsabilità politica del corso preso dal “dopo Diaz” della polizia: una strada che ha gettato ulteriore discredito sulla polizia di stato e sulle istituzioni. E dire che il suo mentore Silvio Berlusconi lo aveva salvato, prima del caso Biagi, dagli effetti di un’altra clamorosa gaffe. Nel febbraio 2012, conversando con i giornalisti durante un viaggio in aereo, Scajola era tornato a parlare delle vicende del G8, rivelando di aver dato l’ordine di sparare se sabato 21 luglio, durante la manifestazione conclusiva del Genoa Social Forum, fosse stata violata la zona rossa. Disse testualmente:

“Durante il G8, la notte del morto, fui costretto a dare ordine di sparare se avessero sfondato la zona rossa”. Era un’affermazione sconcertante e quasi eversiva, specie se si considera che durante le giornate di Genova furono sparati almeno una decina di colpi di pistola, oltre a quelli che costarono la vita a Carlo Giuliani. Un ministro, in un ordinamento democratico, non può ordinare agli agenti di sparare, poiché l’uso legittimo delle armi è disciplinato dalla legge e non dai capricci e o dai desideri di un membro del governo. Scajola, in quel febbraio 2002, diceva il vero, cioè diede davvero quell’indicazione, o la sua affermazione fu una smargiassata frutto di un’incredibile superficialità? Nessuna delle due ipotesi gli è favorevole. Ma ci sarebbe voluto il caso Biagi quattro mesi dopo per allontanarlo, finalmente, dal Viminale.

Fonte: MicroMega

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Le ragioni della nostra battaglia.

da Il Manifesto del 10/5/2014

Alcuni brani dall’introduzione di Luciana Castellina a “Famiglia e società capitalistica” (Il Manifesto, Quaderno n.1, Alfani Editore, 1974).

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Alla battaglia per il referendum arriviamo stretti da tempi ridottissimi e in una situazione politica che tende a tal punto a precipitare in degenerazione istituzionale da sommergere il problema spec- ifico — quello dell’abrogazione del divorzio — entro una problematica enormemente più vasta, quella che risulta da una crisi economica profonda e da una acutizzazione dello scontro sociale in assenza di uno schieramento di opposizione già in grado di offrire un’alternativa compiuta. Ma sarebbe un errore ritenere che di fronte a questa situazione sia necessario eludere la battaglia sul problema che il divorzio propone, quasi essa rappresentasse una dannosa distrazione rispetto alle urgenze della lotta di classe. Proprio la diserzione della sinistra da questo terreno di confronto, oltre a farla oggi trovare «scoperta» rispetto all’attacco reazionario, ha contribuito a mantenere praticamente intatto un sistema di valori, di consuetudini, di strutture sociali, che costituiscono una radicata remota con- servatrice, che pesa inevitabilmente sulla dinamica del processo rivoluzionario. E’ un dato, questo, che se la pigrizia non prevalesse nell’analisi di come in concreto si sviluppa lo scontro di classe, fino a farci semplificare i protagonisti del conflitto entro lo schema di un proletario e di un capitale asso- lutamente astratti, sarebbe naturale riconoscere. E che invece tendiamo a non riconoscere, con la conseguenza di un pericoloso restringimento della nostra azione d’intervento.
Proprio l’ampiezza della crisi, di sistema e non congiunturale, in cui ci troviamo ad operare, dovrebbe farci rendere conto — se siamo convinti che dalla degenerazione del capitalismo non nasce automaticamente il comunismo, ma può derivarne anche caos e regresso per un lungo periodo sto- rico — di quanto vitale sia per la sinistra rivoluzionaria incidere sull’insieme dei rapporti sociali di produzione per avviare, nel corso stesso della crisi, la costruzione di un movimento di lotta capace di affrontare in positivo lo scontro che una drammatica frase di transizione ci prepara. E quando si dice insieme dei rapporti sociali di produzione non si può non intendere che quello specifico rapporto sociale che si esprime nella famiglia ne è parte certamente non secondaria.
Del resto, come non vedere quale riflesso moderato e conservatore hanno le paure prodotte dagli sconvolgimenti sociali che incidono anche sull’assetto familiare, sui modi in cui si organizzano i rap- porti umani, ove la sinistra non sia in grado, come non è stata finora, di proporre anche su questo terreno un’alternativa rivoluzionaria? Impedire il 1984, per usare la metafora di Gunder Frank
e Samir Amin, vuol dire, anche, combattere sul fronte, certo più difficilmente definibile, della ristrut- turazione che il capitalismo tenta al più generale livello dell’organizzazione sociale dell’ideologia;
e sarebbe puerile pensare di preparare la rivoluzione lasciando intatta una crosta ideologica che non è stata praticamente scalfita.
Se è vero, come ha detto Marx, che dal rapporto uomo-donna si misura il livello raggiunto da una civiltà, vuol dire che attorno a tale rapporto si annodano tutti gli altri e che è impossibile pensare di estromettere proprio questo epicentro dalla lotta rivoluzionaria, non vedere come esso di connette
e interseca con gli altri, non misurarvisi. Giudicare questa tematica di per sé interclassista, vuol dire negare in radice la capacità della classe operaia di affermarsi come classe egemone, cioè portatrice di una superiore e universale concezione del mondo. Qualcosa di simile, ma ancora più grave, di quel marxismo volgare e impoverito che alcuni decenni fa negava rilevanza di classe alle lotte di liber- azione nazionale.
Né vale a dire, che una battaglia specifica su questo terreno non ha senso, in quanto proprio perché l’assetto della famiglia dipende dal capitalismo, basta impegnarsi a scalzarne le fondamenta attra- verso la lotta economica di classe. L’esperienza della mancata rivoluzione in occidente e quella delle rivoluzioni che si sono fatte, dimostra quanto sia difficile, anzi impossibile, superare i rapporti capit- alistici di produzione solo movendo da una modifica della forma della proprietà o utilizzando la pian- ificazione dell’economia; come cioè sia parte integrante del superamento dei rapporti di produzione capitalisti la critica globale e positiva di tutte le dimensioni e gli aspetti dell’organizzazione della vita sociale.
Se è vero che non si può cambiare la famiglia senza cambiare la società è altrettanto illusorio pen- sare di potere cambiare la società senza aggredire alla loro radice tutti i nodi che si intrecciano nell’istituto familiare.
Alla lunga, lo sappiamo, è la trasformazione sociale quella che conta, e non uno spostamento di equi- libri puramente politici, sempre precario dove non affondi una reale modificazione dei rapporti di forza. Per questo non condivido prudenze e tatticismi, ma ritengo che alla battaglia del referendum dobbiamo andare a viso aperto, portandovi tutta la ricchezza della proposta comunista, consapevoli che in questi mesi non potremo fare molto, ma se non altro gettare dei semi, aprire interrogativi, far maturare contraddizioni, imporre una riflessione collettiva su una tematica su cui è il nostro avvers- ario a volere mantenere il silenzio (…)

La concorrenza a chi meglio difende le meschine virtù della famiglia-tana

Ma c’è anche un altro ordine di rischi in cui affrontando la battaglia del divorzio in modo riduttivo e minimizzante si incorre, col pericolo di una sconfitta nel referendum. Il divorzio, è vero, di per sé non incrina la saldezza della famiglia, si limita a ratificare le separazioni di fatto che già esistono
a migliaia, casomai a tutelare giuridicamente chi è rimasto colpito dalle loro conseguenze. Ma per quanto il fronte divorzista ripeterà questa verità — lo vediamo già ora nella diffidenza diffusa che troviamo fra gli stessi elettori di sinistra — non sarà facile imporla contro le mistificatorie denunce dell’avversario(…).
Da cosa nasce, infatti, questa diffidenza? Dal fatto che la famiglia viene oggi avvertita, paradoss- almente assai più che in passato, come una zattera assolutamente necessaria alla sopravvivenza e a mitigare il terrore di una accentuata solitudine. Il capitalismo nel suo procedere, proprio mentre tende a socializzare la produzione, tende nel contempo disgregare ogni comunità sociale e a creare una società atomizzata dove l’individuo si sente sempre più isolato rispetto ai suoi simili (…)
Proprio per impedire che questa atomizzazione proceda fino alle sue estreme conseguenze, per impedire che si giunga alla disgregazione sociale e dunque a una sorta di anarchia che minerebbe il sistema stesso che l’ha generata, lo stato borghese ha bisogno, ai fini della sua stessa conservazione, di ricostituire un minimo di valori comunitari che forniscono isole di aggregazione e con ciò un ter- reno per perpetuare l’ordine stesso. E’ per questo che il capitalismo, mentre per effetto delle sue stesse leggi di sviluppo disgrega l’antica compagine familiare svuotandola di gran parte di quelle funzioni produttive che ne costituivano la ragion d’essere, e immettendo le donne nella produzione, sente nel contempo il bisogno di ricostituirla, esaltandone un ruolo mistificato. Di fronte alla giungla della società, essa si presenta come il solo possibile rifugio contro la società nemica, la sola zona franca per la legge dell’uomo contro quella della merce, fino a divenire grumo struggente di nostal- gia, spezzone di memoria di un mondo in cui le cose avevano ancora un valore d’uso, affondato nell’oceano della competizione e del profitto. La sola isola, in definitiva, di solidarietà.
Ma — e qui sta la contraddizione insuperabile entro cui il sistema si dibatte — questo tentativo di recupero rimane totalmente astratto e riesce in qualche modo a compiersi solo su basi negative, gra- zie alla esasperata contrapposizione fra collettività e famiglia, intesa questa come tana, come rifugio, un sistema di fortezze chiuse dove la solidarietà dei consanguinei è l’altra faccia dell’egoismo bru- tale verso l’esterno, del ripiegamento sul proprio angusto particolare. L’educazione dei figli diventa in questo quadro l’allevamento dei cuccioli di belva da addestrare alla sfida della giungla (vera radice, questa sì, della corruzione) e il risarcimento delle frustrazioni degli adulti che su di loro scar- icano, distorcendo le potenzialità umane dei bambini, i rancori accumulati.

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Il tessuto morale della convivenza diventa solo quello gretto dell’egoismo di gruppo, la donna viene indotta ad una castrazione sociale, ad una regressione verso l’animalità che le consenta di rappres- entare nella commedia il ruolo di mediatrice fra progresso e natura, la compensazione dalle tensioni indotte dal mondo industrializzato. Tanto più è estranea alla vita sociale tanto più può sembrare che essa conservi un rapporto con la natura che i cittadini del capitalismo hanno perduto (tutta l’erotologia, peraltro, collabora validamente a questo fine). In lei si fa rivivere il mito del «buon sel- vaggio felice» che, improponibile al maschio addetto ai moderni mezzi di produzione si affida alla donna, nel tentavo di fare ritrovare all’uomo una innaturale naturalità fuori dalla storia. Stuoli di pediatri, psicologi, psicanalisti sono ingaggiati a questo fine, col risultato non solo di perpetuare la subordinazione della donna, ma di distorcere il significato umano dei rapporti, di impoverirne la ricchezza.(…)

© 2014 IL NUOVO MANIFESTO SOCIETÀ COOP. EDITRICE

Fonte: Il Manifesto

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