Decisioni.

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C’È ANCHE UN PAESE CHE RESISTE E BATTE LA CRISI.

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di Michele De Sanctis

Sempre più critica appare l’industria del food Made in Italy che continua, pezzo dopo pezzo, ad essere ceduta agli stranieri: da Galbani, Locatelli, Invernizzi e Parmalat, oggi brand della francese Lactalis, alla Star, ormai parte del gruppo catalano Agrolimen, fino agli olii Bertolli, Carapelli e Sasso, che, dopo un primo passaggio al brand spagnolo Deoleo, sono stati recrntemente ceduti al fondo di investimento inglese Cvc Capital partners, la cui offerta ha battuto quella presentata dal Fondo strategico italiano della Cassa Depositi e Prestiti. Da ultimo, secondo alcune indiscrezioni delle ultime ore, anche se smentite dagli stessi interessati, pare che la famiglia Menna, titolare dello storico pastificio Lucio Garofalo di Gragnano, sia vicina alla firma per la cessione del 51% del proprio capitale societario agli spagnoli di Ebro Foods, colosso alimentare quotato alla Borsa di Madrid che l’estate scorsa si è aggiudicato anche un 25% di Riso Scotti.

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Ma è, altresì, vero che c’è un’Italia che resiste alla crisi, un’Italia che batte i record e a sorpresa si impone anche nei mercati esteri e proprio in un settore molto critico come quello agroalimentare. Infatti, malgrado i tanti problemi che hanno assillato l’industria del food e il mercato delle materie prime agricole, nel 2013 il Gruppo industriale abruzzese De Cecco ha superato i 400 milioni di euro di fatturato, toccando per l’esattezza quota 411 milioni contro i 373 del 2012. A tale cifra corrisponde un margine operativo lordo del Gruppo pari a € 45.000.000. A tanto ammonta, quindi, il reale risultato del business dell’azienda di Fara San Martino, misurato con l’indicatore EBITDA. E le previsioni per l’esercizio 2014 lo attesterebbero a circa 50 milioni, a fronte di una stima che si aggira intorno 461 milioni di fatturato totale.

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Il volume di vendita complessivo della pasta è di 2.317.000 quintali con una previsione di crescita intorno a quota 2.534.000 quintali.
Oltre all’Italia, il bacino di consumatori dei prodotti del Gruppo si estende a Stati Uniti d’America, Giappone, Russia, Francia, Germania, Regno Unito e Belgio.

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L’offerta De Cecco include, inoltre, il commercio di sughi, olio, farine e, di recente, dei succedanei del pane. In questo settore, non core per un’azienda che nasce come pastificio, si è assistito a una crescita esponenziale: con poco più di 90.000 quintali venduti (25 per cento la quota export), la De Cecco è oramai il terzo produttore nazionale e si proietta verso 114.000.

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Alla base di questo successo, nonostante il difficile periodo storico che viviamo, c’è la capacità di innovarsi, diversificarsi, di puntare su prodotti di fascia premium e di investire. Ciò ha consentito al Gruppo di essere competitivo e ricavare una sua posizione peculiare nel mercato e di offrire, inoltre, occupazione a più di 1.200 dipendenti, di cui ben 800 in Italia.

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Piacerebbe raccontetare più spesso di queste aziende, che la crisi non riesce a fermare e che sono pronte ad agganciare la ripresa. Speriamo di poterne descrivere altre di realtà come questa, di poterlo fare sempre più spesso, speriamo che ci sia davvero – e presto – la ripresa, di cui il Paese ha un disperato bisogno.

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Le Pen, Wilders e Alba Dorata: l’arcipelago populista va, ma a Strasburgo rischia di sciogliersi. Mentre Letta…

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da Il Sole 24 Ore del 20 aprile 2014

di Gerardo Pelosi

Un arcipelago variegato e difficile da decifrare che sta mettendo a dura prova l’efficacia del tradizionale messaggio europeista. Alla vigilia del voto europeo del 25 maggio sondaggisti e ricercatori stanno tentando di capire quali saranno gli effetti sul nuovo Europarlamento dell’alto consenso raccolto a livello nazionale dai movimenti antieuropei. Si va dai neopopulisti del Front national di Marine Le Pen o del Partito della libertà olandese di Geert Wilders agli euroscettici inglesi di Nigel Farage alle destre ultranazionaliste di Alba Dorata greca, Ataka bulgara o Jobbik ungherese. Movimenti dal Dna politico diverso e spesso in lotta tra di loro. Il Front national è antieuropeo ma rifiuta Grillo e la destra reazionaria dell’Est Europa, lotta contro l’Islam e chiede meno immigrazione ma difende i diritti di ebrei e omosessuali in nome della tradizione liberale europea.

Almeno su un punto quasi tutti sembrano d’accordo. Alla fine le complesse regole dell’Europarlamento (almeno 25 deputati eletti in 7 Paesi) disperderanno l’eventuale potenza di fuoco con il risultato che i movimenti antieuropei non riusciranno ad avere una casa comune. Dovranno necessariamente disperdersi tra Efd (Europa della libertà e democrazia) che vede Front national insieme al Pvv di Wilders e Lega Nord, i conservatori di Ecr (conservatori inglesi di Cameron e di altri 11 Paesi) e i non iscritti tra cui andranno a confluire gli euroscettici dell’Upik e i grillini. Un universo che sta facendo tremare mezza Europa ma che alle porte di Strasburgo sembra destinato a sciogliersi come neve al sole. È questa la tesi di fondo della ricerca di Guido Bolaffi e Giuseppe Terranova su “populismi e neopopulismi in Europa” pubblicato come Ebook dal gruppo Firstonline-goWare. Secondo la ricerca i neopopulisti, pur appertenendo alla stessa famiglia dei populisti storici hanno un codice genetico diverso. Hanno modificato parti consistenti del vecchio armamentario ideologico come la Le Pen che dal razzismo tout court mostra un volto accattivante pro gay femminista e amico di Israele. Secondo la ricerca si potrebbe creare uno scenario post-elettorale non dissimile da quello registrato in Germania e Italia alle ultime elezioni con la scelta obbligata di una Grosse Koalition. «Ma c’è anche il rischio – osserva Guido Bolaffi – che questi movimenti possano togliere voti al Ppe e favorire il Pse che, per la prima volta, potrebbe avere la maggioranza».

C’è da dire che negli ultimi sondaggi di due giorni fa (da prendere con beneficio di inventario perché gli incerti rappresentano sempre il 40%) il Ppe dovrebbe avere almeno dieci seggi in più a Strasburgo con un aumento in Francia e Polonia mentre diminuirebbero i socialisti in Austria, Bulgaria, Ungheria, Francia e Grecia. Insieme socialisti, popolari e liberali dovrebbero ottenere circa 510 seggi ma tra di loro c’è già un accordo che prevede che il Consiglio europeo dovrà rispettare l’esito elettorale per la scelta del presidente della Commissione. Nel caso di vittoria di popolari il candidato al posto di Barroso è il lussemburghese Jan Claude Juncker mentre per i socialisti il tedesco Martin Schulz. In caso di un risultato quasi alla pari occorrerà trovare un candidato di compromesso che già da alcuni è stato individuato nell’ex premier Enrico Letta.

Una compagine da non temere eccessivamente quella dei neopopulisti anche per Virgilio Dastoli presidente del Movimento europeo e assistente storico di Altiero Spinelli. Secondo Dastoli gli antieuropei non hanno un progetto comune e in alcuni casi convivono forze che vogliono un rafforzamento dello Stato nazionale come il Front national e Lega Nord separatista. In questo panorama anche i 15 o 20 eurodeputati grillini risulteranno inifluenti. «Il movimento cinque stelle – sottolinea Sandro Gozi, sottosegretario per le politiche europee – non ha tessuto alleanze con nessun gruppo e sarà relegato tra i non iscritti, non avrà presidenze di commissioni e non potrà incidere in alcun modo sui lavori dell’Europarlamento, mentre la delegazione del Pd potrebbe essere la più numerosa e aspirare alla presidenza del gruppo o anche alla presidenza del Parlamento».

Fonte: Il Sole 24 Ore

Chirurgia, attenzione ai “viaggi per rifarsi”: molte persone sono morte.

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I medici italiani suonano l’allarme del turismo del ritocco estetico: Tunisia, Marocco, Libano e Thailandia le mete preferite. Una moda “assolutamente da evitare”.

da Redazione today.it 20 aprile 2014

È boom del turismo del ritocco: i medici del Collegio italiano delle società scientifiche di medicina estetica invitano a tenere alta la guardia. I paesi più interessati dal fenomeno sono la Tunisia e il Marocco, mete preferite dagli italiani, anche perché più a portata di mano, ma non manca chi si spinge in Thailandia o in Libano.

L’allarme è stato rilanciato di recente dai medici estetici spagnoli ed è confermato da Fulvio Tomaselli, presidente di Sime e membro del Collegio italiano delle società scientifiche di medicina estetica, che, testimone delle conseguenze di questa deriva, mette in guardia pazienti, medici e autorità dal sottovalutare il problema: “È assolutamente da evitare perché molte persone hanno perso la vita per questo gioco. È un fenomeno da siti di offerte e coupon, dove il paziente viene trattato come un affare qualunque e purtroppo la gente ci casca perché pensa così di risparmiare”.

“La verità – incalza Tomaselli – è che la qualità non si svende, e in questo modo non si conosce la preparazione del medico che sta dall’altra parte, e in caso di complicazioni non c’è nessuno a cui rivolgersi. Se uno di questi delusi si rivolgesse a me, è chiaro che prenderei in carico la sua problematica, ma posso garantire che nessuno ha voglia di mettere mano nelle cose sbagliate fatte da altri, perché non sa come sono state fatte. Fare il turista è bello se vai a vedere le cascate del Niagara o altre amenità di questo tipo, ma non per fare un intervento”.

Fonte: Today

IL MESSAGGIO DI PASQUA DI ALEXIS TSIPRAS AI GRECI.

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La crisi, che ormai da anni coinvolge il vecchio continente, conduce a più di una riflessione. Anche in questo giorno di Pasqua. Per questo, vi proponiamo l’augurio che il leader della sinistra radicale greca Syriza, Alexis Tsipras, ha rivolto al suo popolo.
Il nostro blog ha scelto di riportare i fatti così come sono, senza fare propaganda per alcuna coalizione, pur mantenendo ogni autore ferma la propria ideologia. Ma vi proponiamo, tra tutti gli auguri che oggi abbiamo letto in rete, questi, perché più degli altri racchiudono la disperazione e la voglia di ricominciare di chi vive la crisi sulla propria pelle. Di chi, più di ogni altro in Europa, ne subisce ogni giorno i drammatici effetti.

AS

Il messaggio della resurrezione è un messaggio di redenzione, la vittoria di un messaggio di vita, un messaggio di libertà.
Soprattutto, però, è un messaggio di gioia.
Uomini e donne greche, abbiamo bisogno più che mai di condividere questo messaggio con i nostri simili in ogni angolo del paese, in ogni quartiere, in ogni casa.
Condividiamo con il nostro popolo, ma anche con coloro che non hanno potere e voce. E diamo loro attenzione e solidarietà.
I greci possono e devono fare in modo di trasformare questo messaggio in un nuovo messaggio di resurrezione della nostra gente.
Rallegriamoci nella resurrezione e teniamo a mente che si avvicina il tempo per la redenzione, da tutte e tutti coloro che per il nostro popolo hanno scelto la crocifissione e la miseria.
La campana della nuova risurrezione non tarderà. Arriverà presto .
Basta credere nelle nostre forze.
Buona Pasqua, compagno.

Fonte: ALBA

SE NON INDOSSI LA CINTURA DI SICUREZZA, POTRESTI PERDERE IL DIRITTO AL RISARCIMENTO. LO HA STABILITO LA CASSAZIONE.

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di Michele De Sanctis

Restare coinvolti in un sinistro stradale, potrebbe danneggiare le nostre tasche, anche se l’incidente l’abbiamo subito. È quanto risulta dalla decisione assunta dalla Suprema Corte di Cassazione con sentenza n. 7777/2014. Il Giudice di Legittimità ha, infatti, stabilito che sebbene il diritto al risarcimento danni non possa essere negato per il semplice rilievo che l’infortunato, al momento dell’impatto, non indossasse la cintura di sicurezza, è ammissibile – ed è questa la novità – che il responsabile civile (debitore) potrebbe rifiutare in tutto o in parte di tenere indenne il danneggiato per un danno, che, con l’utilizzo della cintura, poteva essere evitato.

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Sostanzialmente, ciò che il giudice dovrà accertare, d’ora in avanti, sarà se e in che misura la mancata ottemperanza all’obbligo di allacciare la cintura abbia potuto influire sul danno alla persona. Si tratta, pertanto, di valutare l’incidenza del fatto colposo del danneggiato nella produzione dell’evento dannoso, ai sensi e per gli effetti dell’art.1227 c.c.: ma parliamo dei soli postumi che eventualmente residuino in conseguenza del sinistro e, in generale, del danno alla persona, non anche dei danni ai veicoli.
Per quanto, invece, concerne l’onere della prova, la Corte ha deciso che sia il danneggiante a dover dimostrare che la vittima, con la diligenza ordinaria, in questo caso indossando la cintura, avrebbe potuto evitare i danni di cui chiede il risarcimento.

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Milano, il test del vicesindaco in carrozzella da disabile.

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da La Repubblica – Milano del 20 aprile 2014

di Ilaria Carra

Un giro in carrozzella a Milano. Per testare le difficoltà che ogni giorno devono fronteggiare i disabili. Il vicesindaco Ada Lucia De Cesaris, il delegato del Comune ai giovani, Alessandro Capelli, e due disabili sono partiti in carrozzella da via Ripamonti e sono saliti sulla 95 fino a via Giovanni da Cermenate. Poi è toccato al tram della linea 15 fino in piazza della Scala.

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L’iniziativa è stata organizzata da Massimo Lorusso di ‘Milano per tutti’, una associazione che si occupa dell’abbattimento delle barriere architettoniche in città. Il senso: mostrare agli amministratori comunali le difficoltà dei disabili in città. Dal giro sono emersi i problemi con gli scivoli dei marciapiedi, spesso sconnessi, oltre all’inaccessibilità di diversi negozi anche in centro. E al fatto che i mezzi pubblici siano omologati per una carrozzella sola, contro i 163 posti di capienza su un autobus e 272 su un tram.

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Fonte: La Repubblica

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Se la casa non c’è “Abitiamo insieme”.

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da La Stampa – Torino del 20 aprile 2014

A Torino spinti dagli sfratti aumentano i cohousing. E la soluzione di ripiego diventa un’opportunità.

Il cohousing è da anni un’esperienza consolidata all’estero e nel Nord Europa: a Torino stanno aumentando gli esperimenti di convivenza per arginare il problema degli sfratti.

di DAVIDE LESSI (NEXTA)
MANUELA MESSINA (AGB)

«E pensare che solo qualche mese fa queste famiglie non le conoscevo nemmeno». A 61 anni la signora Piera ha assunto il titolo di nonna di Porta Palazzo. Stringe i ferri da maglia nelle mani e spiega: «Quando i vicini sono al lavoro mi prendo cura dei loro bambini, gioco con i più piccoli o guardo scorrazzare i più grandi nel cortile». Non si tratta di una scelta di buon vicinato, ma di vita. Perché la signora Piera vive in un cohousing. Un termine inglese che significa co-abitare. L’idea è semplice: un edificio con alloggi privati ma spazi condivisi. Nella stessa casa di ringhiera convivono altre 15 persone: da privati hanno unito le forze per rimettere a nuovo un edificio affacciato su piazza della Repubblica. E oggi, dopo tre anni di lavori, abitano tutti lì: hanno un loro appartamento ma negli ambienti comuni cenano insieme, organizzano gruppi d’acquisto solidale, si danno una mano nelle piccole difficoltà. La casa si chiama Numero Zero ed è solo uno degli ultimi esperimenti di cohousing in città.

Il modello arriva dal Nord Europa. I primi a sperimentarlo sono stati i danesi 30 anni fa. Poi la Svezia, l’Olanda e la Germania, con l’esempio di Vauban, periferia di Friburgo, dove in cohousing vive un intero quartiere di 5000 persone. In tempi di crisi questa soluzione abitativa si sta affermando anche Torino. E non solo a Porta Palazzo. Nell’area degli ex Mercati Generali è stato recuperato un edificio del Villaggio Olimpico: ora ci sono 42 alloggi per famiglie, studenti fuori sede e soci del progetto Buena Vista. L’associazione Social Club ha ristrutturato gli appartamenti e li affitta a prezzi calmierati.

Torino nel 2013 è risultata tra le prime città in Italia per numero di sfratti. In Piemonte il dramma della morosità involontaria (dovuta alla perdita del lavoro e all’incapacità di far fronte all’affitto) ha coinvolto lo scorso anno 6312 famiglie, il 9,2% del totale nazionale. «La tensione abitativa è alta», ammette il vicesindaco Elide Tisi. Che, in quanto presidente della commissione per l’emergenza abitativa, guarda di buon occhio alle ultime esperienze di cohousing. «Seppur di nicchia sono segnali importanti che potrebbero avere una funzione preventiva rispetto al dramma degli sfratti», spiega. Il Comune da parte sua vanta l’orgoglio di avere messo in piedi una delle prime esperienze di social-housing: il condominio sociale di via Gessi. Grazie alla collaborazione con la compagnia di San Paolo sono stati creati appartamenti per donne e anziani soli, nonché alloggi temporanei per chi ha bisogno di un percorso di assistenza. Un esempio, quello di via Gessi, che, fondi permettendo, potrebbe diventare un modello per le diverse decine di case pubbliche sfitte a Torino.

Fonte: La Stampa

LA SOLITUDINE DELL’AMERICA LATINA.

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L’8 dicembre 1982, durante la cerimonia di consegna dei premi Nobel a Stoccolma, Gabriel Garcia Márquez, colombiano – che aveva appena vinto il Nobel per la letteratura – tenne il discorso «La solitudine dell’America Latina». Màrquez raccontò le bizzarrie e la grandiosità dell’America Latina, dalle descrizioni che ne fecero i primi esploratori fino alle sue vicende storiche folli e sanguinarie. Lo accompagnò con un invito alla «venerabile Europa» a non interpretare il Sudamerica secondo gli standard europei, finendo per renderlo ancora più incomprensibile, e concluse con una speranza per «una nuova e impetuosa utopia della vita».

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Pubblichiamo la traduzione dell’intero discorso tenuto in quell’occasione per ricordare Gabo, venuto a mancare a 87 anni, in un ospedale di Città del Messico, a causa dell’improvviso aggravarsi di una polmonite, dopo un lungo periodo di un precario stato di salute, dovuto all’ineluttabile avanzare dell’età.

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Antonio Pigafetta, un navigatore fiorentino che accompagnò Magellano nel primo viaggio attorno al mondo, durante il suo passaggio attraverso la nostra America meridionale scrisse un resoconto rigoroso che tuttavia sembra un’avventura dell’immaginazione. Raccontò di avere visto maiali con l’ombelico sulla schiena e uccelli privi di zampe, le cui femmine covavano le uova sul dorso del maschio, e altri come pellicani senza lingua, i cui becchi sembravano cucchiai. Raccontò di avere visto un mostruoso animale con testa e orecchie di mulo, corpo di cammello, zampe di cervo e nitrito di cavallo. Raccontò che il primo nativo incontrato in Patagonia fu messo davanti a uno specchio, e che quel gigante esagitato perse l’uso della ragione per paura della propria immagine. Questo libro breve e affascinante, nel quale già si intravedono i germi dei nostri attuali romanzi, non è affatto la testimonianza più stupefacente sulla nostra realtà di quei tempi. I cronisti delle Indie ce ne lasciarono innumerevoli altre. L’Eldorado, il nostro illusorio paese tanto conteso, figurò in numerose mappe per lunghi anni, cambiando luogo e forma secondo la fantasia dei cartografi.
Cercando la fonte dell’eterna giovinezza il mitico Álvar Núñez Cabeza de Vaca esplorò per otto anni il Nord del Messico, con una spedizione stravagante i cui membri si divorarono gli uni con gli altri e dalla quale ritornarono solo cinque dei seicento uomini che la componevano. Uno dei tanti misteri che non furono mai decifrati è quello delle undicimila mule, ognuna carica di cinquanta chili d’oro, che un giorno partirono da El Cuzco per andare a pagare il riscatto di Atahualpa e non arrivarono mai a destinazione. Più tardi, nel periodo coloniale, venivano vendute a Cartagena delle Indie galline allevate in terre alluvionali nelle cui interiora si trovavano pietruzze d’oro. Questo delirio aureo dei nostri fondatori ci ha perseguitato fino a poco tempo fa. Ancora nel secolo scorso, la missione tedesca incaricata di studiare la costruzione di una ferrovia interoceanica sull’istmo di Panama giunse alla conclusione che il progetto era realizzabile a condizione che i binari non fossero fatti di ferro, un metallo che scarseggiava nella regione ma d’oro.
L’indipendenza dalla dominazione spagnola non ci salvò dalla follia. Il generale Antonio López de Santa Anna, che fu tre volte dittatore del Messico, fece seppellire con magnifici funerali la gamba destra che aveva perso nella cosiddetta guerra dei Pasticcini. Il generale Gabriel García Moreno governò l’Ecuador per sedici anni come un monarca assoluto e il suo cadavere fu vegliato, in uniforme di gala e con la corazza delle decorazioni, seduto sulla poltrona presidenziale. Il generale Maximiliano Hernández Martínez, il despota teosofo del Salvador che fece sterminare in una barbara mattanza trentamila contadini, aveva inventato un pendolo per verificare se i cibi fossero avvelenati e fece ricoprire di carta rossa l’illuminazione pubblica per combattere un’epidemia di scarlattina. Il monumento al generale Francisco Morazán, eretto sulla plaza Mayor di Tegucigalpa, è in realtà una statua del maresciallo Ney comprata in un magazzino di sculture usate.
Undici anni fa, uno degli insigni poeti del nostro tempo, il cileno Pablo Neruda, illuminò con le sue parole questa sala. Da allora, nelle buone coscienze d’Europa, e a volte anche nelle cattive, hanno fatto irruzione con impeto sempre maggiore le spettrali notizie dell’America Latina, questa immensa patria di uomini visionari e di donne memorabili, la cui infinita ostinazione si confonde con la leggenda. Non abbiamo avuto un attimo di tregua. Un presidente prometeico trincerato nel suo palazzo in fiamme è morto combattendo da solo contro un intero esercito, e due disastri aerei sospetti e mai chiariti hanno tolto la vita a un altro presidente dal cuore generoso e a un militare democratico che aveva ristabilito la dignità del suo popolo.
Ci sono state cinque guerre e diciassette colpi di Stato, ed è venuto alla ribalta un dittatore luciferino che in nome di Dio ha compiuto il primo etnocidio dei nostri tempi nell’America Latina. Nel frattempo, sono morti prima di compiere un anno venti milioni di bambini latinoamericani, che sono più di quanti ne siano nati in Europa dal 1970. I desaparecidos a causa della repressione sono quasi centoventimila, che è come se oggi non si sapesse dove siano finiti tutti gli abitanti della città di Uppsala. Numerose donne, arrestate quando erano incinte, hanno partorito nelle prigioni argentine, ma si ignora ancora l’identità e il luogo di residenza de loro figli, che le autorità militari hanno dato in adozione clandestina o hanno internato negli orfanotrofi. Per essersi opposti a questo stato di cose, sono morti circa duecentomila uomini e donne in tutto il continente, mentre più di centomila sono stati ammazzati in tre piccoli e volenterosi paesi dell’America centrale: Nicaragua, El Salvador e Guatemala. Se ciò fosse avvenuto negli Stati Uniti, la cifra proporzionale sarebbe di un milione e seicentomila morti violente in quattro anni. Dal Cile, paese tradizionalmente ospitale, sono fuggite un milione di persone: il dieci per cento della sua popolazione. L’Uruguay, una minuscola nazione di due milioni e mezzo di abitanti che veniva considerato il paese più civilizzato del continente, ha perso nell’esilio un cittadino su cinque. La guerra civile nel Salvador ha prodotto, dal 1979, quasi un rifugiato ogni venti minuti. Il paese che si sarebbe potuto creare con tutti gli esuli e gli emigranti forzati dell’America Latina avrebbe una popolazione più numerosa di quella della Norvegia.
Oso pensare che sia stata questa realtà fuori dal comune, e non soltanto la sua espressione letteraria, a meritare quest’anno l’attenzione dell’Accademia svedese delle Lettere. Una realtà che non è quella di carta, ma vive con noi e determina ogni istante delle nostre innumerevoli morti quotidiane, alimentando una sorgente creativa insaziabile, piena di sventura e di bellezza. Della quale questo colombiano errante e nostalgico non è nulla di più che un numero maggiormente segnalato dalla sorte. Poeti e mendicanti, guerrieri e malandrini, tutte noi creature di quella realtà eccessiva abbiamo dovuto chiedere molto poco all’immaginazione, perché la sfida maggiore per noi è stata l’insufficienza delle risorse convenzionali per rendere credibile la nostra vita. È questo, amici, il nodo della nostra solitudine.
E se queste difficoltà confondono noi, che ne condividiamo l’essenza, non è difficile capire perché i talenti razionali di questa parte del mondo, estasiati nella contemplazione della propria cultura, si siano ritrovati senza un metodo valido per interpretarci. È comprensibile che insistano nel valutarci con lo stesso metro col quale valutano se stessi, senza ricordare che le ingiurie della vita non sono uguali per tutti, e che la ricerca dell’identità è difficile e sanguinosa per noi quanto lo è stata per loro. L’interpretazione della nostra realtà con schemi che non ci appartengono contribuisce soltanto a renderci sempre più sconosciuti, sempre meno liberi, sempre più solitari. Forse la venerabile Europa sarebbe più comprensiva se tentasse di vederci nel suo stesso passato. Se ricordasse che a Londra occorsero trecento anni per costruire le prime mura e altri trecento per avere un vescovo; che Roma si dibatté nelle tenebre dell’incertezza per venti secoli prima che un re etrusco la innestasse nella storia; e che ancora nel XVI secolo i pacifici svizzeri di oggi, che ci allietano con i loro formaggi mansueti e i loro orologi impavidi, insanguinavano l’Europa come soldati di fortuna. Ancora all’apogeo del Rinascimento, dodicimila lanzichenecchi al soldo degli eserciti imperiali saccheggiarono e devastarono Roma, passando a fil di spada ottomila dei suoi abitanti.
Non pretendo di incarnare le illusioni di Tonio Kröger, i cui sogni di unità fra un Nord casto e un Sud appassionato Thomas Mann esaltava cinquantatré anni fa in questa sala, ma credo che gli europei dallo spirito illuminato – quelli che lottano anche qui per una grande patria più umana e più giusta – potrebbero aiutarci meglio se riconsiderassero a fondo il loro modo di vederci. La solidarietà con i nostri sogni non ci farà sentire meno soli finché non si concretizzerà in atti di sostegno legittimo ai popoli che coltivano l’illusione di avere una vita propria nella ripartizione del mondo.
L’America Latina non vuole essere una pedina senza libero arbitrio, e non c’è ragione perché lo sia. E non ha nulla di chimerico il fatto che i suoi propositi d’indipendenza e originalità diventino un’aspirazione dell’Occidente. Ciò nonostante, i progressi della navigazione che hanno tanto ridotto le distanze fra le nostre Americhe e l’Europa sembrano invece averne aumentato la distanza culturale. Perché l’originalità che ci viene riconosciuta senza riserve nella letteratura ci viene negata con ogni tipo di sospetti nei nostri difficilissimi tentativi di cambiamento sociale? Perché pensare che la giustizia sociale che gli europei d’avanguardia tentano di imporre nei proprio paesi non possa essere anche un obiettivo latinoamericano con metodi diversi in condizioni differenti? No: la violenza e il dolore smisurati della nostra storia sono il risultato di ingiustizie scolari e amarezze inenarrabili, e non una congiura ordita a tremila leghe da casa nostra. Tuttavia, molti dirigenti e pensatori europei lo hanno creduto, con l’infantilismo dei nonni che hanno dimenticato le proficue follie della loro giovinezza, come se non fosse possibile altro destino se non quello di vivere alla mercé dei due grandi padroni del mondo. È questa, amici, la dimensione della nostra solitudine. E tuttavia, di fronte all’oppressione, al saccheggio e all’abbandono, la nostra risposta è la vita. Né i diluvi né le pestilenze, né le carestie né i cataclismi, e nemmeno le guerre eterne attraverso i secoli dei secoli sono riusciti a ridurre il tenace vantaggio della vita sulla morte.
Un vantaggio che aumenta e accelera: ogni anno ci sono settantaquattro milioni di nascite in più rispetto alle morti, una quantità di nuovi esseri viventi in grado di accrescere di sette volte ogni anno la popolazione di New York. La maggior parte di loro nasce nei paesi con meno risorse, compresi, naturalmente, quelli dell’America Latina. I paesi più prosperi, invece, sono riusciti ad accumulare abbastanza potere di distruzione da annientare cento volte non solo tutti gli esseri umani che esistono oggi, ma la totalità degli esseri viventi che sono passati per questo sfortunato pianeta.
In un giorno come quello di oggi il mio maestro William Faulkner disse in questa sala: «Mi rifiuto di ammettere la fine dell’uomo». Non mi sentirei degno di occupare questo posto che fu suo se non fossi pienamente consapevole che, per la prima volta dall’inizio dell’umanità, il colossale disastro che egli si rifiutava di ammettere trentadue anni fa è ora soltanto una semplice possibilità scientifica. Di fronte a questa sconvolgente realtà che nel corso di tutto il tempo umano è dovuta sembrare un’utopia, noi inventori di racconti, che crediamo a tutto, ci sentiamo in diritto di credere che non sia troppo tardi per iniziare a creare l’utopia contraria. Una nuova e impetuosa utopia della vita, in cui nessuno possa decidere per gli altri perfino sul modo di morire, dove sia davvero reale l’amore e sia possibile la felicità, e dove le stirpi condannate a cent’anni di solitudine abbiano, finalmente e per sempre, una seconda opportunità sulla Terra.

Traduzione da:
García Márquez Gabriel – La solitudine dell’America latina. Scritti e interventi, Datanews, 2006.

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L’INDIA RICONOSCE IL «TERZO SESSO».

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di Andrea Serpieri

Con una sentenza rivoluzionaria, la Corte Suprema indiana ha riconosciuto lo scorso 14 aprile il diritto dei transessuali di essere considerati come «terzo sesso» e di godere degli stessi diritti degli altri cittadini sanciti dalla Costituzione.

Un ver­detto dalla por­tata sto­rica. Riconoscendo, infatti, alla comunità tran­sgen­der indiana lo sta­tus di «terzo genere ses­suale» davanti alla legge, la Corte ha effettuato una decisa presa di posi­zione desti­nata a modificare le abominevoli con­di­zioni di vita di tutti i trans del Paese, finora costretti a con­durre esi­stenze ai mar­gini della società e dell’umana dignità, vit­time di vio­lenze e discri­mi­na­zione, borderline sempre, in ogni aspetto della vita quotidiana. Quest’ostracismo era conseguenza di una legge del 1871, risalente al periodo coloniale, che li considerava come “criminali”.

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La sezione della mas­sima Corte indiana, però, ha ora sta­bi­lito che i transessuali debbano poter godere dei mede­simi diritti garan­titi dalla Costi­tu­zione al resto della popo­la­zione e saranno con­si­de­rati come una delle Other Bac­k­ward Class (Obc), ossia uno di quei gruppi sociali che godono di misure gover­na­tive ad hoc in ambito lavo­ra­tivo e sco­la­stico.
Accogliendo un ricorso collettivo presentato due anni fa, i giudici hanno affermato che «è diritto di ogni essere umano scegliere il proprio genere sessuale». I transessuali, o “Hijra” come sono chiamati in hindi, saranno, pertanto, liberi di identificarsi in una terza categoria che non è né quella di maschio né femmina. Con questo verdetto, l’India diventa uno dei pochi Paesi al mondo a prevedere il «terzo genere». A distanza di pochi giorni dall’omologo riconoscimento avvenuto anche nel sistema giuridico australiano.

Si stima che in India ci siano dai 3 ai 5 milioni di “Hijra”, un’ampia categoria che comprende dai travestiti ai castrati, brutale pratica che ancora sopravvive. Molti di loro sono costretti a prostituirsi o a vivere delle elemosine raccolte durante feste di matrimonio e varie celebrazioni, in cui sono considerati di buon auspicio.

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«Rico­no­scere ai tran­sgen­der lo sta­tus di terzo genere ses­suale non è una que­stione medica o sociale, ma ha a che fare coi diritti umani» ha dichia­rato il giu­dice KS Rad­ha­kri­sh­nan al momento del ver­detto, spe­ci­fi­cando che «anche i tran­sgen­der sono cit­ta­dini indiani ed è neces­sa­rio garan­tire loro le mede­sime oppor­tu­nità di cre­scita». Le con­se­guenze della sen­tenza, che invita il Governo cen­trale e quelli locali ad ade­guarsi alla novità, si riper­cuo­te­ranno su una serie di aspetti della vita di tutti i giorni: l’opzione «tran­sgen­der» sarà inse­rita nei moduli da com­pilare per i docu­menti d’identità, saranno creati bagni pub­blici a loro riservati e la con­di­zione di “Hijra” verrà tute­lata nelle strut­ture ospe­da­liere nazio­nali con reparti appo­siti, esclu­dendo l’obbligo di sce­gliere tra uno dei due sessi per poter acce­dere alle cure medi­che. Inol­tre, in virtù dell’appartenenza alle Obc, il governo dovrà stan­ziare un deter­mi­nato numero di posti ad hoc nei luo­ghi d’impiego sta­tali, nelle scuole pri­ma­rie e nelle uni­ver­sità, secondo il sistema delle cd. ‘reser­va­tions’, ovvero delle quote riservate dal Governo alle Obc, considerate una sorta di ‘categoria protetta’.

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La sentenza rianima la speranza della battaglia della comunità Lgbt (lesbiche, gay, bisessuali e transessuali) indiana, diretta ad ottenere l’abolizione dell’odioso vecchio ed obsoleto articolo 377 del Codice Penale che vieta il ‘sesso contro natura’ come la sodomia e la fellatio. Rovesciando, infatti, una precedente decisione di una corte inferiore del 2009, lo scorso dicembre la Corte Suprema aveva reintrodotto la disposizione in base alla quale i rapporti tra omosessuali sono illegali. A inizio mese, tuttavia, la stessa Corte ha accet­tato di con­si­de­rare una «sen­tenza ripa­ra­trice» e oggi, con questa sentenza, si spera in un prossimo passo in difesa dei diritti umani nel Paese, di un’evoluzione delle politiche di genere, in accordo con i principi di tolleranza e rispetto. La speranza è, quindi, quella di una futura conquista dei pieni diritti civili da parte della comunità indiana gay lesbo e trans.

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