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GUIDA IN STATO DI EBBREZZA: IL BILANCIAMENTO DI CIRCOSTANZE ATTENUANTI ED AGGRAVANTI NON HA ESCLUSO LA REVOCA DELLA PATENTE.

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di Michele De Sanctis

Con sentenza 17826 del 28 Aprile 2014, la Corte di Cassazione precisa che il giudizio di bilanciamento di circostanze eterogenee (contemporaneamente aggravanti e attenuanti) permette una modulazione del trattamento sanzionatorio che attui i precetti costituzionali in tema di pena, ma solo in relazione alle pene criminali e dunque non anche con riguardo alle sanzioni amministrative accessorie al reato.

Nel caso di specie, il Gip del Tribunale di Genova, ai sensi dell’articolo 444 cpp, aveva applicato all’imputato, finito sotto accusa per guida in stato di ebbrezza alcolica (art. 186, co. 2 lett. c) e co. 2 bis cds), la pena di mesi quattro di arresto ed € 3.400 di ammenda, con possibilità di sostituire la pena detentiva con la sanzione pecuniaria pari a € 30.000 di ammenda, concedendo, pertanto, la sospensione condizionale della pena ed ordinando la revoca della patente di guida e la confisca del veicolo. Ed è questa la sanzione amministrativa accessoria che esula dal giudizio di bilanciamento, motivo del ricorso davanti al Giudice di Legittimità.

Tuttavia, nel motivare il rigetto del ricorso, la Corte, precisa, peraltro, che, nella sua decisione, il giudice di merito non è in incorso in alcun vizio di legittimità, applicando la sanzione amministrativa accessoria, dal momento che la disciplina vigente fa coincidere l’ambito di esplicazione degli effetti del giudizio di bilanciamento solo con il trattamento sanzionatorio penale e non anche con quello amministrativo, previsto in questo caso dall’applicazione della circostanza di reato aggravata dalla guida in stato di ebbrezza.

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Né ci sono margini tali da delineare un profilo di dubbia legittimità costituzionale. Come, infatti, è già stato puntualizzato dalla Corte Costituzionale (cfr. ord. nn. 344/2004, 196/2010 e 266/2011) e dalle Sezioni Unite della Cassazione (sent. n. 8488/1998), proprio in materia di violazioni penalmente rilevanti alle norme sulla circolazione stradale, la sanzione amministrativa accessoria al reato non cessa la propria natura di sanzione amministrativa per il fatto di essere posta a corredo di una violazione della legge penale. Ne consegue, pertanto, secondo il costante insegnamento della Corte costituzionale, la decisiva rilevanza del principio in base al quale tra illecito penale e illecito amministrativo si danno “sostanziali diversità rilevanti anche sul piano costituzionale – per la esclusiva riferibilità alla materia penale degli artt. 27 e 25, secondo comma, Cost. – e su quello della rispettiva disciplina ordinaria (facendosi, in quella amministrativa, ricorso anche a istituti di diritto civile)”, tali da non giustificare l’estensione all’illecito amministrativo del regime penalistico.

In altre parole, vista la diversa natura dei due tipi di sanzioni e le diverse finalità che il Legislatore ha voluto dare a quelle penali e a quelle amministrative, le valutazioni relative al concorso di circostanze eterogenee hanno la capacità di produrre effetti sull’entità della pena principale (art. 69 cp) e sulle quelle accessorie (art. 37 cp), ma non anche sulle sanzioni amministrative che continuano, quindi, ad accedere al reato. D’altro canto, poiché tali differenze si riscontrano anche in alcune norme di rango costituzionale, l’irrilevanza del giudizio di bilanciamento delle circostanze del reato rispetto alle sanzioni amministrative accessorie al reato medesimo non comporta neppure eventuali vizi di legittimità costituzionale e, pertanto, al trasgressore del caso in esame restano applicate la revoca della patente e la confisca del mezzo, oltreché il pagamento delle spese processuali.

Un consiglio, amici: se dovete guidare bevete con moderazione!

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IMPIANTI DI VIDEOSORVEGLIANZA NEI LUOGHI DI LAVORO. QUAL È L’ITER BUROCRATICO PER IL LORO UTILIZZO?

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di Michele De Sanctis

Con sentenza n. 17027 del 17 aprile 2014, la Suprema Corte di Cassazione, ha rilevato che in base all’art. 4, L. 300/70 (Statuto dei Lavoratori), gli impianti e le apparecchiature di controllo, la cui installazione sia dovuta ad esigenze organizzative e produttive, ovvero alla sicurezza del lavoro, “possono essere montati e posizionati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali o, in subordine, con la commissione interna” e solo dopo specifica autorizzazione della Direzione Territoriale del Lavoro. Non è, però, richiesto – si specifica in sentenza – che si tratti di controllo occulto, destinato a verificare la produttività dei lavoratori dipendenti, dal momento che l’essenza della sanzione sta nell’uso degli impianti audiovisivi, in carenza di un preventivo accordo con le parti sociali.
Con tali motivazioni il Giudice di Legittimità ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato da una datrice di lavoro, ritenuta responsabile del reato di cui all’art. 4 L. 300/70 in relazione all’art. 114, D. Lgs. 196/03, per avere installato un impianto di videosorveglianza senza avere richiesto l’autorizzazione alla competente DTL.
Il giudice di merito – hanno affermato i Giudici di Piazza Cavour – ha logicamente e correttamente argomentato in relazione alla concretizzazione del reato contestato e all’ascrivibilità di esso in capo alla prevenuta, peraltro, richiamando puntualmente le emergenze istruttorie, assoggettate ad analisi valutativa compiuta ed esaustiva.
Inoltre, “risulta insostenibile la tesi difensiva della insussistenza dell’elemento soggettivo del reato, secondo la quale la datrice di lavoro, nata e vissuta per lungo tempo negli Stati Uniti, avrebbe ignorato le prescrizioni imposte dallo statuto dei lavoratori, in quanto costei, quale datrice di lavoro, è soggetto tenuto alla conoscenza delle prescrizioni imposte a tutela dei propri dipendenti”.

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È, infatti, sempre necessaria un’esplicita autorizzazione da parte della Direzione Territoriale del Lavoro per l’installazione di tali apparecchiature, altrimenti si rischia di trasformare le telecamere aziendali in un una sorta di ‘Grande Fratello’ che sorveglia illegittimamente i lavoratori in forza. La regola, lo ricordiamo, vale per tutte le imprese, in cui ci siano addetti e/o soci, ad eccezione, quindi, delle sole ditte individuali senza dipendenti. Come, peraltro, già ricordato dalla Corte, con sentenza n. 4331 del 30 gennaio 2014, in cui dichiarava inammissibile il ricorso di un datore di lavoro avverso la sentenza che lo aveva condannato alla pena di € 200,00 di ammenda per il reato di cui all’articolo 4, comma 2, L. 300/70 per avere, quale legale rappresentante di una s.n.c., installato un impianto audiovisivo di controllo a distanza dei lavoratori delle casse del suo supermercato senza accordo con le rappresentanze sindacali e senza autorizzazione della DTL.
L’autorizzazione va, peraltro, richiesta sia che le telecamere siano in funzione, sia che restino spente e siano utilizzate come semplice deterrente a furti, atti vandalici e comportamenti non consentiti dei lavoratori.
Nonostante, il rilievo del Giudice di Legittimità circa l’art. 4 dello Statuto, occorre, comunque, rispettare l’iter burocratico previsto dalla normativa vigente in materia di sicurezza e di privacy, che pone dei limiti non indifferenti al controllo a distanza sulla produttività dei dipendenti. Sebbene, infatti, la Cassazione ammetta il controllo occulto, purché autorizzato, devono, tuttavia, essere costantemente garantiti gli standard minimi per la corretta gestione del sistema previsti dalla legge, tra cui:
– rispetto del D.Lgs.196/03 e successivo provvedimento del Garante datato 8 aprile 2010;
– obbligo di informare dipendenti e clienti (anche attraverso apposita segnaletica) che i locali sono videosorvegliati;
– obbligo di nominare un dipendente incaricato che ha accesso all’impianto di videosorveglianza;
– scelta dell’angolo di ripresa, che deve riguardare le aree più esposte al rischio di furti e rapine e che non può, comunque, comprendere le postazioni di lavoro;
– divieto di utilizzare le immagini registrate per accertare o contestare disciplinarmente eventuali violazioni dell’obbligo di diligenza da parte dei lavoratori (il che di fatto vanifica ogni finalità di controllo sulla loro produttività, poiché ne lascia il relativo accertamento privo di utili strumenti disciplinari);
– adeguata custodia dell’apparecchiatura per la registrazione delle immagini;
– conservazione delle immagini registrate per il tempo strettamente necessario (normalmente non più di 24 ore).

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La richiesta dovrà, inoltre, essere corredata dalle planimetrie dei locali, con indicazione del posizionamento delle telecamere e messa in evidenza degli angoli di ripresa delle stesse, al fine di consentire alla DTL di verificare che non vengano inquadrate le postazioni di lavoro.
Si precisa, infine, che, in ottemperanza del D.Lgs.196/03, le immagini riprodotte sui monitor collegati alle telecamere possono essere visualizzate solo dal titolare dell’attività, ovvero da personale da lui incaricato.
L’utilizzo di sistemi di videosorveglianza nei luoghi di lavoro in cui sono presenti dipendenti dell’azienda, senza la preventiva autorizzazione della DTL, o in modo illecito, senza, quindi, la garanzia del rispetto delle norme poste in tutela della privacy dei lavoratori, implica l’applicazione di sanzioni amministrative e, in taluni casi, anche penali.

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