Archivi categoria: diritto

Le riforme pericolose

20140409-125327.jpg

di Stefano Rodotà, da Repubblica, 8 aprile 2014


Ho scoperto in questi giorni di detenere da anni un potere immenso. Faccio parte di un “manipolo di professoroni” (così veniamo graziosamente apostrofati) che è riuscito nell’impresa di sconfiggere le velleità riformatrici di Craxi e Cossiga, di D’Alema e Berlusconi, e oggi intralcia di nuovo ogni innovazione. Usiamo un’arma impropria – “la Costituzione più bella del mondo” – per terrorizzare politici pavidi e cittadini timorati.

So bene che al grottesco, alla mancanza di senso delle proporzioni, all’assenza di informazioni accurate è difficile porre ragionevoli limiti. Ma qualche chiarimento può essere utile, per evitare che venga inquinata una discussione che si vorrebbe seria. Comincio proprio da quel riferimento alla Costituzione più bella del mondo, che viene usato con toni di dileggio e per accusare di testardaggine conservatrice chi critica questa o quella proposta di riforma, o meglio i tentativi di stravolgimento del testo costituzionale. Ora, quelle parole vengono da una fantasiosa uscita di Roberto Benigni, ma non sono mai state la bandiera di chi ha riflettuto sulla Costituzione con la guida di Costantino Mortati e Carlo Esposito, di Massimo Severo Giannini e Leopoldo Elia. Ed è falso che vi sia stato un irragionevole arroccamento intorno all’intoccabilità della Costituzione. È notissimo, invece, che si è insistito sull’obbligo di rispettarne principi e diritti, mentre si avanzavano proposte per una “buona manutenzione” della sua seconda parte. Mi limito a ricordare solo quello che io stesso e molti altri suggerimmo quando il governo Letta si imbarcò nella rischiosa, e fallita, impresa di modificare l’articolo sulla revisione costituzionale. Si disse che sarebbe stato opportuno cominciare subito, senza forzare quell’articolo, dai punti sui quali già si era formato un largo consenso – dunque dalla riduzione del numero dei parlamentari e dal superamento del bicameralismo perfetto, per il quale esistevano proposte ragionevoli, ben lontane da quelle sgrammaticate che circolano in questi giorni. Se quel suggerimento fosse stato seguito, oggi molto probabilmente già avremmo portato a compimento questa significativa riforma.

Facendo una veloce ricerca in rete, non sarebbe stato difficile trovare le molte riforme proposte anche dal mondo di chi critica le riforme costituzionali della fase cominciata con il governo Letta. Invece, tutta l’acribia filologica è stata impiegata per cogliere in flagrante peccato di contraddizione il noto Rodotà, reo di aver firmato nel 1985 una proposta di riforma in senso monocamerale. Purtroppo il ricorso a questo argomento è, all’opposto, la prova evidente di quanto profonda sia ormai la regressione culturale nella quale sono caduti molti che intervengono nella discussione pubblica. Quella proposta veniva fatta in un tempo in cui il sistema elettorale era quello proporzionale, i deputati erano scelti con il voto di preferenza, i regolamenti parlamentari rispettavano i diritti delle minoranze, non prevedevano “ghigliottine”, costrittivi contingentamenti dei tempi, limiti alla presentazione degli emendamenti. Erano i tempi in cui l’ostruzionismo della sinistra fece cadere in prima battuta il decreto con il quale Craxi tagliava i punti di contingenza e il Parlamento svolgeva grandi inchieste come quella sulla loggia P2.

Quella proposta (n. 2452 della IX legislatura) era stata scritta da un costituzionalista di valore come Gianni Ferrara e andava nella direzione assolutamente opposta rispetto alla linea attuale. Voleva riaffermare nella sua pienezza la funzione rappresentativa del sistema parlamentare, assicurata da una forte Camera dei deputati che garantiva gli equilibri costituzionali e si opponeva alle emergenti derive autoritarie, alla concentrazione del potere nel governo. Nasceva dall’idea della centralità del Parlamento, rispondeva all’ineludibile diritto dei cittadini di essere rappresentati, che è alla base della sentenza con la quale quest’anno la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità del Porcellum. Oggi, invece, l’Italicum deprime la rappresentanza, le proposte relative al Senato sono un pasticcio, e tutto confluisce in un sostanziale antiparlamentarismo, alimentato da artifici ipermaggioritari che fanno correre il rischio di una nuova dichiarazione di incostituzionalità.

Chi cerca proposte sulla riforma del Senato, com’è giusto che sia, può attingerne alla bella intervista su questo giornale di Gustavo Zagrebelsky o al disegno di legge presentato dai senatori Walter Tocci e Vannino Chiti, entrambi del Pd. La verità è che non sono le proposte ad essere mancate. Non si vuol riconoscere che da anni si fronteggiano due linee di riforma costituzionale, una neoautoritaria e una volta a mantenere ferma la logica democratica della Costituzione, senza ignorare i punti dove le modifiche sono necessarie. Ora il confronto è giunto ad un punto critico, ed è bene che tutti ne siano consapevoli.

Chi sinceramente vuole una Costituzione all’altezza dei tempi, e delle nuove domande dei cittadini, non deve cercare consensi con appelli populisti. Deve essere consapevole della necessità di ricostruire le garanzie e gli equilibri costituzionali alterati dal passaggio ad un sistema già sostanzialmente maggioritario. Deve riaprire i canali di comunicazione tra istituzioni e cittadini, abbandonando la logica che riduce le elezioni a investitura di un governo che risponderà ai cittadini solo cinque anni dopo, alle successive elezioni. Ricordate la critica estrema di Rousseau? “Il popolo inglese ritiene di essere libero: si sbaglia di molto; lo è soltanto durante l’elezione dei membri del parlamento. Appena quelli sono eletti, esso è schiavo, non è nulla”. Rousseau è lontano, è impossibile ridurre i cittadini al silenzio tra una elezione e l’altra, perché troppi sono ormai gli strumenti per prendere la parola. Se si vuole sfuggire alla suggestione che la Rete sia tutto, alle ingannevoli contrapposizioni tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta, bisogna lavorare per creare le condizioni costituzionali perché queste due dimensioni possano essere integrate, come già cerca di fare il Trattato europeo di Lisbona. Le proposte non mancano, a partire da quelle sulle leggi d’iniziativa popolare (ne parlo dal 1997, e ora sono arrivate in Parlamento).

Le semplificazioni autoritarie sono ingannevoli, la concentrazioni del potere nelle mani del solo governo, o di una sola persona, produce l’illusione dell’efficienza e il rischio della riduzione della democrazia. Si sta creando una pericolosa congiunzione tra disincanto democratico e pulsioni populiste. Vogliamo parlarne, prima che sia troppo tardi, e agire di conseguenza?

Fonte: MicroMega

Il Governo Renzi presenta il suo disegno di legge di riforma della Costituzione.

 

 

Immagine

 

di Germano De Sanctis

Il Consiglio dei Ministri del 31 marzo ha approvato all’unanimità il disegno di legge costituzionale sulla riforma del bicameralismo perfetto e del Titolo V della Costituzione. Il Governo ha tenuto a precisare che testo in questione non è blindato, né, tanto meno, definitivo, in quanto il confronto con i Comuni e le Regioni è ancora in corso relativamente ad alcuni elementi.
Il testo licenziato dal Governo presenta diverse novità rispetto alla bozza presentata lo scorso 12 marzo.

Il superamento del bicameralismo perfetto.

Il bicameralismo perfetto è stato uno dei principi fondanti dell’ingegneria costituzionale al momento della redazione della Carta Costituzionale. Infatti, i padri costituenti, temendo un nuovo colpo di Stato come quello operato dai fascisti nel 1922, hanno previsto la creazione di due assemblee rappresentative dotate di poteri legislativi perfettamente speculari, la Camera dei Deputati ed il Senato della Repubblica, in modo da rendere più difficile un attentato alle istituzioni democratiche. Infatti, vi era la convinzione che sarebbe stato più difficile reinstaurare una dittatura, dovendo assumere il controllo di due assemblee rappresentative diverse soltanto nella composizione e nelle modalità elettive.
Oggi, tali timori paiono superati dopo sessantasei anni di vigenza della Costituzione e di esistenza delle istituzioni repubblicane. Anzi, da tempo, molti commentatori ritengono che il bicameralismo perfetto rappresenti, ormai, un inutile fardello capace solo di rallentare la produzione degli atti legislativi. La riforma presentata dal Governo si inserisce nell’alveo di questa corrente interpretativa.
Infatti, il disegno di legge di revisione costituzionale delinea un nuovo sistema bicamerale differenziato, ove soltanto la Camera dei Deputati ha il potere di dare il voto di fiducia al Governo. Inoltre, la Camera dei Deputati si vede riconosciuto il potere di esercitare le funzioni di:

  • indirizzo politico ;
  • attività legislativa ordinaria;
  • controllo dell’operato del Governo.

Invece, per quanto concerne, il Senato della Repubblica, esso muterà anche la sua denominazione in “Senato delle Autonomie”, al fine di sottolineare il forte legame che il nuovo organismo di rappresentanza avrà con le Regioni ed i Comuni.
Il Senato delle Autonomie è inteso come un organo rappresentativo delle istituzioni territoriali, che partecipa alla funzione legislativa in un’ottica di razionalizzazione del procedimento legislativo, scevra di ogni duplicazione delle competenze tipica del bicameralismo perfetto.
Coerentemente con tale ultima affermazione, il disegno di legge in questione prevede che, salvo i casi di leggi di revisione costituzionale e di leggi costituzionali (che rimangono di competenza di entrambe le Camere), tutte le leggi sono approvate esclusivamente dalla Camera dei Deputati.
Tuttavia, per quanto concerne le funzioni legislative, visto il forte legame esistente tra le istituzioni territoriali ed il Senato delle Autonomie, quest’ultimo può, in alcuni ambiti di interesse delle autonomie territoriali, esprimere proposte di modifica che possono essere superate soltanto da un voto della Camera dei Deputati espresso attraverso un quorum rafforzato della maggioranza assoluta dei suoi componenti. Le materie oggetto di questa specifica previsione di tutela degli interessi delle istituzioni territoriali sono le seguenti:

  • l’ordinamento, gli organi di governo, la legislazione elettorale e le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città Metropolitane ;
  • le norme generali sul governo del territorio e l’urbanistica ;
  • il sistema nazionale ed il coordinamento della Protezione civile ;
  • le modalità di partecipazione di Regioni e Province Autonome alle decisioni in materia comunitaria ed internazionale;
  • il coordinamento Stato-Regioni in materia di immigrazione, ordine pubblico e tutela dei beni culturali e paesaggistici;
  • la disciplina della finanza regionale e locale;
  • il sistema di elezione e i casi di ineleggibilità e incompatibilità dei membri degli organi regionali.

Al di là di questo elenco di competenze specifiche, è riconosciuto in capo al Senato delle Autonomie il potere di esprimere un parere su ogni progetto di atto normativo o documento all’esame della Camera dei Deputati. Inoltre, il Senato delle Autonomie ha la facoltà, con deliberazione adottata a maggioranza assoluta dei suoi componenti, di richiedere alla Camera dei deputati di procedere all’esame di un disegno di legge.
Relativamente, invece, alle, funzioni non legislative del Senato delle Autonomie, così come è previsto nel testo vigente della Costituzione, esso ha la competenza in materia di:

  • elezione e giuramento del Presidente della Repubblica ;
  • messa in stato di accusa del Presidente della Repubblica;
  • elezione di un terzo dei componenti il Consiglio Superiore della Magistratura;
  • elezione di due dei cinque giudici costituzionali di nomina parlamentare.

Infine, il superamento del bicameralismo perfetto si rileva plasticamente nell’introduzione della previsione di una corsia preferenziale alla Camera dei Deputati per l’approvazione in tempi certi, al massimo entro sessanta giorni, di alcuni provvedimenti che il Governo ritiene prioritari. In altri termini, viene rafforzato il ruolo del Governo in Parlamento, prevedendo l’introduzione dell’istituto del voto a data certa, in base al quale il Governo può chiedere alla Camera dei Deputati di deliberare che un disegno di legge sia iscritto con priorità all’ordine del giorno e sottoposto alla votazione finale entro sessanta giorni dalla richiesta. Appare evidente che siamo di fronte ad una norma che, se approvata, modificherà gli equilibri tra potere esecutivo e potere legislativo in sede di dialettica parlamentare.

La preoccupazione che un simile potere comprometta eccessivamente gli equilibri trai poteri dello Stato ha suggerito l’introduzione di un adeguato contrappeso, rappresentato dalla previsione normativa che introduce nuovi limiti alla decretazione d’urgenza da parte del Gorverno.

La riforma del Senato.

Il numero dei eletti al Senato delle Autonomie è di 148, alcuni nominati dal Presidente della Repubblica, altri espressi dalle autonomie territoriali.
Il Presidente della Repubblica nomina 21 Senatori, scegliendoli tra coloro che abbiano onorato l’Italia per meriti in campo sociale, artistico, letterario o scientifico. Tali Senatori sono nominati, utilizzando i medesimi stessi criteri attualmente in uso per nominare i senatori a vita. I Senatori di nomina presidenziale restano in carica sette sette anni e non hanno diritto ad alcuna indennità. Nessun cambiamento è previsto relativamente ai Senatori a vita.
Invece, per quanto concerne gli altri 127 Senatori, essi non sono più eletti, ma vengono paritariamente nominati dalle Regioni e dai Comuni. I 127 Senatori espressione delle autonomie locali restano in carica fino alla fine del loro mandato locale e non ricevono alcuna indennità. Venendo ad un esame più dettagliato, i Senatori espressione delle autonomie territoriali sono i seguenti:

  • i Presidenti delle Giunte Regionali e delle Province di Trento e Bolzano;
  • i Sindaci dei Comuni capoluogo di Regione e di Provincia Autonoma;
  • due consiglieri regionali eletti tra i componenti del Consiglio Regionale di ogni singola Regione (con voto limitato);
  • due sindaci eletti tra i Sindaci di ogni singola Regione (con voto limitato).

Al momento nulla è detto, ma nemmeno escluso, circa un sistema di elezione con rappresentatività proporzionale al numero degli abitanti di ogni singola Regione.
Vista la complessità di quest’ultime previsioni, il disegno di legge di revisione costituzionale rinvia la definizione dei dettagli procedurali ad una specifica legge di attuazione costituzionale.
Risulta interessante evidenziare il fatto che i Senatori espressi dalle autonomie locali eserciteranno tale incarico in virtù di un sistema duale di nomina:

  • nomina automatica per Presidenti delle Giunte Regionali, i Sindaci delle città capoluogo di Regione e per quelli delle Province Autonome di Trento e Bolzano;
  • elezione di secondo grado per i Consiglieri Regionali ed i Sindaci di città non rientranti nella precedente tipologia.

L’abolizione del CNEL.

Il disegno di legge costituzionale prevede l’abolizione del CNEL, ritenendolo, oggigiorno, incapace di corrispondere a quelle esigenze di raccordo con le categorie economiche e sociali, che ne avevano originariamente giustificato l’istituzione.

La riforma del Titolo V della Costituzione.

Il disegno di legge costituzionale si sofferma anche sulla revisione del Titolo V della Costituzione che è già stato oggetto di una controversa riforma ad opera delle Legge Cost. n. 3/2001.
In primo luogo, è prevista la modifica dell’art. 114 Cost. con l’abolizione delle Province. In secondo luogo, si persegue l’obiettivo di razionalizzare le competenze fra Stato e Regioni, attraverso la totale riscrittura dell’art. 117 Cost., con l’eliminazione delle materie per cui è attualmente prevista la legislazione concorrente tra Stato e Regioni.
La scelta di eliminare la legislazione concorrente è dettata dalla necessità di definire un sistema di governo multilivello più ordinato ed in grado di bilanciare gli interessi nazionali, regionali e locali , nonché idoneo ad assicurare efficaci politiche di programmazione territoriale coordinate, senza i contenziosi istituzionali che sono “fioriti” negli ultimi anni. Di conseguenza, è apparso necessario prevedere il superamento dell’attuale frammentazione del riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni, attraverso l’allargamento dell’elenco delle materie di competenza statale esclusiva. Secondo il disegno di legge di revisione costituzionale, sono materie di esclusiva competenza statale, tra le altre:

  • il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario ;
  • le norme generali sul procedimento amministrativo e sulla disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche ;
  • l’ordinamento scolastico, l’istruzione universitaria e la programmazione strategica della ricerca ;
  • l’ordinamento di Comuni, Città Metropolitane ed enti di area vasta ;
  • il commercio con l’estero, l’ambiente, l’ecosistema, i beni culturali e paesaggistici;
  • le norme generali per la tutela e sicurezza del lavoro.

In contrapposizione alle scelte legislative operate dalla Legge n. 59/1997 (c.d. “Legge Bassanini”) e dalla citata Legge, Cost. n. 3/2001, le quali definivano come “residuali” le competenze legislative statali, il disegno di legge di riforma costituzionale in questione prevede prioritariamente le materie di competenza esclusiva statale, per, poi, specificare che quelle non rientranti in tale ambito di competenza sono da annoverarsi, in forma residuale, nell’ambito della competenza esclusiva regionale.
Tuttavia, la riforma in questione prevede, altresì, una “clausola di supremazia statale”, la quale riserva allo Stato il potere d’intervenire anche sulle materie di competenza regionale. Tuttavia, quest’ultima norma è stata “controbilanciata” da un ulteriore previsione normativa che dispone la possibilità in capo allo Stato di delegare, anche temporaneamente, alle Regioni la funzione legislativa nelle materie di propria competenza esclusiva.

I tempi della riforma.

Come è noto, il processo di approvazione di una legge costituzionale è molto lungo e prevede che la legge sia approvata con una maggioranza semplice da entrambi i rami del Parlamento una prima volta. Poi, a distanza di tre mesi, lo stesso testo deve essere di nuovo approvato da tutte e due le Camere con una maggioranza qualificata, rappresentata dai due terzi dei suoi componenti.
Qualora questa maggioranza non venga raggiunta, si devono aspettare ancora tre mesi. In questo periodo di tempo, un quinto dei membri di una delle due Camere, ovvero 500.000 elettori, o cinque Consigli Regionali possono chiedere l’indizione di un apposito referendum costituzionale per approvare o respingere la riforma.
Si ricorda che, per il referendum costituzionale, non è richiesto il raggiungimento di un quorum.
Se nei tre mesi di pausa la richiesta di referendum non viene presentata, la legge viene approvata automaticamente.

SEGUI BLOGNOMOS SU FACEBOOK

Pillole di Jobs Act. Le semplificazioni in materia di Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC)

Immagine

di Germano De Sanctis

Il dato normativo.

Il Jobs Act inizia a compiere i suoi primi passi. Come è noto, il Consiglio dei Ministri del 12 marzo 2014 ha suddiviso tale iniziativa governativa in due atti, un decreto legge ed una legge delega. Orbene, sulla Gazzetta Ufficiale n. 66 del 20-03-2014, è stato emanato il D.L., 20-03-2014, n. 34 ”Disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell’occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese. Tale decreto legge è in vigore dal 21-03-2014.
In particolare, L’art. 4, D.L. n. 34/2014 si occupa delle semplificazioni in materia di Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC), uno strumento ormai indispensabile in tutti i rapporti con la Pubblica Amministrazione e nell’edilizia privata, oltre che nei rapporti tra privati. Si tratta di una riforma “a costo zero”, in quanto, l’art. 4, comma 6, D.L. n. 34/2014, dispone che, all’attuazione di quanto previsto dell’articolo in questione, le Pubbliche Amministrazioni provvederanno con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

La non immediata applicabilità della norma in questione.

Bisogna subito evidenziare che tale norma non è di immediata applicazione, in quanto, l’art. 4, comma 2, D.L. n. 34/2014 dispone che la sua effettiva operatività è subordinata all’emanazione di un decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze e, per i profili di competenza, con il Ministro per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione, sentiti INPS e INAIL, da emanarsi entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione.

I criteri che ispireranno le semplificazioni in materia di DURC.

L’esame dell’art, 4, comma 2, D.L. n. 34/2014 rende evidente la volontà del legislatore d’introdurre importanti semplificazioni in materia di Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC). Infatti, attraverso il decreto ministeriale in questione, saranno definiti i requisiti di regolarità, i contenuti e le modalità della verifica nonché le specifiche ipotesi di esclusione. Il decreto in questione sarà ispirato ai seguenti criteri:
a) la verifica della regolarità in tempo reale riguarderà i pagamenti scaduti sino all’ultimo giorno del secondo mese antecedente a quello in cui la verifica dovrà essere effettuata, a condizione che sia scaduto anche il termine di presentazione delle relative denunce retributive e comprenderà anche le posizioni dei lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa anche a progetto operanti nell’impresa (cfr., art, 4, comma 2, D.L. n. 34/2014);
b) la verifica dovrà avvenire tramite un’unica interrogazione negli archivi dell’INPS, dell’INAIL e delle Casse Edili che, anche in cooperazione applicativa, opereranno in integrazione e riconoscimento reciproco, indicando esclusivamente il codice fiscale del soggetto da verificare (cfr., art, 4, comma 2, D.L. n. 34/2014);
c) nelle ipotesi di godimento di benefici normativi e contributivi saranno individuate le tipologie di pregresse irregolarità di natura previdenziale ed in materia di tutela delle condizioni di lavoro, verranno evidenziate gli elementi da considerare ostativi alla regolarità (trattasi del c.d. DURC interno), ai sensi dell’art. 1, comma 1175, Legge, 27-12-2006, n. 296 (cfr., art, 4, comma 2, D.L. n. 34/2014);
d) ai fini della verifica della dichiarazione sostitutiva relativa al requisito di cui all’art. 38 (requisiti di ordine generale), comma 1, lett. i) (esclusione dall’appalto o dall’affidamento o dalla fornitura, chi ha commesso violazioni grave definitivamente accertate in materia contributiva), D.Lgs., 12-04-2006, n. 163 (c.d. “Codice dei Contratti Pubblici”) ed in tutti i casi in cui in luogo del Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC) è prevista l’acquisizione della dichiarazione sostitutiva, non dovrà rilevare la data alla quale l’interessato ha dichiarato di essere in regola ai fini contributivi e assicurativi ovvero la data in cui la dichiarazione è stata resa dall’interessato. In altri termini, dalla data di entrata in vigore del decreto ministeriale attuativo, cesserà l’obbligo di verificare la sussistenza del “requisito di carattere generale” presso la banca dati nazionale dei contratti pubblici, istituita presso l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, dall’art. 62-bis, D.Lgs., 07-03-2005, n. 82. Inoltre, dalla data di entrata in vigore del decreto ministeriale di cui al secondo comma, saranno abrogate tutte le disposizioni di legge incompatibili con i contenuti dell’art. 4 D.L. n. 34/2014 (cfr., art. 4, comma 3, D.L. n. 34/2014);
e) al fine di garantire l’effettiva operatività delle norme in questione, il predetto decreto ministeriale potrà esere aggiornato annualmente, sulla base delle modifiche normative, o della evoluzione dei sistemi telematici di verifica della regolarità contributiva (cfr., art. 4, comma 4, D.L., n. 34/2014).

La smaterializzazione del DURC.

Secondo quanto disposto dall’art. 4, comma 1, D.L. n. 34/2014, a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto ministeriale attuativo, chiunque vi abbia interesse potrà verificare con modalità esclusivamente telematiche ed in tempo reale la regolarità contributiva nei confronti dell’INPS, dell’INAIL e, per le imprese tenute ad applicare i contratti del settore dell’edilizia, nei confronti delle Casse Edili. L’esito dell’interrogazione avrà validità di 120 giorni dalla data di acquisizione e sostituirà ad ogni effetto il Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC), ovunque previsto, fatta eccezione per le ipotesi di esclusione individuate dal citato decreto ministeriale.

In altri termini, l’art. 4 D.L. n. 34/2014 prevede la smaterializzazione del Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC), il quale, come visto, sarà possibile ottenere in tempo reale. In particolare, la verifica della regolarità in tempo reale riguarderà i pagamenti scaduti sino all’ultimo giorno del secondo mese antecedente a quello in cui la verifica è effettuata, a condizione che sia scaduto anche il termine di presentazione delle relative denunce retributive e comprenderà anche le posizioni dei lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa anche a progetto che operano nell’impresa.

Nell’attesa di conoscere il contenuto del decreto ministeriale, appare evidente la necessità di coordinare le disposizioni operative con le norme che regolano la “compensazione”, ai fini della regolarità, dei debiti contributivi con i crediti certi, liquidi ed esigibili vantati, dal soggetto destinatario del Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC), nei confronti della Pubblica Amministrazione. Infatti, resta insoluta la questione relativamente alla permanenza o meno dell’obbligo di attivarsi in capo al soggetto che vanta il credito, così come pare probabile.

Analogo ragionamento è riscontrabile per quanto concerne il c.d. DURC interno, ai fini dell’applicazione di eventuali benefici contributi e normativi, con la particolarità che, per tale ipotesi, i criteri per l’emanazione del decreto ministeriale attuativo prevedono che dovranno essere individuate le irregolarità pregresse che costituiranno cause ostative alla regolarità.

Infine, resta oscuro con quale modalità s’inserirà la procedura che prevede, prima di dichiarare lo stato di irregolarità (c.d. DURC negativo), l’invito al soggetto inadempiente, da parte dell’ente interessato, di sanare il debito entro il termine massimo di 15 giorni o, in mancanza, di accedere alla richiesta del documento che attesti uno p più crediti certi d’importo almeno pari al debito contributivo complessivo.

Sovvenzioni, contributi e sussidi.

L’art., 4, comma 5, D.L. n. 34/2014, modificando l’art. 31, comma 8-bis, D.L., 21-06-2013, n. 69 (c.d. Decreto del Fare), convertito, con modificazioni, dalla Legge, 09-08-2013, n. 98, ha precisato che, per quanto concerne l’erogazione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari, vantaggi economici, di qualunque genere:
a) deve essere sempre richiesta dalla data di entrata in vigore del D.L. n. 34/2014 (cioè, dal 21-02-2014) l’acquisizione del Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC);
b) risulta sempre applicabile la disposizione che regola l’intervento diretto del committente pubblico a sanare le inadempienze contributive del suo appaltatore/subappaltatore, trattenendo dal certificato di pagamento l’importo corrispondente alle citate inadempienze.

Pillole di Jobs Act. La delega al Governo in materia di servizi per il lavoro e politiche attive.

Immagine

di Germano De Sanctis

 Il dato normativo.

Dopo tante indiscrezioni ed anticipazioni a mezzo stampa, cominciano a trapelare le prime bozze del decreto legge e del disegno di legge delega che costituiranno l’ormai famoso Jobs Act. In particolare, l’articolo 2 del disegno di legge in questione concentra la sua attenzione sulla delega al Governo in materia di servizi per il lavoro e politiche attive.

Il primo comma della norma in questione, persegue lo scopo di garantire la fruizione dei servizi essenziali in materia di politica attiva del lavoro su tutto il territorio nazionale, nonché di assicurare l’esercizio unitario delle relative funzioni amministrative. A tal fine, il Governo è delegato ad adottare, entro sei mesi dall’entrata in vigore della presente legge, su proposta del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, previa intesa in sede di Conferenza Permanente per i Rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province Autonome di Trento e di Bolzano, ai sensi dell’art. 3 D.Lgs. 28-08-1997, n. 281, uno o più decreti legislativi finalizzati al riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e le politiche attive. In mancanza della predetta intesa nel termine di cui all’art. 3 del citato D.Lgs. n. 281/1997, il Consiglio dei Ministri provvederà con deliberazione motivata ai sensi del medesimo articolo 3.

Invece, il secondo comma della norma in esame, specifica che, nell’esercizio della delega di cui al primo comma, il Governo si deve attenere ai seguenti principi e criteri direttivi:

a) razionalizzazione degli incentivi all’assunzione esistenti, da collegare alle caratteristiche osservabili per le quali l’analisi statistica evidenzi una minore probabilità di trovare occupazione;

b) razionalizzazione degli incentivi per l’autoimpiego ed autoimprenditorialità, con la previsione di una cornice giuridica nazionale volta a costituire il punto di riferimento anche per gli interventi posti in essere da regioni e province autonome;

c) istituzione, ai sensi dell’art. 8, D.Lgs. 30-07-1999, n. 300, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, di una Agenzia Nazionale per l’Occupazione, partecipata da Stato, Regioni e Province autonome, vigilata dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, al cui funzionamento si provveda con le risorse umane e strumentali già disponibili a legislazione vigente;

d) coinvolgimento delle parti sociali nella definizione delle linee di indirizzo generali dell’azione dell’Agenzia Nazionale per l’Occupazione;

e) attribuzione all’Agenzia Nazionale per l’Occupazione delle competenze gestionali in materia di servizi per l’impiego, politiche attive e ASPI;

f) razionalizzazione degli enti ed uffici che, anche all’interno del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, delle regioni e delle province, operano in materia di politiche attive del lavoro, servizi per l’impiego e ammortizzatori sociali, allo scopo di evitare sovrapposizioni e di consentire l’invarianza di spesa, mediante l’utilizzo delle risorse umane e strumentali già disponibili a legislazione vigente;

g) possibilità di far confluire nei ruoli delle amministrazioni vigilanti o dell’Agenzia Nazionale per l’Occupazione il personale proveniente dalle amministrazioni o uffici soppressi o riorganizzati in attuazione della lettera f) nonché di altre Amministrazioni Pubbliche;

h) rafforzamento delle funzioni di monitoraggio e valutazione delle politiche e dei servizi;

i) valorizzazione delle sinergie tra servizi pubblici e privati, al fine di rafforzare le capacità d’incontro tra domanda e offerta di lavoro, prevedendo, a tal fine, la definizione dei criteri per l’accreditamento e l’autorizzazione dei soggetti che operano sul mercato del lavoro e la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni nei servizi pubblici per l’impiego;

l) introduzione di modelli sperimentali, che prevedano l’utilizzo di strumenti per incentivare il collocamento dei soggetti in cerca di lavoro e che tengano anche conto delle esperienze più significative realizzate a livello regionale;

m) previsione di meccanismi di raccordo tra l’Agenzia Nazionale per l’Occupazione e l’INPS, sia a livello centrale che a livello territoriale;

n) previsione di meccanismi di raccordo tra l’Agenzia Nazionale per l’Occupazione e gli enti che, a livello centrale e territoriale, esercitano competenze in materia di incentivi all’autoimpiego e all’autoimprenditorialità;

o) mantenimento in capo al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali delle competenze in materia di definizione dei livelli essenziali delle prestazioni che devono essere garantite su tutto il territorio nazionale;

p) mantenimento in capo alle Regioni e Province Autonome delle competenze in materia di programmazione delle politiche attive del lavoro;

q) attivazione del soggetto che cerca lavoro, in quanto mai occupato, espulso o beneficiario di ammortizzatori sociali, al fine di incentivarne la ricerca attiva di una nuova occupazione, secondo percorsi personalizzati, anche mediante l’adozione di strumenti di segmentazione dell’utenza basati sull’osservazione statistica;

r) valorizzazione del sistema informativo per la gestione del mercato del lavoro e il monitoraggio delle prestazioni erogate;

s) completamento della semplificazione amministrativa in materia di lavoro e politiche attive, con l’ausilio delle tecnologie informatiche, allo scopo di reindirizzare l’azione dei servizi pubblici nella gestione delle politiche attive.

Innanzi tutto, la norma in esame si caratterizza per aver concesso al Governo soltanto sei mesi, per l’esercizio della delega ad emanare, su proposta del Ministro del Lavoro, uno o più decreti legislativi finalizzati al riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e politiche attive, allo scopo di garantire la fruizione dei servizi essenziali su tutto il territorio nazionale ed assicurare l’esercizio unitario delle relative funzioni amministrative. A tal fine, è stata anche prevista una intesa preventiva “debole” in Conferenza Stato- Regioni ex D.Lgs. 281/1997.

 Abbiamo visto poc’anzi come, il secondo comma dell’art. 2 abbia individuato analiticamente i criteri e i principi identificati per l’esercizio della delega. In particolare, alcuni di essi merito qualche ulteriore considerazione specifica.

La razionalizzazione degli incentivi all’assunzione.

La lettera a) del secondo comma in questione prevede la razionalizzazione degli incentivi all’assunzione, con l’intento di collegarli e/o modularli, sulla base di parametri statistici, alle caratteristiche del soggetto in relazione alla distanza ed al suo grado di difficoltà nell’accesso al mercato del lavoro. Tale previsione normativa sembra richiamare, anche se in modo indiretto, le attività di profilazione dell’utenza previste dalla c.d. “Garanzia Giovani”, nell’ambito del sistema dei servizi per il lavoro, le quali sono, tuttavia, ancora in corso di definizione. Appare evidente come il successo di questa norma sia strettamente legato alla espressa previsione di un ampio margine di flessibilità e di adattabilità in relazione al contesto territoriale di riferimento. In altri termini, in sede di esercizio della delega, appare necessario concedere alle Regioni il maggior livello possibile di discrezionalità, nello spirito di una sana sussidiarietà verticale. Siffatta ultima considerazione trova conforto nell’ulteriore richiamo operato verso il sistema di profilazione riscontrabile nel disposto della lettera q), dove viene ribadito il principio, già codificato nella normativa vigente (cfr., D.Lgs. n. 181/2000 ss.mm.ii.) e, di recente, confermato dalle Linee Guida condivise per la regolazione e la gestione dello stato di disoccupazione approvate in Conferenza Stato- Regioni in data 05-12-2013, dell’attivazione del soggetto disoccupato/inoccupato (beneficiario o non di ammortizzatori sociali) per la ricerca attiva di una nuova occupazione, nell’ambito di una presa in carico personalizzata.

La razionalizzazione degli incentivi per l’autoimpiego ed autoimprenditorialità.

La lettera b) prevede espressamente la razionalizzazione degli incentivi per l’autoimpiego ed autoimprenditorialità, con la previsione di una cornice giuridica nazionale quale riferimento anche per l’attuazione degli interventi regionali. A tal proposito, si evidenzia che, già nell’ambito dell’istruttoria realizzata dalla IX Commissione sul D.L. n. 76/2013, in relazione agli incentivi ivi previsti, le Regioni avevano evidenziato in generale la necessità di prevedere delle forme di raccordo, in merito al campo di applicazione degli incentivi con gli altri esistenti a livello statale e regionale. La norma in questione pare recepire questa istanza, tanto è vero che, la lettera n) dispone l’introduzione di meccanismi di raccordo tra gli enti che, a livello nazionale e territoriale, esercitano competenze in materia di incentivi all’autoimpiego e autoimprenditorialità e la costituenda Agenzia Nazionale per l’Occupazione.

L’Agenzia Nazionale per l’Occupazione.

Proprio relativamente ai meccanismi di raccordo, appare particolarmente rilevante la previsione contenuta nella lettera c), la quale statuisce l’istituzione di una Agenzia Nazionale per l’Occupazione. Si tratta di un organismo posto sotto la vigilanza del Ministero del Lavoro e partecipato da Stato, Regioni e Province Autonome. La norma si inserisce nell’alveo di una linea di intervento sovente ventilata dal legislatore nazionale sin dalla legislatura precedente e, da tempo, oggetto di confronto anche con le Regioni. Infatti, si ricorda che l’ipotesi di una Agenzia Nazionale per l’Occupazione era fugacemente apparsa anche nelle bozze intermedie del D.L. n. 76/2013 (cfr., articolo 5).

D’altro canto, si sottolinea la scelta legislativa di annoverare nella composizione dell’Agenzia i soli soggetti istituzionali Stato, Regioni e Province Autonome, limitando, alla lettera d), il ruolo delle parti sociali alla sola definizione delle linee di indirizzo. Si tratta di una differenza sostanziale con i precedenti tentativi di analogo tenore, ove erano state previste forme più allargate di partecipazione , relativamente alle quali erano state sollevate molte critiche da parte delle Regioni.

Per quanto concerne l’organico da far confluire nell’Agenzia Nazionale per l’Occupazione, si ricorda che la lettera c) ha specificato il fatto che il nuovo organismo debba essere istituito senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e che al suo funzionamento si debba provvedere tramite le risorse umane e strumentali disponibili a legislazione vigente. A tal proposito, il combinato disposto della lettera f) e della lettera g), prevede una razionalizzazione degli enti ed uffici che, anche all’interno del Ministero del Lavoro, delle Regioni e delle Province, operano in materia di politiche attive del lavoro, servizi per l’impiego e ammortizzatori sociali.

Appare evidente come la costituzione di tale Agenzia Nazionale per l’Occupazione possa comportare una invasione di competenze , con particolare riguardo alla possibilità di un intervento sugli uffici regionali. Pertanto, sarà fondamentale che il legislatore nazionale, nell’esercizio della delega, preveda adeguate forme di raccordo con la parallela attività di revisione costituzionale dell’assetto delle Province. Tale necessità appare ancor più necessaria se si considera il fatto che la lettera e) statuisce l’unificazione in capo all’Agenzia Nazionale per l’Occupazione delle funzioni relative alle politiche attive del lavoro, ai servizi per l’impiego ed agli ammortizzatori sociali e la successiva lettera m) rinvia a meccanismi di raccordo tra Agenzia Nazionale per l’Occupazione ed INPS.

Abbiamo appena detto che la lettera e) dispone l’attribuzione all’Agenzia Nazionale per l’Occupazione di competenze gestionali in materia di servizi per l’impiego, politiche attive e ASPI. Si tratta di una previsione normativa particolarmente rilevante, sia per la sua portata operativa, sia per gli effetti che essa produrrà nei confronti dei rapporti istituzionali esistenti tra Stato, Regioni e Province Autonome. Tale considerazione appare ancor più evidente se si considera quanto previsto alla lettera o), la quale stabilisce il mantenimento in capo al Ministero del Lavoro delle competenze in materia di definizione dei livelli essenziali delle prestazioni che devono essere garantite su tutto il territorio nazionale. Siffatta rilevanza della lettera e) emerge ancor di più se la si raccorda con la previsione contenuta nella lettera p), la quale prevede il mantenimento in capo alle Regioni e Province Autonome delle competenze in materia di programmazione delle politiche attive del lavoro. In altri termini, siamo di fronte ad un complesso sistema di delega al legislatore, in virtù del quale varierà significativamente il sistema dei rapporti istituzionali sul versante delle materie afferenti al lavoro. Si ricorda che tali materie sono attualmente ricomprese nella potestà legislativa concorrente ed, al netto dei possibili scenari di evoluzione istituzionale legati alle ipotesi di modifica della Carta Costituzionale, il quadro delineato dalla legge delega appare sostanzialmente in linea con la normativa vigente, seppur modificando significativamente il baricentro decisionale a favore dell’Amministrazione Statale. Pertanto, sarà fondamentale che, nella individuazione dei compiti attribuiti all’Agenzia Nazionale per l’Occupazione, venga preservato il ruolo delle Regioni nella definizione, programmazione e attuazione delle politiche attive aventi dirette ricadute sul territorio, nonché nella gestione degli interventi in materia di occupazione nei confronti dei cittadini. Infatti, tali compiti istituzionali rappresentano una competenza prioritaria regionale, rispetto al quale lo Stato, nell’ambito di linee condivise e nel rispetto dei LEP, può ben svolgere una funzione di supporto e di sostegno, ma non sostitutiva delle Regioni stesse. In particolare, con riferimento alla formazione professionale, quale materia a potestà legislativa esclusiva delle Regioni e che sembrerebbe non essere coinvolta dagli attuali progetti di revisione della Costituzione, si rileva nella formulazione della delega al Governo il rischio latente di un’invasione di competenze regionali da parte dello Stato.

La definizione dei criteri per l’accreditamento e l’autorizzazione dei soggetti che operano sul mercato del lavoro e la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni dei servizi per l’impiego.

Nell’ambito della valorizzazione delle sinergie tra servizi pubblici e servizi privati, la lettera i) prevede la definizione dei criteri per l’accreditamento e l’autorizzazione dei soggetti che operano sul mercato del lavoro e la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni dei servizi per l’impiego. Rispetto a tale principio, si ricorda che nella normativa vigente contenuta nel D.Lgs. n. 276/2003, il regime di accreditamento degli operatori per lo svolgimento dei servizi per il lavoro risulta essere una competenza regionale, accanto al regime di autorizzazione nazionale. Appare, quindi, evidente la necessità che l’attuazione di tale criterio avvenga secondo linee condivise e in modo non invasivo rispetto a quanto già disciplinato sul territorio. Si tratta di una materia delicata che, dopo, quasi dieci anni di “messa a regime”, comincia a dare i primi segnali di definizione normativa ed istituzionale. Un intervento non rispettoso delle discipline approvate dalle singole Amministrazioni Regionali comporterebbe soltanto confusione in capo ai cittadini che accedono ai servizi per il lavoro.

La valorizzazione del sistema informativo del lavoro, in un’ottica di completamento della semplificazione amministrativa.

Il combinato disposto della lettera r) e della lettera s) dispone espressamente la valorizzazione del sistema informativo del lavoro, in un’ottica di completamento della semplificazione amministrativa, attraverso l’ausilio ed il reindirizzo dei servizi pubblici nella gestione delle politiche attive e nel monitoraggio delle prestazioni erogate. Tale principio, da una parte, si pone in continuità con il lavoro svolto, da tempo, dalle Regioni e dalle Province Autonome nell’ambito del Tavolo tecnico interistituzionale SIL, anche con particolare riferimento alle ultime attività sviluppate sul versante dell’attuazione della c.d. “Garanzia Giovani”, in relazione agli aspetti gestionali ed all’aggiornamento della scheda anagrafico-professionale dell’utente dei servizi. D’altra parte, il principio in questione si collega ai profili di attuazione della Banca Dati delle Politiche Attive e Passive del Lavoro, prevista dall’art. 8 D.L. n. 76/2013, la quale, tuttavia, non è ancora stata realizzata. In altri termini, appare necessario procedere ad una immediata ed efficace implementazione degli strumenti in questione, affinché la previsione contenuta nella delega in questione non si trasformi, di fatto, in una mera affermazione programmatica.

 

Pillole di Jobs Act. L’apprendistato.

Immagine

di Germano De Sanctis

La finalità dell’intervento riformatore in materia di apprendistato.

Nel corso del Consiglio dei Ministri del 12 marzo scorso, il Governo ha varato il tanto atteso provvedimento in materia di riforma del lavoro, meglio conosciuto come Jobs Act. Come è noto, si tratta della combinata emanazione di un decreto legge e di un disegno di legge delega.

In particolare, il decreto legge interviene anche sul contratto di apprendistato, con l’intento di attenuare le rigidità introdotte all’istituto dell’apprendistato dalla Legge. n. 92/2012 (c.d “Riforma Fornero”), le quali lo hanno reso meno facilmente utilizzabile rispetto alla sua originaria formulazione contenuta nel D.Lgs. n. 167/2011 (c.d. “Testo Unico dell’Apprendistato”).

Lo scorso 15 marzo, le anticipazioni governative sull’apprendistato, divulgate subito dopo il Consiglio dei Ministri del 12 marzo scorso, sono state oggetto di un comunicato del Ministero del Lavoro, il quale ha ulteriormente specificato alcuni passaggi che sono risultati essere particolarmente controversi.

L’abrogazione dell’obbligo della forma scritta per il piano formativo.

Il decreto legge prevede l’abrogazione della necessità di redigere in forma scritta il piano formativo individuale. La forma scritta permane esclusivamente per il contratto di apprendistato tout court e per il patto di prova.

L’abrogazione dell’obbligo di forma scritta per il piano formativo individuale rischia di snaturare il rapporto di apprendistato stesso, in quanto una sua assenza potrebbe comportare una più facile elusione del suo momento formativo.

L’abrogazione della quota percentuale di apprendisti da stabilizzare.

Inoltre, è prevista l’abrogazione dell’art. 2, commi 2-bis e 2-ter, D.Lgs. n. 167/2011, introdotti dalla Legge n. 92/2012 (c.d. Riforma Fornero), con la conseguenza che vengono eliminate le previsioni normative, in virtù delle quali l’assunzione di nuovi apprendisti è condizionata alla conferma in servizio di una ben determinata quota percentuale di precedenti apprendisti al termine del loro percorso formativo (fissata al 30% fino al 2015, per, poi, salire al 50%).

Tale previsione normativa non è stata coordinata con la disciplina di settore prevista dalla contrattazione collettiva, la quale non risulta essere minimamente condizionata dalla novella in questione. In altri termini, fin quando permarranno i vincoli di stabilizzazione contenuti nei contratti collettivi, tale norma rischia di rimanere una mera affermazione di principio.

Gli interventi in materia di apprendistato di primo livello.

Il decreto legge interviene anche in materia di apprendistato di primo livello, cioè quella forma di apprendistato finalizzata al conseguimento di un diploma o di una qualifica.

Infatti, in vista dell’ormai prossima sperimentazione biennale (anni 2013-2015) dell’apprendistato a scuola contenuto nel c.d. “Decreto Carrozza”, è stata prevista una norma a favore delle imprese, la quale stabilisce che la parte di retribuzione dell’apprendista concernente le ore di formazione, debba essere pari al 35% della retribuzione del livello di inquadramento.

Gli interventi in materia di apprendistato di secondo livello.

Per quanto concerne l’apprendistato di secondo livello, il decreto legge elimina l’obbligo in capo al datore di lavoro dintegrare la formazione professionalizzante, con la formazione trasversale e di base contenuta nell’offerta formativa pubblica, diventando quest’ultima un mero elemento discrezionale.

Di conseguenza, scompare l’obbligatorietà, per il datore di lavoro, di assicurare all’apprendista di secondo livello una formazione «pubblica» avente carattere trasversale e di base, ovvero di garantirgli la frequenza dei corsi regionali, qualora essi risultino istituiti, oppure di organizzarglieli ad hoc. L’immediata conseguenza di tale previsione normativa consisterà nel fatto che la formazione trasversale e di base, perdendo la sua natura obbligatoria, smetterà di essere oggetto di sanzioni cospicue (anche in termini di contributi versati).

Tale eliminazione dell’obbligatorietà della formazione pubblica può creare seri problemi con l’Unione Europea, atteso che l’apprendistato gode di sgravi contributivi proprio in virtù della sua valenza formativa. In altri termini, rendere la formazione pubblica soltanto eventuale comporta il rischio fondato che i predetti sgravi siano ritenuti dall’Unione Europea non più giustificabili, alla luce della vigente normativa comunitaria in materia di aiuti di Stato.

Pillole di Jobs Act. Il contratto di lavoro a tempo determinato senza causale

Immagine

di Germano De Sanctis

Premessa.

Il decreto legge varato nel corso del Consiglio dei Ministri del 12 marzo scorso ha apportato significative modifiche al contratto di lavoro a tempo determinato, suscitando numerose polemiche provenienti, sia dal fronte sindacale, che da quello degli studiosi del diritto.

Pertanto, il Governo è nuovamente intervenuto sul disegno di decreto legge in questione, rettificando quanto già annunciato dopo il citato Consiglio dei Ministri, al fine di assicurare forme di tutela più consistenti per i lavoratori interessati.

Pertanto, sarà bene esaminare la “nuova ed ulteriore” forma giuridica assunta da contratto di lavoro a tempo determinato nell’arco di così pochi giorni.

Il primo contratto a causale.

Prima di quest’ultima novella, era possibile sottoscrivere un contratto di lavoro a tempo determinato senza causale soltanto a condizione che esso non durasse più di dodici mesi e che esso fosse il primo contratto stipulato tra le parti contraenti (cfr., art. 1, comma 1-bis, lett. a), D.Lgs. n. 368/2001). L’assenza di una causale nel contratto in questione consiste nella possibilità riconosciuta in capo al datore di lavoro di non specificare le motivazioni tecniche, produttive, organizzative o sostitutive che lo inducono ad apporre un termine al rapporto. Orbene, tale limite di dodici mesi è stato elevato a trentasei mesi, facendo, in tal modo, coincidere l’assenza di causale con la durata massima di tre anni del contratto di lavoro a tempo determinato prevista dall’art. 4, comma 1, D.Lgs. n. 368/2001.

È bene sottolineare che il  Governo ha ritenuto opportuno optare per tale scelta, in quanto è stato riscontrato che la causale costituisce il motivo principale della maggior parte dei contenziosi esistenti in materia di lavoro a tempo determinato.

Chiaramente, l’elevazione del tetto a trentasei mesi continua ad interessare esclusivamente il primo contratto di lavoro a tempo determinato stipulato tra il datore di lavoro ed il lavoratore interessato.

Di conseguenza, nel caso in cui il primo contratto abbia una durata inferiore a trentasei mesi, è sempre possibile prorogarlo fino a tale limite, ma, a questo punto, il datore di lavoro non è più agevolato dalla “acausalità” del rapporto di lavoro e deve necessariamente specificare le “ragioni oggettive” sottese all’estensione contrattuale.

Il numero massimo delle proroghe

Inoltre, il Governo ha, in un primo momento, privilegiato la possibilità di prorogare più volte il contratto di lavoro a tempo determinato entro il limite di tre anni, purché ne sussistano “ragioni oggettive” e faccia riferimento alla medesima attività lavorativa.

La decisione iniziale di non prevedere una durata minima ai contratti di lavoro a tempo determinato che si sarebbero succeduti nell’arco del triennio, avrebbe potuto comportare un frazionamento intollerabile per i lavoratori.

Infatti, qualche commentatore ha subito evidenziato che, per assurdo, se un datore di lavoro avesse voluto stipulare soltanto contratti di durata settimanale, il lavoratore interessato sarebbe stato oggetto di ben 156(!) assunzioni consecutive nell’arco di trentasei mesi.

A fronte di questi rilievi, è intervenuta una nota del Ministero del Lavoro, la quale ha chiarito che è prevista la possibilità di prorogare fino ad un massimo di otto volte il contratto a tempo determinato entro il limite dei tre anni. Inoltre, la nota ministeriale ha specificato che le proroghe in questione sono ammissibili a condizione che esse si riferiscano alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato inizialmente stipulato. In altri termini, i contratti di lavoro a tempo determinato intercorrenti tra un lavoratore ed un datore di lavoro nell’arco di trentasei mesi, non possono avere una durata inferiore a quattro mesi e mezzo ciascuno.

La correzione apportata permette di tutelare il lavoratore a tempo determinato che ha concluso il suo rapporto di lavoro, attraverso il ricorso al nuovo sussidio di disoccupazione universale (la c.d. NASPI). Infatti, tale nuova assicurazione, pur prevedendo un enorme ampliamento della platea dei suoi beneficiari rispetto agli attuali ammortizzatori sociali, dovrebbe essere comunque essere corrisposta a favore di coloro che hanno terminato un rapporto di lavoro durato almeno tre mesi. Pertanto, i lavoratori a tempo determinato, avendo il riconoscimento giuridico di almeno quattro mesi e mezzo di lavoro consecutivi, saranno tutelati con un sostegno al loro reddito.

L’eliminazione delle pause lavorative tra un contratto e l’altro.

In aggiunta a quanto finora esaminato, bisogna sottolineare il fatto che il decreto legge in questione ha abrogato anche la previsione normativa che prevedeva la pausa di dieci giorni o venti giorni tra un contratto di lavoro a tempo determinato e l’altro, a seconda del fatto che il contratto concluso avesse avuto una durata rispettivamente inferiore o superiore a sei mesi (cfr., art. 5, comma 3 D.Lgs. n. 368/2001).

Pertanto, dato che la durata massima del contratto di lavoro a tempo determinato resta fissata in trentasei mesi (superati i quali, il rapporto di lavoro si trasforma a tempo indeterminato) e che fra un contratto e l’altro non esiste più l’obbligo di una pausa di dieci o venti giorni, ne consegue che, nel rispetto del citato tetto massimo di otto proroghe (mentre, lo ricordiamo, la Legge n. 92/2012 ne prevedeva una sola), i rinnovi possono essere uno successivo all’altro, senza alcuna interruzione dell’attività lavorativa.

Il limite nell’utilizzo dei contratti di lavoro a tempo determinato.

Infine, il decreto legge in questione ha introdotto un limite massimo all’utilizzo del contratto di lavoro a tempo determinato presso ciascun datore di lavoro. Infatti, i lavoratori a tempo determinato non possono eccedere la quota del 20% dell’organico complessivo del datore di lavoro.

Con la nota ministeriale, si evidenzia che il decreto legge fa, comunque, salvo quanto disposto dall’art. 10, comma 7, D.lgs. n. 368/2001, il quale, da un lato riconosce alla contrattazione collettiva la possibilità di modificare tale limite quantitativo e, dall’altro, tiene conto delle esigenze connesse alle sostituzioni e alla stagionalità.

Sempre relativamente al tetto massimo in questione, la nota ministeriale ha volto la sua attenzione nei confronti delle realtà imprenditoriali più piccole ed ha previsto che le imprese che occupano fino a cinque dipendenti possono comunque stipulare un contratto di lavoro a tempo determinato con un solo lavoratore.

La permanenza di varie criticità.

L’esame della novella dell’istituto del contratto di lavoro a tempo determinato evidenzia un numero pari di luci ed ombre.

Infatti, da un lato, appare evidente la volontà di rendere appetibile una forma contrattuale che, pur costituendo una forma di precariato, è comunque in grado di garantire, sebbene per un limitato lasso temporale, le medesime tutele retributive e contributive dei lavoratori subordinati ex art. 2094 c.c.. Infatti, appare evidente il ragionamento svolto dal legislatore, basato sulla convinzione che, eliminando alcuni dei vincoli burocratici introdotti dalla Legge, n. 92/2012 (c.d. “Riforma Fornero”), sarà possibile aumentare il numero delle assunzioni di lavoratori subordinati.

Dall’altro lato, si deve riscontrare l’introduzione di fatto di un periodo di prova della durata di tre anni, durante il quale è possibile il licenziamento del lavoratore senza preavviso, essendo i lavoratori a tempo determinato protetti dalla normativa in materia di licenziamento soltanto durante la vigenza del rapporto contrattuale. Si ricorda che tale limitazione era compensata dall’abrogata (con il presente decreto legge) previsione contenuta nel D.Lgs. n. 368/2001 di poter stipulare al massimo due rinnovi dello medesimo contratto con lo stesso datore di lavoro nell’arco di un triennio. Invece, si potrebbe assumere un lavoratore con contratti della durata anche di soli quattro mesi e mezzo, comportando la possibilità di ben otto assunzioni consecutive nell’ambito dei tre anni di durata massima del rapporto di lavoro a tempo determinato.

In altri termini, si corre il rischio che una novella introdotta per favorire l’occupazione possa essere utilizzata in maniera distorta ed eversiva, comportando un’ulteriore accentuazione del dualismo esistente tra contratti di lavoro a tempo determinato e quelli a tempo indeterminato.

Non resta che aspettare l’evoluzione che avrà la novella in questione in sede di conversione del decreto legge in legge, auspicando che il Parlamento intervenga nei punti maggiormente “critici”, garantendo un equo contemperamento tra le esigenze di tutela dei lavoratori e le necessità produttive dei datori di lavoro.

Una prima analisi del contenuto del Jobs Act.

Immagine

di Germano De Sanctis

Dopo tanta attesa, è stato finalmente reso noto il contenuto del Jobs Act. A sorpresa, il Governoha abbandonato l’idea di riformare il mercato del lavoro a colpi di decreto legge ed ha scelto una strada diversa. Infatti, il Consiglio dei Ministri del 12 marzo ha licenziato un disegno di legge delega al Governo, avente ad oggetto unaa riforma del mercato del lavoro, che demolisce l’intero impianto normativo delineato dalla c.d. legge Fornero.

In particolare ildisegno di legge delega prevede il conferimento in capo al Governo di specifiche deleghe finalizzate all’introduzione di misure aventi ad oggetto la riforma della disciplina degli ammortizzatori sociali, la riforma dei servizi per il lavoro e le politiche attive, la semplificazione delle procedure e degli adempimenti in materia di lavoro, il riordino delle forme contrattuali, il miglioramento della conciliazione tra tempi di lavoro e tempi di vita.

Contestualmente, il Consiglio dei Ministri ha anche varato anche un decreto legge avente ad oggetto alcuni interventi di semplificazione sul contratto a tempo determinato e sul contratto di apprendistato, finalizzati a renderli più coerenti con le esigenze attuali del contesto occupazionale e produttivo.

Non bisogna dimenticare, che l’intero pacchetto varato dal Consiglio dei Ministri deve essere “messo a sistema”, con la c.d. “Garanzia Giovani”, che dovrebbe partire il 30 marzo p.v. e che interesserà i giovani di età compresa tra i 15 ed i 24 anni, non occupati e non coinvolti in alcun percorso formativo o d’istruzione. Si tratta di un programma comunitario del valore di 1,5 miliardi di euro che durerà fino alla fine del 2015. Lo scopo di tale iniziativa comunitaria consiste nell’offrire ai giovani interessati un’offerta qualitativamente valida di lavoro, di proseguimento degli studi, di apprendistato, di tirocinio o di altra misura di formazione, entro quattro mesi dall’uscita dal sistema di istruzione formale o dall’inizio della disoccupazione.

Appare evidente come la scelta di affidare gran parte delle riforme in questione ad un disegno di legge delega diluisca, nel tempo, l’impatto sul mercato del lavoro dell’attività riformatrice, in quanto bisognerà attendere, in primo luogo, l’approvazione del disegno di legge in questione da parte del Parlamento, e successivamente l’attuazione governativa della delega concessa attraverso l’emanazione di uno o più decreti legislativi

Fatta questa premessa, esaminiamo meglio, nel dettaglio, le novita contenute nei due citati provvedimenti, raggruppando gli argomenti per aree tematiche.

Il contratto di lavoro a tempo determinato.

Per il contratto a tempo determinato viene prevista l’elevazione da 12 a 36 mesi della durata del primo rapporto di lavoro a tempo determinato, per il quale non è richiesto il requisito della c.d. causalità.

Al fine di mantenere in equilibrio il sistema delle tutele, viene fissato un tetto massimo per i contratti di lavoro a tempo determinato, pari al 20% del totale dei dipendenti del datore di lavoro.

Inoltre, si prevede la possibilità di prorogare anche più volte il contratto di lavoro a tempo determinato, ovviamente entro il limite dei tre anni, sempre che sussistano ragioni oggettive e si faccia riferimento alla stessa attività lavorativa.

Tale novella legislativa avrà un enorme impatto sul mercato del lavoro, in quanto il contratto di lavoro a tempo determinato interessa attualmente il 58% dei lavoratori italiani.

Il contratto di apprendistato.

Per il contratto di apprendistato, si prevede l’obbligo della forma scritta per il solo contratto e per il patto di prova, e non, come ora previsto, anche per il relativo piano formativo individuale.

Inoltre, sono state eliminate le vigenti previsioni, in virtù delle quali l’assunzione di nuovi apprendisti è necessariamente condizionata alla trasformazione in lavoratori subordinati dei precedenti apprendisti al termine del percorso formativo.

Si è anche previsto che la retribuzione dell’apprendista, per la parte riferita alle ore di formazione, sia pari al 35% della retribuzione del livello contrattuale dinquadramento.

Scompare l’obbligo in capo al datore di lavoro dintegrare la formazione di tipo professionalizzante e di mestiere con l’offerta formativa pubblica, che diventa un elemento discrezionale.

In altri termini, il decreto legge in questione, prova a rendere più appetibile il contratto di apprendistato, il quale attualmente interessa soltanto il 10% dei rapporti di lavoro in essere.

La smaterializzazione del DURC.

Viene previsto uno specifico intervento di semplificazione amministrativo, avente ad oggeto la smaterializzazione del DURC.

L’intento è di superare l’attuale sistema che impone ripetuti adempimenti burocratici alle imprese.

Secondo le stime del Governo, il provvedimento in questione avrà un impatto di grande rilevanza, tenendo conto del fatto che, nel corso dell’anno 2013. sono stati presentati circa 5 milioni di DURC.

Le delega al Governo in materia di ammortizzatori sociali.

Tale delega persegue lo scopo di assicurare un sistema di garanzia universale per tutti i lavoratori, prevedendo, in caso di disoccupazione involontaria, tutele uniformi e legate alla storia contributiva dei lavoratori, di razionalizzare la normativa in materia di integrazione salariale.

Questo nuovo sistema dovrebbe essere in grado di garantire il coinvolgimento attivo di tutti coloro che sono stati espulsi dal mercato del lavoro, o che risultino essere beneficiari di ammortizzatori sociali.

Inoltre, l’intero riformatore dovrà semplificare le procedure amministrative e dovrà ridurre gli oneri non salariali del lavoro.

Per raggiungere tutti questi obiettivi, la delegaha individuato i seguenti principi e criteri direttivi:

  1. rivedere i criteri di concessione ed utilizzo delle integrazioni salariali, escludendo i casi di cessazione aziendale;

  2. semplificare le procedure burocratiche anche con la introduzione di meccanismi automatici di concessione;

  3. prevedere che l’accesso alla cassa integrazione possa avvenire solo a seguito di esaurimento di altre possibilità di riduzione dell’orario di lavoro;

  4. rivedere i limiti di durata, da legare ai singoli lavoratori;

  5. prevedere una maggiore compartecipazione ai costi da parte delle imprese utilizzatrici;

  6. prevedere una riduzione degli oneri contributivi ordinari e la loro rimodulazione tra i diversi settori in funzione dell’effettivo utilizzo;

  7. rimodulare l’ASPI, omogeneizzando tra loro la disciplina ordinaria e quella breve;

  8. incrementare la durata massima dell’ASPI per i lavoratori con carriere contributive più significative;

  9. estendere l’applicazione dell’ASPI ai lavoratori con contratti di collaborazione a progetto, prevedendo, in una fase iniziale, un periodo biennale di sperimentazione a risorse definite;

  10. introdurre massimali correlati alla contribuzione figurativa;

  11. valutare la possibilità che, dopo l’ASPI, possa essere riconosciuta un’ulteriore prestazione in favore di soggetti con indicatore ISEE particolarmente ridotto;

  12. eliminare la previsione normativa che impone lo stato di disoccupazione come requisito per l’accesso alle prestazioni di carattere assistenziale.

Nell’esercizio di tale delega dovranno essere individuati i meccanismi necessari per assicurare il coinvolgimento attivo del soggetto beneficiario di prestazioni di integrazione salariale, ovvero di misure di sostegno in caso di disoccupazione, al fine di favorirne lo svolgimento di attività in favore della comunità locale di appartenenza.

La delega al Governo in materia di servizi per il lavoro e di politiche attive.

La delega in questione intende garantire la fruizione dei servizi essenziali in materia di politica attiva del lavoro su tutto il territorio nazionale, nonché vuole assicurare l’esercizio unitario delle relative funzioni amministrative.

A tal fine, la delega ha individuato i seguenti principi e criteri direttivi:

  1. razionalizzazione degli incentivi all’assunzione già esistenti, i quali dovranno essere collegati a specifiche caratteristiche osservabili per le quali l’analisi statistica evidenzi una minore probabilità di trovare occupazione;

  2. razionalizzazione degli incentivi per l’autoimpiego e l’autoimprenditorialità;

  3. istituzione, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, di un’Agenzia Nazionale per l’Impiego per la gestione integrata delle politiche attive e passive del lavoro, partecipata da Stato, Regioni e Province Autonome e vigilata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Tale Agenzia avrebbe l’attribuzione di compiti gestionali in materia di servizi per l’impiego, politiche attive e ASPI e si connoterebbe anche per il coinvolgimento delle parti sociali nella definizione delle linee di indirizzo generali. Sono, altresì, previsti meccanismi di raccordo tra l’Agenzia e l’INPS, sia a livello centrale, che a livello territoriale, così come sono previsti ulteriori meccanismi di raccordo tra l’Agenzia e gli Enti che, a livello centrale e territoriale, esercitano competenze in materia di incentivi all’autoimpiego e all’autoimprenditorialità. Il ruolo di tale Agenzia potrebbe essere molto interessante nell’ambito della poc’anzi citata “Garanzia Giovani”;

  4. razionalizzazione degli enti e delle strutture, anche all’interno del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, che operano in materia di ammortizzatori sociali, politiche attive e servizi per l’impiego, allo scopo di evitare sovrapposizioni e garantire l’invarianza di spesa;

  5. rafforzamento e valorizzazione dell’integrazione pubblico/privato, al fine di migliorare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro;

  6. conferma del ruolo svolto dal Ministero del lavoro e delle Politiche Sociali per la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni che debbono essere garantite su tutto il territorio nazionale;

  7. conferma delle competenze delle Regioni e delle Province Autonome in materia di programmazione delle politiche attive del lavoro;

  8. promozione di azioni volte al coinvolgimento attivo del soggetto che cerca lavoro;

  9. valorizzazione del sistema informativo per la gestione del mercato del lavoro e del monitoraggio delle prestazioni erogate.

La delega al Governo in materia di semplificazione delle procedure e degli adempimenti.

Questa specifica delega intendeperseguire la semplificazione e la razionalizzazione delle procedure di costituzione e gestione dei rapporti di lavoro, al fine di ridurre gli adempimenti a carico di cittadini e imprese.

A tal fine, la delega ha individuato i seguenti principi e criteri direttivi:

  1. razionalizzazione e semplificazione delle procedure e degli adempimenti connessi con la costituzione e la gestione del rapporto di lavoro, con l’obiettivo di dimezzare il numero di atti di gestione del rapporto di carattere burocratico ed amministrativo;

  2. eliminazione e semplificazione, anche mediante norme di carattere interpretativo, delle disposizioni interessate da rilevanti contrasti interpretativi, giurisprudenziali e amministrativi;

  3. unificazione delle comunicazioni alle Pubbliche Amministrazioni per i medesimi eventi (ad es., gli infortuni sul lavoro), ponendo a carico delle stesse Amministrazioni l’obbligo di trasmetterle alle altre amministrazioni competenti;

  4. promozione delle comunicazioni in via telematica ed abolizione dell‘obbligo di tenuta di documenti cartacei;

  5. revisione delsistema sanzionatorio, valorizzando gli istituti di tipo premiale, che tengano conto della natura sostanziale o formale della violazione e che favoriscano l’immediata eliminazione degli effetti della condotta illecita (a parità di costo);

  6. individuazione delle modalità organizzative e gestionali capaci di svolgere, anche in via telematica, tutti gli adempimenti di carattere burocratico e amministrativo connesso con la costituzione, la gestione e la cessazione del rapporto di lavoro;

  7. revisione degli adempimenti in materia di libretto formativo del cittadino.

La delega al Governo in materia di riordino delle forme contrattuali.

Lo scopo di tale delega consiste nella volontà di rafforzare le opportunità dingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, nonché di riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto produttivo nazionale e internazionale.

A tal fine, la delega ha individuato i seguenti principi e criteri direttivi:

  1. individuazione ed analisi di tutte le forme contrattuali esistenti, al fine di poterne valutare l’effettiva coerenza con il contesto occupazionale e produttivo nazionale e internazionale, anche in funzione di eventuali interventi di riordino delle medesime tipologie contrattuali;

  2. redazione di un testo organico di disciplina delle tipologie contrattuali dei rapporti di lavoro, riordinate secondo quanto indicato alla lettera a), che preveda anche l’introduzione, eventualmente in forma sperimentale, di ulteriori tipologie contrattuali espressamente volte a favorire l’inserimento nel mondo del lavoro, con tutele crescenti per i lavoratori coinvolti;

  3. introduzione, eventualmente anche in forma sperimentale, del compenso orario minimo, applicabile a tutti i rapporti di lavoro subordinato, previa consultazione delle parti sociali;

  4. abrogazione di tutte le disposizioni che disciplinano le singole forme contrattuali, incompatibili con il testo organico di cui alla lettera b), al fine di assicurare certezza agli operatori, eliminando le eventuali duplicazioni normative e difficoltà interpretative ed applicative.

La delega al Governo in materia di conciliazione dei tempi di lavoro con le esigenze genitoriali.

Tale delega vuole garante una effettiva conciliazione tra i tempi di vita ed i tempi di lavoro dei genitori. In particolare, il Governo vorrebbe raggiungere l’obiettivo di garantire alle donne un sistema di conciliazione tale da non costringerle a scegliere fra l’accudimento dei figli e la permanenza nel mondo del lavoro.

A tal fine, la delega ha individuato i seguenti principi e criteri direttivi:

  1. introduzione di un’indennità di maternità a carattere universale, la quale, pertanto, interesserà anche le lavoratrici che versano i propri contributi alla gestione separata;

  2. garantire il diritto alla prestazione assistenziale a favore delle lavoratrici madri parasubordinate, anche in caso di mancato versamento dei contributi da parte del datore di lavoro;

  3. abolizione della detrazione per il coniuge a carico ed introduzione del c.d. tax credit, inteso quale incentivo al lavoro femminile, per le donne lavoratrici, anche autonome, con figli minori e che si trovino al di sotto di una determinata soglia di reddito familiare;

  4. incentivazione degli accordi collettivi volti a favorire la flessibilità dell’orario lavorativo e l’impiego di premi di produttività, per favorire la conciliazione dell’attività lavorativa con l’esercizio delle responsabilità genitoriali e dell’assistenza alle persone non autosufficienti;

  5. integrazione dell’offerta di servizi per la prima infanzia forniti dalle imprese nel sistema pubblico-privato dei servizi alla persona, anche mediante la promozione del loro utilizzo ottimale da parte dei lavoratori e dei cittadini residenti nel territorio in cui sono attivi.

Italicum, parla il giurista Azzariti: “Troppa continuità col Porcellum, la costituzionalità è a rischio”

20140312-163343.jpg

Fonte: MicroMega

“Su premio e preferenze la sentenza della Corte non è stata rispettata. Manca equilibrio tra rappresentanza e governabilità, l’Italicum è tutto sbilanciato su quest’ultima”. Intervista al giurista Gaetano Azzariti.

di Liana Milella, da Repubblica, 12 marzo 2014

Una legge costituzionale? «La definirei ad alto rischio». Interverrà la Consulta? «Non mancherà l’occasione». Donne non garantite? «Chi ha scritto l’Italicum non ha studiato bene la Costituzione». Il Senato escluso? «L’irrazionalità al potere». Gaetano Azzariti, docente di diritto costituzionale alla Sapienza, è critico sulla riforma e dice: «Sono molto preoccupato».

Voto sofferto alla Camera. Che ne pensa?

«Mi sembra che proseguano tutte le difficoltà che hanno caratterizzato l’ultimo biennio di travagliato dibattito sul sistema elettorale. Non mi stupisce, apparendomi l’Italicun in assoluta continuità con il Porcellum».

Beh…non è per niente un buon viatico.

«Se prendiamo in esame i tratti che caratterizzano la legge, non possiamo che constatare la continuità: un premio di maggioranza che pur avendo una soglia rimane abnorme; le liste pur sempre bloccate; la possibile pluricandidabilità nei collegi dei candidati; l’assenza di ogni norma riequilibratrice tra i sessi; la previsione di una quantità irrazionale di soglie di accesso ».

L’Italicum rischia, come il Porcellum, lo stop della Consulta?

«Mi limito a osservare che non mi sembrano rispettati i principi della sentenza della Corte pur fresca di due mesi».

Premio e preferenze, dove inciampadi più?

«Su entrambi. Quanto al premio, la Corte ha scritto che si deve evitare “l’alterazione profonda della rappresentanza democratica”, ossia del necessario equilibrio tra rappresentanza e governabilità. L’Italicum invece è tutto sbilanciato su quest’ultima. Quanto alle liste, la Corte impone il concorso dei cittadini alla scelta dei propri rappresentanti, che l’Italicum impedisce con il ricorso alle liste bloccate e con la ripartizione pluricircoscrizionale dei seggi».

Le preferenze non sono passate per 35 voti. Non è il segnale che molti avvertono questa grave lacuna?

«Tutta la discussione sulla riforma è segnata da un forte malessere, in particolare nel Pd, in cui la disciplina di partito non riesce ad arginare evidenti dissensi di fondo. Non credo che la colpa sia solo del voto segreto, ma viceversa che nel segreto del voto dilaghi un dissenso manifesto».

Una riforma solo per la Camera è una grave anomalia?

«È espressione di un’azione politica che giudico spericolata perché introduce un elemento di irrazionalità rispetto agli stessi scopidi chi sponsorizza la legge».

Prevede conseguenze negative?

«Andare alle elezioni con due sistemi così diversi tra Camera e Senato finirebbe per porre nel nulla le pretese di governabilità messe a fondamento dell’intera revisione della legge elettorale. Avremmo una sicura governabilità alla Camera e una certa assenza di possibile maggioranza al Senato. La “scommessa” della sua abolizione, a oggi, non può essere data per scontata. Ciò renderebbe difficile, se non impossibile, andare ad elezioni limitando in modo rilevante un potere del capo dello Stato».

Fino a spingerlo a non firmare la legge?

«È Napolitano che, dopo l’accordo, ha dichiarato che si sarebbe riservato di svolgere un attento esame in fase di promulgazione».

20140311-214651.jpg

20140310-212751.jpg

Fonte: maurobiani.it