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La natura italiana dell’impresa non rende italiano il prodotto realizzato altrove: così il Tar Campania boccia la delocalizzazione delle imprese.

di Michele De Sanctis

A causa della crisi, di una certa stasi del mercato interno e della poca attrattività rispetto ai competitor stranieri – specie quelli al di fuori dell’Eurozona – oltreché per un eccessivo costo del lavoro a fronte di una pesante pressione fiscale, sono stati molti gli imprenditori italiani che negli ultimi tempi hanno tentato di far fronte alla congiuntura economica delocalizzando la propria azienda. Per delocalizzazione si intende il trasferimento della produzione di beni e servizi in altri Paesi, solitamente in via di sviluppo o in transizione. In senso stretto, ci si riferisce ad uno spostamento della produzione da imprese poste sul territorio di un determinato Paese ad altre localizzate all’estero. La produzione ottenuta in seguito a questo spostamento dell’attività non è venduta direttamente sul mercato, ma viene acquisita dall’impresa che opera nel Paese di origine per essere poi venduta sotto il proprio marchio. Dal punto di vista economico e sociale, questa pratica è stata – ed è tuttora – oggetto di un aspro dibattito tra chi la considera un importante strumento competitivo e chi, invece, ne evidenzia gli aspetti critici. Il timore principale di alcuni analisti è, infatti, che la delocalizzazione possa impoverire l’economia nazionale, con perdita di posti di lavoro e valore aggiunto. Sotto un profilo sociale, va, poi, considerato che l’effetto immediato della delocalizzazione di un’azienda è il dramma della disoccupazione per chi viene licenziato e dell’inoccupazione per chi nel mercato del lavoro, in assenza di siti produttivi, proprio non riesce ad entrarci.

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Da un punto di vista giuridico, rilevano diversi aspetti di notevole impatto non solo sul diritto privato e commerciale, ma con talune ripercussioni anche in riferimento al diritto pubblico e amministrativo. Si tratta di aspetti per lo più legati alla libera circolazione delle merci e alla regolazione dei mercati e della concorrenza, la cui disciplina è fortemente influenzata dal diritto comunitario. Proprio in relazione al tema della concorrenza tra imprese europee e delocalizzate, si è pronunciato di recente il Tar Campania, con la sentenza n. 4695/2014 (depositata in data 3 settembre 2014).

Questi i fatti: un’impresa italiana, delocalizzata in Cina, aveva risposto a un bando di gara avente ad oggetto “l’affidamento della fornitura di materiale acquedottistico”. L’azienda in questione, che in un primo momento risultava aggiudicatrice della gara, veniva successivamente esclusa. In seguito all’intervenuta revoca dell’aggiudicazione, ricorreva dinanzi al G.A., impugnando gli atti presupposti e consequenziali della procedura d’appalto. Da questi si evinceva che l’esclusione della ricorrente era stata disposta in virtù della dichiarazione di produrre la totalità dei materiali oggetto dell’appalto nella Repubblica Popolare Cinese, senza, peraltro, indicare né la sede di produzione né alcun sito produttivo all’interno della Comunità Europea. La norma che rileva in tale circostanza è l’art. 234, co. 2, d.lgs. 163/2006, che prescrive un limite in capo ai concorrenti provenienti da Paesi cd. terzi: parte dei prodotti originari di questi operatori non deve, infatti, superare il 50% del valore totale dei prodotti che compongono l’offerta di gara.

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Nel rigettare il ricorso, il Tar ha evidenziato come l’art. 234 del Codice degli Appalti definisca in via prioritaria il concetto di Paese terzo, quale Paese estraneo alla Comunità Europea, con cui gli Stati membri non abbiano concluso convenzioni e accordi, multilaterali o bilaterali, tali che assicurino un accesso comparabile ed effettivo delle imprese della Comunità alle gare indette da questi Paesi. La ‘ratio’ di questa previsione (che pone una disciplina speciale, circoscritta ai soli appalti di forniture), risiede nell’esigenza di garantire che l’apertura del mercato degli appalti comunitari a tali Paesi terzi avvenga nel rispetto della condizione di reciprocità, utilizzando quest’ultima come mezzo di discrimine ai fini dell’accesso al mercato unico europeo da parte di operatori esterni all’UE. L’obiettivo è quello di garantire a tutti gli operatori economici un trattamento uniforme: l’ingresso di nuovi soggetti alle commesse pubbliche viene, pertanto contemperato con l’esigenza di assicurare le condizioni minime di tutela della ‘par condicio’ per le imprese comunitarie che partecipano alle procedure di gara. Ciò spiega l’introduzione, su impulso comunitario, di una disciplina speciale che si fonda sulla stipulazione o meno tra CE e i suddetti Paesi terzi, di accordi che garantiscano un accesso comparabile ed effettivo delle imprese comunitarie agli appalti indetti anche in tali Paesi.

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A nulla è servita la tesi difensiva della ricorrente, secondo cui la Repubblica Popolare Cinese avrebbe in passato sottoscritto con l’UE determinati accordi internazionali. Il G.A., di contro, rilevava che tali accordi sono carenti del requisito della reciprocità richiesto dalla norma “Non risulta, infatti, che tale Repubblica abbia concluso un altro accordo internazionale che possa garantire agli operatori economici della CE un effettivo accesso al settore degli appalti di quel Paese con piena reciprocità e dignità giuridica”. Il Tar ha, quindi, affermato che solo con l’adesione al GPA – General Procurement Agreement (accordo pluriennale sugli appalti pubblici siglato nell’ambito dell’OMC) è consentita l’apertura del proprio mercato degli appalti pubblici con piena reciprocità e dignità giuridica nei confronti delle imprese UE, come previsto dall’art. 234 del Codice degli Appalti (cfr. T.A.R. Lazio, sez. I, 2.07.2007, n. 5896).

Nella stessa pronuncia, oltreché chiarire la definizione di Paese terzo, rilevante sotto il profilo soggettivo, il Tribunale Amministrativo campano, si è poi concentrato sul profilo oggettivo dei prodotti. Fondamentale, infatti, è valutare l’origine delle produzioni che compongono l’offerta. L’accertamento in parola si basa sul Codice Doganale (Regolamento CEE n. 2913/92 del 12 ottobre 1992), il quale, all’art. 23, stabilisce che “sono originarie di un Paese le merci interamente ottenute in tale Paese” e, ancora, all’art. 24, dispone che “una merce alla cui produzione hanno contribuito due o più Paesi è originaria del Paese in cui è avvenuta l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, economicamente giustificata ed effettuata in un’impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo od abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione”.

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Il G.A. ha, infine, affermato che con l’art. 234 d.lgs 163/2006 ss.mm.ii (che, peraltro, recepisce il contenuto delle Direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), il Legislatore ha istituito un sistema di preferenza comunitario basato non tanto sulla nazionalità degli offerenti, determinata dal luogo in cui è ubicata la sede legale e amministrativa (nel caso di specie, italiana ma con delocalizzazione integrale della produzione), quanto piuttosto sull’origine dei prodotti. Pertanto, al fine di determinare il campo di applicazione della norma, ciò che rileva è il luogo di produzione del bene e, di conseguenza, la sede dello stabilimento in cui esso viene realizzato, che, di per sé, può non coincidere con il luogo in cui è ubicata la sede legale o amministrativa dell’impresa (cfr. Tar Campania, Napoli, sez. IV, 27.03.2014, n. 1848/2014; Tar Friuli Venezia Giulia, Trieste, sez. I, 15.02.2010, n. 131).

Al di là del caso in esame, si evidenzia che l’art. 234 del Codice degli Appalti non solo prevede al comma 2 la possibilità per le stazioni appaltanti di respingere un’offerta contenente, per oltre la metà del proprio valore, prodotti originari di Paesi terzi. La norma prevede, altresì, un vero e proprio obbligo di operare in tal senso, quando, come disposto dal successivo comma 3, la differenza di prezzo tra un’offerta con le caratteristiche sopra descritte e una che non le presenti sia inferiore al 3%. Tali criteri vengono, peraltro, ribaditi anche dall’AVCP (ora confluita nell’ANAC) nel ‘Libro verde sulla modernizzazione della politica dell’UE in materia di appalti pubblici’, nella sezione dedicata all’accesso dei Paesi terzi al mercato UE.

In definitiva, la natura italiana dell’impresa non rende italiano il prodotto realizzato altrove, anche se la produzione viene effettuata in proprio da soggetto italiano, essendo necessario scindere il profilo soggettivo del produttore da quello oggettivo dell’origine del prodotto, cui fa riferimento l’art. 234 del d.lgs. 163/2006.

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AMMORTIZZATORI SOCIALI: ECCO I NUOVI CRITERI DI CONCESSIONE.

Con Circolare n. 19 dello scorso 11 settembre 2014, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha chiarito quali siano i nuovi criteri di concessione degli ammortizzatori sociali in deroga.

di Michele De Sanctis

Emanata a firma del neo Direttore Generale della Direzione Ammortizzatori Sociali, Ugo Menziani, la Circ. 19/2014 fornisce delucidazioni sul contenuto del Decreto Interministeriale n. 83473 datato 01/08/2014, inerente ai criteri di concessione degli ammortizzatori sociali in deroga alla normativa vigente: fattispecie contemplate, termini di presentazione delle istanze, causali di concessione, limiti di durata, tipologie di datori di lavoro e lavoratori beneficiari.

Tra le principali novità previste dal Legislatore, si chiarisce che la diversa durata dei trattamenti (che, per tutte le imprese aventi diritto, si riducono dagli 11 mesi del 2014 ai 5 mesi previsti per il 2015) potrà ritenersi applicabile solo in seguito alla stipula di accordi successivi alla data di pubblicazione del Decreto in questione, vale a dire dopo il 04/08/2014.

Si tratta, comunque, di disposizioni che – lo ricordiamo – resteranno in vigore solo fino alla fine del 2016, quando interverrà la relativa abrogazione ad opera della riforma Fornero.

La circolare chiarisce anche l’obbligo, posto a carico dell’INPS dall’art 5 del Decreto Interministeriale in parola, relativo al “monitoraggio” mensile che dovrà essere effettuato sulle domande presentate, le prestazioni corrisposte e i flussi finanziari correnti e prevedibili (il cd. tiraggio). In particolare, la nota ministeriale specifica che i dati raccolti dall’Istituto saranno contestualmente comunicati al Ministero del Lavoro – Direzione Generale Ammortizzatori Sociali e alla Direzione Generale Tutela Condizioni di Lavoro – e al MEF, oltreché alla Regione o Provincia Autonoma interessate, limitatamente alle prestazioni riconosciute per il tramite delle stesse.

Quanto al campo di applicazione, la circolare in argomento ribadisce che gli ammortizzatori in deroga riguardano solo le imprese di cui all’articolo 2082 c.c.; restano, quindi, esclusi gli studi professionali e, di fatto, tutti gli altri datori di lavoro non esercenti attività di impresa. Tuttavia, rientrano nel novero dei destinatari i “piccoli imprenditori”, quali gli artigiani, i piccoli commercianti ed i coltivatori diretti.

I lavoratori beneficiari sono, peraltro, quei lavoratori subordinati, operai, impiegati, quadri, apprendisti, lavoratori somministrati, che siano in possesso di un’anzianità lavorativa di almeno 12 mesi, svolta presso l’impresa richiedente il trattamento. Risultano, dunque, esclusi, dall’intervento in deroga, i lavoratori per i quali sussistono i requisiti per accedere alle diverse prestazioni, di analoga finalità, previste dalla normativa vigente: trattamenti di mobilità ordinaria, indennità Aspi e miniAspi, indennità di disoccupazione agricola, Cig ordinaria e Fondi di Solidarietà.

CLICCA QUI PER VISUALIZZARE LA CIRC. 19/2014

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P.A.: IL MINISTRO MADIA FIRMA LA CIRCOLARE SUL DIMEZZAMENTO DI DISTACCHI E PERMESSI SINDACALI. Circolare Ministero Semplificazione 20/08/2014 n. 5

È il 1° settembre la data fissata per la riduzione al 50% delle prerogative sindacali nelle Pubbliche Amministrazioni, tra cui si annoveno anche permessi e distacchi. Il 20 agosto, infatti, il ministro Madia ha firmato la circolare n. 5, con cui viene regolata la disciplina recata dal decreto legge di riforma n. 90/2014 (convertito definitivamente in legge lo scorso 7 agosto).

di Michele De Sanctis

Colpirà oltre un migliaio di lavoratori, almeno secondo la stima delle principali sigle, il dimezzamento dei distacchi sindacali, istituto con cui viene riconosciuto al dipendente pubblico il diritto di svolgere, a tempo pieno o parziale, attività sindacale, con la conseguente sospensione dell’attività lavorativa, ma con retribuzione a carico dell’Amministrazione di appartenenza. È per questo che la riduzione in parola, si legge sul sito del Ministero per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione, «è finalizzata alla razionalizzazione e alla riduzione della spesa pubblica». La Corte dei Conti ha, infatti, stimato che, solo nel 2012, i costi delle prerogative sindacali ammontavano a circa 110 milioni di euro: in pratica il corrispettivo della mancata prestazione lavorativa di un dipendente pubblico ogni 750.

La circolare n. 5, firmata due giorni dopo la pubblicazione in GURI della conversione in legge del DL 90 (18 agosto) e a un giorno dall’entrata in vigore del provvedimento (19 agosto) prevede, dunque, che entro il 31 agosto «tutte le associazioni sindacali rappresentative dovranno comunicare alle Amministrazioni competenti la revoca dei distacchi sindacali non più spettanti». E il rientro nelle Amministrazioni dei dirigenti sindacali, oggetto dell’atto di revoca avverrà – come viene specificato nella circolare – nel rispetto del contratto collettivo nazionale quadro sulle prerogative sindacali, oltreché delle altre disposizioni di tutela dei lavoratori.
In particolare, tra le garanzie che la circolare riconosce al dipendente che riprende servizio al termine del distacco o dell’aspettativa sindacale c’è la domanda di trasferimento, con precedenza rispetto agli altri richiedenti, in altra sede della propria Amministrazione, quando si dimostri di aver svolto attività sindacale e di aver avuto il domicilio nell’ultimo anno nella sede richiesta, ovvero in altra Amministrazione – anche di diverso comparto – ma della stessa sede. Inoltre, si chiarisce che il lavoratore «è ricollocato nel sistema classificatorio del personale vigente presso l’Amministrazione, ovvero nella qualifica dirigenziale di provenienza, fatte salve le anzianità maturate, e conserva, ove più favorevole, il trattamento economico in godimento all’atto del trasferimento mediante attribuzione ‘ad personam’ della differenza con il trattamento economico previsto per la qualifica del nuovo ruolo di appartenenza, fino al riassorbimento a seguito dei futuri miglioramenti economici». La circolare evidenzia altresì come chi rientra non possa venire discriminato per l’attività in precedenza svolta quale dirigente sindacale né possa essere assegnato ad attività che facciano sorgere conflitti di interesse con la stessa».

La circolare in esame, oltre a dettare, punto per punto, l’applicazione delle misure contenute nell’articolo 7 del decreto, pone anche una serie di eccezioni. Limitatamente ai distacchi, ad esempio, «la decurtazione del 50 per cento non trova comunque applicazione qualora l’associazione sindacale sia titolare di un solo distacco». Altra precisazione riguarda «le Forze di polizia ad ordinamento civile e il Corpo nazionale dei vigili del fuoco (personale non direttivo e non dirigente e personale direttivo e dirigente)». In tali casi «in sostituzione della riduzione del 50% si prevede che alle riunioni sindacali indette dall’Amministrazione possa partecipare un solo rappresentante per associazione sindacale».
Si prevede, inoltre, la possibilità di procedere a compensazione in caso di eccedenze. Ciò significa che nel caso in cui «le associazioni sindacali abbiano comunque utilizzato prerogative sindacali in misura superiore a quelle loro spettanti nell’anno si provvederà secondo le ordinarie previsioni contrattuali e negoziali». Di conseguenza, «ove le medesime organizzazioni non restituiscano il corrispettivo economico delle ore fruite e non spettanti, l’Amministrazione compenserà l’eccedenza nell’anno successivo, detraendo dal relativo monte-ore di spettanza delle singole associazioni sindacali il numero di ore risultate eccedenti nell’anno precedente fino al completo recupero».

Si attendono adesso le prossime istruzioni operative relativamente agli altri interventi contenuti nel Decreto PA, che, lo ricordiamo, è già legge. Tra questi i più rilevanti riguardano la cd. pensionabilità dei manager al 62esimo anno d’età, in anticipo rispetto ai parametri della legge Fornero, il taglio dei compensi per gli amministratori delle società partecipate (-20%), la mobilità obbligatoria di tutti i lavoratori, salvo quelli con tre figli o parenti disabili a carico ed una maggiore flessibilità nella realizzazione del turnover. Nel decreto spicca, poi, l’abrogazione dal 1° novembre dell’istituto del trattenimento in servizio, che ora permette ai dipendenti pubblici di continuare a lavorare per altri 2 anni dopo il conseguimento dei requisiti per poter andare in pensione.

La novità più attesa, tuttavia, riguarda il diritto degli appalti pubblici, ossia quella branca del diritto amministrativo che interessa l’attività di acquisizione di beni e servizi da parte delle Pubbliche Amministrazioni. Sarebbe, infatti, pronto e dovrebbe essere pubblicato nelle prossime settimane un decreto ministeriale che individuerà le caratteristiche essenziali e i prezzi benchmark dei beni acquisiti dalle Amministrazioni Pubbliche, come previsto dal Decreto Irpef. Stretta su acquisti PA in arrivo, quindi: una volta pubblicate le caratteristiche dei beni acquistabili – e i relativi prezzi benchmark – potranno, infatti, partire i relativi controlli sull’attività di approvvigionamento del settore pubblico. Ma di questo vi daremo notizia, non appena il decreto in questione sarà disponibile.

CLICCA QUI per scaricare la Circolare n. 5/2014 inerente alla riduzione delle prerogative sindacali nelle PP.AA., ai sensi dell’art. 7, D.L. 90/2014, convertito nella Legge 114/2014

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LA RACCOMANDAZIONE NON È SEMPRE REATO: LO DICE LA CASSAZIONE.

Con questo post esamineremo una recente sentenza con cui la Cassazione ha escluso la rilevanza sotto il profilo penale di uno specifico caso di raccomandazione. Tuttavia, prima di procedere, è necessario premettere che quello della Cassazione è un giudizio di legittimità: i giudici di piazza Cavour, cioè, non possono entrare nel merito del contenzioso, il loro non è un terzo grado di giudizio. Per cui né la Corte ha inteso fornire una giustificazione a certe pratiche clientelari né io con questo post intendo promuoverne l’esistenza.
Personalmente, anzi, sulla base delle mie esperienze concorsuali, considero il raccomandato un ladro della peggior specie, che ogni mese non solo ruba denaro pubblico non meritato, ma che, soprattutto, sottrae indebitamente la vita a chi, invece, ne avrebbe avuto diritto, se solo questo fosse stato un Paese onesto.

di Michele De Sanctis

Con Sentenza n. 32035 ud. 16/05/2014 – deposito del 21/07/2014, la Quinta sezione della Suprema Corte di Cassazione ha affermato che non ricorre alcun abuso d’ufficio ex art. 323 c.p. di un pubblico ufficiale in concorso con altri coimputati, in quanto per il concorso morale nel reato di abuso d’ufficio non basta la mera ‘raccomandazione’ o ‘segnalazione’, ma occorrono ulteriori comportamenti positivi o coattivi che abbiano un’efficacia determinante sulla condotta del soggetto qualificato. In particolare, poi, la raccomandazione, benché effettuata da un pubblico ufficiale o da un parlamentare, non integra il reato di abuso d’ufficio qualora avvenga al di fuori delle proprie funzioni.

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Nel caso di specie, ricorrente era un Comandante di una Stazione dei Carabinieri di un Comune in cui era stato bandito un concorso per il quale aveva raccomandato ad un assessore comunale la figlia perché venisse
‘utilmente’ collocata nella graduatoria finale di merito. In favore del Comandante era, però, sopraggiunta pronuncia di non doversi procedere per intervenuta prescrizione. Tuttavia è stato proprio avverso tale pronuncia che l’Ufficiale ha proposto il ricorso, che la Cassazione ha ora accolto, in quanto, si legge in motivazione, “in presenza di una causa estintiva del reato, il proscioglimento nel merito deve essere privilegiato quando dagli atti risulti, come nel caso in esame, la prova positiva dell’innocenza dell’imputato”. I giudici del Palazzaccio, hanno, quindi, ritenuto ininfluenti le intercettazioni telefoniche che dapprima avevano inchiodato il Comandante, inquisito nell’ambito delle medesime indagini che avevano visti coinvolti e successivamente imputati per abuso d’ufficio e falsità in atti il Presidente, i Componenti della commissione, il segretario del concorso ‘incriminato’ e l’assessore comunale.
Il punto della sentenza, infatti, è questo: la mera raccomandazione lascia, comunque, libero il soggetto attivo di aderire o meno alla segnalazione, secondo il suo libero convincimento e per tale motivo non ha efficacia causativa sul comportamento del soggetto attivo.

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La formula assolutoria deve, pertanto, prevalere sulla declaratoria di estinzione del reato per prescrizione anche nel caso in cui si volesse prendere in considerazione, sotto il profilo soggettivo, la raccomandazione effettuata dall’imputato in qualità di Comandante della Stazione dei Carabinieri del Comune in cui il concorso era stato bandito.
Infatti, ache in tal caso, per la Corte, il delitto di abuso d’ufficio sarebbe insussistente perché, come, peraltro, già chiarito dalla Suprema Corte di Cassazione a proposito di raccomandazioni provenienti da un parlamentare (sent. del 09/01/2013, n. 5895) l’abuso ex art. 323 c.p. “deve realizzarsi attraverso l’esercizio del potere per scopi diversi da quelli imposti dalla natura della funzione attribuita”. Dunque, in carenza dell’esercizio del potere (come nella fattispecie in esame, nella quale la richiesta di raccomandazione esula dalle funzioni tipiche connesse al ruolo di graduato dell’Arma dei Carabinieri, rivestito dall’imputato) non è possibile inquadrare la segnalazione di un candidato nel reato di abuso d’ufficio.

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Il reato, in verità, oggi potrebbe esserci, ma all’epoca dei fatti il nostro Codice Penale non lo contemplava. E siccome non c’è reato senza una norma sanzionatoria, comandante e parlamentare devono oggi essere assolti con formula piena. La Cassazione, infatti, non può far altro che decidere sulla base delle norme vigenti a quel tempo, per il principio di non retroattività della legge penale. E perché – lo si è già detto – il suo è un giudizio di legittimità. Il reato in questione si chiama ‘traffico di influenze illecite’. Una figura introdotta nel nostro ordinamento soltanto due anni fa, durante il Governo Monti, dall’art. 1, comma 75, L. 06/11/2012, n. 190 (cd. Legge Anticorruzione) con decorrenza dal 28/11/2012 ed attualmente contenuta dall’art. 346 bis c.p.

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Quindi, parafrasando, fino al 2012 l’Italia era quel Paese dei balocchi, in cui non ci sarebbe stato reato se il comandante della stazione dei carabinieri X avesse chiesto l’assunzione di sua figlia nel comune dell’assessore Y. E lo stesso valeva per Tizio, parlamentare della Repubblica Italiana che tanto caldeggiava la causa di Sempronio, amico degli amici. Sempreché l’azione fosse avvenuta al di fuori delle funzioni esercitate dai signori sponsor. In fondo cosa c’era di male – direbbero loro? Ho solo segnalato un giovane bravo e preparato, sul cui livello di preparazione, tuttavia, noialtri esclusi dovremmo ‘fare a fidarci’ visto che manca del tutto una valutazione oggettiva. In fondo chi è che è rimasto danneggiato? Solo una manciata di aspiranti a quel posto comunale, che, ormai, saranno riusciti a farsene una ragione e avranno continuato a tentare in altri Enti, magari confidando ancora nella correttezza delle istituzioni, e – chissà – fiduciosi di poter riuscire a lavorare un giorno in quel comune avranno forse accettato posti lontano da casa e ancora pazientano per potervi ritornare. O, peggio, una parte di quegli esclusi (che non credo sia riuscita a farsene davvero una ragione) ancora attende un lavoro onesto e meritato. Fiduciosi, tutti quanti, a ogni selezione. Anche se è davvero difficile non perdere questa fiducia, concorso dopo concorso, ingiustizia dopo ingiustizia. Nonostante la Legge Anticorruzione, resta infatti il dubbio che fatta una nuova legge, il leguleio di turno ne abbia già trovato l’inganno. Perché, in fondo, questa è l’Italia.

Clicca QUI per leggere l’intera Sentenza n. 32035/2014.

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PILLOLE DI JOBS ACT. PRIME INDICAZIONI OPERATIVE DEL MINISTERO DEL LAVORO IN MATERIA DI LAVORO A TEMPO DETERMINATO

 

PREMESSA

Il Jobs Act diviene finalmente oggetto di precisi chiarimenti ministeriali, fornendo le tanto attese delucidazioni per il personale ispettivo. Infatti, dopo oltre due mesi dalla conversione in legge del travagliato D.L. 20 marzo 2014 n. 34 con la Legge 16 maggio 2014 n. 78, il Ministero del Lavoro ha rese note le prime indicazioni operative sulle innovazioni introdotte in materia di contratto di lavoro a tempo determinato, somministrazione di lavoro ed apprendistato, emanando la Circolare 30 luglio 2014 n. 18.

Esaminiamo nel dettaglio le indicazioni ministeriali in materia di lavoro a tempo determinato, cogliendo l’occasione per descrivere meglio come l’istituto in questione sia stato riformato dalla Legge n. 78/2014.

L’APPOSIZIONE DEL TERMINE

In primo luogo, la Circ. Min. Lav. n. 18/2014 ha evidenziato il fatto che l’art. 1, Legge, 78/2014, modificando l’art. 1, D.Lgs. n. 368/2001, ha reso possibile l’instaurazione di un contratto di lavoro a tempo determinato senza alcuna indicazione delle previgenti ragioni di carattere “tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” giustificatrici dell’apposizione di un termine a siffatta tipologia contrattuale.
Infatti, la novella legislativa rende, possibile la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo determinato, in quanto, ai fini della sua legittima instaurazione è sufficiente che il termine risulti “direttamente o indirettamente” (così come era già stato sottolineato nella precedente Circ. Min. Lav. n. 42/2002) rinvenibile nell’atto scritto presupposto (cfr., art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 368/2001).
L’unico limite legislativo sopravvissuto al presente intervento riformatore consiste nel fatto che un contratto di lavoro a tempo determinato od un contratto di somministrazione a tempo determinato, non possono superare i 36 mesi di durata, comprensivi di eventuali proroghe.
In altri termini, secondo la Circ. Min. Lav. n. 18/2014, la previsione contenuta nell’art. 1 Legge, n. 78/2014 rende possibile l’instaurazione di contratto di lavoro a tempo determinato “acausale” per svolgere “qualunque tipo di mansione”, introducendo un “elemento di flessibilità” applicabile “universalmente”.
Tuttavia, la Circ. Min. Lav. n. 18/2014 evidenzia comunque la sussistenza delle ragioni giustificative nel nuovo quadro normativo in presenza di particolari fattispecie. Ad esempio, tale evenienza ricorre in presenza di assunzioni di lavoratori a tempo determinato “per ragioni di carattere sostitutivo o di stagionalità”. Infatti, in presenza di tali ipotesi, le assunzioni sono esenti dai limiti quantitativi (ex art. 1, comma 1 ed art. 10, comma 7, D.Lgs. n. 368/2001) e dal contributo addizionale dell’1,4% previsto dall’art. 2, comma 29, Legge n. 92/2012. Di conseguenza, “ai soli fini di trasparenza”, il Ministero del Lavoro ha ritenuto “opportuno” che il contratto in questione debba evidenziare in forma scritta le predette causali giustificatrici.

 

IL LIMITE LEGALE

L’art. 1, comma 1, D.Lgs. n. 368/2001 (così come modificato dall’art. 1, comma 1, lett. a), n. 1, Legge n. 78/2014), prevede che, fatto salvo quanto disposto dall’art. 10, comma 7, D.Lgs. n. 368/2001 (che elenca i casi di esenzione dalle limitazioni quantitative per la stipulazione di contratti di lavoro a tempo determinato), il numero complessivo di contratti a tempo determinato che possono essere stipulati da ciascun datore di lavoro non può eccedere il limite del 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza alla data del 1° gennaio dell’anno di assunzione. Invece, per i datori di lavoro che occupano fino a cinque dipendenti è sempre possibile stipulare un contratto di lavoro a tempo determinato.
A tal proposito, la Circ. Min. Lav. n. 18/2014 ha specificato che, in assenza di una diversa disciplina contrattuale applicata, il datore di lavoro ha l’obbligo di verificare il numero dei rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato che risultano essere attivi alla data del 1° gennaio, ovvero, per le attività iniziate nel corso dell’anno, alla data di assunzione del primo lavoratore a tempo determinato per verificare tale limite del 20%.
Ovviamente, la Circolare in questione ricorda che devono essere esclusi da tale conteggio tutti i rapporti di:

  • lavoro autonomo;
  • lavoro accessorio;
  • lavoro parasubordinato;
  • associazione in partecipazione;
  • lavoro intermittente senza obbligo di risposta alla chiamata (e, quindi, privi della indennità di disponibilità: cfr., art. 39, D.Lgs. n. 276/2003).

Invece, devono essere ricompresi nel conteggio in questione:

  • i dirigenti a tempo indeterminato;
  • gli apprendisti, fatta eccezione per quelli assunti a tempo determinato per ragioni di stagionalità (cfr., art. 4, comma 5, D.Lgs. n. 167/2011 ed art. 3, comma 2-quater, D.Lgs. n. 167/2011);
  • i lavoratori a tempo parziale da conteggiarsi in proporzione all’orario di lavoro svolto rapportato al tempo pieno secondo la disciplina prevista dall’art. 6 D.Lgs. n. 61/2000;
  • i lavoratori intermittenti con obbligo di risposta alla chiamata (per i quali è prevista l’indennità di disponibilità e che vengono conteggiati secondo le modalità previste dall’art. 39, D.Lgs. n. 276/2003).

Secondo la Circ. Min. Lav. n. 18/2014 la verifica del numero dei lavoratori a tempo indeterminato deve essere effettuata avendo riguardo al totale dei lavoratori complessivamente occupati, a prescindere dalla unità produttiva nella quale essi sono effettivamente allocati, rimanendo ferma la possibilità di destinare i lavoratori a tempo determinato presso una sola od alcune unità produttive facenti capo al medesimo datore di lavoro. Ad esempio, se risultano assunti in data 1° gennaio da parte del datore di lavoro interessato 10 lavoratori subordinati a tempo indeterminato, il datore di lavoro in questione potrà procedere all’assunzione di 2 lavoratori a tempo determinato.
Qualora tale calcolo della percentuale del 20% produca un valore con decimale uguale o superiore a 0,50, è permesso al datore di lavoro di arrotondare il numero dei contratti a termine stipulabili all’unità superiore. Ad esempio, una percentuale di contratti a tempo determinato stipulabili pari a 2,50 permette la stipulazione effettiva di 3 contratti. Tuttavia, la Circ. Min. Lav. n. 18/2014 ha precisato che, in fase di prima applicazione di queste disposizioni, non dovrà essere sanzionato il datore di lavoro che, nel periodo intercorrente dall’entrata in vigore delle norme in questione con il D.L. n. 34/2014 (cioè, il 21 marzo 2014) e la pubblicazione della Circolare in esame (cioè, il 30 luglio 2014), risulti aver proceduto ad un numero di assunzioni di lavoratori a tempo determinato sulla base di un arrotondamento in eccesso (cioè, in presenza di un decimale inferiore a 0,50).
Il Ministero del Lavoro si è preoccupato di chiarire che il numero complessivo di contratti di lavoro a tempo determinato stipulati da ciascun datore di lavoro non costituisce un limite “fisso” annuale, bensì variabile nel tempo, in quanto rappresenta una “proporzione” tra il numero dei lavoratori “stabili” a tempo indeterminato e quello “mobile” dei lavoratori a tempo determinato. In tal modo, allo scadere di un contratto di lavoro a tempo determinato, sarà sempre possibile stipularne subito un altro, purché venga rispettata la percentuale massima di lavoratori a tempo determinato pari al 20%.
La Circ. Min. Lav. n. 18/2014 si sofferma anche sulla possibilità di stabilire ulteriori contratti di lavoro a tempo determinato, al di fuori del limite massimo stabilito dall’art. 1, comma 1, D.Lgs. n. 368/2001 novellato dall’art. 1, comma 1, lett. a), n. 1, Legge n. 78/2014. Essi sono:

  • l’art. 10, comma 7, D.Lgs., n. 368/2001 esenta da qualsiasi limitazione quantitativa i contratti di lavoro a tempo determinato conclusi:
    • nella fase di avvio di nuove attività per i periodi che saranno definiti dai contratti collettivi nazionali di lavoro anche in misura non uniforme con riferimento ad aree geografiche e/o comparti merceologici;
    • per ragioni di carattere sostitutivo, o di stagionalità, ivi comprese le attività già previste nell’elenco allegato al D.P.R. n. 1525/1963. Con riferimento alle ragioni di “stagionalità” poste a giustificazione dell’esenzione ex art. 10, comma 7, D.Lgs. n. 368/2001, il Ministero del Lavoro ha chiarito che, oltre alle attività stagionali previste nell’elenco allegato al D.P.R. n. 1525/1963, posso rinvenirsi ulteriori ipotesi derogatorie nell’ambito del contratto collettivo applicato, anche aziendale, il quale può ricomprendere nelle ragioni di stagionalità intese in senso ampio anche le assunzioni per far fronte ad incrementi di produttività. Tale apertura della prassi ministeriale trova la sua giustificazione nel fatto che l’elencazione contenuta nel D.P.R. n. 1525/1963 non ha natura tassativa, per espressa indicazione del Legislatore;
    • per specifici spettacoli ovvero specifici programmi radiofonici o televisivi;
    • con lavoratori di età superiore a 55 anni;
  • l’art. 1, D.L. 18 ottobre 2012 n. 179, convertito in Legge 17 dicembre 2012, n. 221, prevede una deroga al limite legale di cui all’art. 1, comma 1, D.Lgs. 368/2001, in presenza di una start-up innovativa. A sensi dell’art. 25, comma 2, Legge n. 221/2012, s’intende per “start-up innovativa” una la società di capitali, costituita anche in forma cooperativa, di diritto italiano ovvero una Societas Europaea, residente in Italia ai sensi dell’art. 73 D.P.R.. 22 dicembre 1986, n. 917, le cui azioni o quote rappresentative del capitale sociale non sono quotate su un mercato regolamentato o su un sistema multilaterale di negoziazione, che possiede una serie di requisiti meglio indicati nella citata norma;
  • che, ai sensi dell’art. 10, comma 5-bis, D.Lgs. n. 368/2001, il limite quantitativo massimo del 20% ed il limite di durata massima di 36 mesi per ogni singolo contratto non trovano applicazione nei confronti dei contratti di lavoro a tempo determinato stipulati tra istituti pubblici di ricerca, ovvero enti privati di ricerca e lavoratori chiamati a svolgere in via esclusiva attività di ricerca scientifica o tecnologica, di assistenza tecnica alla stessa o di coordinamento e direzione della stessa. La Circ. Min. Lav. n. 18/2014 ha evidenziato che tale deroga non opera nei confronti del limite dei rinnovi contrattuali di cui all’art. 5, comma 4-bis, D.Lgs. n. 368/2001;
  • infine, non concorrono al superamento del limite del 20% le assunzioni di disabili con contratto di lavoro a tempo determinato effettuate ai sensi dell’art. 11 Legge n. 68/1999, nonché acquisizioni di personale a tempo determinato in caso di trasferimento di azienda o di ramo di azienda. In tal caso, i contratti possono essere prorogati, ma in presenza di un eventuale rinnovo si dovrà tenere conto dell’eventuale superamento dei limiti quantitativi.

LE LIMITAZIONI PER I DATORI DI LAVORO CHE OCCUPANO FINO A 5 DIPENDENTI

I datori di lavoro che occupano fino 0 a 5 dipendenti, possono procedere all’assunzione di un lavoratore a tempo determinato. È possibile un eventuale intervento in materia da parte della contrattazione collettiva sostitutivo della disciplina legale, con l’avvertenza che il contratto collettivo può esclusivamente prevedere margini più ampi per le assunzioni a tempo determinato (cfr., art. 1, comma 1, ultimo periodo, D.Lgs. n. 368/2001).

 

IL LIMITE CONTRATTUALE

Abbiamo già visto che, secondo l’interpretazione ministeriale, il limite quantitativo massimo del 20% di cui all’art. 1, comma 1, D.L. n. 368/2001 può essere derogato la contrattazione collettiva, sia prevedendone un aumento che una sua diminuzione.
Inoltre, la contrattazione collettiva può anche individuare criteri di scelta per effettuare il calcolo differenti dalla data del 1° gennaio, tenendo conto, ad esempio, di coloro che risultano mediamente occupati in un determinato arco temporale.
A tal proposito, la Circ. Min. Lav n. 18/2014 ha evidenziato il contenuto dell’art. 2-bis, comma 2, Legge, n. 78/2014, il quale prevede che, in sede di prima applicazione del limite percentuale di cui all’art. 1, comma 1, secondo periodo, D.Lgs. n. 368/2001 (lo ricordiamo, introdotto dall’art. 1, comma 1, lett. a), n. 1), Legge n. 78/2014), conservano efficacia, ove diversi, i limiti percentuali già stabiliti dai vigenti contratti collettivi nazionali di lavoro. Di conseguenza, non necessita l’introduzione da parte della contrattazione collettiva di nuove clausole limitatrici, in quanto continuano a trovare applicazione quelle già esistenti alla data di entrata in vigore del D.L. n. 34/2014 (cioè, il 21 marzo 2014), ferma restando la possibilità che, in un momento successivo, la medesima contrattazione collettiva decida di introdurne delle nuove.

LA DISCIPLINA SANZIONATORIA

Per quanto concerne la disciplina sanzionatoria, si evidenzia che, in sede di conversione del D.L. n. 34/2014, cioè, in data 20 maggio 2014, è stata introdotta una specifica sanzione amministrativa pecuniaria “a presidio dei limiti quantitativi” per le assunzioni a tempo determinato.
Si tratta dell’art. 5, co. 4-septies, D.Lgs. n. 368/2001 (introdotto dall’art. 1, comma 1, lett. b-septies, Legge n. 78/2014), il quale prevede che, in caso di violazione del limite percentuale di cui all’articolo 1, comma 1, D.Lgs. n. 368/2001 per ciascun lavoratore si applica la sanzione amministrativa pecuniaria:

  1. pari al 20% della retribuzione, per ciascun mese o frazione di mese superiore a quindici giorni di durata del rapporto di lavoro, se il numero dei lavoratori assunti in violazione del limite percentuale non sia superiore a uno;
  2. pari al 50% della retribuzione, per ciascun mese o frazione di mese superiore a quindici giorni di durata del rapporto di lavoro, se il numero dei lavoratori assunti in violazione del limite percentuale sia superiore a uno.

Relativamente a tale sanzione, la Circ. Min. Lav. n. 18/2014 ha chiarito che essa trova applicazione, sia qualora il datore di lavoro abbia superato il limite legale del 20% per la stipulazione dei contratti a tempo determinato, sia quando costui non rispetti il diverso limite stabilito dalla contrattazione collettiva.
Inoltre, il Ministero del Lavoro ha affermato che tale calcolo in termini percentuali dell’importo sanzionatorio deve effettuato tenendo conto della retribuzione spettante ai lavoratori assunti in violazione del limite in questione e, cioè, tenendo conto degli ultimi lavoratori assunti in ordine di tempo.
Vista l’assenza di specificazioni da parte del legislatore, la retribuzione da prendere in considerazione ai fini del calcolo della sanzione deve essere la retribuzione lorda mensile riportata nel singolo contratto di lavoro, desumibile anche attraverso una divisione della retribuzione annuale per il numero di mensilità spettanti, Qualora, il personale ispettivo non rinvenga nel contratto individuale un riferimento esplicito alla retribuzione lorda mensile, sarà necessario fare riferimento alla retribuzione tabellare prevista nel contratto collettivo applicato o applicabile.
Individuata in tal modo la retribuzione lorda mensile di riferimento ed applicata su di essa la percentuale del 20% o del 50%, l’importo così ottenuto – eventualmente arrotondato all’unità superiore qualora il primo decimale sia pari o superiore a 0,50 – deve essere moltiplicato, in riferimento a “ciascun lavoratore” interessato, per il numero dei mesi o frazione di mese superiore a 15 giorni.
A tal proposito, la Circ. Min. Lav. n. 18/2014 ha chiarito che ogni periodo pari a 30 giorni di occupazione deve essere considerato come mese intero e, solo se i giorni residui sono più di 15, andrà conteggiato un ulteriore mese. Di conseguenza, relativamente ai periodi di occupazione inferiori a 15 giorni, la sanzione in questione non può essere applicata, in quanto il moltiplicatore risulta essere pari a zero.
Per effettuare un corretto calcolo dell’effettivo periodo di occupazione non è necessario tener conto delle eventuali “sospensioni” del rapporto derivanti, ad esempio, da malattia, infortunio, maternità o orario di lavoro part-time verticale. Ai fini del calcolo in questione rileva soltanto la data d’instaurazione del rapporto di lavoro (c.d. “dies a quo”) e la data in cui è stata accertata l’esistenza dello “sforamento” (c.d. “dies ad quem”), il quale, di norma, coincide con la data dell’accertamento ispettivo, sebbene sia sempre possibile accertare ulteriore “sforamenti” avvenuti in relazione a rapporti di lavoro già conclusi, con la conseguenza che tale data coincide con la scadenza del termine.
Il Ministero del Lavoro ha anche evidenziato che la sanzione amministrativa in questione non è ovviamente ammissibile a diffida amministrativa ex art. 13 D.Lgs. n. 124/2004, attesa l’evidente insanabilità della condotta illecita legata all’ormai consumato superamento del limite alla assunzioni a tempo determinato.
Invece, appare scontata l’ammissione del trasgressore al pagamento in misura ridotta degli importi sanzionatori ex art. 16 Legge n. 689/1981 da pagarsi entro 60 giorni dalla notificazione dell’illecito accertato e sanzionato, per una somma pari a un terzo del massimo della sanzione edittale.
Il Ministero del Lavoro ritiene ancora efficaci le clausole contrattuali che impongono limiti complessivi alla stipulazione di contratti di lavoro a tempo determinato od alla utilizzazione di lavoratori somministrati. In tal caso, ai fini dell’individuazione della sanzione da applicare, il personale ispettivo deve verificare se il superamento dei limiti sia avvenuto a causa del ricorso ai contratti di lavoro a tempo determinato od alla somministrazione di lavoro. Nel primo caso, si deve applicare la già analizzata nuova sanzione ex art. 5, comma 4-septies, D.Lgs. n. 368/2001, mentre, qualora ricorra la seconda ipotesi, trova applicazione sanzione contenuta nell’art. 18, comma 3, D.Lgs. n. 276/2003 (cioè, una sanzione amministrativa pecuniaria da € 250 ad € 1.250). In particolare, la Circolare in esame ha anche sottolineato che, in presenza di sforamento, ad esempio, di due unità, la prima assunta con contratto a tempo determinato e la seconda con contratto di somministrazione, deve essere applicata la nuova sanzione ex art. 5, comma 4-septies, D.Lgs. n. 368/2001, parametrata al 50% della retribuzione, escludendosi, in ogni caso, l’applicazione contestuale di entrambe le sanzioni.
Inoltre, bisogna ricordare che, nel rispetto di quanto sancito dall’art. 1, Legge n. 689/1981, l’art. 1, comma 2-ter, Legge n. 78/2014 prevede che la sanzione di cui all’art. 5, comma 4-septies, D.Lgs. n. 368/2001 non deve essere applicato nei confronti dei rapporti di lavoro instaurati precedentemente alla data di entrata in vigore de D.L. n. 34/2014 (cioè, i 21 marzo 2014), che comportino il superamento del predetto limite percentuale di cui all’art. 1, comma 1, del D.Lgs. n. 368/2001.
Il legislatore ha, altresì, stabilito, all’art. 2-bis, comma 3, Legge n. 78/2014, che il datore di lavoro che alla data di entrata in vigore del D.L. n. 34/2014 (cioè, i 21 marzo 2014) abbia in corso rapporti di lavoro a tempo determinato che comportino il superamento del limite percentuale di cui all’art. 1, comma 1, secondo periodo, D.Lgs. n. 368/2001, è tenuto a rientrare nel predetto limite entro la data del 31 dicembre 2014, salvo che un contratto collettivo applicabile nell’azienda disponga un limite percentuale o un termine più favorevole. In caso contrario, il datore di lavoro, successivamente a tale data, non può stipulare nuovi contratti di lavoro a tempo determinato fino a quando non rientri nel limite percentuale di cui al citato art. 1, comma 1, secondo periodo, D.Lgs. n. 368/2001. La Circ. Min. Lav. n. 18/2014 ha chiarito che il riferimento alla contrattazione collettiva deve essere inteso anche con riferimento a quella di livello territoriale e/o aziendale, ma con l’avvertenza che quest’ultima può esclusivamente disciplinare il regime transitorio poc’anzi indicato, con la conseguenza che, al termine di esso, devono essere applicati i limiti alla stipulazione dei contratti di lavoro a tempo determinato previsti o direttamente dal legge in esame, ovvero dalla contrattazione collettiva di livello nazionale.
A partire dall’anno 2015 – fatto salvo quanto diversamente stabilito dalla contrattazione collettiva – non potranno essere effettuate nuove assunzioni a tempo determinato da parte dei datori di lavoro che, alla data del 21 marzo 2014 (data di entrata in vigore del D.L. n. 34/2014), risultino aver superato i limiti quantitativi in questione senza esservi rientrati entro la data del 31 dicembre 2014.
Inoltre, a far data dalla data di entrata in vigore del presente regime sanzionatorio (cioè, il 20 maggio 2014), anche tali datori di lavoro possono essere oggetto di sanzione qualora, anziché rientrare nei limiti, abbiano effettuato ulteriori assunzioni a tempo determinato rispetto a quelle ammesse. Invece, la sanzione in esame non trova applicazione qualora tali datori di lavoro si siano limitati a prorogare i contratti di lavoro a tempo determinato già in essere, stante il solo divieto di assunzione a partire dall’anno 2015.

 

LA DISCIPLINA DELLA PROROGA

In tema di proroghe, il nuovo testo dell’art. 4, comma 1, D.Lgs. n. 368/2001 (così come sostituito dalla Legge n. 78/2014) rende possibile prorogare, con il consenso del lavoratore, il termine del contratto a tempo determinato solo quando la durata iniziale del contratto sia inferiore a tre anni. In questi casi le proroghe sono ammesse, fino ad un massimo di cinque volte, nell’arco dei complessivi trentasei mesi, indipendentemente dal numero dei rinnovi e a condizione che esse si riferiscano alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato a tempo determinato. Con esclusivo riferimento a tale ipotesi, la durata complessiva del rapporto a tempo determinato non può essere superiore ai tre anni.
Il Ministero del Lavoro ritiene che il nuovo testo dell’art. 4, comma 1, D.Lgs. n. 368/2001 consente di prorogare il termine inizialmente apposto al contratto per un massimo di 5 volte nel limite di durata massima di 36 mesi, a condizione che ci si riferisca alla “stessa attività lavorativa”, intendendo con tale formulazione le medesime mansioni, le mansioni equivalenti, o comunque le mansioni svolte ex art. 2103 cod.civ. indipendentemente dal numero dei rinnovi contrattuali. Viceversa, il nuovo contratto a tempo determinato prevede mansioni differenti le proroghe precedenti non devono essere contabilizzate.
La nuova disciplina delle proroghe trovano applicazione dopo il 21 marzo 2014, per i rapporti costituiti precedentemente resta in vigore il previgente regime che permetteva una sola proroga. Ovviamente, restano in ogni caso legittime le eventuali proroghe operate nel periodo intercorrente dal 21 marzo 2014 al 19 maggio 2014, ove, in virtù dell’iniziale formulazione del D.L. n. 34/2014 risulti essere stato effettuato un numero massimo di 8 proroghe.

LA DISCIPLINA DEI RINNOVI

Mentre la proroga di un contratto è rinvenibile qualora, prima della scadenza del suo termine, esso venga prorogato ad altra data, il rinnovo di un contratto a tempo determinato è rinvenibile quando il termine iniziale di scadenza originariamente previsto sia stato raggiunto e le parti intendano procedere alla sottoscrizione di un ulteriore contratto.
In proposito, la Circ. Min. Lav. n. 18/2014 ha chiarito che non vi è coincidenza dell’ambito applicativo tra i due istituti della proroga e del rinnovo. Infatti, l’introduzione da parte del novellato art. 1 D.Lgs. n. 368/2001 del limite di 36 mesi per un singolo contratto a tempo determinato non consente la sottoscrizione di un primo contratto di durata anche superiore, fatte salve le previsioni di carattere speciale, come quelle già esaminate a favore degli enti di ricerca, o quelle dedicate ai dirigenti nex art. 10, comma 4, D.Lgs. n. 368/2001.
Tuttavia, la prassi ministeriale ritiene ancora possibile stipulare più contratti a tempo determinato anche oltre il limite di 36 mesi, purché si rimanga nell’ambito delle ipotesi derogatorie previste dall’art. 5, commi 4-bis e 4-ter, D.Lgs. n. 368/2001. Innanzi tutto, il comma 4-bis, primo periodo preveda che, qualora per effetto di successione di contratti a tempo determinato per lo svolgimento di mansioni equivalenti il rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia complessivamente superato i 36 mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l’altro, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato. Tuttavia, il comma 4-bis, secondo periodo prevede una prima deroga, qualora un ulteriore successivo contratto a termine fra gli stessi soggetti sia stato stipulato per una sola volta, a condizione che la stipula in questione sia avvenuta presso la Direzione Territoriale del Lavoro competente e con l’assistenza di un rappresentante di una delle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale cui il lavoratore sia iscritto o conferisca mandato. Le organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale devono stabilire con avvisi comuni la durata del predetto ulteriore contratto. Tale previsione ha trovato accoglimento nell’accordo interconfederale tra Confindustria CGIL, CISL e UIL del 10 aprile 2008, in virtù del quale tale ulteriore contratto non può essere superiore ad otto mesi. Tra l’altro, si precisa che anche con riferimento a siffatto ulteriore contratto non è più necessaria l’individuazione delle cause giustificatrici dell’apposizione del termine.
Venendo all’esame dell’art. 5, comma 4-ter, D.Lgs. n. 368/2001, è prevista un ulteriore deroga al limite di 36 mesi in presenza delle attività stagionali definite dal D.P.R. n. 1525/1963, nonché di quelle altre attività (anche non stagionali) oggetto di specifica individuazione da parte degli avvisi comuni e dai contratti collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative.

I DIRITTI DI PRECEDENZA

Relativamente ai diritti di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato, la Circ. Min. Lav. n. 18/2014 si sofferma, in primo luogo, sulle modifiche apportate dalla Legge n. 78/2014 all’art. 5, 4-quater, D.Lgs. n. 368/2001. In virtù di tale norma, si prevede un diritto di precedenza a favore del lavoratore che, nell’esecuzione di uno o più contratti a tempo determinato presso lo stesso datore di lavoro, abbia prestato attività lavorativa per un periodo superiore a sei mesi ha diritto di precedenza fatte salve diverse disposizioni di contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate dal datore di lavoro entro i successivi dodici mesi con riferimento alle mansioni già espletate in esecuzione dei rapporti a tempo determinato.
Al riguardo, la novella operata dalla Legge n. 78/2014 ha stabilito che, per le lavoratrici, il congedo di maternità di cui all’art. 16, comma 1, D.Lgs. 26 marzo 2001 n. 151, intervenuto nell’esecuzione di un contratto a tempo determinato presso il medesimo datore di lavoro, concorre a determinare il periodo di attività lavorativa utile a conseguire il diritto di precedenza poc’anzi descritto. Alle medesime lavoratrici è, altresì, riconosciuto, con le stesse modalità riconosciute alla generalità dei lavoratori, il diritto di precedenza anche nelle assunzioni a tempo determinato effettuate dal datore di lavoro entro i successivi dodici mesi, con riferimento alle mansioni già espletate in esecuzione dei precedenti rapporti a tempo determinato.
Infine, su tale argomento, la Circolare ministeriale si sofferma a precisare che i diritti di precedenza disciplinati dall’art. 5, commi 4-quater e 4-quinquies, D.Lgs. n. 368/2001 a favore delle lavoratrici madri e dei lavoratori stagionali richiedono l’obbligo di richiamo in forma scritta da parte del datore di lavoro, così come prescritto dall’art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 368/2001. Di conseguenza, la mancata informativa sui diritti di precedenza non incide sul potere di esercitarli da parte del lavoratore, anche se, al contempo, tale omissione non è oggetto di alcuna specifica sanzione.

 

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LA BLACKLIST DEI MESTIERI MESSI A RISCHIO DALL’ABBANDONO DELLA CARTA.

Riprendiamo oggi uno studio di cui vi abbiamo già parlato in precedenza, per approfondirne alcuni aspetti. Le nuove tecnologie stanno influenzando il nostro stile di vita. E il lavoro. Il progressivo abbandono della carta, in particolare, avrà nei prossimi anni degli effetti fino a ieri inimmaginabili.

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di Michele De Sanctis

La dematerializzazione dei documenti cartacei inizia a produrre i suoi effetti. Le conseguenze, se da un lato hanno un impatto ambientale minimo, in ordine a uno sviluppo sostenibile ed ecologicamente orientato, grazie soprattutto al supporto che la tecnologia è in grado di offrirci, dall’altro hanno un impatto pesante e sicuramente più preoccupante da un punto di vista sociale e, in particolar modo, lavorativo. Secondo il rapporto 2014 di Careercast, infatti, tutti i mestieri collegati alla carta saranno destinati ad estinguersi entro dieci anni. Postini, tipografi, taglialegna e giornalisti: sono tutti lavori che subiranno una certa influenza dalla rivoluzione in atto.

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Lo studio di Careercast ha preso in considerazione 200 tra mestieri e professioni legati al cartaceo utilizzando i dati del Bureau of Labor Statistics. In fondo alla classifica troviamo il portalettere, la cui quotidiana funzione, con l’uso sempre più diffuso delle email verrà progressivamente a venir meno. Resterà la consegna dei pacchi a domicilio, mentre per la raccomandate esistono già protocolli informatici che sostituiscono la valenza giuridica della ricevuta di ritorno, nel caso italiano la posta elettronica certificata. Ricordiamo, peraltro, che già da un anno, per l’esattezza dal primo luglio 2013, da noi vige l’obbligo per le comunicazioni tra PA e tra PA e aziende di utilizzare la PEC e che dallo scorso 6 giugno, sempre per le PA, è stato introdotto anche l’obbligo di fatturazione elettronica, altro documento che non sarà più necessario spedire, potendo essere, invece, inserito in un’apposita piattaforma, a seconda dell’Amministrazione competente.

Secondo Careercast, invece, se la caveranno bene tutte le professioni che hanno a che fare con numeri e statistiche. È evidente che alcuni tra i lavori peggiori di oggi sono gli stessi destinati all’estinzione, appunto perché l’offerta di quel tipo di impieghi inizia a scendere, parimenti alle relative condizioni economiche e – spiace dirlo – lavorative, a fronte di una diminuita domanda del mercato di quel tipo di prodotti.

Bene, secondo Careercast, anche i professori universitari, che insieme ai matematici, agli statistici e agli attuariali vengono considerati come i più “resistenti” al processo di dematerializzazione.

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Contestualmente si stima, tuttavia, un calo del 13% nelle assunzioni di reporter nei giornali entro il 2022 – il che non dovrebbe stupire nessuno, visto il profondo stato di crisi in cui versa tutto il settore della carta stampata da che è nato il concetto di “giornale online” e si sono diffusi blog di attualità. La reazione a catena include calo degli abbonamenti, contrazione dei ricavi da pubblicità e quindi redazioni al minimo. Il caso de L’Unità qui in Italia è solo un esempio tra molti sulla scena internazionale. Indipendentemente dalla connotazione politica che vuol darsi a questa vicenda, in tale discorso, purtroppo, contano i numeri, la pubblicità. I soldi. Non le idee. Perché se vogliamo parlare di quelle…la mia è che la notizia di una testata che smette di diffondere la sua voce è di per sé triste. È il pluralismo congenito alla democrazia che viene a mancare: è un lutto civico.

Ma tornando alla nostra classifica, dopo il postino, tra i mestieri più a rischio si evidenziano anche i mestieri di agricoltore, lettore di centralina, agente di viaggio, assistente di volo, tipografo ed esaminatore e taglialegna. Il rapporto, tuttavia, a fronte di questi lavori in via estinzione, stima un equilibrato ricambio con nuove ed efficienti figure professionali 3.0.

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È una rivoluzione copernicana questa, che sicuramente influenzerà i nostri stili di vita e la nostra vecchia visione del mondo, la cui valutazione oggettiva (positiva o negativa) sarà, però, possibile solo quando diverrà realmente effettiva. Da cliente Amazon e Kobo, quindi da lettore di ebook, e da assiduo frequentatore di librerie, voglio, tuttavia, sostenere fin da adesso che, a mio avviso, il piacere di entrare in libreria ed acquistare un libro, la sensualità che offre l’atto di sfogliare un volume intonso, quello di toccare la carta fresca di stampa e affondare il naso tra le pagine di un libro, respirandone l’odore della carta, della colla e dell’inchiostro, sono esperienze insostituibili, a cui mi rifiuto di rinunciare. Per cui, ben vengano le nuove professioni 3.0, le mail, i tablet e gli ebook reader (sui quali è possibile leggere in formato ePub e PDF anche quelle opere che per ragioni commerciali non sono state più ristampate o quei brillanti autori emergenti che incontrano non poche difficoltà a farsi conoscere dal grande pubblico) e ben venga, soprattutto, lo sviluppo ecosostenibile, ma il mio personale auspicio è che, almeno in campo editoriale, ci venga lasciata la facoltà di scelta. L’auspicio è che quello del libraio non sia un mestiere destinato a sparire. Come faremmo senza il nostro pusher di sogni? Senza il nostro rifornitore abituale di cultura? E se ai sogni aggiungo la parola cultura è perché spero che neppure il libro scientifico debba essere costretto a trasformarsi in un codice binario. Non vorrei veder chiudere le librerie universitarie per nulla al mondo. Passare il dito su un ebook non è come evidenziare una parola e glossare un testo non sarà mai paragonabile ad una nota interattiva. In fondo, lo sviluppo di internet e delle nuove tecnologiche ha ulteriormente agevolato il calo dei lettori: oggi si vuole tutto e subito e bastano i titoli dei post nella home di Facebook per farsi un’idea del mondo. Per cui, se è vero che noi consumatori di libri siamo sempre meno (spero non destinati all’estinzione), che impatto potremmo avere sull’ambiente, se poi la carta può anche essere riciclata?

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Breve analisi della nuova disciplina del FEG per il periodo 2014-2020

 

 

di Germano De Sanctis

Premessa

Il Regolamento (UE) n. 1309 del 17 dicembre 2013 1 disciplina il Fondo Europeo di Adeguamento alla Globalizzazione (c.d. FEG) per la durata del quadro finanziario pluriennale intercorrente dal 1° gennaio 2014 al 31 dicembre 2020.
Tale provvedimento abroga il precedente Reg. (CE) n. 1927/2006 (così come modificato dal Reg. (CE) n. 546/2009), con il quale il fondo in questione è stato istituito con finalità di reinserimento professionale in un mercato del lavoro seriamente compromesso dagli effetti della globalizzazione.
Infatti, il processo di globalizzazione dei mercati ha prodotto effetti talmente negativi in materia di occupazione, al punto da spingere le Istituzioni comunitarie a predisporre strumenti volti al recupero delle professionalità dei lavoratori ed al loro reinserimento nel mercato del lavoro.
Esaminiamo sinteticamente gli aspetti più salienti del Reg. (UE) n. 1309/2013.

L’ambito di applicazione

Il FEG intende contribuire ad una crescita economica intelligente, inclusiva e sostenibile, nonché vuole promuovere un’occupazione sostenibile in un’ottica di solidarietà e sostegno ai lavoratori collocati in esubero e ai lavoratori autonomi la cui attività sia cessata:

  • in conseguenza di trasformazioni rilevanti della struttura del commercio mondiale dovute alla globalizzazione;
  • a causa del persistere della crisi finanziaria ed economica globale;
  • a causa di una nuova crisi economica e finanziaria globale.

In particolare, l’art. 2 Reg. (UE) n. 1309/2013 individua l’ambito di applicazione del FEG, prevedendo che le domande presentate dagli Stati membri devono riguardare azioni indirizzate a:

  1. lavoratori collocati in esubero e lavoratori autonomi la cui attività sia cessata in conseguenza di trasformazioni rilevanti della struttura del commercio mondiale dovute alla globalizzazione, dimostrate in particolare da un sostanziale aumento delle importazioni nell’Unione Europea, da un cambiamento radicale del commercio di beni e servizi nell’Unione Europea, da un rapido declino della quota di mercato dell’Unione Europea in un determinato settore o da una delocalizzazione di attività verso paesi terzi, a condizione che tali esuberi abbiano un impatto negativo di rilievo sull’economia locale, regionale o nazionale;
  2. lavoratori collocati in esubero e lavoratori autonomi la cui attività sia cessata a causa della crisi finanziaria ed economica globale.

I criteri d’intervento

L’art. 4, par. 1, Reg. (UE) n. 1309/2013 circostanzia i criteri d’intervento, prevedendo che può essere concesso un contributo finanziario a valere sul FEG quando le condizioni ex art. 2 Reg. (UE) n. 1309/2013 comportano come conseguenza:

  1. il collocamento in esubero di almeno 500 lavoratori o la cessazione dell’attività di lavoratori autonomi, nell’arco di un periodo di riferimento di quattro mesi, in un’impresa di uno Stato membro, compresi i lavoratori collocati in esubero e i lavoratori autonomi la cui attività sia cessata alle imprese dei fornitori o dei produttori a valle dell’impresa in questione;
  2. il collocamento in esubero di almeno 500 lavoratori o la cessazione dell’attività di lavoratori autonomi, nell’arco di un periodo di riferimento di nove mesi, in particolare in PMI, tutte operanti nello stesso settore economico definito a livello delle divisioni della NACE revisione 2 (n.b.: si tratta della classificazione statistica comune delle attività economiche nella Comunità europea così come definita dal Reg (CE) n. 1893/2006), in una regione o due regioni contigue di livello NUTS 2 3 , oppure in più di due regioni contigue di livello NUTS 2, a condizione che il numero complessivo di lavoratori o di lavoratori autonomi in due regioni combinate sia superiore a 500 (n.b.: NUTS è l’acronimo di Nomenclatura delle Unità Territoriali Statistiche, la quale ripartisce il territorio della UE a fini statistici; in particolare, il livello NUTS 1 distingue le aree geografiche (gruppi di regioni), il livello NUTS 2 le regioni e il livello NUTS3 le province).

Appare evidente la semplificazione operata rispetto al previgente Reg. (CE) n. 1297/2006, il quale prevedeva il collocamento in esubero di almeno 1000 lavoratori.

L’art. 4, par. 2, Reg. (UE) n. 1309/2013 prevede anche un ulteriore criterio d’intervento applicabile in circostanze eccezionali, qualora i predetti criteri di cui sopra non siano completamente soddisfatti. In particolare, siffatto criterio ricorre in presenza di mercati del lavoro di dimensioni ridotte, ovvero in presenza di circostanze eccezionali debitamente giustificate dallo Stato membro, con particolare riferimento alle domande collettive che coinvolgono le PMI e sempre che gli esuberi abbiano un grave impatto sull’occupazione e sull’economia locale, regionale o nazionale. Si evidenzia che, in tale ipotesi, lo Stato membro richiedente ha l’obbligo di specificare quale dei criteri d’intervento di cui ai precedenti punti 1) e 2) non risulti essere interamente soddisfatto e che, comunque, l’importo cumulato dei contributi non può eccedere il 15 % dell’importo annuo massimo del FEG.

Il calcolo degli esuberi e delle cessazioni di attività

L’art. 5, par. 1, Reg. (UE) n. 1309/2013 definisce i criteri di calcolo degli esuberi e delle cessazioni di attività, prevedendo che ogni Stato membro richiedente deve precisare il metodo utilizzato per calcolare, ai fini dell’art. 4Reg. (UE) n. 1309/2013, il numero di lavoratori e di lavoratori autonomi di cui all’art. 3 Reg. (UE) n. 1309/2013.
Il Reg. (UE) n. 1309/2013 impone ad ogni Stato membro l’obbligo di chiarire alla Commissione Europea il metodo utilizzato per effettuare il calcolo in questione, il quale deve tenere comunque conto di una delle seguenti date, quali termini da cui far decorrere il conteggio:

  • dalla data in cui il datore di lavoro (conformemente all’art. 3, par. 1, Dir. 98/59/CE), notifica il piano di collocamento in esubero collettivo all’autorità pubblica competente per iscritto; in tal caso, lo Stato membro che ha presentato la domanda fornisce ulteriori informazioni alla Commissione sul numero reale di lavoratori collocati in esubero;
  • dalla data in cui il datore di lavoro notifica il preavviso di licenziamento o di risoluzione del contratto di lavoro;
  • dalla data della risoluzione di fatto del contratto di lavoro o della sua scadenza;
  • dalla fine dell’incarico presso l’impresa utilizzatrice;
  • per i lavoratori autonomi, dalla data di cessazione delle attività determinata conformemente alle disposizioni legislative o amministrative nazionali.

I beneficiari

L’art. 3 Reg. (UE) n. 1309/2013 chiarisce che, per beneficiario, s’intende:

  1. un lavoratore il cui contratto di lavoro si sia concluso anticipatamente per collocamento in esubero, oppure giunto a scadenza nel corso del periodo di riferimento di cui all’art. 4 Reg. (UE) n. 1309/2013 e non rinnovato;
  2. un lavoratore autonomo che abbia impiegato un massimo di dieci lavoratori che erano stati collocati in esubero nell’ambito di applicazione del Reg. (UE) n. 1309/2013 e la cui attività sia cessata, a condizione che quest’ultima dipendesse in maniera dimostrabile dall’impresa di cui all’art. 4, par. 1, lett. a), Reg. (UE) n. 1309/2013, oppure che, ai sensi dell’art. 4, par. 1, lett. b), Reg. (UE) n. 1309/2013, il lavoratore autonomo operasse nel settore economico in questione.

Ai sensi dell’art. 6, par. 1, Reg. (UE) n. 1309/2013, i beneficiari ammissibili possono essere:

  1. i lavoratori collocati in esubero e i lavoratori autonomi la cui attività sia cessata durante il periodo di riferimento previsto all’art. 4 Reg. (UE) n. 1309/2013;
  2. i lavoratori collocati in esubero e i lavoratori autonomi la cui attività sia cessata prima o dopo il periodo di riferimento di cui all’art. 4, par. 1, lett. a) Reg. (UE) n. 1309/2013 (cioè 4 mesi);
  3. i lavoratori collocati in esubero e i lavoratori autonomi la cui attività sia cessata, se una domanda presentata a norma dell’art. 4, par. 2, Reg. (UE) n. 1309/2013 non risponde ai criteri stabiliti dall’art. 4, par. 1, lett. a), Reg. (UE) n. 1309/2013.

I lavoratori e i lavoratori autonomi di cui alle precedenti punti 2) e 3) sono considerati ammissibili, a condizione che siano collocati in esubero o che la loro attività sia cessata dopo la notifica generale del progetto di licenziamento e a condizione che possa essere stabilito un chiaro nesso causale con l’evento da cui hanno avuto origine gli esuberi durante il periodo di riferimento.

L’art. 6, par. 2, Reg. (UE) n. 1309/2013 contiene un’importante deroga che consente agli Stati membri richiedenti, fino al 31 dicembre 2017, di fornire servizi personalizzati, cofinanziati dal FEG, per un determinato numero di NEET (not in Education, Employment or Training) di età inferiore ai 25 anni (o ai 30 anni, se lo Stato membro decide in tal senso), uguale al numero dei beneficiari interessati, dando la priorità ai collocati in esubero o la cui attività sia cessata. L’unica condizione richiesta per poter usufruire di tale possibilità è che almeno una parte degli esuberi sia collocata in regioni di livello NUTS 2, ritenute ammissibili nell’ambito dell’iniziativa per l’occupazione giovanile (c.d. Garanzia Giovani).

Le azioni ammissibili

Ai dell’art. 7, par. 1, Reg. (UE) n. 1309/2013, il FEG può finanziare misure attive del mercato del lavoro, nell’ambito di un pacchetto coordinato di servizi personalizzati volti a facilitare le reintegrazione nel mercato del lavoro dipendente o autonomo dei beneficiari interessati, più nello specifico, i disoccupati svantaggiati, giovani e meno giovani.
Il pacchetto coordinato di servizi personalizzati può comprendere, in particolare:

  1. la formazione e la riqualificazione su misura anche per quanto riguarda le competenze nel campo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e la certificazione dell’esperienza acquisita, l’assistenza nella ricerca di un lavoro, l’orientamento professionale, i servizi di consulenza, il tutoraggio, l’assistenza al ricollocamento, la promozione dell’imprenditorialità, l’aiuto alle attività professionali autonome, alla creazione e al rilevamento di imprese da parte dei dipendenti nonché le attività di cooperazione;
  2. misure speciali di durata limitata, quali le indennità per la ricerca di un lavoro, gli incentivi all’assunzione destinati ai datori di lavoro, le indennità di mobilità, le indennità di soggiorno o di formazione (comprese le indennità di assistenza);
  3. misure volte a incentivare in particolare i disoccupati svantaggiati, giovani e meno giovani, a rimanere o ritornare nel mercato del lavoro.

A tal proposito, il Reg. (UE) n. 1309/2013 evidenzia che la progettazione del pacchetto coordinato di servizi personalizzati dovrebbe tener conto delle prospettive future del mercato del lavoro e delle competenze richieste e che il pacchetto in parola dovrebbe essere compatibile con il passaggio a un’economia sostenibile nonché efficiente sotto il profilo delle risorse.

Invece, l’art. 7, par. 2, Reg. (UE) n. 1309/2013 dichiara non ammissibili a un contributo finanziario a valere sul FEG:

  1. le misure speciali di durata limitata di cui all’art. 7, par. 1, lett. b), Reg. (UE) n. 1309/2013, che non sono condizionali alla partecipazione attiva dei beneficiari interessati ad attività di ricerca di lavoro e di formazione;
  2. le misure che rientrano nella sfera di responsabilità delle imprese in virtù del diritto nazionale o di contratti collettivi.

Inoltre, le azioni sostenute dal FEG non possono sostituire le misure passive di protezione sociale.
È interessante evidenziare come l’art. 7, par. 3, Reg. (UE) n. 1309/2013 valorizzi il rapporto con il partenariato, in perfetta coerenza con l’intera programmazione dei fondi SIE per il periodo 2014-2020, prevedendo che il pacchetto coordinato di servizi personalizzati debba essere elaborato in consultazione con i beneficiari interessati, i loro rappresentanti o le parti sociali.

Le domande di ammissione al contributo

Ai sensi dell’art. 8, par. 1, Reg. (UE) n. 1309/2013, lo Stato membro presenta la domanda di contributo alla Commissione entro dodici settimane dalla data in cui sono soddisfatti i criteri di intervento di cui all’art. 4, par. 1 o 2, Reg. (UE) n. 1309/2013, che, per essere considerata completa, deve contenere diversi elementi indicati in dettaglio nell’art. 8, par. 5, Reg. (UE) n. 1309/2013, tra i quali meritano una particolare attenzione:

  1.  un’analisi motivata del collegamento tra gli esuberi o la cessazione dell’attività e le trasformazioni rilevanti nella struttura del commercio mondiale od il grave deterioramento della situazione economica locale, regionale e nazionale in seguito alla globalizzazione o al persistere della crisi finanziaria ed economica globale oppure a una nuova crisi finanziaria ed economica globale;
  2. la conferma che l’impresa che ha proceduto al licenziamento, qualora le sue attività siano proseguite anche in seguito a tale provvedimento, abbia adempiuto agli obblighi di legge in materia di esuberi accordando ai propri lavoratori tutte le prestazioni previste;
  3. una descrizione del pacchetto coordinato di servizi personalizzati e delle relative spese, comprese in particolare le eventuali misure a sostegno delle iniziative per l’occupazione dei beneficiari svantaggiati, giovani e meno giovani; una spiegazione in merito alla complementarità del pacchetto di misure rispetto alle azioni finanziate da altri fondi nazionali o dell’Unione, nonché informazioni sulle iniziative che rivestono un carattere obbligatorio per le imprese interessate in virtù del diritto nazionale o di contratti collettivi;
  4. una stima dei costi per ciascuna delle componenti del pacchetto coordinato di servizi personalizzati;
  5. le date di avvio, effettive o previste, dei servizi personalizzati; le procedure seguite per la consultazione dei beneficiari interessati, dei loro rappresentanti o delle parti sociali nonché delle autorità locali e regionali o eventualmente di altre organizzazioni interessate;
  6. una dichiarazione di conformità dell’assistenza FEG richiesta alle norme procedurali e sostanziali dell’Unione in materia di aiuti di Stato, nonché una dichiarazione che spieghi i motivi per cui i servizi personalizzati non si sostituiscono alle misure che rientrano nella sfera di responsabilità delle imprese in virtù del diritto nazionale o di contratti collettivi.

La complementarità, la conformità ed il coordinamento

L’art. 9, par. 1, Reg. (UE) n. 1309/2013 specifica che i contributi finanziari a valere sul FEG non sostituiscono le azioni che rientrano nella sfera di responsabilità delle imprese in virtù del diritto nazionale o di contratti collettivi.
L’assistenza a favore dei beneficiari interessati integra le azioni realizzate dagli Stati membri a livello nazionale, regionale e locale, comprese quelle cofinanziate da fondi dell’Unione (cfr., art. 9, par. 2, Reg. (UE) n. 1309/2013), nel rispetto delle norme di diritto dello Stato membro e dell’Unione Europea, anche per quanto concerne le norme in materia di aiuti di Stato (cfr., art. 9, par. 3, Reg. (UE) n. 1309/2013).
A tal proposito, lo Stato membro che ha presentato la domanda garantisce che le azioni specifiche finanziate dal FEG non ricevano assistenza anche da altri strumenti finanziari dell’Unione, con particolare riferimento al Fondo Sociale Europeo (cfr., (cfr., art. 9, par. 5, Reg. (UE) n. 1309/2013).

La determinazione del contributo finanziario

L’art. 13 Reg. (UE) n. 1309/2013 prevede che il tasso di cofinanziamento del contributo FEG non possa superare il 60% del totale dei costi sostenuti.
Si ricorda che l’art. 12 Reg. (UE) n. 1311/2013 ha previsto il fatto che, nell’ambito del quadro finanziario pluriennale per il periodo 2014-2020, gli stanziamenti del FEG non debbano superare un importo massimo annuo di 150 milioni di Euro e che debbano essere iscritti nel bilancio generale dell’Unione Europea a titolo di stanziamento accantonato.

Il pagamento e l’utilizzo del contributo finanziario

Ai sensi dell’art. 16, par. 1, Reg. (UE) n. 1309/2013, il contributo finanziario allo Stato membro interessato viene versato, da parte della Commissione, in un unico pagamento di prefinanziamento pari al 100%.
Lo Stato membro realizza le azioni ammissibili il prima possibile e comunque entro 24 mesi dalla data di presentazione della domanda. Lo Stato membro può decidere di posticipare l’avvio delle azioni ammissibili per un massimo di tre mesi dalla data di presentazione della domanda. In tal caso, le azioni ammissibili sono attuate entro 24 mesi dalla data di avvio comunicata dallo Stato membro nella domanda (cfr., art. 16, par. 4, Reg. (UE) n. 1309/2013).

 

La relazione finale e la chiusura

L’art. 18, par. 1, Reg. (UE) n. 1309/2013 prevede che entro sei mesi dalla scadenza del termine di 24 mesi, lo Stato membro debba presentare alla Commissione una relazione finale sull’attuazione del contributo, contenente le seguenti informazioni:

  1. il tipo di azione e i principali risultati ottenuti;
  2. i nomi degli organismi responsabili dell’esecuzione del pacchetto di misure nello Stato membro;
  3. le caratteristiche dei beneficiari interessati ed il loro status occupazionale;
  4. l’eventualità che l’impresa, salvo che si tratti di microimpresa e PMI, abbia beneficiato di aiuti di Stato o di precedenti finanziamenti a valere sul Fondo di coesione o dei fondi strutturali dell’Unione nei cinque anni precedenti;
  5. una dichiarazione giustificativa delle spese indicante, ove possibile, la complementarità delle azioni con quelle finanziate dal Fondo sociale europeo (FSE).

Entro sei mesi dalla ricezione delle predette informazioni, la Commissione procede alla chiusura del contributo finanziario, determinandone l’importo finale ed eventualmente il saldo dovuto allo Stato membro interessato (cfr., art. 18, par. 2, Reg. (UE) n. 1309/2013).

Infine, l’art. 21 Reg. (UE) n. 1309/2013 sancisce la responsabilità dello Stato membro relativamente alla gestione delle azioni che beneficiano del sostegno FEG, unitamente al controllo finanziario di tali azioni. A tal fine, lo Stato membro deve garantire una valida collaborazione con la Commissione anche in materia di controlli in loco, i quali possono essere effettuati da quest’ultima sulle azioni finanziate, anche mediante selezioni a campione.

 

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Manca un miliardo di euro per la cassa integrazione in deroga

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di Germano De Sanctis

La copertura degli oneri finanziari afferenti alla cassa integrazione ed alla mobilità in deroga (cioè, quelli sostenuti dalla fiscalità generale e non dai versamenti delle imprese) necessita di circa un miliardo di euro per l’anno 2014, il quale non è attualmente nella disponibilità del bilancio dello Stato.
Al contempo, il Ministro del Lavoro Giuliano Poletti ha reso noto che il Governo non ha in agenda alcun intervento correttivo dei conti pubblici per far fronte a tale emergenza, in quanto non è escluso il fatto che la copertura finanziaria per gli ammortizzatori in deroga venga trovata in sede di Legge di Stabilità, la quale, tuttavia, esplicherà i suoi effetti soltanto l’anno prossimo.
Si tratta di un problema che interessa almeno 50 mila lavoratori, il quali rischiano seriamente di rimanere senza alcun sostegno al reddito, aggravando ulteriormente la situazione occupazionale nazionale.

Inoltre, il Ministro Poletti ha anche chiarito che non è stata ancora presa nessuna decisione sulle modalità attuative dell’art. 2, Legge n. 92/2012 (c.d. Riforma Fornero), il quale fissa criteri più rigidi per l’accesso agli ammortizzatori sociali in deroga, limitandone la durata anche e riducendone le forme di utilizzo illecito.
È bene ricordare che la Legge n. 92/2012 prevede, a far data dal 2014, l’uscita graduale dalla cassa integrazione e dalla mobilità in deroga. Per tale ragione, il Governo Letta aveva predisposto un decreto avente ad oggetto la modifica dei criteri per l’accesso alla cassa ed alla mobilità in deroga, riducendo, al contempo, le coperture finanziarie di circa un miliardo di euro. Secondo il Ministro Poletti, permangono tuttora le condizioni tecniche che avevano giustificato la redazione di tale provvedimento, il quale, pertanto, non necessiterebbe di alcun radicale cambiamento.

Comunque, fronte di tali mutamenti normativi, il vero ed attuale problema è rinvenibile nell’assenza di risorse finanziarie adeguate per coprire l’intero costo degli ammortizzatori in deroga per l’anno 2014. Infatti, nei primi mesi di quest’anno, si è dovuto far ricorso all’utilizzo delle risorse afferenti l’anno 2014 per finanziare la cassa in deroga relativa all’anno 2013, la quale sarebbe rimasta altrimenti priva di copertura finanziaria. Di conseguenza, adesso, rimangono scoperte la cassa e la mobilità in deroga dell’anno in corso. Allo stato attuale, come già detto, il Governo non ha approvato ancora alcun decreto e non ha assunto alcuna decisione in merito.

 

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Le nuove norme sulla dirigenza pubblica contenute nella riforma della Pubblica Amministrazione

 

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di Germano De Sanctis

Nel corso della giornata del 13 giugno scorso, il Consiglio dei Ministri ha varato il c.d. “Decreto Legge Semplificazioni e Crescita”, unitamente ad un altro decreto legge sull’ambiente e l’agricoltura ed ad un disegno di legge delega, denominato “Repubblica Semplice”, contenente ben otto deleghe legislative e che, una volta approvato dal Parlamento, mediante un percorso legislativo da concludersi nei prossimi sei mesi, porterà a compimento la riforma della Pubblica Amministrazione avviata con il decreto legge in questione.
Da un punto di vista di tecnica legislativa il Decreto Legge “Semplificazioni e Crescita” è un testo “omnibus”, contenente una enorme quantità di disposizioni afferenti a diverse ed eterogenee materie, ma che, al contempo, affronta questioni irrisolte da tempo.
Invece, il disegno di legge delega “Repubblica Semplice” è composto di dodici articoli, contenenti (come detto) otto deleghe legislative al Governo.
Siamo di fronte al quarto tentativo di riforma della Pubblica Amministrazione posto in essere negli ultimi vent’anni. Sicuramente, incontrerà critiche ed opposizioni, così come le incontrarono i predetti provvedimenti proposti illo tempore. Anche stavolta, il tentativo in questione nasce con le migliori intenzioni e con le più forti ambizioni. Tuttavia, dovrà affrontare un confronto serrato con la macchina burocratica statale attraverso una dialettica che si connoterà per una lunga serie di prove di forza poste a cui si contrapporranno i tentativi di preservare gli equilibri consolidati.
Ci sarà tempo per l’analisi più specifica delle singole norme e per l’esame della loro applicazione concreta. Nel frattempo, analizzeremo le novità più interessanti contenute, sia nel decreto legge, che nel disegno di legge delega, dedicando loro una serie di post suddivisi per area tematica, cominciando con la riforma della dirigenza pubblica.

 

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La riforma della dirigenza pubblica rappresenta una degli elementi più salienti dell’impianto riformatore, il quale si connota per la sua volontà d’introdurre criteri di valutazione e di responsabilità più stringenti, unitamente al ridimensionamento del numero massimo di dirigenti in rapporto al numero complessivo dei dipendenti assegnati ad ogni singola Pubblica Amministrazione.
Inoltre, il provvedimento in esame istituisce il ruolo unico dei dirigenti dello Stato, superando le due fasce attuali. Si potrà accedere al ruolo unico, mediante concorso, sia per le amministrazioni centrali, che per quelle periferiche e per le autorità indipendenti.
I dirigenti saranno distinti tra esperti (con professionalità specifiche) e responsabili di gestione.

I dirigenti avranno incarichi a termine di durata triennale. I risultati di ogni singolo dirigente saranno valutati da una Commissione, secondo una nuova e semplificata serie di criteri di valutazione (oggetto di delega), sia della performance individuale realizzata, che degli uffici diretti.
Tale sistema valutativo è direttamente collegato ad una completa ridefinizione del sistema retributivo della dirigenza pubblica, che sarà in parte ancorato all’andamento del PIL. Infatti, il 15% della retribuzione complessiva di risultato sarà agganciato all’andamento del PIL. Tale percentuale variabile sostituirà l’attuale indennità di posizione, che è attualmente definita in misura fissa dalla contrattazione collettiva.

Vi è anche la previsione della licenziabilità dei dirigenti, qualora, al termine di un contratto costoro rimangano senza l’assegnazione di un nuovo incarico per un lasso di tempo congruo, che verrà individuato in sede di approvazione del disegno di legge delega in Parlamento. Il licenziamento in questione sarà anticipato della messa in mobilità del dirigente interessato.
Verrà anche previsto il diritto all’aspettativa per i dirigenti pubblici che decideranno di vivere un’esperienza di lavoro presso datori di lavoro privati o all’estero.
Invece, vi sarà l’introduzione del divieto di assegnare nuovi incarichi ai dirigenti che avranno raggiunto l’età pensionabile (anche alle dipendenze di società partecipate).

A fronte di tali previsioni per i dirigenti di diritto pubblico (cioè assunti mediante concorso), il decreto legge stabilisce anche che, negli enti locali, la quota di dirigenti assunti per competenze specifiche ed al di fuori dal concorso pubblico passerà dal 10% al 30%.

Il Consiglio dei Ministri del 13 giugno ha anche introdotto un’altra novità consistente in una previsione speciale avente ad oggetto i vertici dirigenziali delle ASL. Infatti, è prevista l’introduzione di una graduatoria unica dei candidati direttori generali delle Aziende Sanitarie Locali, al fine di assicurare trasparenza ed evitare che vengano scelti nomi legati al mondo politico o latori di interessi di parte.
Si tratta di una enorme novità, atteso che attualmente, ogni Regione dispone di una propria lista di soggetti dichiarati idonei (secondo propri criteri) e che utilizza ogni qual volta necessiti di nominare un direttore di una ASL.
La norma in questione impone alle Regioni di nominare soltanto chi, dopo aver preso parte ad un concorso pubblico e aver frequentato un corso universitario di formazione in gestione sanitaria, è stato inserito nell’unica graduatoria nazionale, che sarà oggetto di aggiornamento a cadenza biennale.
Inoltre, al fine d’innalzare la qualità delle prestazioni dirigenziali e di creare una reale sistema di responsabilizzazione dei manager sanitari, è stato previsto che il direttore potrà essere dichiarato decaduto, qualora non raggiunga gli obiettivi di gestione o non garantisca l’equilibro di bilancio, unitamente ai livelli essenziali di assistenza nella sua legge. Analoga ipotesi di decadenza è prevista in caso di commissione di violazioni di legge e regolamento e di mancata imparzialità. Il direttore decaduto verrà cancellato dalla lista nazionale.

 

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In estrema sintesi, il ruolo unico della dirigenza, la flessibilità nell’attribuzione degli incarichi, le politiche retributive ed i percorsi di carriera correlati ai meriti ed alle competenze (unitamente alla revisione della disciplina della responsabilità) non possono che essere oggetto di plauso. Tuttavia, non si può nascondere la preoccupazione di come questo impianto riformatore, una volta approvato dal Parlamento, possa realmente sbloccare un settore che si connota per sua eccessiva rigidità e per il suo perdurante immobilismo, per valorizzare e favorire il lavoro delle persone capaci e competenti, sia già appartenenti al ruolo dei dirigenti pubblici, sia provenienti da altre esperienze lavorative.

In tale ottica, l’età media elevata della dirigenza pubblica rappresenta un’opportunità. Infatti, l’esame dei dati statistici evidenzia la possibilità di gestire senza conflitti con le parti sociali il ricambio generazionale di circa il 50% dei dirigenti attualmente in servizio, semplicemente ricorrendo al turn over fisiologico nell’arco di settennio, con l’avvertenza che, tale lasso temporale, è tempo destinato a ridursi in caso di abolizione dell’istituto del trattenimento in servizio, così come proposto dal Governo.
Tale ultima affermazione non vuole esprimere alcuna valutazione negativa sulla qualità della dirigenza pubblica attuale, la quale, al contrario, è una categoria professionale che si distingue per le tante persone di valore che la occupano. Tuttavia, è necessario prendere atto che il blocco del turn over nel Pubblico Impiego, ha provocato una evidente senescenza della Pubblica Amministrazione ed, in particolare della sua dirigenza, la quale si rende particolarmente evidente, quando si riscontra l’incoerenza dei criteri con cui in passato si selezionavano i dirigenti pubblici con le attuali e future esigenze del “Sistema Paese” .
Pertanto, il primo vero problema da affrontare sarà una radicale riforma delle modalità di selezione concorsuali. Il concorso pubblico deve abbandonare le sue modalità tradizionali di svolgimento, finalizzate alla mera verifica di una formazione teorica di base. Invece, i futuri concorsi pubblici per dirigenti dovranno essere rispettosi delle più moderne tecniche di accertamento delle competenze e delle attitudini delle persone, tenendo anche conto dei risultati professionali conseguiti, nonché dei meriti accumulati nello svolgimento del proprio lavoro.

 

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INPS: AGGIORNATE LE TABELLE PER IL CALCOLO DEGLI ASSEGNI AL NUCLEO FAMILIARE.

L’assegno al nucleo familiare è una prestazione di natura assistenziale, a sostegno delle famiglie dei lavoratori dipendenti e dei titolari di prestazione a carico dell’assicurazione generale obbligatoria (AGO) dell’Inps, che abbiano un reddito complessivo al di sotto delle fasce stabilite ogni anno per legge. La sussistenza del diritto e la misura dell’importo dell’assegno dipendono dal numero dei componenti il nucleo familiare, dal reddito complessivo del nucleo familiare e dalla tipologia di nucleo. L’assegno mensile spettante, percepito generalmente per il tramite del datore di lavoro, va individuato nelle apposite tabelle ANF.

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Con circolare numero 76 dell’11 giugno 2014, l’INPS ha reso note le nuove tabelle per il calcolo degli assegni familiari relative al periodo 01/07/2014 – 30/06/2015.

La legge n. 153/88 stabilisce che i livelli di reddito familiare da tener conto, per il calcolo dell’assegno per il nucleo familiare spettante, sono rivalutati ogni anno, con decorrenza dal 1° luglio di ciascun anno, in misura pari alla variazione dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati, calcolato dall’ISTAT.

Per il 2014, la variazione percentuale dell’indice dei prezzi al consumo tra l’anno 2012 e l’anno 2013, secondo i calcoli dell’Istat è risultata pari al 1,1%.

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Alla circolare vengono allegate delle tabelle contenenti i nuovi livelli reddituali, nonché i corrispondenti importi mensili della prestazione, da applicare dal 1° luglio 2014 al 30 giugno 2015, alle diverse tipologie di nuclei familiari.

Clicca qui per conoscere la tabella pubblicata dall’INPS relativa al 2014-2015. Per consultare la tabella è necessario per prima cosa calcolare il proprio reddito familiare, rapportarlo alla propria composizione familiare e poi procedere all’individuazione dell’importo dell’assegno per il nucleo familiare corrispondente al proprio reddito.

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L’ANF è una prestazione il cui scopo è quello di integrare il reddito familiare: viene erogata tramite i datori di lavoro, in busta paga, oppure direttamente dall’Inps in alcuni casi particolari. Per richiederlo, il lavoratore deve compilare il modulo fornito dall’INPS con i dati del proprio nucleo familiare e i redditi relativi al 2013 e consegnarlo al proprio datore di lavoro il quale provvede al calcolo dell’importo corretto in base alle informazioni inserite nel modulo e alla corresponsione dell’assegno, andando poi a recuperare l’importo direttamente dall’INPS.

Spetta a:
– Lavoratori dipendenti, anche per i periodi nei quali fruiscono di prestazioni previdenziali legate alla sospensione del rapporto di lavoro (malattia, cassa integrazione guadagni CIG o CIGS, disoccupazione, mobilità, ecc.);
– Soci delle cooperative, lavoratori assistiti per tubercolosi, lavoratori richiamati alle armi;
– Lavoratori in aspettativa per cariche pubbliche elettive e sindacali;
– Personale statale in servizio ed in quiescenza, pensionati del Fondo pensioni lavoratori dipendenti;
– Pensionati dei fondi speciali come autoferrotranvieri, Fondo Elettrici e gas, esattoriali, telefonici, personale di volo e dazieri;
– Pensionati degli Enti Pubblici territoriali e non territoriali;
– Ai caratisti imbarcati sulla nave da loro stessi armata e agli armatori e proprietari armatori imbarcati, in quanto, secondo quanto previsto dalla risoluzione n. 19 del 1998 del Ministero delle Finanze, il loro reddito derivante dall’attività è equiparato a quello di lavoro dipendente;
– Agli iscritti alla Gestione Separata dei lavoratori autonomi (collaboratori coordinati e continuativi, collaboratori con contratto a progetto, venditori porta a porta e liberi professionisti).

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L’assegno per il nucleo familiare spetta solo se la somma dei redditi da lavoro dipendente, da pensione o da altra prestazione previdenziale derivante da lavoro dipendente, relativa al nucleo familiare nel suo complesso, ammonta almeno al 70% dell’intero reddito familiare.

MDS
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