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Pillole di Jobs Act. La disciplina del lavoro a tempo determinato contenuta nel testo del D.L. 34/2014 emendato dal Governo in sede di conversione al Senato

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 di Germano De Sanctis

Nel corso della giornata del 2 maggio, il Governo e la sua maggioranza hanno raggiunto un accordo sulla conversione del D.L. n. 34/2014 (c.d. “Decreto Lavoro”) al Senato. Tale accordo consiste nella presentazione da parte del Governo di otto emendamenti che mettono al sicuro l’iter parlamentare del decreto legge in questione.
Il nuovo testo emendato, deve essere votato dal Senato al massimo entro il prossimo 19 maggio e non dovrebbe essere sottoposto al voto di fiducia come, invece, è avvenuto alla Camera dei Deputati, anche se, a fini ostruzionistici, sono stati già presentati centinaia di emendamenti da parte delle opposizioni. I tempi sono stretti, in quanto, successivamente, il D.L. n. 34/2014 dovrà essere riesaminato in questa sua nuova versione dalla Camera dei Deputati ed convertito in legge nel termine sopra indicato.
Per quanto concerne il lavoro a tempo determinato, gli emendamenti governativi liberalizzano il ricorso a siffatta tipologia contrattuale, rispetto al testo approvato alla Camera dei Deputati, in quanto sono state inserite alcune significative modifiche che meritano di essere esaminate nel dettaglio. Tuttavia, l’impianto originario dell’istituto in esame non viene stravolto, non costituendo la novella in questione un ritorno alla versione originale del Decreto Lavoro.

Il preambolo

Il nuovo art. 1, comma 1, D.Lgs. n. 368/2001 contiene una frase programmatica che incide minimamente sul piano sostanziale sulla disciplina generale dei contratti a tempo determinato. Anzi, essa appare anche all’interprete meno avveduto come una sorta a di giustificazione delle modifiche introdotte nell’ambito di un quadro normativo che conferma il ruolo di forma comune del rapporto di lavoro svolto dal contratto a tempo indeterminato.
Infatti, il legislatore ha evidenziato il fatto che, essendo le nuove disposizioni normative sono emanate in un momento di cronica crisi occupazionale e nell’attesa del disegno di legge delega di riordino delle tipologie contrattuali, si è perseguito lo scopo di favorire le opportunità di ingresso nel mercato del lavoro.

La conferma della durata massima di trentasei mesi del contratto a tempo determinato senza la specificazione della causale

Innanzi tutto, si evidenzia che è rimasta invariata la questione della durata massima di trentasei mesi del contratto a tempo determinato senza la specificazione della causale, così come è stato confermato il limite massimo di cinque proroghe (a fronte delle otto previste nella versione originaria) del contratto in questione.
Si evidenzia che il predetto tetto massimo di trentasei mesi (comprensivi di eventuali proroghe) per il contratto di lavoro a tempo determinato “acausale” vale anche per il contratto di somministrazione a tempo determinato.
In altri termini, viene confermata l’acausalità generalizzata entro un arco temporale di trentasei mesi, presente fin dalla versione originaria del D.L. n. 34/2014. Si tratta di una scelta operata dal legislatore e finalizzata ad eliminare qualsiasi potenziale contenzioso legato alle motivazioni del contratto di lavoro a termine. Infatti, si tratta di una notevole semplificazione per i datori di lavoro, i quali, al momento di procedere ad una assunzione a tempo determinato, non devono più, come in precedenza, indicare le ragioni tecnico, produttive ed organizzative, poste alla base della loro decisione datoriale.
Tuttavia, è bene precisare che l’acausalità non è un obbligo, ma una facoltà. Pertanto, il datore di lavoro è ancora libero d’indicare nel contratto di lavoro a tempo determinato una ragione giustificatrice, ma, in sede di eventuale contenzioso, dovrà dimostrarne la validità che, a differenza di prima, non deriva dalla legge, bensì dalla negoziazione individuale.

La nuova sanzione pecuniaria concernente i rapporti di lavoro a tempo determinato eccedenti la quota massima consentita

La principale novità introdotta in sede di conversione del D.L. n. 34/2014 al Senato concerne l’eliminazione dell’obbligo di assumere i lavoratori a tempo determinato eccedenti la misura massima del 20% dei lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato da parte del datore di lavoro interessato.
Tale obbligo è sostituito con una sanzione pecuniaria a carico del datore di lavoro che supera la predetta quota. Essa ammonta al 20% dello stipendio del primo contratto a tempo determinato stipulato in eccedenza rispetto al predetto limite massimo, imputando tale percentuale a tutta la durata del rapporto di lavoro in questione. La sanzione in questione è aumentata fino al 50% per i contratti successivi.
Relativamente alla quota massima consentita sono previste due precisazioni:

  1. i datori di lavoro che hanno alle proprie dipendenze fino a cinque dipendenti, costoro possono stipulare un solo contratto a tempo determinato. Quando si parla di datori di lavoro con un organico di lavoratori subordinati a tempo indeterminato fino a cinque unità, si deve intendere che tale numero sia compreso tra zero e cinque;
  2. gli enti di ricerca rimangono esclusi dall’obbligo di rispettare il tetto massimo del 20%.

Il mondo sindacale ha subito espresso la sua contrarietà a tale novella sanzionatoria, ritenendola dannosa nell’ottica della stabilizzazione dei rapporti di lavoro. Invece, le associazioni dei datori di lavoro, pur apprezzando la modifica introdotta, hanno chiesto una riduzione dell’ammontare della sanzione prevista.

La comminazione della nuova sanzione pecuniaria

Ai fini della comminazione della sanzione in questione, si sottolinea il fatto che il computo deve essere effettuato tenendo conto del personale in forza alla data del 1° gennaio dell’anno di assunzione del lavoratore a tempo determinato interessato. Pertanto, è fondamentale capire come calcolare la percentuale del 20%.
Innanzi tutto, essa che si riferisce ai soli contratti a tempo determinato e non anche ai contratti di somministrazione.
Abbiamo appena detto che che la base di calcolo è rappresentata dal numero dei lavoratori assunti a tempo indeterminato (compresi i dirigenti) ed in forza alla data del 1° gennaio dell’anno cui si riferisce l’assunzione. Di conseguenza, il conteggio dei possibili “assumendi” diventa abbastanza facile.
Fatta questa premessa, bisogna escludere dalla base di computo tutte quelle tipologie lavorative, che l’ordinamento giuslavoristico esclude dal computo per l’applicazione degli istituti contrattuali o legali:

  1. i lavoratori somministrati, essendo costoro assunti da un’Agenzia per il Lavoro;
  2. gli apprendisti, in virtù dell’espressa previsione contenuta nell’art. 7, comma 3, D.Lgs. n. 167/2011;
  3. gli assunti con contratto di reinserimento ex art. 20 Legge n. 223/1991;
  4. i lavoratori provenienti da esperienze di lavori socialmente utili o di pubblica utilità ex art. 7, comma 7, D.Lgs. n. 81/2000.

Inoltre, bisogna ricordare il fatto che l’art. 6 D.Lgs. n. 61/2000 impone di calcolare i lavoratori a tempo parziale “pro quota” rispetto all’orario contrattuale pieno.
Va, peraltro, ricordato che, ai sensi dell’art. 10, comma 7, D.Lgs. n. 368/2001, i seguenti contratti a tempo determinato non rientrano nei limiti del contingentamento:

  1. quelli stipulati nella fase di avvio di nuove attività per i periodi definiti dai contratti collettivi nazionali di lavoro anche in misura non uniforme con riferimento sia ad aree geografiche che a comparti merceologici;
  2. quelli per ragioni di carattere sostitutivo o di stagionalità (cfr., D.P.R. n. 1525/1963);
  3. quelli per specifici spettacoli, ovvero quelli per specifici programmi radiofonici o televisivi;
  4. quelli con lavoratori di età superiore ai 55 anni.

Sono, altresì, esclusi dall’ambito di applicazione del predetto tetto massimo del 20%, in quanto non disciplinati dal D.Lgs. n. 368/2001 ed oggetto di specifiche normative, i seguenti contratti di lavoro a tempo determinato:

  1. i contratti di lavoro temporaneo di cui alla Legge n. 196/1997 (cfr., art. 10, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 368/2001);
  2. i contratti di formazione e lavoro (cfr., art. 10, comma 1, lett. b), D.Lgs. n. 368/2001);
  3. i rapporti di apprendistato, nonché le tipologie contrattuali legate a fenomeni di formazione attraverso il lavoro che, pur caratterizzate dall’apposizione di un termine, non costituiscono rapporti di lavoro (cfr., art. 10, comma 1, lett. c), D.Lgs. n. 368/2001);
  4. i richiami in servizio del personale volontario del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, che ai sensi dell’art. 6, comma 1, D.Lgs. n. 139/2006, non costituiscono rapporti di impiego con l’Amministrazione (cfr., art. 10, comma 1, lett. c-bis), D.Lgs. n. 368/2001);
  5. ferme restando le disposizioni di cui agli artt. 6 e 8 D.Lgs. n. 368/2001, i rapporti instaurati ai sensi dell’art. 8, comma 2, Legge n. 223/1991 (cfr.,art. 10, comma 1, lett. c-ter), D.Lgs. n. 368/2001);
  6. i contratti stipulati con gli operai a tempo determinato nel settore agricolo, secondo la definizione fornita dall’art. 12, comma 2, D.Lgs. n. 375/1993 (cfr., art. 10, comma 2, D.Lgs. n. 368/2001);
  7. i contratti di durata non superiore a tre giorni per l’esecuzione di servizi speciali, nei settori del turismo e dei pubblici esercizi (cfr., art. 10, comma 3, D.Lgs. n. 368/2001);
  8. i contratti stipulati con i dirigenti, il cui contratto a tempo determinato può avere una durata non superiore a cinque anni (cfr., art. 10, comma 4, D.Lgs. n. 368/2001);
  9. i contratti per il conferimento di supplenze, sia del personale docente, che ATA (cfr., art. 10, comma 4-bis, D.Lgs. n. 368/2001);
  10. i contratti stipulati con i lavoratori alle dipendenze di datori di lavoro che esercitano il commercio di import – export ed all’ingrosso di prodotti ortofrutticoli (cfr. art. 10, comma 5, D.Lgs n. 368/2001);

La forma scritta del contratto a tempo determinato

Ai sensi dell’art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 368/2001, così come modificato dal D.L. n. 34/2014, l’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta, direttamente od indirettamente, da atto scritto. Tale previsione non ha subito modifiche nell’ultimo passaggio al Senato.
Tale previsione cancella il previgente riferimento alle ragioni specifiche che hanno comportato la stipula del contratto a tempo determinato. Ne deriva che il termine non debba discendere direttamente da un fatto negoziale espresso, ma può essere rilevato, anche induttivamente, da clausole contrattuali sottoscritte dalle parti indicanti una determinata attività avente durata predeterminata. Di conseguenza, qualora la scrittura risulti mancante, è ammissibile, in sede di giudizio, la prova testimoniale ex art. 2725 c.c., con le limitazioni individuate dall’art. 2724, comma 3, c.c., il quale stabilisce che la prova per testimoni è ammessa unicamente nel caso in cui il contraente, senza sua colpa, abbia perduto il documento che gli forniva la prova.

Le proroghe

La novella operata all’art. 4, comma 1, D.Lgs. n. 368/2011 ha rappresentato uno dei punti più controversi della riforma in questione.
La versione originaria di tale norma prevedeva una sola proroga di durata anche superiore al contratto iniziale, purché supportata da condizioni oggettive per la quale erano necessari il consenso del lavoratore e lo svolgimento della medesima attività lavorativa.
Come è noto, la versione approvata dal Governo del D.L. n. 34/2014 prevedeva un limite massimo di ben otto proroghe, eliminando, al contempo, ogni riferimento alle condizioni oggettive e con il semplice consenso del lavoratore, purché l’attività svolta fosse sempre la stessa. Si trattava di un numero di proroghe veramente notevole e superiore anche al limite delle sei proroghe previsto dal CCNL di riferimento per i lavoratori in somministrazione.
Il rischio di eccessiva flessibilità a svantaggio del lavoratore ha suggerito, in sede di conversione del decreto legge alla la Camera, di ridurre a cinque il numero di proroghe nell’arco dei trentasei mesi a prescindere dai rinnovi. In altre parole, significa che gli stessi, non saranno più correlati ai singoli rapporti a tempo determinato ma costituiranno una sorta di “bonus” spendibile in uno o più contratti. Una volta esaurito tale beneficio, non sarà più possibile utilizzarlo, restando comunque la possibilità di stipulare un nuovo contratto rispettando il periodo di latenza tra quello cessato e quello nuovo che è di dieci o venti giorni a seconda che il precedente rapporto abbia avuto una durata fino a sei mesi o superiore. Si ricorda la possibilità da parte della contrattazione collettiva (anche aziendale: cfr., art. 4, comma 3, D.Lgs. n. 368/2001) di ridurre od eliminare tali periodi di latenza, con la conseguenza che si potrà procedere al rinnovo nel rispetto delle previsioni dettate dalla pattuizione collettiva.
Fatta questa debita premessa, bisogna evidenziare che, ormai, la proroga è unicamente correlata al consenso del lavoratore ed alla stessa attività.
Per quel che concerne il consenso del lavoratore, esso deve essere rilasciato senza alcuna particolarità formale di espressione, potendo ritenersi ritenersi acquisito anche per “facta concludentia”, così come accade, ad esempio, in caso continuazione dell’attività. Ovviamente, sarà onere del datore di lavoro provvedere a comunicare la proroga attraverso la comunicazione telematica al Centro per l’Impiego entro i cinque giorni successivi all’evento. Il mancato rispetto di tale termine è sanzionato con una sanzione amministrativa pecuniaria compresa tra € 100 e € 500, diffidabile ex art. 13, D.Lgs. n. 124/2004 (cfr., art. 4-bis, comma 5, D.Lgs. n. 181/2000, sanzionabile ex art. 19, comma 3, D.Lgs. n. 276/2003).
Venendo, invece, al significato da attribuire alla dicitura “stessa attività”, si evidenzia che è necessario attenersi al senso letterale, in quanto ogni altra interpretazione potrebbe generare contenziosi giudiziari, tra l’altro, facilmente risolvibili da parte del datore di lavoro, attraverso la stipulazione, ovviamente, nel rispetto del periodo di latenza, di un nuovo contratto di lavoro a tempo determinato, riportando l’indicazione specifica delle mansioni parzialmente diverse.

La sommatoria dei trentasei mesi

Con una disposizione di chiarimento apportata all’interno dell’art. 5, comma 4 –bis, D.Lgs. n. 368/2001, la Camera dei Deputati ha esplicitato le modalità di computo del limite dei trentasei mesi, superati i quali, se il contratto a termine prosegue senza soluzione di continuità, esso si trasforma in contratto di lavoro a tempo indeterminato. Ai fini del presente calcolo, si deve tenere conto, oltre che ai periodi di lavoro a tempo determinato effettuati mediante tale tipologia contrattuale, anche dei periodi di missione svolti in regime di contratto di somministrazione a tempo determinato con mansioni equivalenti ex art. 20 D.Lgs. n. 276/2003.
Si ricorda che il limite dei trentasei mesi (derogabile dalla contrattazione collettiva anche di secondo livello) è superabile soltanto attraverso la stipulazione di un nuovo contratto a tempo determinato in deroga assistita (cioè, sottoscritto dal lavoratore con l’assistenza di un rappresentante sindacale), stipulato avanti ad un funzionario della Direzione Territoriale del Lavoro per una durata stabilita dagli accordi collettivi (anche aziendali).

I diritti di precedenza

Gli emendamenti governativi presentati al Senato hanno fatto salvi i commi 4-quater, 4-sexies e 4-septies dell’art. 5, D.Lgs. n. 368/2001, introdotti in sede di conversione alla Camera dei Deputati. In virtù del contenuto di tali commi, il diritto di precedenza è riconosciuto nei confronti delle seguenti tipologie di lavoratori:

  1. i lavoratori che in esecuzione di uno o più contratti a termine superino i sei mesi hanno un diritto di precedenza nel caso in cui il datore di lavoro intenda assumere a tempo indeterminato un lavoratore per le mansioni già espletate da tali lavoratori. Il diritto in questione deve essere fatto valere con richiesta al datore di lavoro (preferibilmente, in forma scritta) entro i sei mesi decorrenti dalla cessazione del rapporto, con l’avvertenza che tale diritto si estingue entro un anno dalla data di cessazione del rapporto di lavoro (cfr., art. 5, commi 4-quater e 4-sexies, D.Lgs. n. 368/2001);
  2. i lavoratori stagionali hanno un diritto di precedenza per un successivo lavoro stagionale, con l’avvertenza che tale diritto deve essere fatto valere mediante richiesta al datore di lavoro da presentarsi (preferibilmente, in forma scritta) entro i tre mesi successivi decorrenti dalla fine del rapporto, con l’avvertenza che tale diritto si estingue entro un anno dalla data di cessazione del rapporto di lavoro (cfr., art. 5, commi 4-quinquies e 4-sexies, D.Lgs. n. 368/2001);
  3. le lavoratrici in congedo obbligatorio per maternità pari a cinque mesi (di norma, due mesi prima e tre mesi dopo il parto) intervenuto nell’esecuzione di un contratto di lavoro a tempo determinato (di durata superiore a sei mesi) presso il medesimo datore di lavoro, godono di un diritto di precedenza che tiene conto di tale periodo di congedo ai fini della determinazione del periodo di attività lavorativa utile a conseguire il diritto di precedenza per una assunzione a tempo indeterminato alle poc’anzi esaminate condizioni previste dall’art. 5, comma 4-quater, D.Lgs. n. 368/2001 entro i successivi dodici mesi, con riferimento alle mansioni già espletate in esecuzione dei precedenti rapporti a tempo determinato (cfr., art. 5, commi 4-quater e 4-sexies, D.Lgs. n. 368/2001).

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GUIDA IN STATO DI EBBREZZA: IL BILANCIAMENTO DI CIRCOSTANZE ATTENUANTI ED AGGRAVANTI NON HA ESCLUSO LA REVOCA DELLA PATENTE.

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di Michele De Sanctis

Con sentenza 17826 del 28 Aprile 2014, la Corte di Cassazione precisa che il giudizio di bilanciamento di circostanze eterogenee (contemporaneamente aggravanti e attenuanti) permette una modulazione del trattamento sanzionatorio che attui i precetti costituzionali in tema di pena, ma solo in relazione alle pene criminali e dunque non anche con riguardo alle sanzioni amministrative accessorie al reato.

Nel caso di specie, il Gip del Tribunale di Genova, ai sensi dell’articolo 444 cpp, aveva applicato all’imputato, finito sotto accusa per guida in stato di ebbrezza alcolica (art. 186, co. 2 lett. c) e co. 2 bis cds), la pena di mesi quattro di arresto ed € 3.400 di ammenda, con possibilità di sostituire la pena detentiva con la sanzione pecuniaria pari a € 30.000 di ammenda, concedendo, pertanto, la sospensione condizionale della pena ed ordinando la revoca della patente di guida e la confisca del veicolo. Ed è questa la sanzione amministrativa accessoria che esula dal giudizio di bilanciamento, motivo del ricorso davanti al Giudice di Legittimità.

Tuttavia, nel motivare il rigetto del ricorso, la Corte, precisa, peraltro, che, nella sua decisione, il giudice di merito non è in incorso in alcun vizio di legittimità, applicando la sanzione amministrativa accessoria, dal momento che la disciplina vigente fa coincidere l’ambito di esplicazione degli effetti del giudizio di bilanciamento solo con il trattamento sanzionatorio penale e non anche con quello amministrativo, previsto in questo caso dall’applicazione della circostanza di reato aggravata dalla guida in stato di ebbrezza.

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Né ci sono margini tali da delineare un profilo di dubbia legittimità costituzionale. Come, infatti, è già stato puntualizzato dalla Corte Costituzionale (cfr. ord. nn. 344/2004, 196/2010 e 266/2011) e dalle Sezioni Unite della Cassazione (sent. n. 8488/1998), proprio in materia di violazioni penalmente rilevanti alle norme sulla circolazione stradale, la sanzione amministrativa accessoria al reato non cessa la propria natura di sanzione amministrativa per il fatto di essere posta a corredo di una violazione della legge penale. Ne consegue, pertanto, secondo il costante insegnamento della Corte costituzionale, la decisiva rilevanza del principio in base al quale tra illecito penale e illecito amministrativo si danno “sostanziali diversità rilevanti anche sul piano costituzionale – per la esclusiva riferibilità alla materia penale degli artt. 27 e 25, secondo comma, Cost. – e su quello della rispettiva disciplina ordinaria (facendosi, in quella amministrativa, ricorso anche a istituti di diritto civile)”, tali da non giustificare l’estensione all’illecito amministrativo del regime penalistico.

In altre parole, vista la diversa natura dei due tipi di sanzioni e le diverse finalità che il Legislatore ha voluto dare a quelle penali e a quelle amministrative, le valutazioni relative al concorso di circostanze eterogenee hanno la capacità di produrre effetti sull’entità della pena principale (art. 69 cp) e sulle quelle accessorie (art. 37 cp), ma non anche sulle sanzioni amministrative che continuano, quindi, ad accedere al reato. D’altro canto, poiché tali differenze si riscontrano anche in alcune norme di rango costituzionale, l’irrilevanza del giudizio di bilanciamento delle circostanze del reato rispetto alle sanzioni amministrative accessorie al reato medesimo non comporta neppure eventuali vizi di legittimità costituzionale e, pertanto, al trasgressore del caso in esame restano applicate la revoca della patente e la confisca del mezzo, oltreché il pagamento delle spese processuali.

Un consiglio, amici: se dovete guidare bevete con moderazione!

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OCCHIO QUANDO SIETE AL VOLANTE: PER LA CASSAZIONE RISPETTARE IL CODICE DELLA STRADA NON BASTA.

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di Michele De Sanctis

Non è esonerato da responsabilità il conducente del veicolo che, dopo aver investito ed ucciso un pedone, che a sua volta aveva attraversato la strada imprudentemente, è finito sotto processo con l’accusa di omicidio colposo per non aver osservato le comuni regole di prudenza.
È quanto afferma la Corte di Cassazione, sezione IV penale, con sentenza n. 14776, depositata in data 31 marzo 2014, con cui ha rigettato il ricorso dell’imputato, che chiedeva che fosse riconosciuta e addebitata alla vittima la totale responsabilità nel sinistro (ottenendo, quindi, l’assoluzione dall’accusa di omicidio colposo) e non il semplice concorso di colpa (nella fattispecie, riconosciuto dalla Corte d’Appello di Roma nella misura del 40% e non più sindacabile dalla Suprema Corte di Cassazione, in quanto valutazione di merito – non valutabile nel giudizio di legittimità).
La vittima – si legge in sentenza – dopo essere scesa dall’autobus – aveva attraversato la strada, in un punto privo di passaggi pedonali, velocemente e senza guardare.
L’autobus da cui era sceso il pedone si era fermato, peraltro, irregolarmente all’esterno dell’area riservata alla sua sosta, perché occupata da un’autovettura.

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L’auto investitrice secondo quanto accertato nel corso del giudizio di merito aveva tenuto una velocità quanto meno pari a 70-75 Km/h.
I Giudici di Piazza Cavour, riprendendo la giurisprudenza consolidata della Cassazione, affermano che l’articolo 141 del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (Codice della Strada), rubricato “Velocità” e i principi generali della circolazione stradale impongono sempre al conducente l’obbligo non solo di regolare la velocità del veicolo e la propia condotta, in modo che la stessa non costituisca pericolo per per la sicurezza di persone e cose, ma anche di prevedere, a seconda delle circostanze, dei luoghi e delle condizioni, i prevedibili comportamenti irregolari e finanche incoscienti degli altri utenti della strada che possano determinare situazioni di pericolo e tenere, pertanto, una condotta atta a prevenire sinistri o altri eventi antigiuridici, quale, nel caso di specie, l’omicidio di un pedone.
Non solo, la Suprema Corte ha, altresì, specificato che il conducente di un veicolo coinvolto in un sinistro può considerarsi completamente esonerato da responsabilità solo in caso di sua osservanza di norme precauzionali scritte, assolutamente complete ed esaustive di tutti i possibili comportamenti prudenziali esigibili in relazione a determinate situazioni di pericolosità.
Tuttavia – per giurisprudenza costante della Corte di Cassazione – l’osservanza di tutte le norme prudenziali “scritte” non esclude che possa, comunque, residuare una responsabilità generica derivante da quelle non scritte. In questi casi, infatti, l’adempimento delle norme scritte non esaurisce i doveri degli utenti della strada.
Tra le regole cautelari non scritte, relative alla circolazione stradale, rientra in primis il dovere generale del ‘neminem laedere’, principio di diritto romano, traslato nei successivi ordinamenti occidentali, che, facendo riferimento alla civile e pacifica convivenza, è il fondamento giuridico della responsabilità aquiliana, secondo cui siamo tutti tenuti al dovere generico di non ledere l’altrui sfera giuridica.
Perciò, il conducente di un veicolo può essere chiamato a rispondere per il solo fatto di aver procurato un danno ad un altro soggetto.

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In tali casi, per escludere del tutto la responsabilità del conducente del veicolo investitore e porre esclusivamente a carico del pedone la responsabilità per i danni o la morte allo stesso derivati, è necessario che il primo si sia trovato nell’impossibilità di prevenire e/o evitare l’investimento stesso, per fatti estranei ad ogni suo obbligo di diligenza, da qualsiasi fonte derivante.
Questo perché, nel caso in esame, le condizioni della strada al momento dell’incidente avrebbero dovuto imporre l’adozione di una condotta di guida particolarmente prudente e l’automobilista avrebbe dovuto, quindi, rallentare la propria marcia fino quasi a fermare il mezzo su cui viaggiava, nella prevedibile ipotesi che “pur in assenza di apposito attraversamento pedonale, qualche passeggero potesse portarsi davanti al veicolo del trasporto pubblico dal quale era appena sceso per attraversare la carreggiata”.
È vero che nel caso di specie, non sussisteva in quel tratto di strada un limite di velocità inferiore a quella tenuta dall’automobilista, che, dunque, non si trovava nell’ipotesi sanzionata dal 141 co. 2 CdS, ma è, altresì, vero che la situazione dei luoghi come quella descritta (presenza di un autobus in fermata), doveva imporre una diligenza superiore rispetto a quella della mera osservanza del limite di velocità appunto in virtù dell’esistenza di un pericolo concreto di attraversamento da parte delle persone che scendevano dal mezzo pubblico.
Non può sostenersi argomenta, infatti, la Suprema Corte che “l’imputato non potesse prevedere che da un autobus di linea fosse disceso un passeggero che, passando dietro l’autobus, ripartito da pochi istanti, attraversasse la strada quando egli si trovava a breve distanza”.
È proprio vero quel che comunemente si dice: al volante la prudenza non è mai troppa.

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Pillole di Jobs Act. Le principali novità del testo di conversione del D.L. n. 34/2014 approvato dalla Camera dei Deputati

 

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Nel corso della seduta del 24 aprile, la Camera dei Deputati ha approvato con 263 voti favorevoli e 161 voti contrari il testo di legge di conversione del D.L. n. 34/2014 (il quale, come è noto, è, unitamente al disegno di legge delega, è uno dei due pilastri del Jobs Act), dopo che il Governo aveva posto la questione di fiducia. Adesso, il testo in questione deve essere approvato dal Senato entro il prossimo 20 maggio.

Ma la maggioranza non è compatta ed al suo interno si discute in modo animato su alcuni punti più controversi. Tra essi è annoverabile, innanzi tutto, l’obbligo di non superare il tetto del 20 per cento nell’introduzione di contratti a tempo determinato, pena l’assunzione della quota eccedente a tempo indeterminato. Sempre in materia di contratti a termine il dibattito rimane acceso sulle previsione di sole cinque proroghe massime previste nei tre anni dei contratti a termine, mentre per i rinnovi contrattuali non sono stati previsiti limiti.
Inoltre, risulta molto problematica la norma sulla formazione pubblica obbligatoria per l’apprendistato, in quanto il testo in questione prevede che le Regioni debbano fornire il servizio entro quarantacinque giorni ed, in caso di loro inadempienza, le imprese saranno esonerate da tale obbligo.

Esaminiamo tutte le novità introdotte nel testo di conversione.

Contratti a tempo determinato

Rispetto alla Legge n. 92/2012 (c.d. Legge Fornero), il testo di conversione del D.L. n. 34/2014 estende da uno a tre anni la durata del rapporto di lavoro a tempo determinato senza causale, ovvero senza ragione dell’assunzione (cfr., art. 1, comma 1, lett. a), primo periodo). Il testo approvato dal Governo prevedeva un massimo di otto proroghe contrattuali in 36 mesi, invece, in sede di Commissione Lavoro, il tetto è stato abbassato a cinque proroghe (cfr., art. 1, comma 1, lett. b)).
Inoltre, presso ciascun datore di lavoro, i lavoratori a tempo determinatonon possono essere più del 20% degli lavoratori subordinati assunti a tempo indeterminato (nello specifico un lavoratore a tempo determinato per i datori di lavoro con fino a cinque dipendenti)cfr., art. 1, comma 1, lett. a), secondo periodo) . Qualora tale limite venga superato, i contratti stipulati in eccesso devono essere considerati a tempo indeterminato (cfr., art. 1, comma 1, lett. b-septies).

Diritto di precedenza per le donne in congedo di maternità

La legge di conversione ha previsto che il congedo maternità può concorrere a determinare il periodo minimo di sei mesi di attività, affinché la lavoratrice acquisisca un diritto di precedenza per contratti successivi presso lo stesso datore di lavoro (cfr., art. 1, comma 1, lett. b-quinquies).

Apprendistato

La Commissione Lavoro della Camera dei Deputati ha ripristinato l’obbligo di un piano formativo individuale redatto in forma scritta, inizialmente soppresso nella redazione originaria del D.L. n. 34/2014, anche se ha calmierato tale reintroduzione, prevedendo modalità semplificate di redazione sulla base di moduli e formulari stabiliti dalla contrattazione collettiva o dagli enti bilaterali (cfr., art. 2, comma 1, lett. a), n. 1)). Inoltre, è stato previsto l’obbligo in capo ai datori di lavoro con più di trenta dipendenti di assumere il 20% degli apprendisti, in totale dissonanza con la formulazione originaria del D.L. n. 34/2014, il quale non contemplava questa previsione normativa (cfr., art. 2, comma 1, lett. a), n. 2)).

Semplificazione del DURC

Come è noto, il DURC (documento unico di regolarità contributiva) attesta l’assolvimento da parte di un datore di lavoro degli obblighi legislativi e contrattuali nei confronti di INPS, INAIL e Cassa Edile. La legge di conversione prevede la smaterializzazione di tale documento, attraverso una semplificazione degli adempimenti burocratici (cfr. art. 4).

Contratti di solidarietà

La legge di conversione prevede la possibilità di stabilire mediante apposito decreto interministeriale i criteri per individuare i datori di lavoro beneficiari della riduzione contributiva in caso di ricorso al contratto di solidarietà (cfr., art. 5, comma 1). Vengono incrementate le risorse finanziarie, a decorrere dal 2014, con un limite di spesa di 15 milioni di euro contro i precedenti 5,6 milioni di euro (cfr., art. 5, comma 1-bis, lett. a)).

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Jobs Act breaking news. La Camera dei Deputati approva la fiducia al D.L. n. 34/2014


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di Germano De Sanctis

Nel corso della giornata odierna, la Camera dei Deputati ha approvato la fiducia posta dal Governo sul D.L. n. 34/2014 (uno dei due pilastri del Jobs Act). La votazione si è conclusa con 344 svoti favorevoli 184 voti contrari. Gli onorevoli in aula e che hanno partecipato alla votazione sono stati 528. Si evidenzia che la maggioranza era fissata a quota 265. Il voto finale sul provvedimento in questione si terrà domani alle ore 12:00.

Qui di seguito, si riporta la ricostruzione del testo frutto degli emendamenti apportati dalla Commissione Lavoro e su cui è stata posta la questione di fiducia.

————————————

Decreto-legge 20 marzo 2014, n. 34, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 66 del 20 mar-zo 2014.
Testo del decreto-legge comprendente le modificazioni apportate dalla Commissione La-voro della Camera dei Deputati

Disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell’occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese.

IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

Visti gli articoli 77 e 87 della Costituzione;

Ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di emanare disposizioni volte a semplificare alcune tipologie contrattuali di lavoro, al fine di generare nuova occupazione, in particolare giovanile;

Ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di semplificare le modalità attraverso cui viene favorito l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro;

Ritenuta altresì la straordinaria necessità ed urgenza di semplificare e razionalizzare gli adempimenti a carico delle imprese in relazione alla verifica della regolarità contributiva;

Ritenuta, in fine, la straordinaria necessità ed urgenza di individuare ulteriori criteri per il riconoscimento della riduzione contributiva per i datori di lavoro che stipulano contratti di solidarietà che prevedono la riduzione dell’orario di lavoro, nonché di incrementare le risorse finanziarie destinate alla medesima finalità;

Vista la deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del 12 marzo 2014;

Sulla proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri e del Ministro del lavoro e delle politiche sociali;

 

Capo I
DISPOSIZIONI IN MATERIA DI CONTRATTO DI LAVORO A TERMINE E DI APPREN-DISTATO

Articolo 1.
Semplificazione delle disposizioni in materia di contratto di lavoro a termine

1. In considerazione della perdurante crisi occupazionale e nelle more dell’adozione di provvedimenti volti al riordino delle forme contrattuali di lavoro, al fine di rafforzare le opportunità di Ingresso nel mercato del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione e fermo restando che il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro, al decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) all’articolo 1:
1) al comma 1: le parole da «a fronte» a «di lavoro.» sono sostituite dalle seguenti: «di durata non superiore a trentasei mesi, comprensiva di eventuali proroghe, concluso fra un datore di lavoro e un lavoratore per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione, sia nella forma del contratto a tempo determinato, sia nell’ambito di un contratto di somministrazione a tempo determinato ai sensi del comma 4 dell’articolo 20 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276. Fatto salvo quanto disposto dall’articolo 10, comma 7, il numero complessivo di contratti a tempo determinato stipulati da ciascun datore di lavoro ai sensi del presente articolo non può eccedere il limite del 20 per cento del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1 gennaio dell’anno di assunzione. Per i datori di lavoro che occupano fino a cinque dipendenti è sempre possibile stipulare un contratto di lavoro a tempo determinato.»;
2) il comma 1-bis è abrogato;
3) il comma 2 è sostituito dal seguente: «2. L’apposizione del termine di cui al comma 1 è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto.»;
b) all’articolo 4, comma 1, secondo periodo, le parole da: «la proroga» fino a: «si riferisca» sono sostituite dalle seguenti: «le proroghe sono ammesse, fino ad un massimo di cinque volte, nell’arco dei complessivi trentasei mesi, indipendentemente dal numero dei rinnovi e a condizione che si riferiscano»;
b-bis) all’articolo 4, il comma 2 è abrogato;
b-ter) all’articolo 5, comma 2, le parole: «, instaurato anche ai sensi dell’articolo 1, comma 1-bis,» sono soppresse;
b-quater) all’articolo 5, comma 4-bis, le parole da: «ai fini del computo» fino a: «somministrazione di lavoro a tempo determinato» sono sostituite dalle seguenti: «ai fini del suddetto computo del periodo massimo di durata del contratto a tempo determinato, pari a trentasei mesi, si tiene altresì conto dei periodi di missione aventi ad oggetto mansioni equivalenti, svolti fra i medesimi soggetti, ai sensi dell’articolo 20 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni, inerente alla somministrazione di lavoro a tempo determinato»;
b-quinquies) all’articolo 5, comma 4-quater, sono aggiunti, in fine, i seguenti periodi: «Fermo restando quanto già previsto dal presente articolo per il diritto di precedenza, per le lavoratrici il congedo di maternità di cui all’articolo 16, comma 1, del testo unico di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, e successive modificazioni, intervenuto nell’esecuzione di un contratto a termine presso la stessa azienda, concorre a determinare il periodo di attività lavorativa utile a conseguire il diritto di precedenza di cui al primo periodo. Alle medesime lavoratrici è altresì riconosciuto, con le stesse modalità di cui al presente comma, il diritto di precedenza anche nelle assunzioni a tempo determinato effettuate dal datore di lavoro entro i successivi dodici mesi, con riferimento alle mansioni già espletate in esecuzione dei precedenti rapporti a termine»;
b-sexies) all’articolo 5, comma 4-sexies, è aggiunto, in fine, il seguente periodo:
«Il datore di lavoro è tenuto ad informare il lavoratore del diritto di precedenza di cui ai commi 4-quater e 4-quinquies, mediante comunicazione scritta da consegnare al momento dell’assunzione»;
b-septies) all’articolo 5, dopo il comma 4-sexies è aggiunto il seguente:
«4-septies. I lavoratori assunti a termine in violazione del limite percentuale di cui all’articolo 1, comma 1, sono considerati lavoratori subordinati con contratto a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto di lavoro»;
b-octies) all’articolo 10, comma 7, alinea, primo periodo, le parole: «ai sensi dell’articolo 1, commi 1 e 1-bis,» sono sostituite dalle seguenti: «ai sensi dell’articolo 1, comma 1,».
2. Al decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) all’articolo 20:
1) al comma 4, i primi due periodi sono soppressi e, al terzo periodo, dopo le parole: «della somministrazione» sono inserite le seguenti: «di lavoro»;
2) il comma 5-quater è abrogato;
b) all’articolo 21, comma 1, lettera c), le parole: «ai commi 3 e 4» sono sostituite dalle seguenti: «al comma 3».
2-bis. Ai fini della verifica degli effetti delle disposizioni del presente capo, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, decorsi dodici mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, presenta una relazione alle Camere, evidenziando in particolare gli andamenti occupazionali e l’entità del ricorso al contratto a tempo determinato e al contratto di apprendistato, ripartito per fasce d’età, genere, qualifiche professionali, aree geografiche, durata dei contratti, dimensioni e tipologia di impresa e ogni altro elemento utile per una valutazione complessiva del nuovo sistema di regolazione di tali rapporti di lavoro in relazione alle altre tipologie contrattuali, tenendo anche conto delle risultanze delle comunicazioni di assunzione, trasformazione, proroga e cessazione dei rapporti di lavoro derivanti dal sistema informativo delle comunicazioni obbligatorie già previsto dalla legislazione vigente.
2-ter. La sanzione di cui all’articolo 5, comma 4-septies, del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, introdotto dalla lettera b)-septies del comma 1 del presente articolo, non si applica per i rapporti di lavoro instaurati precedentemente alla data di entrata in vigore del presente decreto, che comportino il superamento del limite percentuale di cui all’articolo 1, comma 1, del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, come modificato dal comma 1, lettera a), numero 1), del presente articolo.
2-quater. All’articolo 4, comma 4-bis, del decreto-legge 21 maggio 2013, n. 54, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 luglio 2013, n. 85, le parole: «fino al 31 luglio 2014» sono sostituite dalle seguenti: «fino al 31 luglio 2015».

Articolo 2.
Semplificazione delle disposizioni in materia di contratto di apprendistato

1. Al decreto legislativo 14 settembre 2011, n. 167, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) all’articolo 2:
1) al comma 1, la lettera a) è sostituita dalla seguente:
«a) forma scritta del contratto e del patto di prova. Il contratto di apprendistato contiene, in forma sintetica, il piano formativo individuale definito anche sulla base di moduli e formulari stabiliti dalla contrattazione collettiva o dagli enti bilaterali »;
2) al comma 3-bis, il primo periodo è sostituito dal seguente: «Ferma restando la possibilità per i contratti collettivi nazionali di lavoro, stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale, di individuare limiti diversi da quelli previsti dal presente comma, esclusivamente per i datori di lavoro che occupano almeno trenta dipendenti l’assunzione di nuovi apprendisti è subordinata alla prosecuzione, a tempo indeterminato, del rapporto di lavoro al termine del periodo di apprendistato, nei trentasei mesi precedenti la nuova assunzione, di almeno il 20 per cento degli apprendisti dipendenti dallo stesso datore di lavoro»;
3) il comma 3-ter è abrogato;
b) all’articolo 3 è aggiunto, in fine, il seguente comma: «2-ter. Fatta salva l’autonomia della contrattazione collettiva, in considerazione della componente formativa del con-tratto di apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale, al lavoratore è riconosciuta una retribuzione che tenga conto delle ore di lavoro effettivamente prestate nonché delle ore di formazione almeno nella misura del 35% del relativo monte ore complessivo.»;
c) all’articolo 4, comma 3, sono aggiunti, in fine, i seguenti periodi: «Qualora la Regione non provveda a comunicare al datore di lavoro, entro quarantacinque giorni dalla comunicazione dell’instaurazione del rapporto, le modalità per usufruire dell’offerta formativa pubblica ai sensi delle linee guida adottate dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano in data 20 febbraio 2014, il datore di lavoro non è tenuto ad integrare la formazione di tipo professionalizzante e di mestiere con quella finalizzata all’acquisizione di competenze di base e trasversali. La comunicazione dell’instaurazione del rapporto di lavoro si intende effettuata dal datore di lavoro ai sensi dell’articolo 9-bis del decreto-legge 1 ottobre 1996, n. 510, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 novembre 1996, n. 608, e successive modificazioni».
2. All’articolo 1 della legge 28 giugno 2012, n. 92, il comma 19 è abrogato.
2-bis. All’articolo 8-bis, comma 2, secondo periodo, del decreto-legge 12 settembre 2013, n. 104, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 2013, n. 128, dopo le parole: «Il programma contempla la stipulazione di contratti di apprendistato» sono inserite le seguenti: «che, ai fini del programma sperimentale, possono essere stipulati anche in deroga ai limiti di età stabiliti dall’articolo 5 del testo unico di cui al decreto legislativo 14 settembre 2011, n. 167».

Articolo 2-bis.
Disposizioni transitorie

1. Le disposizioni di cui agli articoli 1 e 2 si applicano ai rapporti di lavoro costituiti successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto. Sono fatti salvi gli effetti già prodotti dalle disposizioni introdotte dal presente decreto.
2. In sede di prima applicazione del limite percentuale di cui all’articolo 1, comma 1, se-condo periodo, del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, introdotto dall’articolo 1, comma 1, lettera a), numero 1), del presente decreto, conservano efficacia, ove diversi, i limiti percentuali già stabiliti dai vigenti contratti collettivi nazionali di lavoro.
3. Il datore di lavoro al quale non si applicano i limiti percentuali già stabiliti dai vigenti contratti collettivi nazionali di lavoro di cui al comma 2, che, alla data di entrata in vigore del presente decreto, abbia in corso rapporti di lavoro a termine che comportino il superamento del limite percentuale di cui all’articolo 1, comma 1, secondo periodo, del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, introdotto dall’articolo 1, comma 1, lettera a), numero 1), del presente decreto, è tenuto a rientrare nel predetto limite entro il 31 dicembre 2014. In caso contrario, il datore di lavoro, successivamente a tale data, non può stipulare nuovi contratti di lavoro a tempo determinato fino a quando non rientri nel limite percentuale di cui al citato articolo 1, comma 1, secondo periodo, del decreto legislativo n. 368 del 2001.

Capo II
MISURE IN MATERIA DI SERVIZI PER IL LAVORO, DI VERIFICA DELLA REGOLARITÀ CONTRIBUTIVA E DI CONTRATTI DI SOLIDARIETÀ

Articolo 3.
Elenco anagrafico dei lavoratori

1. All’articolo 4, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 7 luglio 2000, n. 442, le parole: «Le persone» sono sostituite dalle seguenti: «I cittadini italiani nonché i cittadini di Stati membri dell’Unione europea e gli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia», la parola: «ammesse» è sostituita dalla seguente: «ammessi», le parole: «inoccupate, disoccupate, nonché occupate» sono sostituite dalle seguenti:
«inoccupati, disoccupati ovvero occupati» e la parola: «inserite» è sostituita dalla seguente: «inseriti».
2. All’articolo 2, comma 1, del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181, le parole:
«nel cui ambito territoriale si trovi il domicilio del medesimo», sono sostituite con le seguenti: «in ogni ambito territoriale dello Stato».

Articolo 4.
Semplificazioni in materia di documento di regolarità contributiva

1. A decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto di cui al comma 2, chiunque vi abbia interesse, compresa la medesima impresa, verifica con modalità esclusivamente telematiche ed in tempo reale la regolarità contributiva nei confronti dell’INPS, dell’INAIL e, per le imprese tenute ad applicare i contratti del settore dell’edilizia, nei confronti delle Casse edili. La risultanza dell’interrogazione ha validità di 120 giorni dalla data di acquisizione e sostituisce ad ogni effetto il Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC), ovunque previsto, fatta eccezione per le ipotesi di esclusione individuate dal decreto di cui al comma 2.
2. Con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze e, per i profili di competenza, con il Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, sentiti l’INPS, l’INAIL e la Commissione nazionale paritetica per le Casse edili, da emanarsi entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, sono definiti i requisiti di regolarità, i contenuti e le modalità della verifica nonché le ipotesi di esclusione di cui al comma 1.
Il decreto di cui al presente comma è ispirato ai seguenti criteri:
a) la verifica della regolarità in tempo reale riguarda i pagamenti scaduti sino all’ultimo giorno del secondo mese antecedente a quello in cui la verifica è effettuata, a condizione che sia scaduto anche il termine di presentazione delle relative denunce retributive, e comprende anche le posizioni dei lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa anche a progetto che operano nell’impresa;
b) la verifica avviene tramite un’unica interrogazione presso gli archivi dell’INPS, dell’INAIL e delle Casse edili che, anche in cooperazione applicativa, operano in integrazione e riconoscimento reciproco, ed è eseguita indicando esclusivamente il codice fiscale del soggetto da verificare;
c) nelle ipotesi di godimento di benefìci normativi e contributivi sono individuate le tipologie di pregresse irregolarità di natura previdenziale ed in materia di tutela delle condizioni di lavoro da considerare ostative alla regolarità, ai sensi dell’articolo 1, comma 1175, della legge 27 dicembre 2006, n. 296.
3. L’interrogazione eseguita ai sensi del comma 1, assolve all’obbligo di verificare la sussistenza del requisito di ordine generale di cui all’articolo 38, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, presso la Banca dati nazionale dei contratti pubblici, istituita presso l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture dall’articolo 62-bis del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82. Dalla data di entrata in vigore del decreto di cui al comma 2, sono inoltre abrogate tutte le disposizioni di legge incompatibili con i contenuti del presente articolo.
4. Il decreto di cui al comma 2 può essere aggiornato sulla base delle modifiche normative o della evoluzione dei sistemi telematici di verifica della regolarità contributiva.
5. All’articolo 31, comma 8-bis, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, le parole: «, in quanto compatibile, » sono soppresse.
5-bis. Ai fini della verifica degli effetti delle disposizioni di cui al presente articolo, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, decorsi dodici mesi dalla data di entrata in vigore del decreto di cui al comma 2, presenta una relazione alle Camere.
6. All’attuazione di quanto previsto dal presente articolo, le amministrazioni provvedono con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

Articolo 5.
Contratti di solidarietà

1. All’articolo 6 del decreto-legge 1 ottobre 1996, n. 510, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 novembre 1996, n. 608, dopo il comma 4 è inserito il seguente: «4-bis. Con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sono stabiliti criteri per la concessione del beneficio della riduzione contributiva di cui al comma 4, entro i limiti delle risorse disponibili. Il limite di spesa di cui all’articolo 3, comma 8, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, come rideterminato dall’articolo 1, comma 524, della legge 23 dicembre 2005, n. 266, a decorrere dall’anno 2014, è pari ad euro 15 milioni annui.».
1-bis. All’articolo 6, comma 4, del decreto-legge 1 ottobre 1996, n. 510, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 novembre 1996, n. 608, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) al secondo periodo, le parole da: «è del 25 per cento» fino alla fine del periodo sono sostituite dalle seguenti: «è del 35 per cento.»;
b) il terzo periodo è soppresso.
1-ter. Al fine di favorire la diffusione delle buone pratiche e il monitoraggio costante delle risorse impiegate, i contratti di solidarietà sottoscritti ai sensi della normativa vigente sono depositati presso l’archivio nazionale dei contratti e degli accordi collettivi di lavoro, di cui all’articolo 17 della legge 30 dicembre 1986, n. 936.

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MOBBING: È IL LAVORATORE A DOVERNE PROVARE LA SUSSISTENZA.

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di Michele De Sanctis

Il mobbing è uno dei problemi sociali più frequenti negli ambienti di lavoro. Può, in generale, identificare un insieme di atteggiamenti violenti che prendono di mira un singolo all’interno di un ambiente sostanzialmente ostile, sia da parte dei superiori (mobbing verticale o bossing) sia da parte dei colleghi (mobbing orizzontale). Non esiste un criterio specifico per individuare tali atti, nei quali rientra, quindi, ogni forma di angheria perpetrata da una o più persone nei confronti di un individuo, né il Legislatore è finora intervenuto a fornirne una disciplina. In carenza di un specifico dettato normativo, la fattispecie del mobbing trova fondamento nel disposto di cui all’art. 2087 c.c. dedicato alla tutela delle condizioni di lavoro, in base al quale “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. La sua costruzione giuridica è, pertanto, in parte di natura dottrinaria, in parte di derivazione giurisprudenziale. Sono molti, per esempio, gli interventi della Cassazione in materia. Dall’inizio dell’anno, la Suprema Corte è già tornata sul punto con diverse sentenze, chiarendone, peraltro, caratteri e aspetti probatori.

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In un caso, con sentenza 898/14 Cass. Civ., Sez. Lav., del 17 gennaio 2014, si è stabilito che il lavoratore ha l’onere di provare il carattere persecutorio dei comportamenti del datore di lavoro, l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente, il nesso eziologico e l’intento persecutorio. Nella fattispecie concreta, una lavoratrice si era rivolta al Tribunale per ottenere l’illegittimità delle note di qualifica (mediocre) attribuitele dal datore di lavoro e la presunta illegittimità della condotta di mobbing di cui era stata vittima. La ricorrente aveva, inoltre, richiesto la condanna dello stesso datore di lavoro al pagamento del premio di rendimento relativamente agli anni in cui le era stato attribuito il giudizio di mediocre; oltreché al risarcimento di tutti i danni subiti a causa della condotta persecutoria: danno biologico, danno esistenziale e danno alla professionalità. La domanda, tuttavia, accolta solo parzialmente, sia in primo che in secondo grado, è stata respinta anche dalla Cassazione. Alla lavoratrice, infatti, è stato riconosciuto il premio di rendimento, vista l’illegittimità delle note di qualifica attribuitele, ma nessun risarcimento è stato disposto in relazione alla condotta di mobbing. Non sussiste, infatti, a detta del Giudice di Legittimità, la condotta di mobbing. Rigettando, quindi, il ricorso della lavoratrice, a Piazza Cavour hanno precisato che per mobbing deve intendersi la condotta del datore di lavoro consistente in «reiterati e prolungati comportamenti ostili, di intenzionale discriminazione e di persecuzione psicologica, con mortificazione ed emarginazione del lavoratore» e che sono quattro gli elementi che configurano la condotta di cui si tratta: la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente, il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore, e, infine, la prova dell’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio. Tutti elementi, questi, che devono essere provati dal lavoratore, ma nel caso di specie ciò che mancava era proprio tale tipo di prova.

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Con la sentenza n. 1149/2014 la Cassazione Civile, Sez. Lav., lo scorso 21 gennaio ha, poi, ribadito come il termine mobbing individui, in ambito lavorativo, un fenomeno sostanzialmente consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori e protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito ovvero dal suo capo, caratterizzati da un intento persecutorio ed emarginatorio, finalizzato all’obiettivo primario di escludere tale soggetto dal gruppo. Anche in questo caso, il lavoratore che si riteneva mobbizzato aveva descritto una serie di condotte e comportamenti posti in essere dal proprio datore di lavoro e, in particolare, da numerosi superiori gerarchici avvicendatisi nel tempo, affermando che, nel complesso, tali condotte evidenziavano la chiara volontà di emarginarlo e discriminarlo. Tuttavia, già in appello era emerso come il ricorrente si fosse limitato a fornire, a distanza di molti anni, una propria versione dei fatti contrapposta a quella della società, sulla base di una serie di affermazioni prive di qualsiasi sostegno probatorio. In relazione agli episodi più gravi che lo vedevano, peraltro, accusato di aggressione ai propri superiori, sia verbale che fisica, si era, infatti, limitato a respingere le accuse a suo carico, negando i fatti, senza, però, fornire alcuna valida prova a sostegno della propria versione degli fatti. Anche secondo la Cassazione, in difetto di elementi probatori, non è, però, emerso alcun intento discriminatorio della società, che si era semplicemente limitata ad applicare, a fronte di palesi atti di insubordinazione o di violazione delle regole aziendali, la sanzione disciplinare più lieve e talvolta, in caso di mancanza di chiari elementi di prova (nonostante l’accusa provenisse da superiori gerarchici del ricorrente) non aveva neppure provveduto disciplinarmente nei confronti del presunto lavoratore mobbizato.

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Da ultimo, con sentenza n. 8804 del 16 aprile 2014, la Cassazione Civile, Sez. Lavoro, ha chiarito che per ottenere il risarcimento del danno alla persona causato da mobbing aziendale (e quindi per provare la sussistenza stessa della fattispecie) il lavoratore deve necessariamente provare che esiste un nesso causale tra le vessazioni subite durante l’attività lavorativa e la patologia insorta. Nel caso di specie, secondo il ricorrente, l’infarto cardiaco, di cui era rimasto vittima, sarebbe insorto a causa dell’azione combinata del sovraccarico di lavoro, delle vessazioni subite dal datore sul luogo di lavoro e della sottoposizione ad alcuni procedimenti penali (successivamente archiviati) legati all’attività lavorativa. La sua domanda era, perciò, volta ad ottenere il risarcimento del danno. La domanda era stata respinta sia in primo che in secondo grado. Di qui il ricorso in Cassazione. Nel rigettarlo, tuttavia, la Suprema Corte ha sottolineato, anche in questo caso, come il ricorrente non avesse assolto al “proprio preliminare onere di dimostrare l’esistenza di una condotta datoriale inadempiente agli obblighi che derivano dall’osservanza delle misure che debbono essere adottate per tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro”. Infatti, solo in presenza della prova del nesso eziopatologico il datore di lavoro è tenuto a dimostrare di aver adottato tutte le misure atte a scongiurare il verificarsi del danno. Ma nel caso di specie, il lavoratore non aveva dimostrato l’esistenza del danno alla salute connesso con la nocività dell’ambiente di lavoro.

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L’orientamento dei Giudici di Piazza Cavour è, quindi, pacifico: nessun risarcimento dei danni alla salute da mobbing spetta al lavoratore che non ne dimostra il nesso causale.

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L’INSULTO SU FACEBOOK È DIFFAMAZIONE, ANCHE SE LA VITTIMA RESTA ANONIMA. LO DICE LA CASSAZIONE.

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di Michele De Sanctis

La diffamazione vale anche per i commenti su Facebook? Secondo una recente pronuncia della Cassazione, sì. Occhio, quindi, a ciò che scrivete.

Con Sent. n. 16712/2014, i giudici di Piazza Cavour sono tornati ad occuparsi del reato di cui all’articolo 595 c.p., la diffamazione.

L’interesse suscitato a livello mediatico da questa pronuncia sta nel fatto che il caso esaminato dalla Suprema Corte riguarda l’offesa all’altrui reputazione avvenuta attraverso Facebook e senza fare nomi.

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La Corte stabilisce che chi scrive su Facebook commenti infamanti su una persona, anche senza farne esplicitamente il nome, configura il reato di diffamazione ed è quindi punibile a norma di legge. Con questa decisione la Cassazione ha condannato un maresciallo della Guardia di Finanza della provincia di Pisa per questo status su Facebook dal tenore offensivo nei confronti di un collega:

“Attualmente defenestrato a causa dell’arrivo di un collega raccomandato e leccaculo…ma me ne fotto…” Minacciando, peraltro, vendette e ritorsioni sulla moglie dello stesso.

Il post diffamatorio inoltre era stato letto da una ristretta cerchia di iscritti. Ma sta di fatto che, pur non essendo stata fatta menzione di alcun nome, venivano forniti particolari sufficienti per identificare la persona diffamata.

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Alla condanna di primo grado aveva fatto seguito in appello l’assoluzione per insussistenza del fatto. La Corte d’Appello aveva motivato l’assoluzione facendo notare che l’identificazione dell’offeso poteva essere operata solo da una ristretta cerchia di utenti, posto che l’imputato non aveva indicato il nome del collega.

Tuttavia, la prima sezione penale della Cassazione ha ribaltato tale verdetto argomentando che la frase offensiva fosse ampiamente accessibile dagli iscritti al social network e che la persona offesa, pur non nominata, avrebbe potuto essere facilmente individuata. “Il reato di diffamazione – dice il giudice di ultima istanza, nel cassare la decisione di secondo grado – richiede il dolo specifico, essendo sufficiente ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo della fattispecie la consapevolezza di pronunciare una frase lesiva dell’altrui reputazione e la volontà che la frase venga a conoscenza di più persone, anche soltanto due”.

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Secondo i giudici di Piazza Cavour, quindi, il vizio de legittimità risiede nel fatto che la corte d’appello non avrebbe adeguatamente motivato l’iter logico-giuridico che conduce ad affermare che il novero limitato di persone in grado di identificare il soggetto passivo comporti “l’esclusione della prova della volontà dell’imputato di comunicare con più persone in grado di individuare il soggetto” in questione.

Insomma, d’ora in avanti ci sarà da stare particolarmente attenti ad esprimere le proprie opinioni su conoscenti, colleghi e personaggi pubblici anche sui social network: la mancata citazione del nome così come il fatto che si tratti “solo” di un commento su Facebook non difendono dall’accusa di diffamazione.

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Jobs Act breaking news. La Commissione Lavoro della Camera dei Deputati ha apportato diverse modifiche al D.L. n. 34/2014.

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di Germano De Sanctis

Come è noto, il D.L. n. 34/2014, uno dei due pilastri del Jobs Act, è all’esame della Camera dei Deputati per la sua conversione in legge.
Nel corso della giornata di ieri, la Commissione Lavoro della Camera dei Deputati ha apportato diverse e significative modificazioni al testo originario licenziato dal Governo, al punto da suscitare un aspro scontro politico in seno alla maggioranza di Governo.

Infatti, il Nuovo Centrodestra si è duramente opposto a tali modifiche, giudicandole capaci di stravolgere l’impianto originario licenziato dal Consiglio dei Ministri.
Invece, il Partito Democratico è stato di diverso avviso, al punto da essere l’unico partito di maggioranza ad aver votato il provvedimento in Commissione Lavoro, in quanto il Nuovo Centrodestra non ha partecipato al voto e Scelta civica si è astenuta.
Ciononostante, il Ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, si è dimostrato sereno, affermando che non è stato minimamente stravolto l’impianto del D.L. n. 34/2014 ed, al contempo, ha lodato l’attività mediatrice svolta dal relatore Carlo dell’Aringa (PD).
A tal proposito, il relatore, Carlo Dell’Aringa ha tenuto a precisare che le modifiche approvate dalla Commissione sono il frutto di un serrato confronto tra le forze politiche rappresentate in Parlamento, ivi comprese, ovviamente, quelle che compongono la maggioranza di Governo.

Vendendo all’esame delle singole modifiche apportate, bisogna, in primo luogo, evidenziare la decisione di ridurre da otto a cinque il numero delle proroghe possibili per i contratti a termine acausali nei tre anni di durata massima, con l’esclusione dei contratti di somministrazione.

In secondo luogo, è stata introdotta una specifica sanzione per le imprese che, a far data dal 01-01-2015, non rispetteranno il tetto del 20% dei contratti a termine acausali sul totale dei dipendenti a tempo indeterminato. Nello specifico, la fattispecie sanzionatoria in esame prevede che ogni lavoratore a termine impiegato superando tale limite sarà automaticamente assunto a tempo indeterminato. Tuttavia, la novella prevede la possibilità per i datori di lavoro di riportarsi al di sotto del predetto limite del 20% entro la data del 31-12-2014, senza alcuna conseguenza sanzionatoria.

Infine, muta sensibilmente l’intera previsione riformatrice in materia di apprendistato. Infatti, le modifiche che interessano tale istituto sono molteplici:

  1. viene reintrodotto l’obbligo della forma scritta per il progetto di formazione, anche se in forma semplificata ed inserita nel contratto stesso;
  2. è stata ripristinata la previsione di una percentuale obbligatoria di stabilizzazioni di apprendisti, pari al 20% (più bassa di quella previgente) e operante soltanto nei confronti dei datori di lavoro con almeno trenta lavoratori dipendenti;
  3. è stata recuperata anche la formazione pubblica obbligatoria dell’apprendista, ma prevedendo che l’obbligo in capo alle Regioni d’inviare al datore di lavoro il piano formativo per la formazione trasversale e di base entro quarantacinque giorni dall’avvio del rapporto di apprendistato, con l’espressa previsione che, in caso di mancato tempestivo invio, il datore di lavoro è libero dall’osservanza di tale obbligo.

L’ultima modifica apportata concerne le donne occupate con contratti a termine di almeno sei mesi che entrano in gravidanza. In tal caso, l’indennità di maternità dovrà essere conteggiata ai fini del diritto di precedenza, nei casi in cui il datore di lavoro decida di assumere a tempo determinato od indeterminato nei dodici mesi successivi.

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L’obbligo per i datori di lavoro di richiedere il certificato penale in caso di assunzione di lavoratori per attività che comportano un contatto diretto e regolare con i minori

 

 

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di Germano De Sanctis

A far data dal 06-04-2014, è entrato in vigore, il D.Lgs., 04-03-2014, n. 39, il quale in attuazione della Direttiva 2011/93/UE relativa alla lotta contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile, all’art. 2, ha introdotto nell’ordinamento giuridico l’art. 25-bis, D.P.R., 14-11-2002, n. 313 (c.d. Testo Unico sul Casellario Giudiziario), il quale dispone che il certificato penale del casellario giudiziale di cui all’art. 25 D.P.R. n.313/2002 deve essere richiesto dal soggetto che intenda impiegare al lavoro una persona per lo svolgimento di attività professionali o attività volontarie organizzate che comportino contatti diretti e regolari con minori, al fine di verificare l’esistenza di condanne per taluno dei reati di cui agli artt. 600-bis (prostituzione minorile), 600-ter (pornografia minorile), 600-quater (detenzione di materiale pornografico), 600-quinquies (iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile) e 609-undecies (adescamento minorenni) c.p., ovvero l’irrogazione di sanzioni interdittive all’esercizio di attività che comportino contatti diretti e regolari con minori.

In altri termini, dal 06-04-2014, i datori di lavoro pubblici e privati che intendono assumere un lavoratore che dovrà operare in maniera regolare e continuativa con i minori sono obbligati a richiedere il certificato del casellario giudiziale all’Ufficio locale del casellario presso la competente Procura della Repubblica.

Il 3 aprile scorso il Ministero della Giustizia ha emanato una circolare e due note esplicative sull’applicazione del decreto, con le quali ha inteso chiarire che l’obbligo di munirsi di certificato è relativo ai soli rapporti di lavoro, nelle varie forme che possono assumere, e non ai servizi di mero volontariato. Tale interpretazione trova fondamento nel richiamo alla nozione di “datore di lavoro” contenuta nell’art. 2, comma 2, D.Lgs. n. 39/2014.
In altre parole, gli enti e le associazioni di volontariato sono tenuti a richiedere il certificato per i soggetti con cui stipulano un contratto di lavoro, ma esclusivamente per i loro lavoratori dipendenti e non per gli operatori che collaborano con loro a titolo volontario. Ovviamente, l’adempimento in questione riguarda esclusivamente quei datori di lavoro che intendano stipulare nuovi contratti di lavoro con persone che comportino contatti diretti e regolari con minori e, quindi, esso deve essere assolto “prima dell’assunzione al lavoro”. Infatti, il Ministero della Giustizia ha chiarito che tale obbligo riguarda solo i nuovi assunti e non il personale già dipendente. In altri termini, le richieste del certificato casellario giudiziale dovranno essere fatte dal datore di lavoro per tutti i nuovi contratti a partire dalla data del 06-04-2014.

Tornando all’esenzione dalla richiesta del certificato penale del casellario giudiziale nei confronti dei volontari, il Ministero della Giustizia ha chiarito che l’adempimento di tale obbligo sorge soltanto ove il soggetto che intenda avvalersi dell’opera di terzi – soggetto che può anche essere individuato in un ente o in un’associazione che svolga attività di volontariato, seppure in forma organizzata e non occasionale e sporadica – si appresti alla stipula di un contratto di lavoro. Invece, l’obbligo non sorge, ove si avvalga di forme di collaborazione che non si strutturino all’interno di un definito rapporto di lavoro. Pertanto, come poc’anzi detto, la nuova prescrizione normativa opera soltanto in caso d’instaurazione di un rapporto di lavoro, perché al di fuori di questo ambito non può dirsi che il soggetto, che si avvale dell’opera di terzi, assuma la qualità di “datore di lavoro”. Di conseguenza, il D.Lgs. n. 39/2014 esclude l’obbligo di richiedere il certificato del casellario giudiziale in capo ad enti ed associazioni di volontariato qualora intendano avvalersi dell’opera di volontari, in quanto costoro esplicano un’attività che non è configurabile come un rapporto di lavoro.

Inoltre, la poc’anzi citata seconda nota esplicativa del Ministero della Giustizia ha specificato che, una volta avanzata la richiesta di certificato al casellario ed in attesa del suo rilascio, il datore di lavoro può procedere all’impiego anche con una dichiarazione sostitutiva del lavoratore. Tale precisazione sorge dall’esigenza di evitare che, nella fase di prima applicazione della nuova normativa, possano verificarsi inconvenienti organizzativi.
In altri termini, una volta effettuata la richiesta all’ufficio del Casellario, il datore di lavoro potrà procedere all’impiego del lavoratore anche mediante l’acquisizione di un’autocertificazione (per i dipendenti pubblici) o di una dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà (per i dipendenti privati), che attesti l’assenza di condanne legate all’abuso o allo sfruttamento sessuale dei minorenni. Tale dichiarazione ha valore soltanto nel periodo intercorrente tra la richiesta e il rilascio del certificato e, di conseguenza, il datore di lavoro deve comunque richiedere il certificato all’Ufficio del Casellario Giudiziale presso la Procura della Repubblica competente, conservando, al contempo, la dichiarazione resa dal soggetto che intende assumere.
Si ricorda che il certificato ha una validità di sei mesi ed il Ministero della Giustizia non ha ancora chiarito se il datore di lavoro sia obbligato a rinnovare la richiesta di emissione del certificato ogni sei mesi.

In adesione alle indicazioni di prassi del Ministero della Giustizia, è intervenuto anche il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, il quale, in data 11-04-2014, ha emanato la Circolare n. 9, con la quale ha fornito alcuni ulteriori chiarimenti in merito a tale adempimento.

Innanzi tutto, per quanto concerne l’ambito soggettivo di applicazione della norma in questione, la circolare ministeriale fa rientrare tra i soggetti obbligati alla richiesta del certificato anche i committenti, nel caso d’instaurazione di rapporti di natura autonoma che comportino un contatto continuativo con i minori. A titolo esemplificato, sono indicate le collaborazioni anche a progetto e le associazioni in partecipazione.
Inoltre, la nota ministeriale prevede la sussistenza dell’obbligo in questione anche in carico alle agenzie di somministrazione, qualora, dal relativo contratto di fornitura, risulti evidente l’impiego del lavoratore nelle attività in esame.
In estrema sintesi, relativamente all’ambito di applicazione del D.Lgs. n. 39/2014, la Circ. Min. Lav. n. 9/2014 prevede che l’obbligo di richiedere preventivamente il certificato penale in caso di rapporto di lavoro con minori:

  1. riguarda esclusivamente i nuovi rapporti di lavoro e non trova applicazione nei confronti dei rapporti di lavoro in essere alla data del 06-04-2014;
  2. si applica anche alle collaborazioni di natura autonoma, in quanto, relativamente alla dizione di “impiego al lavoro”, il Ministero del Lavoro ha ritenuto che una corretta applicazione delle previsione in esame non possa essere limitata alle sole tipologie di lavoro subordinato, ma debba ricomprendere anche quelle forme di attività di natura autonoma che comportino un contatto continuativo con i minori fra i quali, in primo luogo, le collaborazioni a progetto, le associazioni in partecipazione, etc.;
  3. non riguarda, quanto meno sotto il profilo sanzionatorio, i rapporti di volontariato, intesi come rapporti diversi da quelli di lavoro in senso stretto, con la conseguenza che il personale ispettivo in caso di attività di vigilanza nei confronti di organizzazioni di volontariato, verificherà l’assolvmento del’obbligo in questione esclusivamente nei soli casi in cui le stesse, per lo svolgimento di attività volontarie organizzate, hanno assunto la veste di datori di lavoro.;
  4. non vi è obbligo di richiedere il certificato nei rapporti di lavoro domestici (ad es., le baby sitter), poiché sono esclusi dall’ambito di applicazione del D.Lgs. n. 39/2014 i datori di lavoro domestico, nel caso di assunzione di persone impiegate in attività che comportino contatti diretti e regolari con minori;
  5. interessa anche le agenzie di somministrazione, qualora dal relativo contratto di fornitura risulti evidente l’impiego del lavoratore nelle attività in questione, con la conseguenza di doverle annoverare tra i datori di lavoro obbligati all’adempimento legislativo;
  6. può essere assolto, in carenza della certificazione, impiegando il lavoratore interessato, facendo ricorso ad una dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà da esibire eventualmente agli organi di vigilanza.

La Circ. Min. Lav. n. 9/2014 prevede anche una chiara individuazione del personale interessato dall’obbligo di richiesta preventiva del certificato penale in caso di rapporto di lavoro con minori. A tal proposito, il, Ministero del Lavoro ha chiarito che l’obbligo in questione:

  1. non riguarda i dirigenti, i responsabili, preposti e tutte quelle figure che sovraintendono alla attività svolta dall’operatore diretto, che possono avere un contatto solo occasionale con i minori;
  2. sussiste soltanto nei confronti delle attività che implicano un contatto necessario ed esclusivo con una platea di minori (ad es., insegnanti di scuole pubbliche e private, conducenti di scuolabus, per bambini/ragazzi, istruttori sportivi per bambini/ragazzi, etc.).
  3. non opera nei confronti di quelle attività che non hanno una platea di destinatari preventivamente determinabile, in quanto rivolte ad una utenza indifferenziata.

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Pillole di Jobs Act. Analisi e commento della legge delega in materia di ammortizzatori sociali, servizi per il lavoro e politiche attive

 

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di Germano De Sanctis

Come è ben noto, il Jobs Act si suddivide in due atti normativi distinti. Il primo atto è il D.L. n. 34/2014 che ha affrontato il tema dei contratti a tempo determinato e dell’apprendistato e che deve essere convertito in legge entro il 20 maggio prossimo.
Invece, il secondo atto normativo consiste in una legge delega recentemente presentata al Senato, in materia di ammortizzatori sociali, servizi per il lavoro e politiche attive. Si tratta di un documento composto di in sei articoli, al loro volta, suddivisi in due capi.
Il disegno di legge in questione si occupa delle seguenti materie, con l’espressa previsione di una delega al Governo per ciascuna di esse da esercitarsi entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente provvedimento legislativo:

  • la riforma degli ammortizzatori sociali, al fine grado di creare tutele uniformi e legate alla storia contributiva dei lavoratori;
  • il riordino dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, allo scopo di garantire l’erogazione e la fruizione dei servizi essenziali in materia di politica attiva del lavoro su tutto il territorio nazionale, nonché di assicurare l’esercizio unitario ed onogeneo delle relative funzioni amministrative;
  • la razionalizzazione delle procedure di costituzione e gestione dei rapporti di lavoro, attraverso la semplificazione delle procedure e degli adempimenti connessi;
  • il riordino delle forme contrattuali, al fine di implementare le opportunità dìingresso nel mercato del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, nonché di riordinare i contratti di lavoro vigenti, rendendoli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo;
  • il sostegno alla maternità ed allaconciliazione dei tempi di vita e di lavoro, allo scopo di garantire un effettivo sostegno alla genitorialità, attraverso strumenti di tutela della maternità delle lavoratrici e soluzioni capaci di garantire le opportunità di conciliazione per la generalità dei lavoratori.

Esaminiamo nel dettaglio il testo del disegno di legge delega.

La delega al Governo in materia di ammortizzatori sociali.

L’art. 1, comma 1, del disegno di legge delega, allo scopo di assicurare, in caso di disoccupazione involontaria, tutele uniformi e legate alla storia contributiva dei lavoratori, di razionalizzare la normativa in materia di integrazione salariale e di favorire il coinvolgimento attivo di quanti siano espulsi dal mercato del lavoro ovvero siano beneficiari di ammortizzatori sociali, semplificando le procedure amministrative e riducendo gli oneri non salariali del lavoro, delega il Governo, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge in questione, su proposta del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze, uno o più decreti legislativi finalizzati al riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali, tenuto conto delle peculiarità dei diversi settori produttivi.
In particolare, l’art. 1, comma 2, lett. b), n. 3, del disegno di legge delega prevede espressamente l’universalizzazione del campo di applicazione dell’ASPI, con estensione ai lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa e con l’esclusione degli amministratori e sindaci, mediante l’abrogazione degli attuali strumenti di sostegno del reddito, l’eventuale modifica delle modalità di accreditamento dei contributi e l’automaticità delle prestazioni, e prevedendo, prima dell’entrata a regime, un periodo almeno biennale di sperimentazione a risorse definite.
Si tratta di una diretta conseguenza della previsione contenuta nell’art. 1, comma 2, lett. a), n. 1, del disegno di legge delega che dispone l’impossibilità di autorizzare le integrazioni salariali in caso di cessazione di attività aziendale o di un ramo di essa.
In altri termini, la recisione del “cordone ombellicale” tra l’impresa ed il suo lavoratore dipendente, già avviata con la Legge n. 92/2012 (c.d. “Riforma Fornero”), viene generalizzata, rendendo la nuova ASpI l’unica forma di sostegno al reddito in caso di disoccupazione volontaria, riconosciuta dall’ordinamento giuslavoristico, stante anche l’eliminazione dello stato di disoccupazione come requisito per l’accesso a servizi di carattere assistenziale (cfr., art. 1, comma 2, lett. b), n. 6, del disegno di legge delega).
Tale impostazione risulta ancor più evidente se si considera il fatto che, ai sensi dell’art. 1, comma 2, lett. b), n. 5, del disegno di legge delega, è prevista, dopo la fruizione dell’ASpI, soltanto una prestazione, eventualmente priva di copertura figurativa, limitata ai lavoratori, in disoccupazione involontaria, che presentino valori ridotti dell’indicatore della situazione economica equivalente, con previsione di obblighi di partecipazione alle iniziative di attivazione proposte dai servizi competenti.

La delega al Governo in materia di servizi per il lavoro e politiche attive.

Allo scopo di garantire la fruizione dei servizi essenziali in materia di politica attiva del lavoro su tutto il territorio nazionale, nonché di assicurare l’esercizio unitario delle relative funzioni amministrative, l’art. 1, comma 2, del disegno di legge delega impegna il Governo ad adottare, entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge in questione, su proposta del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze e con il Ministro per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione, previa intesa in sede di Conferenza permanente Stato-Regioni uno o più decreti legislativi finalizzati al riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e le politiche attive.
In mancanza del raggiungimento dell’intesa entro trenta giorni dalla prima seduta della Conferenza Stato – Regioni in cui tale riforma dei servizi per il lavoro sarà posta, all’ordine del giorno provvederà il Consiglio dei Ministri esercitando il suo potere sostitutivo mediante apposita deliberazione motivata ex art. 3, D.Lgs. n. 281/1997.

Per quanto concerne la riforma dei servizi per il lavoro, appare molto interessante la previsione, contenuta nell’art. 2, comma 2, lett. c) del disegno di legge delega, dell’istituzione di un’Agenzia Nazionale per l’Occupazione, partecipata dallo Stato, dalle Regioni e dalle Province autonome e vigilata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, al cui funzionamento si provvederà con le risorse umane e strumentali già disponibili a legislazione vigente. Inoltre, ai sensi dell’art. 2, comma 2, lett. e) del disegno di legge delega, verranno attribuzione all’Agenzia Nazione per l’Occupazione tutte le competenze gestionali in materia di servizi per l’impiego, politiche attive e ASpI.
Questo processo di costituzione dell’Agenzia Nazionale per l’Occupazione verrà definito con il coinvolgimento delle parti sociali, le quali parteciperanno anche alla definizione delle linee di indirizzo generali dell’azione dell’Agenzia medesima (cfr., art. 2, comma 2, lett. d), del disegno di legge delega).
Si tratta di una previsione importante, in quanto l’art. 2, comma 2, lett. f) del disegno di legge delega prevede una conseguente razionalizzazione degli enti ed uffici che, anche all’interno del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, delle Regioni e delle Province Autonome, operanti in materia di politiche attive del lavoro, servizi per l’impiego e ammortizzatori sociali, allo scopo di evitare sovrapposizioni e di consentire l’invarianza di spesa, mediante l’utilizzo delle risorse umane e strumentali già disponibili a legislazione vigente. In coerenza con quest’ultima previsione, l’art. 2, comma 2, lett. g), del disegno di legge delega prevede la possibilità di far confluire nei ruoli delle amministrazioni vigilanti o dell’Agenzia Nazionale per l’Occupazione il personale proveniente dalle Amministrazioni o uffici soppressi o riorganizzati in attuazione della predetta lettera f), nonché di altre Amministrazioni. In altri termini, appare evidente la consapevolezza da parte del legislatore dell’impossibilità di governare un processo di razionalizzazione così complesso senza un’adeguata concertazione con le parti sociali.

Venendo al contenuto della delega in materia di politiche attive del lavoro, l’art. 1, comma 2, del disegno di legge delega elenca una serie di interventi “mirati”. Essi sono:
1. la razionalizzazione degli incentivi all’assunzione esistenti, da collegare alle caratteristiche osservabili per le quali l’analisi statistica evidenzi una minore probabilità di trovare occupazione (cfr., lett. a);
2. la razionalizzazione degli incentivi per l’autoimpiego ed autoimprenditorialità, con la previsione di una cornice giuridica nazionale volta a costituire il punto di riferimento anche per gli interventi posti in essere da regioni e province autonome (cfr., lett. b);
3. il rafforzamento delle funzioni di monitoraggio e valutazione delle politiche e dei servizi (cfr., lett. c);
4. l’introduzione di modelli sperimentali, che prevedano l’utilizzo di strumenti per incentivare il collocamento dei soggetti in cerca di lavoro e che tengano anche conto delle esperienze più significative realizzate a livello regionale (cfr., lett. l);
5. il mantenimento in capo al Ministero del lavoro e delle politiche sociali delle competenze in materia di definizione dei livelli essenziali delle prestazioni che devono essere garantite su tutto il territorio nazionale (cfr., lett. o);
6. il mantenimento in capo alle Regioni e Province autonome delle competenze in materia di programmazione delle politiche attive del lavoro (cfr., lett. p);
7. l’attivazione del soggetto che cerca lavoro, in quanto mai occupato, espulso o beneficiario di ammortizzatori sociali, al fine di incentivarne la ricerca attiva di una nuova occupazione, secondo percorsi personalizzati, anche mediante l’adozione di strumenti di segmentazione dell’utenza basati sull’osservazione statistica (cfr., lett. q).
Come appare evidente, si tratta di una serie di soluzioni che traggono il proprio fondamento dal meglio delle sperimentazioni effettuate negli ultimi anni in materia di politiche attive del lavoro, con l’intento di trasformarle da esperienze episodiche e sperimentali in attività sistematicamente garantite ai cittadini.

La delega al Governo in materia di semplificazione delle procedure e degli adempimenti.

L’art. 3, comma 1, del disegno di legge delega impegna il Governo ad adottare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge in questione, su proposta del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, di concerto con il Ministro per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione, uno o più decreti legislativi, contenenti disposizioni di semplificazione e razionalizzazione delle procedure e degli adempimenti a carico di cittadini e imprese.
Ai sensi dell’art. 1, comma 2, del disegno di legge delega, il Governo eserciterà la delega, attenendosi ai seguenti principi e criteri direttivi:
a) la razionalizzazione e la semplificazione delle procedure e degli adempimenti, anche mediante abrogazione di norme, connessi con la costituzione e la gestione del rapporto di lavoro, con l’obiettivo di dimezzare il numero di atti di gestione, del medesimo rapporto, di carattere amministrativo;
b) l’eliminazione e la semplificazione, anche mediante norme di carattere interpretativo, delle norme interessate da rilevanti contrasti interpretativi, giurisprudenziali o amministrativi;
c) unificazione delle comunicazioni alle pubbliche amministrazioni per i medesimi eventi, quali in particolare gli infortuni sul lavoro, e obbligo delle stesse amministrazioni di trasmetterle alle altre amministrazioni competenti;
d) il rafforzamento del sistema di trasmissione delle comunicazioni in via telematica e abolizione della tenuta di documenti cartacei;
e) la revisione del regime delle sanzioni, che tengano conto della eventuale natura formale della violazione e favoriscano la immediata eliminazione degli effetti della condotta illecita, nonché valorizzazione degli istituti di tipo premiale;
f) l’individuazione di modalità organizzative e gestionali che consentano di svolgere, esclusivamente in via telematica, tutti gli adempimenti di carattere amministrativo connessi con la costituzione, la gestione e la cessazione del rapporto di lavoro;
g) la revisione degli adempimenti in materia di libretto formativo del cittadino, in un’ottica di integrazione nell’ambito della dorsale informativa di cui all’art. 4, comma 51, della Legge n. 92/2012 e della banca dati delle politiche attive e passive del lavoro di cui all’articolo 8 del D.L. n. 76/2013, n. 76, convertito in Legge n. 99/2013.

La delega al Governo in materia di riordino delle forme contrattuali.

L’art. 4, comma 1, del disegno di legge delega evidenzia l’intento del legislatore di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, nonché di riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo. Per raggiungere tale scopo, le legge in questione delega il Governo ad adottare, su proposta del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, entro il termine di sei mesi dalla data di entrata in vigore di tale legge, uno o più decreti legislativi recanti misure per il riordino e la semplificazione delle tipologie contrattuali esistenti, nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi che tengano, altresì, conto degli obiettivi indicati dagli orientamenti annuali dell’Unione Europea in materia di occupabilità:
1. l’individuazione e l’analisi di tutte le forme contrattuali esistenti, ai fini di poterne valutare l’effettiva coerenza con il tessuto occupazionale e con il contesto produttivo nazionale e internazionale, anche in funzione di eventuali interventi di semplificazione delle medesime tipologie contrattuali (cfr., art. 4, comma 1, lett. a), del disegno di legge delega);
2. la redazione di un testo organico di disciplina delle tipologie contrattuali dei rapporti di lavoro, semplificate secondo quanto indicato all’art. 4, comma 1, lett. a), del disegno di legge delega, che possa anche prevedere l’introduzione, eventualmente in via sperimentale, di ulteriori tipologie contrattuali espressamente volte a favorire l’inserimento nel mondo del lavoro, con tutele crescenti per i lavoratori coinvolti (cfr., art. 4, comma 1, lett. b), del disegno di legge delega);
3. l’introduzione, eventualmente anche in via sperimentale, del compenso orario minimo, applicabile a tutti i rapporti aventi ad oggetto una prestazione di lavoro subordinato, previa consultazione delle parti sociali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale (cfr., art. 4, comma 1, lett. c), del disegno di legge delega);
4. la previsione della possibilità di estendere il ricorso a prestazioni di lavoro accessorio per le attività lavorative discontinue e occasionali, in tutti i settori produttivi, attraverso la elevazione dei limiti di reddito attualmente previsti e assicurando la piena tracciabilità dei buoni lavoro acquistati (cfr., art. 4, comma 1, lett. d), del disegno di legge delega).
5. l‘abrogazione di tutte le disposizioni che disciplinano le singole forme contrattuali, incompatibili con il testo di cui all’art. 4, comma 1, lett. b), del disegno di legge delega, al fine di eliminare duplicazioni normative e difficoltà interpretative ed applicative (cfr., art. 4, comma 1, lett. e), del disegno di legge delega).
L’art. 4 della legge delega è probabilmente la norma più significativa dell’intero articolato, in quanto contiene una serie di previsioni innovatrici che, qualora fossero realizzate, porterebbero un profondo mutamento dell’intero ordinamento giuslavoristico italiano.
Entrando nel dettaglio, appare evidente come la prima novità contenuta nella legge delega che balza subito all’attenzione dell’interprete sia la previsione di un codice semplificato del lavoro (definito “Testo organico”: cfr., art. 4, comma 1, lett. b), del disegno di legge delega). Si tratta di un obiettivo ambizioso, atteso che la realizzazione di un codice “di sintesi” dell’eterogenea e frammentaria disciplina in materia di diritto del lavoro risulta essere un compito molto arduo, sia da un punto di vista concettuale, che redazionale.
Inoltre, la legge delega prevede l’introduzione, eventualmente in via sperimentale di ulteriori tipologie contrattuali espressamente volte a favorire l’inserimento nel mondo del lavoro, con tutele crescenti per i lavoratori coinvolti e l’introduzione (cfr., art. 4, comma 1, lett. b), del disegno di legge delega), nonché, anche in questo caso in forma eventualmente in via sperimentale, del compenso orario minimo, applicabile a tutti i rapporti aventi ad oggetto una prestazione di lavoro subordinato, previa consultazione delle parti sociali più rappresentative sul piano nazionale (cfr., art. 4, comma 1, lett. c), del disegno di legge delega). Siamo di fronte ad un’ipotesi legislativa che, da un lato, cerca di circoscrivere tutte le forme di lavoro flessibile che hanno caratterizzato il mercato del lavoro negli ultimi dieci anni dopo l’emanazione del D.Lgs. n. 276/203, dall’altro, delinea un percorso progressivo che favorisce l’applicazione più ampia possibile del lavoro subordinato ex art. 2094 c.c., attraverso un riconoscimento graduale in capo al lavoratore dei suoi diritti normativi e retributivi riconosciuti dall’ordinamento. Lo strumento giuridico per realizzare quest’intento sarebbe un contratto d’inserimento a tutele e retribuzioni crescenti, i cui contenuti sono, per il momento fumosi e non ben chiariti. Sarà compito dell’attuazione della delega (ove concessa dal Parlamento) a dover evitare che siffatta tipologia contrattuale non si trasformi in uno strumento di eversione dei diritti dei lavoratori, riuscendo a contemperare i confliggenti interessi dei datori di lavoro a contenere i casti della manodopera e quelli dei lavoratori ad avere un pieno riconoscimento dei propri diritto, attraverso la costituzione di stabili e duraturi rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

La delega al Governo in materia di maternità e conciliazione.

Ai sensi dell’art. 5, comma 1, del disegno di legge delega, allo scopo di garantire adeguato sostegno alla genitorialità, attraverso misure volte a tutelare la maternità delle lavoratrici e favorire le opportunità di conciliazione per la generalità dei lavoratori, il Governo è delegato ad adottare, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri e del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, di concerto, per i profili di rispettiva competenza, con il Ministro dell’Economia e delle Finanze e con il Ministro per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione, entro il termine di sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge in questione, uno o più decreti legislativi recanti misure per la revisione e l’aggiornamento delle misure volte a tutelare la maternità e le forme di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.
Ai sensi dell’art. 5, comma 2 del disegno di legge in questione, il Governo dovrà esercitare la delega in materia attenendosi ai seguenti principi e criteri direttivi:
1. la ricognizione delle categorie di lavoratrici beneficiarie dell’indennità di maternità, nella prospettiva di estendere, eventualmente anche in modo graduale, tale prestazione a tutte le categorie di donne lavoratrici (cfr., art. 5, comma 2, lett. a), del disegno di legge delega);
2. la garanzia, per le lavoratrici madri parasubordinate, del diritto alla prestazione assistenziale anche in caso di mancato versamento dei contributi da parte del datore di lavoro (cfr., art. 5, comma 2, lett. b), del disegno di legge delega);
3. l’introduzione del tax credit, quale incentivo al lavoro femminile, per le donne lavoratrici, anche autonome, con figli minori e che si trovino al di sotto di una determinata soglia di reddito complessivo della donna lavoratrice, e armonizzazione del regime delle detrazioni per il coniuge a carico (cfr., art. 5, comma 2, lett. c), del disegno di legge delega);
4. l’incentivazione di accordi collettivi volti a favorire la flessibilità dell’orario lavorativo e dell’impiego di premi di produttività, al fine di favorire la conciliazione tra l’esercizio delle responsabilità genitoriali e dell’assistenza alle persone non autosufficienti, con l’attività lavorativa, anche attraverso il ricorso al telelavoro (cfr., art. 5, comma 2, lett. d), del disegno di legge delega);
5. il favorire l’integrazione dell’offerta di servizi per l’infanzia forniti dalle aziende nel sistema pubblico – privato dei servizi alla persona, anche mediante la promozione dell’utilizzo ottimale di tali servizi da parte dei lavoratori e dei cittadini residenti nel territorio in cui sono attivi (cfr., art. 5, comma 2, lett. e), del disegno di legge delega);
6. la ricognizione delle disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, ai fini di poterne valutare la revisione per garantire una maggiore flessibilità dei relativi congedi, favorendo le opportunità di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro (cfr., art. 5, comma 2, lett. f), del disegno di legge delega);
7. l’estensione dei principi in materia di maternità e conciliazione contenuti nel disegno di legge delega, in quanto compatibili e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, con riferimento al riconoscimento della possibilità di fruizione dei congedi parentali in modo frazionato e alle misure organizzative finalizzate al rafforzamento degli strumenti di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro (cfr., art. 5, comma 2, lett. g), del disegno di legge delega).
Dall’esame dei molteplici criteri direttivi della delega su questa materia, risulta molto interessante l’introduzione di un c.d. “tax credit”, inteso come strumento d’incentivazione del lavoro (subordinato ed autonomo) femminile, mirato a favorire un ben determinato target di lavoratrici madri in specifiche condizioni di disagio economico (cfr., art. 5, comma 2, lett. c), del disegno di legge delega). Si ha l’impressione che il legislatore nazionale voglia trasferire all’interno dell’ordinamento giuslavoristico l’esito delle varie sperimentazioni effettuate in materia da parte delle Regioni italiane attraverso l’utilizzo delle risorse del Fondo Sociale Europeo, nell’arco della programmazione 2007-2013. Tuttavia, tali esperienze privilegiavano l’erogazione di risorse economiche capace di fronteggiare, al contempo, anche la difficoltà di accesso al credito, attraverso l’erogazione di bonus (assunzionali o di autoimprenditorialità) capaci d’immettere liquidità finanziaria immediata nel circuito economico di riferimento. Invece, la scelta governativa parrebbe limitarsi ad un mero credito d’imposta che, per quanto salutare, non avrebbe la medesima forza dirompente.

Le disposizioni comuni per l’esercizio delle deleghe.

Infine, l’art. 6 del disegno di legge delega delinea una serie di disposizioni mirate a garantire un rapido esercizio della delega da parte del Governo, senza, peraltro, comportare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.
Merita attenzione la previsione contenuta nell’art. 6, comma 4, del disegno di legge delega, la quale dispone che, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore dei decreti legislativi attuativi della legge delega, il Governo può adottare, ovviamente nel rispetto dei princìpi e criteri direttivi fissati dal Parlamento, ulteriori disposizioni integrative e correttive dei decreti medesimi, tenuto conto delle evidenze attuative nel frattempo emerse. Si tratta evidentemente di una clausola di salvaguardia che permette al legislatore delegato di operare le eventuali azioni di manutenzione legislativa che si possano rendere necessarie nel corso dell’immediatezza dell’esercizio della delega in una materia così delicata come è il diritto del lavoro.