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BACK TO 1977. Disoccupazione da record: sale al 12,9%

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Record dei senza lavoro a gennaio 2014. Nello scorso mese di gennaio la disoccupazione è balzata al 12,9%, un aumento dell’1,1% su base annuale, mentre la disoccupazione giovanile è salita al 42,4%. Le rilevazioni sono state effettuate dall’Istat. Un tasso così alto di disoccupazione non si vedeva dal 1977. La percentuale dei disoccupati è, infatti, la più alta tra quelle registrate dall’Istituto di statistica dall’inizio delle serie sto­ri­che nel 1977.
Secondo i rilevamenti Istat, aumenta anche il numero dei cd. “scoraggiati”, quelli cioè che hanno ormai rinunciato a cercare lavoro: il dato si attesta intorno ai 2 milioni.
L’Istat segnala, inol­tre, il crollo dell’occupazione anche tra i pre­cari. Gli «ati­pici», così ven­gono defi­niti, sono dimi­nuiti di 197 mila unità.

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Di fronte a queste cifre e alle voci sempre più insistenti sul contenuto del Jobs Act, non siamo certi che sia sufficiente introdurre altra flessibilità nel mercato del lavoro per innescare un fenomeno di controtendenza e così miglio­rarne l’efficienza. L’Italia ha già assecondato il FMI e la Commissione UE (oltreché la Signora Merkel) e il risultato è stata una disastrosa riforma che ha persino creato una nuova categoria di senza lavoro e senza reddito, quella degli esodati. Dai rumors intorno al Jobs Act si apprende infatti la volontà dell’Esecutivo di intro­durre un nuovo con­tratto di inse­ri­mento, sospen­dendo l’articolo 18 (sic!) per tre anni a bene­fi­cio delle imprese. La finalità è quella di creare nuova occu­pa­zione, ma sospen­dere i diritti sui nuovi con­tratti di inse­ri­mento, impro­pria­mente defi­niti dal Jobs Act ‘con­tratto unico’ equivale a pre­ca­riz­zare ulteriormente il lavoro.
Bisogna puntare, invece, al repe­ri­mento delle risorse neces­sa­rie a finan­ziare il sus­si­dio uni­ver­sale di disoc­cu­pa­zione, prima di mirare alla riforma dei contratti di lavoro. L’estensione dell’Aspi isti­tuita dalla riforma For­nero, infatti, susciterà nei prossimi giorni forti polemiche, soprattutto se quei fondi verranno tolti alla Cassa Integrazione in deroga, come pare dalle prime indiscrezioni. Ma l’estensione è oramai divenuta necessaria per tanti, vitale per troppi. Nel contempo, il mondo del lavoro ha altresì bisogno di inve­sti­menti pub­blici per far ripar­tire la cre­scita, e di finanziamenti finalizzati al taglio del cuneo fiscale, almeno da 10 miliardi di euro come prospettato anche dal leader della minoranza PD Cuperlo e dalla CGIL.
Le cifre sulla disoccupazione sono più che preoccupanti: aumentano un allarme sociale, giunto ormai a livelli altissimi, a cui il Governo sarà chiamato a breve a dare una risposta.

Michele De Sanctis

Le banche italiane sono le più esposte (dopo l’Austria) in Ucraina con oltre 5 miliardi di dollari (nel 2013)

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Di Vito Lops (Il Sole 24 Ore del 3 marzo 2014)

Le tensioni in Ucraina spaventano i mercati finanziari. Il rublo è a picco, le Borse in netto ribasso. Il G7 ha condannato l’iniziativa di Mosca che ha avuto l’ok del Parlamento ad un’operazione militare in Crimea. La Russia ha però l’appoggio della Cina.
A Piazza Affari vanno male le banche e, in particolare Unicredit che è una delle 10 più grandi banche prestatrici in Ucraina, con un’esposizione complessiva di 2,3 miliardi di euro (poco meno 3 miliardi di dollari al cambio attuale). L’istituto di Piazza Cordusio opera con la controllata Ukrsotsbank. Giù anche Intesa Sanpaolo, che però ha lasciato il Paese lo scorso gennaio con la cessione di Pravex Bank.
Secondo un’elaborazione della Banca dei regolamenti internazionali (aggiornata al terzo trimestre 2013) gli istituti italiani, tra quelli stranieri, sono i più esposti all’Ucraina dopo quelli austriaci per un totale di oltre 5 miliardi di dollari. Gli istituti austriaci superano i 7 mentre decisamente più residuale è l’esposizione degli istituti statunitensi, tedeschi e britannici (intorno, e anche meno nel caso del Regno Unito) al miliardi di dollari.
Nel complesso l’esposizione in Ucraina da parte di banche europee ammonta a 23 miliardi di dollari.

Fonte: Il Sole 24 Ore

I PUNTI DEL JOBS ACT DI MATTEO RENZI. SARÀ LA VERA CONTRORIFORMA FORNERO O LO SPIRITO RIFORMISTA RESTERÀ SOLO NEI TWEET DEL PREMIER 2.0?

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Annunciata da un tweet: la riforma del lavoro che il Governo Renzi si appresta a varare. L’obiettivo dichiarato è quello di creare posti di lavoro, rendendo semplice il sistema, incentivando la voglia di investire dei nostri imprenditori, attraendo capitali stranieri. Tra il 2008 e il 2012 l’Italia ha attratto 12 miliardi di euro all’anno di investimenti stranieri: metà della Germania, 25 miliardi, un terzo della Francia e della Spagna, 37 miliardi. Per la Banca Mondiale siamo al 73° posto al mondo per facilità di fare impresa (dopo la Romania, prima delle Seychelles). Per il World Economic Forum siamo al 42° posto per competitività (dopo la Polonia, prima della Turchia).
Sul suo sito, il Presidente del Consiglio, dopo questa premessa e l’invito a mettersi sotto per cambiare l’Italia, lasciando da parte l’ideologia, elenca i punti cruciali di quello che sarà il suo Jobs Act, che trovate anche di seguito.

Parte A – Il Sistema

1. Energia. Il dislivello tra aziende italiane e europee è insostenibile e pesa sulla produttività. Il primo segnale è ridurre del 10% il costo per le aziende, soprattutto per le piccole imprese che sono quelle che soffrono di più (Interventi dell’Autorità di Garanzia, riduzione degli incentivi cosiddetti interrompibili).
2. Tasse. Chi produce lavoro paga di meno, chi si muove in ambito finanziario paga di più, consentendo una riduzione del 10% dell’IRAP per le aziende. Segnale di equità oltre che concreto aiuto a chi investe.
3. Revisione della spesa. Vincolo di ogni risparmio di spesa corrente che arriverà dalla revisione della spesa alla corrispettiva riduzione fiscale sul reddito da lavoro.
4. Azioni dell’agenda digitale. Fatturazione elettronica, pagamenti elettronici, investimenti sulla rete.
5. Eliminazione dell’obbligo di iscrizione alle Camere di Commercio. Piccolo risparmio per le aziende, ma segnale contro ogni corporazioni. Funzioni delle Camere assegnate a Enti territoriali pubblici.
6. Eliminazione della figura del dirigente a tempo indeterminato nel settore pubblico. Un dipendente pubblico è a tempo indeterminato se vince concorso. Un dirigente no. Stop allo strapotere delle burocrazie ministeriali.
7. Burocrazia. Intervento di semplificazione amministrativa sulla procedura di spesa pubblica sia per i residui ancora aperti (al Ministero dell’Ambiente circa 1 miliardo di euro sarebbe a disposizione immediatamente) sia per le strutture demaniali sul modello che vale oggi per gli interventi militari. I Sindaci decidono destinazioni, parere in 60 giorni di tutti i soggetti interessati, e poi nessuno può interrompere il processo. Obbligo di certezza della tempistica nel procedimento amministrativo, sia in sede di Conferenza dei servizi che di valutazione di impatto ambientale. Eliminazione della sospensiva nel giudizio amministrativo.
8. Adozione dell’obbligo di trasparenza: amministrazioni pubbliche, partiti, sindacati hanno il dovere di pubblicare online ogni entrata e ogni uscita, in modo chiaro, preciso e circostanziato.

Parte B – I nuovi posti di lavoro

Per ognuno di questi sette settori, il JobsAct conterrà un singolo piano industriale con indicazione delle singole azioni operative e concrete necessarie a creare posti di lavoro.
a) Cultura, turismo, agricoltura e cibo.
b) Made in Italy (dalla moda al design, passando per l’artigianato e per i makers)
c) ICT
d) Green Economy
e) Nuovo Welfare
f) Edilizia
g) Manifattura

Parte C – Le regole

I. Semplificazione delle norme. Presentazione entro otto mesi di un codice del lavoro che racchiuda e semplifichi tutte le regole attualmente esistenti e sia ben comprensibile anche all’estero.
II. Riduzione delle varie forme contrattuali, oltre 40, che hanno prodotto uno spezzatino insostenibile. Processo verso un contratto di inserimento a tempo indeterminato a tutele crescenti.
III. Assegno universale per chi perde il posto di lavoro, anche per chi oggi non ne avrebbe diritto, con l’obbligo di seguire un corso di formazione professionale e di non rifiutare più di una nuova proposta di lavoro.
IV. Obbligo di rendicontazione online ex post per ogni voce dei denari utilizzati per la formazione professionale finanziata da denaro pubblico. Ma presupposto dell’erogazione deve essere l’effettiva domanda delle imprese. Criteri di valutazione meritocratici delle agenzie di formazione con cancellazione dagli elenchi per chi non rispetta determinati standard di performance.
V. Agenzia Unica Federale che coordini e indirizzi i centri per l’impiego, la formazione e l’erogazione degli ammortizzatori sociali.
VI. Legge sulla rappresentatività sindacale e presenza dei rappresentanti eletti direttamente dai lavoratori nei CDA delle grandi aziende.

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Dal 2008 ad oggi in Ita­lia si sono persi un milione di posti di lavoro. Circa 3 milioni e 300 mila disoc­cu­pati. Più del dop­pio dal gen­naio 2007. E tutti gli osser­va­tori con­fer­mano, ormai da anni, che anche dinanzi ad una ripresa, non si recu­pe­re­ranno i posti di lavoro persi. D’altro canto, l’Italia non vede neppure la timida luce di un inizio di ripresa.
Il Pre­si­dente del Con­si­glio, tuttavia, sa bene che serve qual­cosa di più con­creto di un semplice tweet e una serie di dichiarazioni di principio sul suo sito, perché gli italiani possano guardare al Jobs Act con fiducia. E infatti, sul punto sono già arrivate un paio di inter­vi­ste al respon­sa­bile eco­no­mia del PD Filippo Tad­dei (La Stampa) e a Ste­fano Sac­chi (La Repub­blica), quest’ultimo stu­dioso di Wel­fare, co-autore del libro Flex-insecurity (2009) e, probabilmente, neo con­su­lente del Governo Renzi. Ambe­due riten­gono prio­ri­ta­ria la tutela delle per­sone più svan­tag­giate. Si parla di Naspi, Nuova Aspi, per dif­fe­ren­ziarla da quell’ASPI intro­dotta dal Mini­stro For­nero. Sem­bre­rebbe una uni­ver­sa­liz­za­zione del sus­si­dio di disoc­cu­pa­zione, per venire incon­tro ai milioni di per­sone escluse dall’attuale sus­si­dio. Una risposta alle richieste dell’opposizione, peraltro: SEL e M5S, in particolare. Sembra positivo.

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Tuttavia i dati che forniscono sia Taddei che Sacchi sono pressoché discordanti. Se, infatti, dalle parole di Tad­dei leggiamo che «la pla­tea dei poten­ziali bene­fi­ciari si allar­ghe­rebbe di oltre 300mila» lavo­ra­tori a pro­getto, attual­mente senza garan­zie, Sac­chi aggiunge un altro milione di dipen­denti a ter­mine, som­mi­ni­strati, inte­ri­nali, anche loro fuori dai para­me­tri della Riforma For­nero. Qualcosa non torna, evidentemente. 300.000 o 1.300.000? E poi c’è da considerare cosa le parti sociali, sindacati e rappresentanze dei datori di lavoro, opporranno a questa riforma, anche per­ché i soldi andreb­bero presi dalla Cassa Inte­gra­zione Guadagni in deroga, fino ad oggi pro­lun­gata per far fronte alla crisi e a quegli effetti perversi della Riforma Fornero non preventivati dall’ex Ministro né dall’esecutivo del Prof. Monti. Ed è, inoltre, preoccupante il fatto che colla NASPI, comunque, rimar­reb­bero fuori dall’estensione del sus­si­dio i lavo­ra­tori auto­nomi, molti dei quali ridotti in con­di­zioni di pro­gres­sivo impo­ve­ri­mento, con fisco e ver­sa­menti alla Gestione Sepa­rata INPS che restano impla­ca­bili, con Equitalia alla porta, ancor più implacabile. Si paventa, perciò, una riforma priva di una concreta equità sociale: assenza, questa, che man­tiene la nostra demo­cra­zia fuori da qual­siasi para­me­tro di redi­stri­bu­zione delle ric­chezze in favore delle per­sone a rischio di esclu­sione sociale. E ciò mentre il Paese resta immo­bile, anzi no, il Paese si muove, ma in caduta libera verso la defla­zione, tanta è ormai la carenza di liqui­dità economica. E nel frattempo si assiste ad una quotidiana guerra tra poveri. Sui social, per strada, negli Uffici Pubblici. Adesso chi spiegherà ai lavoratori autonomi per quale ragione dovranno versare i contributi INPS e pagare le tasse, anche se l’accesso al sussidio è a loro precluso. L’impiegato di turno allo sportello dell’INPS e dell’A.E.? E quale compagine politica lucrerà sul malcontento di un’intera classe di lavoratori? Lo vedremo presto: su certi blog, su Facebook e Twitter compariranno slogan e notizie recriminatorie annunciate da titoli shock e abbinate a immagini sommariamente photoshoppate e a banner sgrammaticati.
L’augurio e la speranza di chi scrive è che la Riforma sia concertata, che il dialogo con le parti sociali porti in primis equità sostanziale. Perché è di questo che abbiamo bisogno. Senza non ci sarà alcuna ripresa. Un guru che prometteva soluzioni miracolose c’è già stato: ed è dal ’94 che aspettiamo quel milione di posti di lavoro. Una riforma che comprenda tutti, nessuno escluso, è ciò che il Paese merita, perché senza, nessun Jobs Act potrebbe funzionare davvero. Il resto sono solo tweet, post e reblog: dal Governo all’Opposizione. Ma di concreto ancora niente…

Michele De Sanctis

I bosniaci hanno fame in tre lingue

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Di Wolfgang Petritsch, Ambasciatore dell’Austria alle Nazioni Unite, ex Alto Rappresentante della comunità internazionale in Bosnia Erzegovina , articolo pubblicato originariamente su BalkanInsight il 19 febbraio 2014.

La Bosnia Erzegovina deve tornare ad essere una priorità per l’Europa: serve un nuovo Piano Marshall per portarla sulla strada dell’Unione Europea. L’appello di Wolfgang Petritsch, ex Alto Rappresentante a Sarajevo
(Questo articolo è stato pubblicato originariamente su BalkanInsight il 19 febbraio 2014)
La Bosnia deve sfuggire al vicolo cieco in cui si è persa, attraverso una riforma radicale del suo fallimentare sistema politico e con l’aiuto di un nuovo Piano Marshall europeo.
E’ troppo presto per valutare l’impatto delle proteste sociali delle ultime settimane sul futuro del paese. Tuttavia, è il momento di trarre alcune conclusioni dal grido pubblico che ha risuonato superando le divisioni etniche e lasciando il potere politico in uno stato di confusione.
Una cosa è certa: dopo Tuzla, Sarajevo e le tante altre manifestazioni di rivolta dal basso, la Bosnia Erzegovina non sarà più la stessa. Ha iniziato a parlare in una sola lingua.
In primo luogo bisogna riconoscere che, a partire dalla proteste davanti al Parlamento l’estate scorsa a Sarajevo, il discorso pubblico si è spostato da una “politica della paura”, guidata etnicamente alla questione della risoluzione dei bisogni fondamentali per tutti i cittadini.
Oggi vedo soltanto un elemento di unione in un paese diviso: “siromaštvo”, la povertà.
Indipendentemente dall’origine etnica, la povertà colpisce bosniaci, croati, serbi, ma anche “gli altri di Dayton” da anni.
Il mio appello disperato ai politici locali è di abbandonare la retorica di odio ed esclusione e unirsi a lavorare per le persone.
Bruxelles, d’altro canto, è da biasimare per l’assenza di una guida decisa e per la perdita di interesse verso la Bosnia. La routine burocratica ha preso il posto dell’impegno politico. L’UE ha una delle sue più importanti missioni a Sarajevo, ma non è stata in grado di invertire la spirale negativa del disastro sociale ed economico bosniaco. Questa situazione deve cambiare.
Suggerisco un approccio su due fronti:
1. La riforma del sistema politico. La Bosnia deve diventare uno stato funzionale: democratico, europeo e al servizio dei cittadini. In virtù del suo disegno multietnico, la Bosnia ha bisogno di una struttura di governance decentrata ed efficiente (così come ne ha bisogno l’UE). Non c’è spazio in Europa per feudi separatisti, né in Republika Rspska, né in Federazione, dove molti politici non vogliono unirsi all’UE perché temono di perdere il proprio status privilegiato.
Chi ha bisogno di 140 ministri e di 800 parlamentari, e di un budget di cui circa il 50% è destinato alla burocrazia? Sicuramente non i cittadini bosniaci, che da tempo hanno capito che l’unico posto di lavoro sicuro è la politica, dove, una volta arrivati, si cerca di restarci sperando che duri il più possibile. I cambiamenti costituzionali sono inevitabili.
Quando negli USA, dove lavoro adesso, parlo di questa tremenda confusione, i miei interlocutori sono increduli. “Questo per 3,8 milioni di abitanti?”, mi chiedono.
2. Un Piano Marshall europeo per la Bosnia. Con questo intendo un “patto” economico e sociale che affronti gli effetti di vent’anni di assistenza economica fallimentare. Deve essere basato su cosa ha funzionato (la guerra è stata fermata, la ricostruzione ha avuto luogo) e su cosa non ha funzionato (troppe cose). Un piano completo per il futuro della Bosnia deve essere ideato tra le forze riformatrici locali e l’UE. Tutti sanno cosa c’è bisogno di fare, ma nessuno lo fa. Cambiamo questo stato di cose e costruiamo uno stato per i cittadini. Tutti i cittadini.

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Wolfgang Petritsch (Foto Luka Zanoni)

Di fondi ce ne sono in abbondanza. Pensiamo a questo: solo l’anno scorso la Bosnia ha perso 45 milioni di euro a causa dell’incapacità dei politici di rispettare persino le condizioni più basilari. Centinaia di milioni di fondi europei sono a rischio per il settennio 2014-2020.
Un altro esempio: da quando la vicina Croazia è entrata nell’UE, le esportazioni dalla Bosnia si sono fermate a causa della mancanza di leggi adeguate in materia sanitaria.
L’economia bosniaca sta perdendo ancora perché i politici si accusano l’un l’altro piuttosto che fare il proprio lavoro. Ci sono fondi ed opportunità notevoli; quello che manca è la volontà politica di metterli a frutto.
Le due misure che propongo, portate avanti congiuntamente, prospettano una seria strategia per il cambiamento. Due aspetti vengono subito alla mente: la Bosnia deve ritornare ad essere una priorità europea. Con la leadership di Bruxelles, paesi vicini ed amici come l’Austria devono fare un passo verso le proprie responsabilità e investire, politicamente, economicamente e nell’educazione. Dopo tutto, la Bosnia non è neanche un decimo dell’Ucraina.
L’UE ha bisogno di nuovi partner. Le vecchie élite, molte ancora attive dai tempi della guerra, devono ammettere di aver completamente fallito, e trarne le conseguenze. Questa è una buona opportunità per loro, che hanno le più grandi responsabilità per il disastro bosniaco, di lasciare la politica. Farebbero al paese e ai cittadini il loro ultimo, grande favore.
La questione è: chi potrebbero essere questi nuovi attori? Difficile da dire, ma la risposta va cercata. Cittadini, lavoratori, accademici e politici non corrotti (molti politici si sono dimessi!) devono prendere sul serio il mio appello.
Io credo profondamente che queste proteste siano un’opportunità storica per la Bosnia; temo, l’ultima.
Posso soltanto sperare che presto ci sarà una leadership civica ed un programma di riforma con una comune visione per la Bosnia che sia realistica nelle sue richieste; che superi le divisioni etniche, che sia aperta ma che abbia cura della selezione dei partecipanti a questo processo.
Ai partiti che ora hanno perso ogni credito non deve essere permesso di infiltrarsi nel nuovo movimento civico. Sento dire dai miei amici bosniaci che molti sono delusi di alcuni accademici, funzionari e ONG che mantengono relazioni troppo intime con gli attuali leader dell’etno-politica.
La cosiddetta comunità internazionale, infine, che ha perso interesse per la Bosnia da tempo, deve capire che il suo intervento umanitario negli anni Novanta (pieno di buone intenzioni) ha fatto il suo corso. Vent’anni dopo la fine della guerra nuove strutture devono rimpiazzare gli assetti di Dayton, a partire dall’Ufficio dell’Alto Rappresentante.
Gli Stati Uniti, l’UE, la Germania e altri devono unirsi e dare alle proprie politiche un impeto nuovo.
La Bosnia deve essere portata irreversibilmente sulla strada verso l’Unione europea. L’ingresso nell’UE non avverrà domani; ci vorrà tanto tempo. Ma il viaggio deve iniziare immediatamente, sostenuto da tante voci civili che parlano una sola lingua.

Fonte: Osservatorio Balcani e Caucaso

La Francia con le spalle al muro davanti a uno shock deflazionistico

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L’economia esiste perché esiste lo scambio, ogni scambio presuppone l’esistenza di due parti, con interessi contrapposti: l’acquirente vuole spendere di meno, il venditore vuole guadagnare di più. Molte analisi dimenticano questo dato essenziale. Per contribuire a una lettura più equilibrata della realtà abbiamo aperto questo blog, ispirato al noto pensiero di Pippo: “è strano come una discesa vista dal basso somigli a una salita”. Una verità semplice, ma dalle applicazioni non banali…

Il presidente francese François Hollande deve ora pagare il prezzo per essersi piegato alle politiche recessive dell’eurozona. Il suo paese sta entrando in deflazione.

In gennaio i prezzi in Francia sono scesi dello 0,6% rispetto al mese precedente e sarebbero scesi anche di più se non ci fosse stato un aumento della tassazione una tantum.

I prezzi dei prodotti manifatturieri sono scesi del 3% e il vestiario è sceso del 15,4%, visto che i rivenditori hanno abbassato i prezzi per svuotare i magazzini.

In Francia i prezzi “core” (esclusi alimentari ed energia, ndt) sono in caduta da mesi, anche se l’indice core dei prezzi al Consumo calcolato su base annuale è ancora lievemente positivo, allo 0,1%.

Questa situazione è esattamente quella che un anno fa l’Observatoire Economique aveva previsto che si sarebbe verificata in seguito alle politiche restrittive dell’eurozona, ossia in presenza di una triplice stretta di austerità fiscale, politica monetaria passivamente restrittiva, e drastica contrazione dei prestiti bancari.

Sorpresa, sorpresa! L’aggregato monetario M3 dell’eurozona è in contrazione fin dallo scorso marzo.

Molti ridevano delle previsioni dell’Observatoire. Adesso nessuno ha più voglia di ridere. Come ha detto l’IMF la scorsa notte, manca solo uno shock esterno perché l’Europa sprofondi decisamente in deflazione.

“Un nuovo rischio per l’attività economica deriva da un’inflazione molto bassa nelle economie avanzate, soprattutto nell’eurozona che, se dovesse rimanere sotto il proprio obiettivo di inflazione per un periodo prolungato, potrebbe compromettere le aspettative di inflazione a lungo termine. Una bassa inflazione comporta il rischio di deflazione in caso di un grave shock negativo dell’economia. Nell’eurozona, la bassa inflazione complica anche il compito della periferia dove il peso reale del debito sia pubblico che privato aumenterebbe in seguito all’aumento dei tassi di interesse reali.”

Da dove lo shock potrebbe arrivare, non è un mistero. La Fed e la Banca centrale cinese stanno facendo politiche restrittive, provocando una tempesta nei mercati emergenti che si sta aggravando di giorno in giorno.

Una lunga lista di paesi sono obbligati ad alzare i tassi di interesse per difendere le loro valute, creando un ulteriore impulso alla contrazione. Alcuni di questi paesi stanno uscendo fuori dai binari tutti contemporaneamente.

Gli ottimisti hanno una fede commovente nella locomotiva tedesca, che secondo loro dovrebbe tirare l’eurozona fuori dalla palude, ma i dati più recenti dimostrano che i salari tedeschi sono scesi dello 0,2% nel 2013. Anche la Germania è in deflazione salariale.

Il che fa sorgere la domanda: come diavolo faranno la Francia, l’Italia, la Spagna, il Portogallo e la Grecia a recuperare la competitività del lavoro perduta nei confronti della Germania tramite delle “svalutazioni interne”, se i salari tedeschi sono in calo?

Questo costringe tali paesi ad entrare in una deflazione salariale ancor più profonda per colmare il divario, cosa che a sua volta porta le dinamiche del debito fuori controllo, poiché l’effetto denominatore peggiora la situazione.

Esiste una soluzione tecnica per questo. Si chiama Quantitative Easing. La Banca Centrale Europea può allontanare dagli scogli l’intero sistema UEM lanciando un blitz monetario per centrare il proprio target di crescita M3 del 4,5%.

Purtroppo, la Corte costituzionale tedesca ha appena sollevato l’asticella della politica sul QE a un livello così alto che la BCE dovrà attendere l’urto sugli scogli prima di reagire, e allora sarà troppo tardi.

Contrariamente a quanto si crede comunemente, nei trattati non c’è nessun divieto contro il QE. Mario Draghi ha detto esplicitamente che “non è illegale” e rimane un’opzione in extremis.

Maastricht vieta la monetizzazione del deficit ma non le operazioni di mercato aperto (QE) necessarie per mantenere la stabilità monetaria.

Il presunto vincolo è interamente politico e ideologico, e spinto dal timore che gli euroscettici tedeschi possano contrastarlo nei tribunali.

Così abbiamo una situazione di stallo. Cosa succede ora, se le polveri bagnate della ripresa dell’eurozona ancora una volta non prendono fuoco? Il destino del Giappone è dietro l’angolo.

Fonte: Goofynomics

Traduzione: Voci dall’estero

Gli invisibili dell’Europa

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Di Barbara Spinelli, pubblicato su La Repubblica 26/02/2014

Il dolore sta producendo risultati”: fa impressione, proprio ora che è divenuto ministro dell’Economia, rileggere quel che Pier Carlo Padoan disse il 29 aprile 2013 al Wall Street Journal, quando era vice segretario generale dell’Ocse.

Già allora i dati sull’economia reale smentivano una così impudente glorificazione dell’austerità – e addirittura dei patimenti sociali che infliggeva – ma l’ultimo numero di Lancet, dedicato alla sanità pubblica in Grecia dopo sei anni di Grande Depressione, va oltre la semplice smentita. Più che correggersi, il ministro farebbe bene a scusarsi di una frase atroce che irresistibilmente ricorda Pangloss, quando imperterrito rassicura Candide mentre Lisbona è inghiottita dal terremoto raccontato da Voltaire: “Queste cose sono il meglio che possa accadere. La caduta dell’uomo e la maledizione entrano necessariamente nel migliore dei mondi possibili”.

Lancet non è un giornale di parte: è tra le prime cinque riviste mediche mondiali. Il suo giudizio sulla situazione ellenica, pubblicato sabato in un ampio dossier (lo ha ripreso Andrea Tarquini sul sito di Repubblica), è funesto: la smisurata contrazione dei redditi e i tagli ai servizi pubblici hanno squassato la salute dei cittadini greci, incrementando il numero di morti specialmente tra i bambini, tra gli anziani, nelle zone rurali. Nella provincia di Acaia, il 70 per cento degli abitanti non ha soldi per comprare le medicine prescritte. Emergency denuncia la catastrofe dal giugno 2012. Numerose le famiglie che vivono senza luce e acqua: perché o mangi, o paghi le bollette. Nel cuore d’Europa e della sua cultura, s’aggira la morte e la chiamano dolore produttivo.
“Siamo di fronte a una tragedia della sanità pubblica”, constata la rivista, “ma nonostante l’evidenza dei fatti le autorità responsabili insistono nella strategia negazionista”. Qualcuno deve spiegare a chi agonizza come sia possibile che il dolore e la morte siano “efficaci”, e salvifiche per questo le riforme strutturali fin qui adottate.

Né è solo “questione di comunicazione” sbagliata, come sosteneva nell’intervista Padoan: sottolineare gli esiti promettenti del consolidamento fiscale, ammorbidendo magari qualche dettaglio tecnico, non toglie la vittoria al pungiglione della morte. Trasforma solo un’improvvida teoria economica in legge naturale, perfino divina. Moriremo, certo, ma in cambio il Paradiso ci aspetta. Soprattutto ci aspetta se non cadremo nel vizio disinvoltamente rinfacciato agli indebitati-impoveriti: la “fatica delle riforme” (reform fatigue), peccato sempre in agguato quando i governi “sono alle prese con resistenze sociali molto forti”. Quando siamo ingrati, come Atene, alle iniezioni di liquidità che l’Unione offre a chi fa bancarotta: nel caso greco, due bailout tardivi, legati a pacchetti deflazionistici monitorati dalla trojka. I contribuenti tedeschi hanno già dato troppo, dicono in Germania. Non è vero, i contribuenti non hanno pagato alcunché perché di prestiti si tratta, anche se a tassi agevolati e destinati in primis alle banche.

Difficile dar torto alle “forti resistenze sociali”, se solo guardiamo le cifre fornite su Lancet dai ricercatori delle università britanniche di Cambridge, Oxford e Londra. A causa della malnutrizione, della riduzione dei redditi, della disoccupazione, della scarsità di medicine negli ospedali, dell’accesso sempre più arduo ai servizi sanitari (specie per le madri prima del parto) le morti bianche dei lattanti sono aumentate fra il 2008 e il 2010 del 43%. Il numero di bambini nati sottopeso è cresciuto del 19 %, quello dei nati morti del 20.

Al tempo stesso muoiono i vecchi, più frequentemente. Fra il 2008 e il 2012, l’incremento è del 12,5 fra gli 80-84 anni e del 24,3 dopo gli 85. E s’estende l’Aids, perché la distribuzione di siringhe monouso e profilattici è bloccata. Malattie rare o estinte ricompaiono, come la Tbc e la malaria (quest’ultima assente da 40 anni. Mancano soldi per debellare le zanzare infette).
La rivista inglese accusa governi e autorità europee, ed elogia i paesi, come Islanda e Finlandia, che hanno respinto i diktat del Fondo Monetario o dell’Unione. Dopo la crisi acuta del 2008, Reykjavik disse no alle misure che insidiavano sanità pubblica e servizi sociali, tagliando altre spese scelte col consenso popolare. Non solo: capì che la crisi minacciava la sovranità del popolo, e nel 2010-2011 ridiscusse la propria Costituzione mescolando alla democrazia rappresentativa una vasta sperimentazione di democrazia diretta.

Non così in Grecia. L’Unione l’ha usata come cavia: sviluppi islandesi non li avrebbe tollerati. Proprio nel paese dove Europa nacque come mito, assistiamo a un’ecatombe senza pari: una macchia che resterà, se non cambiano radicalmente politiche e filosofie ma solo questo o quel parametro. Il popolo sopravvive grazie all’eroismo di Ong e medici volontari (tra cui Médecins du Monde, fin qui attivi tra gli immigrati): i greci che cercano soccorso negli ospedali “di strada” son passati dal 3-4% al 30%. S’aggiungono poi i suicidi, in crescita come in Italia: fra il 2007 e il 2011 l’aumento è del 45%. In principio s’ammazzavano gli uomini. Dal 2011 anche le donne.
Lancet non è ottimista sugli altri paesi in crisi. La Spagna, cui andrebbe assommata l’Italia, è vicina all’inferno greco. Alexander Kentikelenis, sociologo dell’università di Cambridge che con cinque esperti scrive per la rivista il rapporto più duro, spiega come il negazionismo sia diffuso, e non esiti a screditare le più serie ricerche scientifiche (un po’ come avviene per il clima). L’unica istituzione che si salva è il Centro europeo di prevenzione e controllo delle malattie, operativo dal 2005 a Stoccolma.

La Grecia prefigura il nostro futuro prossimo, se le politiche del debito non mutano; se scende ancora la spesa per i servizi sociali. Anche in Italia esistono ospedali di volontari, come Emergency. La luce in fondo al tunnel è menzogna impudente. Senza denunciarla, Renzi ha intronizzato ieri la banalità: “L’Europa non dà speranza se fatta solo di virgole e percentuali” – “l’Italia non va a prendere la linea per sapere che fare, ma dà un contributo fondamentale”. Nessuno sa quale contributo.

Scrive l’economista Emiliano Brancaccio che i nostri governi “interpretano il risanamento come fattore di disciplinamento sociale”. Ma forse le cose stanno messe peggio: il risanamento riduce malthusianamente le popolazioni, cominciando da bambini e anziani. Regna l’oblio storico di quel che è stata l’Europa, del perché s’è unita. Dimentica anche la Germania, che pure vive di memoria. Dopo il ’14-18 fu trattata come oggi la Grecia: sconfitto, il paese doveva soffrire per redimersi. Solo Keynes insorse, indignato. Nel 1919 scrisse: “Se diamo per scontata la convinzione che la Germania debba esser tenuta in miseria, i suoi figli rimanere nella fame e nell’indigenza […], se miriamo deliberatamente all’umiliazione dell’Europa centrale, oso farmi profeta, la vendetta non tarderà”.

La vendetta non tardò a farsi viva, ed è il motivo per cui ben diversa e più saggia fu la risposta nel secondo dopoguerra. Quella via andrebbe ripercorsa e potrebbe sfociare in una Conferenza europea sul debito, che condoni ai paesi in difficoltà parte dei debiti, connetta i rimborsi alla crescita, dia all’Unione poteri politici e risorse per lanciare un New Deal di ripresa collettiva e ecosostenibile. È già accaduto, in una conferenza a Londra che nel 1953 ridusse quasi a zero i debiti di guerra della Germania. I risultati non produssero morte, ma vita. Fecero rinascere la democrazia tedesca. Non c’era spazio, a quei tempi, per i Pangloss che oggi tornano ad affollare le scene.

Fonte ALBA SOGGETTO POLITICO NUOVO

Renzi, Grillo e la grande balena italica

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Di Gian Pietro “Jumpi” Miscione (L’Undici)

Quando nel 1978 le Brigate Rosse (BR) rapirono Aldo Moro, credettero di trovarsi di fronte ad uno dei massimi rappresentanti ed esecutori di un “regime” organizzato, monolitico, perfettamente riconoscibile, che combatteva la classe operaia e prendeva ordini da grandi e lontane centrali cospirative: la CIA, gli USA, la Germania, ecc..Seppure era ed è certamente vero che l’Italia è una democrazia incompiuta, la stampa non è libera, esistono profonde ingiustizie e via dicendo, di fronte a Moro, le BR furono costrette a rendersi conto che quel regime non esisteva (e non esiste) o meglio non esisteva (e non esiste) nelle forme secondo cui esse credevano esistesse o altri credono che ora esista. Se cioè sono chiari ed evidenti i beceri effetti ed i deprimenti risultati, le cause invece sono assolutamente sfuggenti, evasive, “anguillose”. Oltretutto, l’eliminazione di un suo presunto esecutore, Moro, che – fra l’altro – come ebbe a dire Pasolini era “il meno implicato di tutti”, non fece altro che rafforzare le forze contro cui le BR combattevano.

Oggi, come allora, fortunatamente con ben altre modalità, il Movimento 5 Stelle sta combattendo le stesse battaglie e, commettendo, gli stessi ingenui errori. Come magistralmente recitato da Volonté in questo spezzone del film “Il caso Moro” (dal minuto 1.00 a 2.50), il “regime” che mantiene l’Italia in questo stato di ingiustizie e marciume è tutt’altro che monolitico, tutt’altro che impegnato a perseguire grandi e lontani disegni o complotti, tutt’altro che identificabile e quindi possibile a mettersi in un mirino. Il “regime” è invece fatto di piccole meschinerie, miseri interessi di parte, millenari e gretti meccanismi atti a preservare il personale status quo. E dunque l’Italia che abbiamo sotto gli occhi (da secoli) è piuttosto il risultato “della concatenazione, più o meno casuale, di tutta una serie di circostanze piccole”.

Per questo, oggi come allora, l’errore del M5S è concettuale: i grandi registi e cospiratori del “regime” non hanno nomi o hanno i nomi di milioni di persone. Il “regime” è un mastodonte, una balena (non a caso la Democrazia Cristiana veniva detta “la balena bianca”), senza identità, senza forma e, allo stesso tempo, ha l’identità e la forma dell’Italia intera. Ed, ormai, gridare ossessivamente e nevroticamente al complotto ogni pomeriggio o mandare “affanculo” un qualche politico un giorno sì e l’altro pure, oltre a tradire frustrazione, non fa che rafforzare questo mastodonte, esattamente come lo rafforzarono le azioni brigatiste.

Allo stesso modo, questa balena ha ora fagocitato anche Renzi, semplicemente attendendo che finisse nella sua grande bocca. Una balena con una grande bocca aperta che inghiotte e digerisce qualsiasi cosa, da qualche millennio. Sceso da Firenze a Roma pieno d’energia e grandi e nuovi propositi, si è trovato impelagato nelle millenarie paludi del “regime” e, per non perdere l’impulso derivatogli dalle primarie e dal suo essere “homus novus”, è stato costretto ad andare al governo secondo i più antichi, meschini, democristiani e fratricidi meccanismi. Il suo governo è un rimpasto del precedente, un collage di pezzi di partiti non destinati a stare insieme ed uniti più che altro dall’ansia di perdere il posto e confrontarsi con gli elettori, un governo già vittima di ricatti e capriccetti, nel quale ogni spinta di rottura rispetto al passato (qualsiasi essa sia) verrà “prudentemente” e inesorabilmente ammortizzata e spenta. Insomma: un tipico governo della nostra Repubblica. In altre parole, Renzi è già finito avvolto nelle spire del mastodonte che ne bloccheranno ogni spinta verso il cambiamento. Neanche il fascismo è riuscito a scalfire questi meccanismi, figuriamoci uno scout di Firenze.

E’ da decenni (secoli?) che sentiamo dire che “è la settimana decisiva”, che è “l’ultima chance”…Gli italiani sono incombustibili, gli italiani rimangono sempre a galla, in Italia non c’è mai stata una autentica rivoluzione in duemila anni. Perché, come diceva il poeta Umberto Saba: “gli italiani non sono parricidi; sono fratricidi… Vogliono darsi al padre, ed avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli”. E se non si “uccide il padre”, non si può cambiare nulla.

Presto o tardi, in Italia, ogni rivoluzionario o rottamatore, finisce e finirà per prendersela con gli italiani, per i quali “il cambio” e “la rivoluzione” sono irricevibili. E la balena, intanto, continua a navigare, anzi…a lasciarsi navigare…

Fonte: L’Undici

Capital Economics: gli Olandesi Starebbero Meglio se Uscissero dall’Euro

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Bruno Waterfield (The Telegraph – Londra)
Bruno Waterfield commenta sul Telegraph un recente studio pubblicato dall’istituto internazionale di ricerca macroeconomica Capital Economics, già vincitore del Premio Wolfson per l’Economia nel 2012 con uno studio sul miglior modo per smantellare la moneta unica. Secondo Capital Economics gli Olandesi avrebbero grandi vantaggi economici ad abbandonare sia l’euro che l’Unione Europea. Lo studio è stato commissionato dal politico “euroscettico” Geert Wilders, tuttora in testa ai sondaggi in Olanda. L’articolo del Telegraph: “Secondo un importante studio, ci sarebbero grandi benefici economici per gli olandesi se lasciassero l’UE. Secondo un recente studio, se l’Olanda abbandonasse euro e Unione Europea la famiglia media olandese starebbe meglio per l’equivalente di oltre 8000 sterline l’anno e il reddito nazionale olandese crescerebbe di oltre mille miliardi. Lo studio sul Nexit, termine che designa una potenziale uscita dell’Olanda, condotto dalla sezione britannica della rispettabile società di ricerca Capital Economics, riporta che ci sarebbero significativi benefici durante i prossimi due decenni se il paese cambiasse la sua appartenenza all’UE con uno status simile a quello che hanno Svizzera o Norvegia. “Un’eventuale decisione di lasciare l’UE è prima di tutto una decisione sociale, culturale e politica. Ruota attorno a questioni che riguardano la sovranità nazionale, la cittadinanza e la libertà di autodeterminarsi,” sostiene il report. “Ci sono comunque anche delle buone ragioni per ritenere che un paese, svincolandosi dalla burocrazia di Bruxelles e diventando capace di prendere decisioni da solo, anziché lasciarsi imporre delle politiche in stile taglia-unica-adatta-a-tutti, trarrebbe dei benefici anche dal punto di vista economico.” La ricerca è stata colta al volo dagli euroscettici per contrastare quelli che essi ritengono degli avvertimenti allarmistici da parte di leaders del mondo delle imprese e politici mainstream sul presunto tracollo economico della Gran Bretagna se lasciasse l’UE. “Questo report è significativo perché è stato prodotto da un gruppo di ricerca credibile della City. Non può essere liquidato tanto facilmente,” ha dichiarato Douglas Carswell, un parlamentare conservatore del collegio elettorale di Clacton. “Dimostra che non siamo più soli. Non siamo solo noi britannici ad avere capito che l’integrazione europea è difettosa fin dalle basi. Noi siamo molto simili agli olandesi, un piccolo paese che ha prosperato commerciando su scala globale. Pensate cosa potrebbero essere paesi come i nostri in un tipo diverso di Europa.” Pur riconoscendo i rischi di un’uscita dall’UE, Capital Economics conclude il report sostenendo che l’Olanda, paese creditore dell’eurozona con rating AAA, starebbe meglio fuori dall’UE a causa della minaccia alla sua ricchezza a lungo termine posta dai problemi strutturali della moneta unica europea. “Ci sono ovviamente dei rischi a lasciare l’unione – e questi devono essere riconosciuti e affrontati da tutti nel momento in cui si considera il Nexit,” dice il report. “Ma ci sono anche dei rischi significativi nel restare dentro il blocco dei paesi che condividono una moneta che ha dei difetti fondamentali. Qui la nostra analisi mostra che l’Olanda farebbe meglio a riprendere il controllo del proprio destino, anzichè mantenere un atteggiamento del tipo ‘si vedrà’.” Il report conclude che il reddito nazionale olandese potrebbe crescere per un ammontare pari a 1500 miliardi entro il 2035, portando un aumento della ricchezza di circa 9800 euro a famiglia ogni anno. Anche se l’Olanda non fosse in grado di ottenere accordi come quelli concessi a Svizzera e Norvegia, che sono nel mercato unico europeo pur non essendo membri dell’UE, “l’economia sarebbe in condizioni migliori restando fuori piuttosto che dentro l’unione,” sostiene il report. Lo studio indipendente era stato commissionato da Geert Wilders, leader del partito olandese anti-UE, il Freedom Party, per valutare i costi che l’Olanda dovrebbe affrontare lasciando l’Unione, giacché lui è in testa ai sondaggi nazionali per la corsa alle elezioni europee di questa primavera. “Al contrario di quanto di quanto affermano gli allarmisti, la nostra economia non s’inchioderebbe. Anzi, guadagneremmo miliardi rispetto ad ora,” ha detto. “All’inizio ci sarebbe un periodo di transizione per passare, ad esempio, dall’euro al fiorino. Ma passato quello, l’economia crescerebbe molto più di ora, un dieci percento in più entro il 2024 e un tredici percento entro il 2035.” ha concluso. Sondaggi d’opinione svolti da Maurice de Hond in Olanda hanno rilevato che una maggioranza del 55 percento sarebbe favorevole a lasciare l’UE se si dimostra che ciò porterebbe una maggiore crescita economica e alla creazione di posti di lavoro. Nel 2012 Capital Economics aveva vinto il prestigioso premio Wolfson per uno studio su come gestire uno smantellamento ordinato dell’euro, durante il picco della crisi del debito in Europa. Lo studio, lungo 164 pagine, sdrammatizza i costi e la turbolenza implicati dall’uscita dall’euro. “Ci sono costi economici per lasciare l’UE, specialmente legati al fatto di dover rimpiazzare la moneta unica con una moneta nazionale. Ma questi costi sono modesti e gestibili,” afferma. Molta della crescita economica prevista in caso di abbandono dell’UE, in un paese dominato dal porto di Rotterdam, viene da una “crescita più veloce delle esportazioni verso i mercati non-europei, dovuta alla possibilità di negoziare e commerciare con economie emergenti in rapida crescita senza essere vincolati alle politiche comunitarie europee sul commercio”. Attualmente molti accordi di libero scambio nell’UE sono sospesi o impantanati nei dissensi interni tra paesi più orientati al libero scambio come Gran Bretagna e Olanda e i paesi più protezionisti del blocco latino guidati da Francia e Italia. Il report sul “Nexit”, un’espressione che mescola l’abbreviazione della parola “Netherlands” (cioè “Paesi Bassi”, ndt) e la parola “exit” (cioè “uscita”, ndt), considera anche che ci sono vantaggi economici nello stare fuori dall’UE, tra cui una riduzione dei costi per le imprese per “un minimo di 20 miliardi all’anno entro il 2034, attraverso il ritorno a una regolamentazione nazionale nelle aree attualmente sotto la giurisdizione delle istituzioni di Bruxelles”. Complessivamente, il rapporto conclude che gli olandesi sarebbero in grado di gestire la propria economia “in modo più efficiente avendo la libertà di stabilire delle politiche monetarie e fiscali su misura per le condizioni del loro paese, e non su misura dell’intera eurozona”. Lo studio riporta anche di una “riduzione della spesa pubblica di minimo 7,5 miliardi di euro all’anno sino al 2035, per il fatto di non essere più legati alle leggi UE sulla libera circolazione e “attraverso una revisione delle politiche sull’immigrazione per orientarle più strettamente su coloro che possono dare un contributo economico”. Lo studio contraddice un precedente studio ufficiale olandese sui benefici dell’appartenenza all’UE, calcolati in Olanda sui duemila euro all’anno a persona. Jeroen Dijsselbloem, il ministro delle finanze olandese nonché presidente dell’eurogruppo, ha attaccato l’idea del Nexit come “decisamente imprudente”, e ha difeso la moneta unica europea. “Lo leggerò, ma so una cosa per certo: l’Olanda è una potenza economica dell’Europa. Noi guadagnamo la maggior parte della nostra ricchezza commerciando con paesi dell’UE, per cui l’Olanda ha decisamente interesse ad avere un mercato interno in cui il commercio sia facilitato” ha detto. “C’è anche la moneta unica. Attualmente è molto forte e le condizioni dell’eurozona adesso appaiono molto migliorate rispetto ad alcuni anni fa. Non c’è motivo di intraprendere nuove avventure. Sarei decisamente contrario.”

Fonte: Voci dall’estero

Il trentennale dell’accordo sulla scala mobile. Un raffronto tra i problemi di ieri e di oggi

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 Il 14 febbraio 1984 venne siglato l’ormai famoso accordo, entrato nella storia sindacale italiana, come l’“Accordo di San Valentino”. Tale intesa, sottoscritta con il governo Craxi soltanto da UIL e CISL, comportò la decisione di tagliare di quattro punti percentuali la scala mobile e creò una spaccatura sindacale con la CGIL, allora guidata dal Segretario Luciano Lama, la quale non firmò l’intesa. Fu la fine della federazione sindacale unitaria.

La medesima CGIL non resse alle tensioni provocate dalla mancata sottoscrizione dell’accordo, al punto che si realizzò una grave frattura tra sua maggioranza comunista e la sua componente minoritaria socialista, capitanata Ottaviano Del Turco.

Le frizioni prodotte dall’accordo furono anche politiche, in quanto  l’allora segretario del PCI, Enrico Berlinguer, si oppose duramente  ad esso.

Il contenuto dell’accordo divenne il testo di un apposito decreto legge approvato dal Governo Craxi, che venne, poi, convertito nella Legge 12 giugno 1984 n. 219. Siffatto provvedimento legislativo si connotò, appunto, per l’espressa previsione di un taglio di 4 punti percentuali della scala mobile.

Il 9 e 10 giugno 1985 si svolse un referendum abrogativo sulla scala mobile, promosso dal solo PCI. L’esito referendario fu negativo. A fronte, di un’affluenza alle urne del 77,9%, il 45,7% dei votanti si espresse a favore dell’abrogazione della norma, mentre il 54,3% si oppose. Di conseguenza, il taglio rimase.

Con l’inizio degli anni ’90 del secolo scorso, si avviò la pratica concertativa, che portò alla definitiva abrogazione della scala mobile con la firma del protocollo triangolare di intesa tra il Governo Amato I e le parti sociali avvenuta il 31 luglio 1992. Con la scala mobile, è stata abolita l’indennità di contingenza ed è stato introdotto per tutti i lavoratori dipendenti (dirigenti esclusi) l’elemento distinto della retribuzione. In seguito, l’altrettanto storico “Accordo del luglio 1993”, corresponsabilizzò le parti sociali ed il Governo, allora presieduto da Carlo Azeglio Ciampi, nel controllo dell’inflazione e della spesa pubblica. Quest’ultimo accordo ampliò gli spazi della contrattazione salariale, proprio come diretta conseguenza dell’eliminazione della scala mobile. Per tale ragione, l’Accordo del luglio 1993 assunse la concertazione come unico metodo regolatore delle dinamiche tra le parti sociali.

 

Venendo al contenuto dell’Accordo di San Valentino, esso aveva come oggetto l’adozione del meccanismo proposto da Ezio Tarantelli che comportava la rideterminazione dei punti di scala mobile per favorire la discesa dell’inflazione.

Si trattava dell’esito sofferto di un lungo negoziato, in virtù del quale il Governo s’impegnava a garantire il blocco dei prezzi e delle tariffe per due mesi, la sospensione degli scatti dell’equo canone per tutto l’anno 1984 e la restituzione del fiscal drag dall’anno successivo. A fronte di ciò, il Governo richiedeva l’accettazione da parte delle parti sociali del taglio di alcuni punti di scala mobile. Pertanto, a seguito dell’Accordo di San Valentino, scomparve il meccanismo d’indicizzazione delle retribuzioni, previsto dalla scala mobile.

L’istituto della scala mobile, sin dal 1951, aveva protetto il potere d’acquisto dei salari, adeguando automaticamente la dinamica salariale a quella inflazionistica sulla base di aumenti, in quanto, a fronte delle variazioni dell’indice dei prezzi, scattavano corrispondenti aumenti delle retribuzioni. Il punto di contingenza era uguale per l’intero Paese e per tutti i comparti dell’economia nazionale, ma con valori diversi a seconda della categoria, della qualifica, dell’età e del genere.

Tale sistema venne fortemente rafforzato dopo il 1975, in quanto, attraverso uno specifico accordo confederale, si stabilì l’unificazione del valore nominale del punto di contingenza (a punto unico e pesante, implicando così variazioni percentuali molto più forti per le retribuzioni più basse). Tale unificazione era la diretta conseguenza della politica sindacale mirante all’egualitarismo salariale, politica che, perseguita agli inizi degli anni ‘70 del secolo scorso e favorita anche dalla spinta inflazionistica che rendeva l’indennità l’elemento preponderante dell’intero incremento retributivo. La più immediata conseguenza di tale decisione fu l’appiattimento dei salari. Nel 1975, l’ambito di applicazione della scala mobile era limitato al solo settore bancario. In seguito, la scala mobile venne estesa anche agli altri settori con un accordo stipulato tra la Confindustria e CGIL, CISL e UIL, le tre maggiori organizzazioni sindacali.

In virtù di tale accordo, la scala mobile (denominata ufficialmente “indennità di contingenza”) si trasformò in un autentico uno strumento economico di politica dei salari, volto ad indicizzare automaticamente i salari all’inflazione ed all’aumento del costo della vita secondo un indice dei prezzi al consumo. Essa era calcolata, seguendo l’andamento variabile dei prezzi di particolari beni di consumo, generalmente di larga diffusione, costituenti un paniere. Una commissione ad hoc svolgeva il compito di determinare ogni tre mesi le variazioni del costo della vita utilizzando come indice di riferimento le variazioni dei prezzi di tali beni (indice dei prezzi al consumo, IPC). Una volta accertata e resa uguale su base 100 la somma mensile necessaria per la famiglia-tipo, in riferimento ad un dato periodo per l’acquisto dei prodotti del paniere, le successive variazioni percentuali dei prezzi dei beni di consumo divenivano i punti di variazione dell’indice stesso del costo della vita, a cui i salari venivano direttamente adeguati.

Successivamente, il meccanismo venne aspramente criticato per le implicazioni fortemente lesive dei valori della professionalità, in particolare, delle categorie medio-alte, nonché per l’automatico generarsi di una spirale prezzi-salari. Di conseguenza, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, venne avviato un graduale processo di riforma della scala mobile.

Inizialmente, intervenne il così detto “Protocollo Scotti” del 22 gennaio 1983, il quale adottò alcune misure di contenimento del meccanismo automatico di adeguamento delle retribuzioni, stabilendo un nuovo valore del punto di contingenza. Come sopra visto, il persistente incremento del costo del lavoro rispetto al tasso d’inflazione programmato spinse poi, nel 1984, il governo guidato da Bettino Craxi del PSI ad operare un ulteriore contenimento del meccanismo, disponendo la predeterminazione dei punti di contingenza da corrispondere e limitandola ai primi due trimestri.

Infine, lo ricordiamo, dal 1992, la scala mobile è cessata e, da allora, viene pagata solo l’indennità di contingenza maturata fino ad allora. In molti contratti collettivi, essa è stata conglobata nella paga base. L’accordo sul costo del lavoro del luglio 1993 ha affidato alla contrattazione nazionale per le singole categorie la determinazione della rivalutazione automatica delle retribuzioni, disponendo l’indennità di vacanza contrattuale.

 

A distanza di trent’anni dall’Accordo di San Valentino, il quadro economico e sociale  è profondamente mutato.

L’economia italiana è, ormai, prossima alla deflazione, mentre, allora, il tasso di crescita del costo della vita si manteneva stabilmente su due cifre percentuali. Oggi, la disoccupazione ha raggiunto livelli altissimi, mentre, allora trovare lavoro non era tanto difficile, in quanto il “Sistema Paese” era ancora in piena fase di crescita, avendo un prodotto interno lordo nettamente positivo ed un il livello dei consumi costantemente in rialzo. Inoltre, il debito pubblico era ancora sotto controllo e la Commissione Europea non aveva ancora strumenti di controllo così invasivi, anche perché la moneta unica era soltanto un’idea utopica.

In altri termini, l’Accordo di San Valentino operò i suoi effetti su un Italia completamente diversa da quella attuale. Probabilmente, l’unico elemento comune tra le due epoche è rinvenibile nella divisione della sinistra, unitamente alla crisi del sindacato unitario ed la CGIL spaccata.

Tuttavia, se si analizza bene quel lontano e così diverso quadro macroeconomico, è possibile rinvenire l’origine di  molti dei mali che affliggono attualmente l’Italia.

Nel corso degli anni ‘80 del secolo scorso, cominciò la crisi del nostro modello di sviluppo, prima in forma lieve ed episodica, per, poi, divenire sempre più marcata e sistemica.

La ricerca di un facile consenso elettorale comportò l’aumento esponenziale ed incontrollato del debito pubblico.

Infine, le crisi petrolifere di quegli anni anticiparono le prime controindicazioni di un economia mondiale che andava progressivamente globalizzandosi.

Purtroppo, la politica, l’imprenditoria ed i sindacati non colsero il vero significato di queste avvisaglie negative, essendo unicamente concentrati sulla sterile discussione avente ad oggetto il taglio di qualche punto percentuale di contingenza. Anzi, negli anni a seguire, le istituzioni e le parti sociali non sono state capaci d’interpretare le nuove istanze generate dall’economia globale, con la conseguenza che non sono riuscite ad elaborare per il nostro Paese alcun nuovo modello di sviluppo condiviso, capace di contrastare il declino del sistema economico e sociale nazionale.

 

L’esame di quel periodo storico ci porta all’amara constatazione che gran parte dei temi economici sottesi a quell’accordo sono tuttora di estrema attualità. In altri termini, nonostante i mille stravolgimenti subiti dall’Italia negli ultimi trent’anni, il nostro sistema economico e sociale è rimasto praticamente immobile.

Siamo di fronte a decenni di mancata crescita. Il male dell’Italia sono l’immobilismo e le riforme mancate. Servono le riforme strutturali, capaci di voltare pagina con le politiche economiche ed industriali del passato, anche perché l’ormai mitizzata crescita degli anni ‘70 ed ’80 del secolo scorso era drogata dalla svalutazione e dall’aumento del debito pubblico. Si tratta di scelte sistemiche non più spendibili, non soltanto per i vincoli imposti da una moneta unica forte e dalla recente previsione costituzionale della parità di bilancio, ma specialmente perché il mercato globale ha permesso l’arrivo di nuovi Paesi capaci di offrire costi di produzione talmente bassi da rendere quelle politiche passate totalmente inutili.

Bisogna capire che senza crescita non c’è benessere e la crescita è ottenibile puntando sul mercato, sul merito e sulla legalità, ma, soprattutto, sulla ricerca e sull’innovazione. Soltanto producendo prodotti innovativi ad elevato contenuto tecnologico, l’Italia potrà tornare ad essere un Paese produttore competitivo ed in grado di garantire, sia una crescita adeguata alla sua economia, che salari adeguati ai propri lavoratori.

Invece, attualmente, l’Italia è un paese bloccato, che non cresce e che impone vincoli soffocanti alla capacità d’impresa e, di conseguenza, all’innovazione ed al benessere.

Le cause di quest’immobilismo sono molteplici. Basti pensare alla permanenza di un sistema economico ancora fortemente corporativo ed oligopolista, ad  una Pubblica amministrazione inefficiente, ad un sistema fiscale esoso sui redditi da lavoro dipendente e sui costi d’impresa, che drena eccessivamente risorse, senza combattere adeguatamente la sua evasione. Tali inefficienze sono risolvibili soltanto con profonde, radicali e condivise riforme strutturali.

Tale stato di fatto spiega l’esistenza d’importanti settori dell’opinione pubblica, nei fatti, accanitamente contrari – anche, se a parole, favorevoli – a qualsiasi iniziativa industriale o di servizi, volta ad innovare profondamente l’utilizzazione del territorio.

Inoltre, nel dibattito contemporaneo ricorre frequentemente l’affermazione che il futuro dell’Italia è legato alla sua industria, mentre si riscontra una forte diffidenza nei confronti dei settori di produzione più moderni. L’Italia risulta sempre meno competitiva nel turismo, non si afferma nei servizi informatici, presenta una debolezza strutturale cronica nei trasporti e nelle comunicazioni. In un Paese che ritiene di avere uno spirito industriale, sovente, questi settori sono considerati distruttivi, o, quanto meno, disgreganti, rispetto all’ordine sociale, oltre che economico, consolidato. Inoltre, l’Italia sembra privilegiare l’industria per i motivi sbagliati, in quanto la ritiene portatrice di stabilità e non di mutamento. In altri termini, si ritiene che, privilegiando l’industria, si possa consolidare lo status quo, senza promuovere alcun cambiamento e perpetuando una tradizione sovente di origine preindustriale.

 

In altri termini, il sistema economico italiano si connota per le sue radici profondamente anti-innovative. Tale peculiarità paralizza qualsiasi decisione pubblica favorevole a un’innovazione di larga portata e che abbia, quindi, bisogno di una pubblica autorizzazione.

Tale tendenza è rafforzata anche dal fatto che spesso non vi è immediata rispondenza tra lo scopo finale dell’innovazione (spesso a lungo termine) e le sue immediate conseguenze. Infatti, negli ultimi trent’anni, si sono privilegiate le scelte a carattere contingente, a discapito delle riforme sistemiche, i cui benefici non sono immediatamente percepibili.

Lo stesso discorso può valere per le riforme legislative capaci d’incidere in maniera profonda su rapporti consolidati. Ogni qual volta il Parlamento ha approvato un testo di riforma, è subito apparso uno stuolo di oppositori che ha agitato le armi (qualche volta improprie) del ricorso alla Corte Costituzionale o del referendum abrogativo.


Germano De Sanctis

Ocse: Italia riformi tasse e lavoro e tagli i tempi della giustizia

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Gli obiettivi chiave per la politica economica italiana restano quelli di risolvere la pesante eredità della disoccupazione lasciata dalla crisi e di rianimare la competitività. Lo sottolinea l’Ocse nel rapporto “Obiettivo crescita”, pubblicato in occasione del G20 di Sydney, che fa il check up delle riforme strutturali realizzate dal 2012 nei Paesi industrializzati.

La lista di priorità per la Penisola resta lunga, secondo quanto riferisce sul rapporto l’agenzia Radiocor: si va dalla riforma del lavoro, all’istruzione, alle privatizzazioni, al rispetto della legge e ai tempi della giustizia, fino alla tassazione – tema su cui l’Ocse raccomanda semplificazione -, lotta all’evasione e riduzione della pressione sui salari più bassi. «Svariati anni di consolidamento fiscale, bassa fiducia e scarso credito hanno lasciato l’Italia con un tasso di disoccupazione a doppia cifra e nessun chiaro segnale di una rapida ripresa», scrivono gli esperti dell’Ocse.

La Penisola è in effetti al sesto posto tra i 34 Paese aderenti all’Organizzazione con un tasso di disoccupazione oltre il 12 per cento. Il rapporto torna a sottolineare la necessità di riequilibrare la protezione del lavoro, riducendola in alcuni tipi di contratto e migliorando la rete di salvataggio del welfare. Per ridurre il rischio della disoccupazione di lungo termine, l’Ocse raccomanda di rafforzare le politiche attive del lavoro. Inoltre, «riforme del mercato del lavoro mirate a ridurne la dualità – scrivono gli economisti dell’Organizzazione – con in particolare l’attuazione di una rete di salvataggio universale, una migliore istruzione professionale e il sostegno per l’apprendistato possono ridurre l’ineguaglianza dei redditi».

Sul fronte delle tasse, l’Ocse raccomanda di «migliorare la struttura delle imposte, semplificando il codice fiscale, combattendo l’evasione fiscale e, quando la situazione di bilancio lo permetterà, riducendo il cuneo fiscale sui lavoratori a basso reddito».

Vanno inoltre ridotte le barriere alla concorrenza «rafforzando il rispetto della legge a tutti i livelli di Governo, riducendo la proprietà pubblica e i ritardi della giustizia civile». L’Ocse ribadisce anche che va migliorata l’equità e l’efficienza del sistema di istruzione, sia per utilizzare meglio i fondi convogliati sull’istruzione, sia per migliorare le possibilità di quanti hanno basse qualifiche.

Il rapporto peraltro prende nota anche delle riforme fatte nei due ultimi anni, come l’assegno di disoccupazione universale o la nuova normativa per le industrie di rete, i maggiori poteri dati all’Antitrust e la liberalizzazione degli orari di apertura dei negozia. Con la postilla tuttavia, che «vanno fatti altri sforzi per assicurarsi l’effettiva attuazione delle riforme».

Fonte: Il Sole 24 Ore