IMPIANTI DI VIDEOSORVEGLIANZA NEI LUOGHI DI LAVORO. QUAL È L’ITER BUROCRATICO PER IL LORO UTILIZZO?

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di Michele De Sanctis

Con sentenza n. 17027 del 17 aprile 2014, la Suprema Corte di Cassazione, ha rilevato che in base all’art. 4, L. 300/70 (Statuto dei Lavoratori), gli impianti e le apparecchiature di controllo, la cui installazione sia dovuta ad esigenze organizzative e produttive, ovvero alla sicurezza del lavoro, “possono essere montati e posizionati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali o, in subordine, con la commissione interna” e solo dopo specifica autorizzazione della Direzione Territoriale del Lavoro. Non è, però, richiesto – si specifica in sentenza – che si tratti di controllo occulto, destinato a verificare la produttività dei lavoratori dipendenti, dal momento che l’essenza della sanzione sta nell’uso degli impianti audiovisivi, in carenza di un preventivo accordo con le parti sociali.
Con tali motivazioni il Giudice di Legittimità ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato da una datrice di lavoro, ritenuta responsabile del reato di cui all’art. 4 L. 300/70 in relazione all’art. 114, D. Lgs. 196/03, per avere installato un impianto di videosorveglianza senza avere richiesto l’autorizzazione alla competente DTL.
Il giudice di merito – hanno affermato i Giudici di Piazza Cavour – ha logicamente e correttamente argomentato in relazione alla concretizzazione del reato contestato e all’ascrivibilità di esso in capo alla prevenuta, peraltro, richiamando puntualmente le emergenze istruttorie, assoggettate ad analisi valutativa compiuta ed esaustiva.
Inoltre, “risulta insostenibile la tesi difensiva della insussistenza dell’elemento soggettivo del reato, secondo la quale la datrice di lavoro, nata e vissuta per lungo tempo negli Stati Uniti, avrebbe ignorato le prescrizioni imposte dallo statuto dei lavoratori, in quanto costei, quale datrice di lavoro, è soggetto tenuto alla conoscenza delle prescrizioni imposte a tutela dei propri dipendenti”.

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È, infatti, sempre necessaria un’esplicita autorizzazione da parte della Direzione Territoriale del Lavoro per l’installazione di tali apparecchiature, altrimenti si rischia di trasformare le telecamere aziendali in un una sorta di ‘Grande Fratello’ che sorveglia illegittimamente i lavoratori in forza. La regola, lo ricordiamo, vale per tutte le imprese, in cui ci siano addetti e/o soci, ad eccezione, quindi, delle sole ditte individuali senza dipendenti. Come, peraltro, già ricordato dalla Corte, con sentenza n. 4331 del 30 gennaio 2014, in cui dichiarava inammissibile il ricorso di un datore di lavoro avverso la sentenza che lo aveva condannato alla pena di € 200,00 di ammenda per il reato di cui all’articolo 4, comma 2, L. 300/70 per avere, quale legale rappresentante di una s.n.c., installato un impianto audiovisivo di controllo a distanza dei lavoratori delle casse del suo supermercato senza accordo con le rappresentanze sindacali e senza autorizzazione della DTL.
L’autorizzazione va, peraltro, richiesta sia che le telecamere siano in funzione, sia che restino spente e siano utilizzate come semplice deterrente a furti, atti vandalici e comportamenti non consentiti dei lavoratori.
Nonostante, il rilievo del Giudice di Legittimità circa l’art. 4 dello Statuto, occorre, comunque, rispettare l’iter burocratico previsto dalla normativa vigente in materia di sicurezza e di privacy, che pone dei limiti non indifferenti al controllo a distanza sulla produttività dei dipendenti. Sebbene, infatti, la Cassazione ammetta il controllo occulto, purché autorizzato, devono, tuttavia, essere costantemente garantiti gli standard minimi per la corretta gestione del sistema previsti dalla legge, tra cui:
– rispetto del D.Lgs.196/03 e successivo provvedimento del Garante datato 8 aprile 2010;
– obbligo di informare dipendenti e clienti (anche attraverso apposita segnaletica) che i locali sono videosorvegliati;
– obbligo di nominare un dipendente incaricato che ha accesso all’impianto di videosorveglianza;
– scelta dell’angolo di ripresa, che deve riguardare le aree più esposte al rischio di furti e rapine e che non può, comunque, comprendere le postazioni di lavoro;
– divieto di utilizzare le immagini registrate per accertare o contestare disciplinarmente eventuali violazioni dell’obbligo di diligenza da parte dei lavoratori (il che di fatto vanifica ogni finalità di controllo sulla loro produttività, poiché ne lascia il relativo accertamento privo di utili strumenti disciplinari);
– adeguata custodia dell’apparecchiatura per la registrazione delle immagini;
– conservazione delle immagini registrate per il tempo strettamente necessario (normalmente non più di 24 ore).

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La richiesta dovrà, inoltre, essere corredata dalle planimetrie dei locali, con indicazione del posizionamento delle telecamere e messa in evidenza degli angoli di ripresa delle stesse, al fine di consentire alla DTL di verificare che non vengano inquadrate le postazioni di lavoro.
Si precisa, infine, che, in ottemperanza del D.Lgs.196/03, le immagini riprodotte sui monitor collegati alle telecamere possono essere visualizzate solo dal titolare dell’attività, ovvero da personale da lui incaricato.
L’utilizzo di sistemi di videosorveglianza nei luoghi di lavoro in cui sono presenti dipendenti dell’azienda, senza la preventiva autorizzazione della DTL, o in modo illecito, senza, quindi, la garanzia del rispetto delle norme poste in tutela della privacy dei lavoratori, implica l’applicazione di sanzioni amministrative e, in taluni casi, anche penali.

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Uscire dalla barbarie


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Il Perù ha l’opportunità di dimostrare al mondo di aver scelto il cammino della lotta contro l’omofobia, approvando il progetto di Legge sulle Unioni Civili disegnato dal deputato Carlos Bruce. Contro Bruce e la sua proposta, però, si erge l’oscurantismo aggressivo e subdolo della più alta gerarchia ecclesiastica.

 

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Di MARIO VARGAS LLOSA 

Traduzione dallo spagnolo di Luigia Belli

In questi giorni, il Perù ha l’opportunità di compiere un ulteriore passo avanti verso il cammino della cultura della libertà, lasciandosi alle spalle una delle forme più diffuse e praticate della barbarie, che è l’omofobia, ovvero l’odio nei confronti delle persone omosessuali. Il deputato Carlos Bruce ha presentato un progetto di legge sulle Unioni Civili tra persone dello stesso sesso che già può contare sul sostegno del Ministero di Giustizia, delle “Defensorías” popolari (n.d.t..: strutture pubbliche di assistenza pubblica per la tutela legale dei diritti di ogni cittadino indipendentemente dal reddito), delle Nazioni Unite e di Amnesty International. I principali partiti politici che hanno una propria rappresentanza alla Camera dei deputati, sia di sinistra che di destra, sembrano essersi espressi a favore dell’iniziativa, pertanto la legge ha buone possibilità di essere approvata.

In tal modo, il Perù diventerebbe il sesto paese sudamericano e il sessantunesimo nel mondo a riconoscere legalmente il diritto degli omosessuali alla vita di coppia mediante un’istituzione civile equivalente (benché non identica) al matrimonio. Se compie questo passo, così importante da poter essere paragonato alla fine della dittatura e all’eliminazione del terrorismo, il Perù inizierà a riscattare milioni di cittadini peruviani che, nel corso della storia, a causa della propria omosessualità, sono stati scherniti e offesi fino ad estremi indescrivibili, sono stati incarcerati, spogliati dei diritti più elementari, espulsi dai propri posti di lavoro, vittime di discriminazioni e abusi nella loro vita sia professionale che privata, pubblicamente vilipesi e accusati di essere anormali e degenerati.

Dunque, ora, nell’ambito del prevedibile dibattito che tale progetto di legge ha sollevato, la Conferenza Episcopale Peruviana, attraverso un comunicato reazionario e di grossolana ignoranza, afferma che l’omosessualità “contrasta con l’ordine naturale”, “è un attentato contro la dignità umana” e “rappresenta una minaccia per un sano orientamento (n.d.t.: sessuale) dei bambini”. L’ineffabile Cardinale Cipriani, Arcivescovo di Lima e Primate del Perù, da parte sua, ha chiesto che venga realizzato un referendum nazionale sul tema delle Unioni Civili. In molti ci siamo chiesti perché non avanzò la medesima richiesta quando il regime dittatoriale di Fujimori, verso il quale fu ben comprensivo, fece sterilizzare, manu militari e attraverso perfide menzogne, migliaia di donne contadine (facendo credere loro che le avrebbero vaccinate), molte delle quali morirono dissanguate a causa di questa criminale operazione.

Il fanatismo religioso e il maschilismo sono causa di violazioni e sofferenze per molti cittadini

Pochi anni fa temo che un’iniziativa come quella del Deputato Carlos Bruce (che, tra l’altro, ha subito recentemente minacce di morte da parte di un fanatico) sarebbe stata impossibile, a causa della pressante influenza esercitata dal settore più troglodita della Chiesa cattolica sull’opinione pubblica in materia sessuale e, benché nella pratica l’omosessualità fosse l’opzione scelta da un gruppo numericamente significativo della società, tale scelta era rischiosa, clandestina e vergognosa e, coloro che hanno osato rivendicare i propri diritti a volto scoperto sono stati oggetto di un linciaggio pubblico immediato. Le cose, da allora, sono cambiate e sono cambiate in meglio, nonostante ci siano ancora molte erbacce da estirpare. Osservo, nel dibattito attuale, che intellettuali, artisti, professionisti, dirigenti politici e sindacali, ONG, istituzioni e organizzazioni cattoliche di base si pronunciano in modo chiaro e contundente contro omofobi ex abrupto come quelli della Conferenza Episcopale e di alcuni gruppi evangelici che hanno sposato la medesima linea ultra conservatrice, e ricordano che il Perù è costituzionalmente un paese laico, dove tutti godono degli stessi diritti. E che, tra i diritti di cui godono i cittadini in un paese democratico, figura appunto quello di poter decidere liberamente della propria identità sessuale.

Le scelte sessuali sono diverse, ma non possono essere giudicate normali o anormali, a seconda che una persona è eterosessuale o omosessuale.

Pertanto, i gay, le lesbiche e gli eterosessuali devono godere degli stessi diritti ed esercitare gli stessi doveri, senza rischiare di essere perseguitati e discriminati per le proprie scelte. Credere che la normalità consista nell’essere eterosessuali e che gli omosessuali siano “anormali” non è altro che un pregiudizio, smentito ormai dalla scienza e dal senso comune, che è alla base di legislazioni discriminatorie in Paesi arretrati e ignoranti, laddove il fanatismo religioso e il maschilismo sono fonti di soprusi e causa di dolore e sofferenza per moltissimi cittadini, la cui unica colpa è quella di appartenere ad una minoranza. La persecuzione degli omosessuali, operata da coloro che diffondono scempiaggini irrazionali quali, per esempio, la “anomalia” omosessuale, è crudele e disumana al pari del razzismo nazista o bianco che considera gli ebrei, i neri e i gialli esseri inferiori per il solo fatto di essere diversi.

Le unioni civili, che sia chiaro, rappresentano esclusivamente un passo avanti nel risarcimento delle minoranze sessuali per le discriminazioni e gli abusi di cui sono state e continuano ad essere oggetto. Tuttavia, sarà più semplice combattere il pregiudizio e l’ignoranza che sono alla base dell’omofobia, quando i cittadini comuni vedranno che le coppie omosessuali che costituiscono le unioni civili basate sull’amore reciproco non alterano affatto la vita degli altri, così come si è potuto apprezzare in tutti (e dico tutti) i Paesi che hanno autorizzato le unioni civili e i matrimoni tra persone dello stesso sesso. Dove si sono avverate le profezie apocalittiche secondo le quali, se si permettono i matrimoni omosessuali, la degenerazione sessuale si propagherà ovunque? Al contrario, la libertà sessuale, al pari della libertà politica e della libertà culturale, è garanzia di quella pace che può scaturire esclusivamente dalla convivenza pacifica di idee, valori e costumi differenti. Non vi è nulla in grado di esacerbare tanto la vita sessuale e di traviarla fino ad estremi a volte vertiginosi quanto la repressione e la negazione del sesso. Scossa com’è dai casi di pedofilia che l’hanno colpita in quasi tutto il mondo, la Chiesa cattolica dovrebbe capirlo meglio di altri ed agire di conseguenza di fronte a tale situazione, ovvero in modo più moderno e tollerante.

La libertà sessuale, al pari di quella politica e di quella culturale, è garante della convivenza pacifica di idee diverse.

Io credo che ciò appartenga alla nostra realtà e che nel mondo ci siano sempre più cattolici – tanto laici quanto religiosi – disposti ad accettare l’idea che un omosessuale sia una persona normale, così come l’eterosessuale, e che, come questo, anch’egli abbia il diritto di poter formare una famiglia e godere delle medesime prerogative sociali e giuridiche delle coppie eterosessuali.

L’insediamento di Papa Francesco al Vaticano è avvenuto sotto i migliori auspici e, di fatto, i suoi primi gesti, le sue prime dichiarazioni e iniziative sembravano voler promuovere riforme profonde in seno alla Chiesa finalizzate a ricondurre la Chiesa stessa alla vita e alla cultura del nostro tempo. Non ancora si è concretizzato nulla, ma dobbiamo ben sperare. Tutti ricorderemo la sua risposta quando gli venne chiesto cosa pensava dei gay: “E chi sono io per giudicarli?”. Si trattò di una risposta che lasciava trasparire cose positive che, però, stanno tardando ad arrivare. A nessuno – neanche a chi, come me, non è credente – conviene che, a causa della sua testarda adesione ad una tradizione intollerante e dogmatica, una delle più grandi Chiese del mondo si allontani da buona parte dell’umanità e si confini ai suoi margini più retrogradi.

Ecco ciò che sta accadendo in Perù dove, per disgrazia, la gerarchia della Chiesa è caduta nelle mani di quell’oscurantismo aggressivo incarnato dal Cardinal Cipriani e riflesso nel comunicato contro le Unioni Civili della Conferenza Episcopale. Dico “per disgrazia” perché, pur essendo io agnostico, so molto bene che, per gran parte della collettività, la religione è sempre necessaria, poiché le somministra le convinzioni, le credenze e i valori di base sul mondo e sull’aldilà senza le quali gli uomini cadrebbero in balia del caos e dell’angoscia, di quello stato, ovvero, che gli Incas chiamavano “la behetria”, quello stato di desolazione e confusione collettivi che, stando a quanto illustra l’Inca Garcilaso, avvolse il Tahuantinsuyo (n.d.t.: l’insieme delle quattro regioni andine controllate direttamente dagli Incas) durante l’epoca in cui sembrò che gli Dei si stessero eclissando.

Io nutro la speranza che, contrariamente a quanto affermano certi sondaggi, la legge sulle Unioni Civili, in favore della quale migliaia di giovani e adulti hanno appena manifestato lungo le vie di Lima, sarà approvata e il Perù, allora, avrà fatto un passo avanti verso quella società libera, diversa, colta – libera dalla barbarie – che, sono certo, rappresenta il sogno che nutre la maggior parte dei peruviani.

TRENI SPORCHI: GIUDICE CONDANNA TRENITALIA.

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di Michele De Sanctis

La sentenza, di cui vi sto per parlare, riguarda i tantissimi pendolari che ogni giorno si servono della rete ferroviaria italiana per andare a lavorare o per motivi di studio. Per l’occasione, vi scrivo in diretta dal treno su cui anch’io, ogni giorno, viaggio per andare a lavoro e per tornare a casa. In realtà, la maggior parte dei miei post sono scritti in treno. Oggi, però, noto con piacere che, a dispetto della folla prefestiva, la mia carrozza è stranamente pulita. A parte il cestino dei rifiuti alla mia destra che, a giudicare dal contenuto strabordante, accoglie i resti di una colazione o forse due e di un pranzo. Oppure gli avanzi di una persona in preda a una forte crisi ipoglicemica. Ma mi basta cambiare sedile: pazienza, niente finestrino! In fondo, a che mi serve? Tanto devo scrivere! E poi quello del cestino stracolmo è il male minore che un pendolare possa affrontare. Non è vero?
E a voi? Vi è mai capitato di viaggiare tra immondizia e cattivo odore? E avete mai pensato che un’efficiente pulizia da parte di Trenitalia potrebbe rendere il vostro viaggio da pendolare meno penoso? Sapevate che la razione di germi cui quotidianamente ci sottoponiamo, alla lunga, potrebbe alterare il nostro stato di salute? Ebbene, è proprio quanto è capitato ad uno di noi.

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Si tratta di uno studente pendolare di Spoleto, cui purtroppo sono stati riscontrati problemi di salute causati dalle pessime condizioni igieniche delle carrozze in cui abitualmente doveva sedersi per affrontare il suo viaggio.
Questi i fatti: il ricorrente, giovane studente di giurisprudenza, tra il 2008 ed il 2009 si è trovato a viaggiare come pendolare nella tratta Spoleto-Roma su delle carrozze troppo spesso lasciate sporche: il che ha determinato un aggravarsi dei suoi preesistenti problemi asmatici.
Il Giudice di Pace di Roma, con sent. n. 41354/13, dott.ssa Concettina Cardaci, gli ha riconosciuto un indennizzo in via equitativa pari a mille euro, per danno non patrimoniale da inadempimento contrattuale, proprio a causa delle scarse condizioni igieniche del treno su cui viaggiava. “La sua domanda – si legge nella motivazione della sentenza – tesa a dimostrare la responsabilità di Trenitalia per i disagi subiti a causa delle precarie condizioni igieniche dei treni, è fondata e va accolta”, visto che il ricorrente ha documentato sia “la sporcizia dei treni in questione” sia “le negative conseguenze sulla propria salute”. Le precarie condizioni dei vagoni, sono state, infatti, “immortalate” dallo smartphone del ragazzo: una serie di istantanee, grazie a cui il giudice onorario ha riconosciuto al giovane l’esistenza della responsabilità a carico della compagnia di trasporto ferroviario. Il vettore, in verità, è sempre tenuto a garantire condizioni accettabili per il trasporto dei propri passeggeri, dovendo, peraltro, rispettare il diritto alla salute imposto dalla Costituzione. Decisive sono state, pertanto, le argomentazioni circa la lesione di un interesse tutelato dalla Carta fondamentale della Repubblica, quale, appunto, quello della salute, oltreché il superamento della soglia minima di tollerabilità e quindi l’impossibilità di assimilare tale tipo di danno a un semplice fastidio.

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Ricordatevi sempre, colleghi di viaggio, che nel momento in cui acquistate il biglietto del treno, o, meglio, l’abbonamento, di fatto concludete un contratto con la compagnia di trasporto, che è, dunque, obbligata a garantirvi la prestazione venduta, secondo correttezza e nel rispetto di standard qualitativi. I diritti dell’utenza sono sanciti, in primis, dalla Costituzione!
Tuttavia, poiché nel caso di specie non si poteva quantificare con certezza il danno subìto, il GdP ha necessariamente fatto ricorso alla cosiddetta valutazione equitativa. In assenza di specifiche prove sull’ammontare dei danni, infatti, la liquidazione viene effettuata sulla sola base di quanto appare più giusto al giudice. Per l’appunto, equo. Vero è che un indennizzo pure spettava a questo pendolare, tant’è che, non potendo “essere posta in dubbio la responsabilità da parte di Trenitalia consistente nella violazione delle norme che regolano l’erogazione dei servizi pubblici, ma anche dei diritti fondamentali della persona come quelli che attengono alla tutela della salute”, prosegue la sentenza, deve, comunque “essere affermato il diritto dello studente ad ottenere il risarcimento dei danni da lui subiti”, pur in carenza di criteri atti alla relativa quantificazione.
“Si tratta di una sentenza molto importante, secondo la quale il treno sporco rappresenta una violazione dei diritti fondamentali della persona previsti dalla Costituzione”. È quanto ha dichiarato Cristina Adducci, avvocato del Codacons, cui il pendolare si era, in prima istanza, rivolto per avere assistenza. La responsabilità per danni non patrimoniali, di cui all’art. 2059 c.c., infatti, ben si configura, da un lato, per inadempimento contrattuale, dall’altro è la stessa Costituzione a sancire il diritto inviolabile alla salute di ciascuno di noi. Anche dei pendolari.
Ricordatelo al signor capotreno, che incontrate ogni giorno (ormai vi conosce più del vostro migliore amico), ma fa finta di non vedere l’immondizia su cui sedete, limitandosi alla solita frase ‘Biglietti, prego!’

Ringrazio la mia Marta, avvocato, per avermi segnalato il caso di specie.

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Jobs Act breaking news. La Camera dei Deputati approva la fiducia al D.L. n. 34/2014


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di Germano De Sanctis

Nel corso della giornata odierna, la Camera dei Deputati ha approvato la fiducia posta dal Governo sul D.L. n. 34/2014 (uno dei due pilastri del Jobs Act). La votazione si è conclusa con 344 svoti favorevoli 184 voti contrari. Gli onorevoli in aula e che hanno partecipato alla votazione sono stati 528. Si evidenzia che la maggioranza era fissata a quota 265. Il voto finale sul provvedimento in questione si terrà domani alle ore 12:00.

Qui di seguito, si riporta la ricostruzione del testo frutto degli emendamenti apportati dalla Commissione Lavoro e su cui è stata posta la questione di fiducia.

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Decreto-legge 20 marzo 2014, n. 34, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 66 del 20 mar-zo 2014.
Testo del decreto-legge comprendente le modificazioni apportate dalla Commissione La-voro della Camera dei Deputati

Disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell’occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese.

IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

Visti gli articoli 77 e 87 della Costituzione;

Ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di emanare disposizioni volte a semplificare alcune tipologie contrattuali di lavoro, al fine di generare nuova occupazione, in particolare giovanile;

Ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di semplificare le modalità attraverso cui viene favorito l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro;

Ritenuta altresì la straordinaria necessità ed urgenza di semplificare e razionalizzare gli adempimenti a carico delle imprese in relazione alla verifica della regolarità contributiva;

Ritenuta, in fine, la straordinaria necessità ed urgenza di individuare ulteriori criteri per il riconoscimento della riduzione contributiva per i datori di lavoro che stipulano contratti di solidarietà che prevedono la riduzione dell’orario di lavoro, nonché di incrementare le risorse finanziarie destinate alla medesima finalità;

Vista la deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del 12 marzo 2014;

Sulla proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri e del Ministro del lavoro e delle politiche sociali;

 

Capo I
DISPOSIZIONI IN MATERIA DI CONTRATTO DI LAVORO A TERMINE E DI APPREN-DISTATO

Articolo 1.
Semplificazione delle disposizioni in materia di contratto di lavoro a termine

1. In considerazione della perdurante crisi occupazionale e nelle more dell’adozione di provvedimenti volti al riordino delle forme contrattuali di lavoro, al fine di rafforzare le opportunità di Ingresso nel mercato del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione e fermo restando che il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro, al decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) all’articolo 1:
1) al comma 1: le parole da «a fronte» a «di lavoro.» sono sostituite dalle seguenti: «di durata non superiore a trentasei mesi, comprensiva di eventuali proroghe, concluso fra un datore di lavoro e un lavoratore per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione, sia nella forma del contratto a tempo determinato, sia nell’ambito di un contratto di somministrazione a tempo determinato ai sensi del comma 4 dell’articolo 20 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276. Fatto salvo quanto disposto dall’articolo 10, comma 7, il numero complessivo di contratti a tempo determinato stipulati da ciascun datore di lavoro ai sensi del presente articolo non può eccedere il limite del 20 per cento del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1 gennaio dell’anno di assunzione. Per i datori di lavoro che occupano fino a cinque dipendenti è sempre possibile stipulare un contratto di lavoro a tempo determinato.»;
2) il comma 1-bis è abrogato;
3) il comma 2 è sostituito dal seguente: «2. L’apposizione del termine di cui al comma 1 è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto.»;
b) all’articolo 4, comma 1, secondo periodo, le parole da: «la proroga» fino a: «si riferisca» sono sostituite dalle seguenti: «le proroghe sono ammesse, fino ad un massimo di cinque volte, nell’arco dei complessivi trentasei mesi, indipendentemente dal numero dei rinnovi e a condizione che si riferiscano»;
b-bis) all’articolo 4, il comma 2 è abrogato;
b-ter) all’articolo 5, comma 2, le parole: «, instaurato anche ai sensi dell’articolo 1, comma 1-bis,» sono soppresse;
b-quater) all’articolo 5, comma 4-bis, le parole da: «ai fini del computo» fino a: «somministrazione di lavoro a tempo determinato» sono sostituite dalle seguenti: «ai fini del suddetto computo del periodo massimo di durata del contratto a tempo determinato, pari a trentasei mesi, si tiene altresì conto dei periodi di missione aventi ad oggetto mansioni equivalenti, svolti fra i medesimi soggetti, ai sensi dell’articolo 20 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni, inerente alla somministrazione di lavoro a tempo determinato»;
b-quinquies) all’articolo 5, comma 4-quater, sono aggiunti, in fine, i seguenti periodi: «Fermo restando quanto già previsto dal presente articolo per il diritto di precedenza, per le lavoratrici il congedo di maternità di cui all’articolo 16, comma 1, del testo unico di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, e successive modificazioni, intervenuto nell’esecuzione di un contratto a termine presso la stessa azienda, concorre a determinare il periodo di attività lavorativa utile a conseguire il diritto di precedenza di cui al primo periodo. Alle medesime lavoratrici è altresì riconosciuto, con le stesse modalità di cui al presente comma, il diritto di precedenza anche nelle assunzioni a tempo determinato effettuate dal datore di lavoro entro i successivi dodici mesi, con riferimento alle mansioni già espletate in esecuzione dei precedenti rapporti a termine»;
b-sexies) all’articolo 5, comma 4-sexies, è aggiunto, in fine, il seguente periodo:
«Il datore di lavoro è tenuto ad informare il lavoratore del diritto di precedenza di cui ai commi 4-quater e 4-quinquies, mediante comunicazione scritta da consegnare al momento dell’assunzione»;
b-septies) all’articolo 5, dopo il comma 4-sexies è aggiunto il seguente:
«4-septies. I lavoratori assunti a termine in violazione del limite percentuale di cui all’articolo 1, comma 1, sono considerati lavoratori subordinati con contratto a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto di lavoro»;
b-octies) all’articolo 10, comma 7, alinea, primo periodo, le parole: «ai sensi dell’articolo 1, commi 1 e 1-bis,» sono sostituite dalle seguenti: «ai sensi dell’articolo 1, comma 1,».
2. Al decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) all’articolo 20:
1) al comma 4, i primi due periodi sono soppressi e, al terzo periodo, dopo le parole: «della somministrazione» sono inserite le seguenti: «di lavoro»;
2) il comma 5-quater è abrogato;
b) all’articolo 21, comma 1, lettera c), le parole: «ai commi 3 e 4» sono sostituite dalle seguenti: «al comma 3».
2-bis. Ai fini della verifica degli effetti delle disposizioni del presente capo, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, decorsi dodici mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, presenta una relazione alle Camere, evidenziando in particolare gli andamenti occupazionali e l’entità del ricorso al contratto a tempo determinato e al contratto di apprendistato, ripartito per fasce d’età, genere, qualifiche professionali, aree geografiche, durata dei contratti, dimensioni e tipologia di impresa e ogni altro elemento utile per una valutazione complessiva del nuovo sistema di regolazione di tali rapporti di lavoro in relazione alle altre tipologie contrattuali, tenendo anche conto delle risultanze delle comunicazioni di assunzione, trasformazione, proroga e cessazione dei rapporti di lavoro derivanti dal sistema informativo delle comunicazioni obbligatorie già previsto dalla legislazione vigente.
2-ter. La sanzione di cui all’articolo 5, comma 4-septies, del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, introdotto dalla lettera b)-septies del comma 1 del presente articolo, non si applica per i rapporti di lavoro instaurati precedentemente alla data di entrata in vigore del presente decreto, che comportino il superamento del limite percentuale di cui all’articolo 1, comma 1, del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, come modificato dal comma 1, lettera a), numero 1), del presente articolo.
2-quater. All’articolo 4, comma 4-bis, del decreto-legge 21 maggio 2013, n. 54, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 luglio 2013, n. 85, le parole: «fino al 31 luglio 2014» sono sostituite dalle seguenti: «fino al 31 luglio 2015».

Articolo 2.
Semplificazione delle disposizioni in materia di contratto di apprendistato

1. Al decreto legislativo 14 settembre 2011, n. 167, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) all’articolo 2:
1) al comma 1, la lettera a) è sostituita dalla seguente:
«a) forma scritta del contratto e del patto di prova. Il contratto di apprendistato contiene, in forma sintetica, il piano formativo individuale definito anche sulla base di moduli e formulari stabiliti dalla contrattazione collettiva o dagli enti bilaterali »;
2) al comma 3-bis, il primo periodo è sostituito dal seguente: «Ferma restando la possibilità per i contratti collettivi nazionali di lavoro, stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale, di individuare limiti diversi da quelli previsti dal presente comma, esclusivamente per i datori di lavoro che occupano almeno trenta dipendenti l’assunzione di nuovi apprendisti è subordinata alla prosecuzione, a tempo indeterminato, del rapporto di lavoro al termine del periodo di apprendistato, nei trentasei mesi precedenti la nuova assunzione, di almeno il 20 per cento degli apprendisti dipendenti dallo stesso datore di lavoro»;
3) il comma 3-ter è abrogato;
b) all’articolo 3 è aggiunto, in fine, il seguente comma: «2-ter. Fatta salva l’autonomia della contrattazione collettiva, in considerazione della componente formativa del con-tratto di apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale, al lavoratore è riconosciuta una retribuzione che tenga conto delle ore di lavoro effettivamente prestate nonché delle ore di formazione almeno nella misura del 35% del relativo monte ore complessivo.»;
c) all’articolo 4, comma 3, sono aggiunti, in fine, i seguenti periodi: «Qualora la Regione non provveda a comunicare al datore di lavoro, entro quarantacinque giorni dalla comunicazione dell’instaurazione del rapporto, le modalità per usufruire dell’offerta formativa pubblica ai sensi delle linee guida adottate dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano in data 20 febbraio 2014, il datore di lavoro non è tenuto ad integrare la formazione di tipo professionalizzante e di mestiere con quella finalizzata all’acquisizione di competenze di base e trasversali. La comunicazione dell’instaurazione del rapporto di lavoro si intende effettuata dal datore di lavoro ai sensi dell’articolo 9-bis del decreto-legge 1 ottobre 1996, n. 510, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 novembre 1996, n. 608, e successive modificazioni».
2. All’articolo 1 della legge 28 giugno 2012, n. 92, il comma 19 è abrogato.
2-bis. All’articolo 8-bis, comma 2, secondo periodo, del decreto-legge 12 settembre 2013, n. 104, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 2013, n. 128, dopo le parole: «Il programma contempla la stipulazione di contratti di apprendistato» sono inserite le seguenti: «che, ai fini del programma sperimentale, possono essere stipulati anche in deroga ai limiti di età stabiliti dall’articolo 5 del testo unico di cui al decreto legislativo 14 settembre 2011, n. 167».

Articolo 2-bis.
Disposizioni transitorie

1. Le disposizioni di cui agli articoli 1 e 2 si applicano ai rapporti di lavoro costituiti successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto. Sono fatti salvi gli effetti già prodotti dalle disposizioni introdotte dal presente decreto.
2. In sede di prima applicazione del limite percentuale di cui all’articolo 1, comma 1, se-condo periodo, del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, introdotto dall’articolo 1, comma 1, lettera a), numero 1), del presente decreto, conservano efficacia, ove diversi, i limiti percentuali già stabiliti dai vigenti contratti collettivi nazionali di lavoro.
3. Il datore di lavoro al quale non si applicano i limiti percentuali già stabiliti dai vigenti contratti collettivi nazionali di lavoro di cui al comma 2, che, alla data di entrata in vigore del presente decreto, abbia in corso rapporti di lavoro a termine che comportino il superamento del limite percentuale di cui all’articolo 1, comma 1, secondo periodo, del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, introdotto dall’articolo 1, comma 1, lettera a), numero 1), del presente decreto, è tenuto a rientrare nel predetto limite entro il 31 dicembre 2014. In caso contrario, il datore di lavoro, successivamente a tale data, non può stipulare nuovi contratti di lavoro a tempo determinato fino a quando non rientri nel limite percentuale di cui al citato articolo 1, comma 1, secondo periodo, del decreto legislativo n. 368 del 2001.

Capo II
MISURE IN MATERIA DI SERVIZI PER IL LAVORO, DI VERIFICA DELLA REGOLARITÀ CONTRIBUTIVA E DI CONTRATTI DI SOLIDARIETÀ

Articolo 3.
Elenco anagrafico dei lavoratori

1. All’articolo 4, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 7 luglio 2000, n. 442, le parole: «Le persone» sono sostituite dalle seguenti: «I cittadini italiani nonché i cittadini di Stati membri dell’Unione europea e gli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia», la parola: «ammesse» è sostituita dalla seguente: «ammessi», le parole: «inoccupate, disoccupate, nonché occupate» sono sostituite dalle seguenti:
«inoccupati, disoccupati ovvero occupati» e la parola: «inserite» è sostituita dalla seguente: «inseriti».
2. All’articolo 2, comma 1, del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181, le parole:
«nel cui ambito territoriale si trovi il domicilio del medesimo», sono sostituite con le seguenti: «in ogni ambito territoriale dello Stato».

Articolo 4.
Semplificazioni in materia di documento di regolarità contributiva

1. A decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto di cui al comma 2, chiunque vi abbia interesse, compresa la medesima impresa, verifica con modalità esclusivamente telematiche ed in tempo reale la regolarità contributiva nei confronti dell’INPS, dell’INAIL e, per le imprese tenute ad applicare i contratti del settore dell’edilizia, nei confronti delle Casse edili. La risultanza dell’interrogazione ha validità di 120 giorni dalla data di acquisizione e sostituisce ad ogni effetto il Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC), ovunque previsto, fatta eccezione per le ipotesi di esclusione individuate dal decreto di cui al comma 2.
2. Con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze e, per i profili di competenza, con il Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, sentiti l’INPS, l’INAIL e la Commissione nazionale paritetica per le Casse edili, da emanarsi entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, sono definiti i requisiti di regolarità, i contenuti e le modalità della verifica nonché le ipotesi di esclusione di cui al comma 1.
Il decreto di cui al presente comma è ispirato ai seguenti criteri:
a) la verifica della regolarità in tempo reale riguarda i pagamenti scaduti sino all’ultimo giorno del secondo mese antecedente a quello in cui la verifica è effettuata, a condizione che sia scaduto anche il termine di presentazione delle relative denunce retributive, e comprende anche le posizioni dei lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa anche a progetto che operano nell’impresa;
b) la verifica avviene tramite un’unica interrogazione presso gli archivi dell’INPS, dell’INAIL e delle Casse edili che, anche in cooperazione applicativa, operano in integrazione e riconoscimento reciproco, ed è eseguita indicando esclusivamente il codice fiscale del soggetto da verificare;
c) nelle ipotesi di godimento di benefìci normativi e contributivi sono individuate le tipologie di pregresse irregolarità di natura previdenziale ed in materia di tutela delle condizioni di lavoro da considerare ostative alla regolarità, ai sensi dell’articolo 1, comma 1175, della legge 27 dicembre 2006, n. 296.
3. L’interrogazione eseguita ai sensi del comma 1, assolve all’obbligo di verificare la sussistenza del requisito di ordine generale di cui all’articolo 38, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, presso la Banca dati nazionale dei contratti pubblici, istituita presso l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture dall’articolo 62-bis del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82. Dalla data di entrata in vigore del decreto di cui al comma 2, sono inoltre abrogate tutte le disposizioni di legge incompatibili con i contenuti del presente articolo.
4. Il decreto di cui al comma 2 può essere aggiornato sulla base delle modifiche normative o della evoluzione dei sistemi telematici di verifica della regolarità contributiva.
5. All’articolo 31, comma 8-bis, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, le parole: «, in quanto compatibile, » sono soppresse.
5-bis. Ai fini della verifica degli effetti delle disposizioni di cui al presente articolo, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, decorsi dodici mesi dalla data di entrata in vigore del decreto di cui al comma 2, presenta una relazione alle Camere.
6. All’attuazione di quanto previsto dal presente articolo, le amministrazioni provvedono con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

Articolo 5.
Contratti di solidarietà

1. All’articolo 6 del decreto-legge 1 ottobre 1996, n. 510, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 novembre 1996, n. 608, dopo il comma 4 è inserito il seguente: «4-bis. Con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sono stabiliti criteri per la concessione del beneficio della riduzione contributiva di cui al comma 4, entro i limiti delle risorse disponibili. Il limite di spesa di cui all’articolo 3, comma 8, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, come rideterminato dall’articolo 1, comma 524, della legge 23 dicembre 2005, n. 266, a decorrere dall’anno 2014, è pari ad euro 15 milioni annui.».
1-bis. All’articolo 6, comma 4, del decreto-legge 1 ottobre 1996, n. 510, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 novembre 1996, n. 608, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) al secondo periodo, le parole da: «è del 25 per cento» fino alla fine del periodo sono sostituite dalle seguenti: «è del 35 per cento.»;
b) il terzo periodo è soppresso.
1-ter. Al fine di favorire la diffusione delle buone pratiche e il monitoraggio costante delle risorse impiegate, i contratti di solidarietà sottoscritti ai sensi della normativa vigente sono depositati presso l’archivio nazionale dei contratti e degli accordi collettivi di lavoro, di cui all’articolo 17 della legge 30 dicembre 1986, n. 936.

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Grecia: il ritorno alla terra.

Dopo sei anni di recessione la Grecia è ormai esangue. Come ultima istanza davanti alla disperazione sempre più giovani stanno tornando alla terra. Con successi ma anche delusioni.

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Tratto da Le Courrier des Balkans, pubblicato originariamente il 14 aprile 2014, di Pavlos Kapantais , postato su Osservatorio Balcani e Caucaso il 23 aprile 2014

Sono ormai sei anni che la Grecia è in recessione e quattro che ha subito la cura austerità imposta dalla Troika. La disoccupazione, esplosa durante la crisi, è di gran lunga la più elevata in tutta la zona euro. Secondo Eurostat arriva ormai al 27,5% e supera il 58% tra i giovani.
Una delle rare porte di sicurezza per sfuggire dalle conseguenze della crisi è il ritorno alla terra. Non stupisce se si considera che l’agricoltura è rimasta il settore primario dell’economia greca sino al 1970, prima di perdere progressivamente terreno rispetto all’industria e ai servizi.
Anche se è difficile inquadrare il fenomeno con certezza dato che il ministero dell’Agricoltura non ha effettuato alcun censimento e verifica – e quindi quando si danno cifre significa entrare nel campo delle supposizioni – il fenomeno è reale. Stime ufficiose di vari organismi sindacali parlano di circa 40.000 nuovi contadini dal 2010. “La maggior parte di loro sono giovani che si ritrovano senza lavoro a causa della crisi e che rifiutano di rimanere a braccia incrociate ad attendere la ripresa”, afferma Ilias Kantaros, agronomo.

Dal solare ai limoni

Giannis è uno di loro. Due anni fa aveva una piccola azienda di pannelli fotovoltaici. Aveva avuto l’idea di investire nell’energia pulita ancora quand’era all’università. In quel periodo lo stato greco favoriva lo sviluppo di energie rinnovabili e si promettevano carriere sicure e ricche a chi decideva di specializzarsi in questo specifico campo.
Ora invece Giannis è ritornato a coltivare i campi del nonno, morto qualche anno fa, e produce e vende limoni ed arance. Nonostante i diversi programmi di sostegno promessi dal governo per tutti coloro i quali, come lui, hanno avviato una nuova attività in agricoltura, Giannis non è ancora ufficialmente agricoltore. “Rischia di costarmi molto più dei vantaggi che potrei avere”, si giustifica.
Per vendere i suoi prodotti Giannis utilizza una licenza di sua madre. Dopo il suo primo anno completo di attività è riuscito a guadagnare abbastanza per poter vivere di quest’attività. E soprattutto “questa vita mi piace”. “Si ritorna all’essenziale: aria fresca, natura, attività fisica. Mio nonno sarebbe fiero di me!”.

Non è facile

Ciononostante questa modalità di ritorno alla terra non è senza rischi perché se le possibilità di riconversione sono reali, occorre fare attenzione agli specchietti per le allodole. “Numerosi consiglieri mal intenzionati approfittano dell’angoscia delle persone che si ritrovano improvvisamente senza risorse per proporre loro colture che non hanno sostenibilità finanziaria in Grecia”, sottolinea Ilias Kantaros.
Queste colture sono in particolare prodotti esotici, per i quali la domanda è molto debole sul mercato greco mentre il loro costo di produzione in Grecia è molto superiore che in altri paesi. Si rivelano in realtà investimenti più sicuri la coltivazione di colture tradizionali quali frumento e lenticchie.
La sola eccezione alla regola sembra essere l’allevamento di lumache. La ragione è semplice: la domanda nel mondo supera ancora l’offerta. Vi è quindi la certezza di riuscire a vendere tutto quanto si produce.

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Imparare dalle lumache

Aggeliki Miha, 33 anni, alleva lumache ormai da tre anni. Era croupier al casinò di Loutraki durante gli anni d’oro dell’economia greca e si è trovata disoccupata nel 2009.
Nel 2011, stanca di cercare invano un lavoro decente, Aggeliki ha deciso di investire tutti i suoi risparmi per diventare allevatrice di lumache. Per farlo, ha chiesto al padre di cedergli una parte di un terreno di famiglia e ha affittato un altro terreno per riuscire a produrre, a partire dal primo anno, due o tre tonnellate di lumache. Inoltre è stata obbligata a tornare a vivere a casa dei genitori nel suo villaggio natale, Perahora, con i suoi due figli. Suo marito invece è rimasto a Tebe, dove continua a lavorare in una fabbrica.
Da allora Aggeliki ha imparato molto, ma non è ancora riuscita a far quadrare i conti. Alcuni errori da debuttante dovuti alla fretta di progredire il più rapidamente possibile l’hanno portata nei primi due anni ad una produzione ben inferiore a quanto auspicato. Ma nonostante questo resta fiduciosa: è riuscita a vendere tutto ciò che ha prodotto.
Ormai è ben entrata nel ruolo e spesso viene invitata a conferenze per dare consigli a chi volesse tentare la stessa avventura. “E’ una forma di riconoscenza che mi fa realmente piacere. E spero veramente di riuscire ad aiutare la gente a non fare i miei stessi errori”.
Una mentalità di cooperazione che sarà fondamentale per costruire la Grecia di domani.

Fonte: Osservatorio Balcani e Caucaso

ROMA VISTA DA PASOLINI.

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di Michele De Sanctis

Pasolini Roma è il titolo della mostra inaugurata lo scorso 15 aprile al Palazzo delle Esposizioni e che resterà allestita nella Città Eterna fino al 20 luglio, quando proseguirà il suo viaggio a Berlino dall’11 settembre, fino ad arrivare a Barcellona e Parigi. Tra video, installazioni, fotografie, frammenti di film, manoscritti, sceneggiature, storyboard, articoli di giornali (c’è anche il celebre “Io so” pubblicato sul Corriere della sera nel 1974), disegni e dipinti, qui troverete il pensiero e l’uomo Pasolini.

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La mostra si sviluppa cronologicamente in sette sezioni progressive e le immagini videoproiettate si inseguono, una dopo l’altra: Pasolini insieme agli amici, con il fratello partigiano Guido, con i suoi alunni e la madre. Pasolini, nato nel 1922 a Bologna, aveva trascorso la giovinezza tra il capoluogo emiliano e il Friuli e arrivò a Roma con sua madre nel 1950. Lì costruì il successo della sua opera letteraria e cinematografica, spesso legandola alla città, alle sue persone e alla sua cultura, fino a quando fu ucciso al Lido di Ostia nel 1975. Venticinque anni di universo pasoliniano: i suoi luoghi, i suoi volti, l’artista. La sua Roma, di cui fu il “cantore delle borgate” e, nel contempo, un capro espiatorio per la sua diversità, «un perseguitato», come lui stesso si definiva.

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Pasolini Roma
Fino al 20 luglio
Roma, Palazzo delle Esposizioni
A cura di Gianni Borgna, Alain Bergala, Jordi Balló.
Info: http://www.palazzoesposizioni.it/categorie/mostra-pasolini-roma

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CREATIVITÀ.

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Fiscal compact: la paura (infondata) dei 50 miliardi.

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dal Blog di Stefano Feltri su Il Fatto Quotidiano – Blog. Post del 9 aprile 2014

Possiamo mai tagliare 50 miliardi all’anno per un ventennio?”, si chiedeva Beppe Grillo nell’intervista al Fatto di sabato scorso. Risposta: no, perché non è sostenibile e no, perché non è questo che impongono i vincoli di bilancio europei, nonostante ormai si sia affermata l’idea che Fiscal Compact e Six Pack impongano manovre gigantesche ogni anno. Non è così, come spiega bene Franco Mostacci, ricercatore dell’Istat, sul suo sito.

Il cosiddetto Six Pack (regolamenti europei) impone di ridurre di un ventesimo all’anno la parte di debito pubblico che eccede il 60 per cento del Pil. Noi abbiamo il 132 per cento circa e quindi, con un conto a spanne, dovremmo ridurre il debito in valore assoluto di 50 miliardi all’anno. Ma la regola – combinata con il vincolo al rispetto del 3 per cento del deficit/Pil – funziona in un altro modo. L’Italia viene considerata in pari se il debito si sarà ridotto al giusto ritmo tra 2012 e 2014, oppure se lo farà nei due anni successivi oppure ancora se si sarà ridotto del ventesimo tra 2012 e 2014 considerato sia il Pil che il debito corretti per gli effetti della recessione.

Stando così le cose, l’Italia sarà a posto senza bisogno di alcuna manovra se si rispettano i numeri che hanno stimato Istat e Bankitalia: una crescita reale del Pil dello 0,6 nel 2014 e dell’1,2 per cento nel 2015 sarebbe sufficiente, tenendo ferme le altre variabili (purché non salga troppo il debito pubblico, per esempio per pagare gli arretrati della Pubblica amministrazione). È più stringente l’Obiettivo di medio termine (MTO) che riguarda l’indebitamento strutturale, cioè i conti pubblici al netto degli effetti del ciclo economico e delle misure una tantum. Si considera la distanza tra il Pil potenziale (quanto crescerebbe l’economia se corresse senza i freni della crisi e senza stimolare l’inflazione) e il Pil che si registra davvero. Una volta calcolato l’output gap, cioè quanto il Pil è frenato da dinamiche esterne che non dipendono dalle politiche adottate, si calcola il saldo di bilancio corretto per il ciclo, considerando l’elasticità delle entrate alle variazioni di Pil (per ogni 100 euro di Pil in meno, quanti sono gli euro che mancano al Tesoro?). Poi si tolgono le misure una tantum. Et voilà il saldo di bilancio strutturale. La correzione deve essere di almeno 0,5 punti di Pil all’anno, per ottenerla servono tagli duraturi di circa 4-5 miliardi all’anno.

Morale: incrociando le dita, se le previsioni di crescita vengono rispettate, se il debito non sale troppo e se non arriva la deflazione, la gabbia del rigore europeo ci costa circa 5 miliardi all’anno. Che non sono pochi, ma sempre meglio di 50.

Fonte: I blog de Il Fatto Quotidiano

MOBBING: È IL LAVORATORE A DOVERNE PROVARE LA SUSSISTENZA.

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di Michele De Sanctis

Il mobbing è uno dei problemi sociali più frequenti negli ambienti di lavoro. Può, in generale, identificare un insieme di atteggiamenti violenti che prendono di mira un singolo all’interno di un ambiente sostanzialmente ostile, sia da parte dei superiori (mobbing verticale o bossing) sia da parte dei colleghi (mobbing orizzontale). Non esiste un criterio specifico per individuare tali atti, nei quali rientra, quindi, ogni forma di angheria perpetrata da una o più persone nei confronti di un individuo, né il Legislatore è finora intervenuto a fornirne una disciplina. In carenza di un specifico dettato normativo, la fattispecie del mobbing trova fondamento nel disposto di cui all’art. 2087 c.c. dedicato alla tutela delle condizioni di lavoro, in base al quale “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. La sua costruzione giuridica è, pertanto, in parte di natura dottrinaria, in parte di derivazione giurisprudenziale. Sono molti, per esempio, gli interventi della Cassazione in materia. Dall’inizio dell’anno, la Suprema Corte è già tornata sul punto con diverse sentenze, chiarendone, peraltro, caratteri e aspetti probatori.

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In un caso, con sentenza 898/14 Cass. Civ., Sez. Lav., del 17 gennaio 2014, si è stabilito che il lavoratore ha l’onere di provare il carattere persecutorio dei comportamenti del datore di lavoro, l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente, il nesso eziologico e l’intento persecutorio. Nella fattispecie concreta, una lavoratrice si era rivolta al Tribunale per ottenere l’illegittimità delle note di qualifica (mediocre) attribuitele dal datore di lavoro e la presunta illegittimità della condotta di mobbing di cui era stata vittima. La ricorrente aveva, inoltre, richiesto la condanna dello stesso datore di lavoro al pagamento del premio di rendimento relativamente agli anni in cui le era stato attribuito il giudizio di mediocre; oltreché al risarcimento di tutti i danni subiti a causa della condotta persecutoria: danno biologico, danno esistenziale e danno alla professionalità. La domanda, tuttavia, accolta solo parzialmente, sia in primo che in secondo grado, è stata respinta anche dalla Cassazione. Alla lavoratrice, infatti, è stato riconosciuto il premio di rendimento, vista l’illegittimità delle note di qualifica attribuitele, ma nessun risarcimento è stato disposto in relazione alla condotta di mobbing. Non sussiste, infatti, a detta del Giudice di Legittimità, la condotta di mobbing. Rigettando, quindi, il ricorso della lavoratrice, a Piazza Cavour hanno precisato che per mobbing deve intendersi la condotta del datore di lavoro consistente in «reiterati e prolungati comportamenti ostili, di intenzionale discriminazione e di persecuzione psicologica, con mortificazione ed emarginazione del lavoratore» e che sono quattro gli elementi che configurano la condotta di cui si tratta: la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente, il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore, e, infine, la prova dell’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio. Tutti elementi, questi, che devono essere provati dal lavoratore, ma nel caso di specie ciò che mancava era proprio tale tipo di prova.

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Con la sentenza n. 1149/2014 la Cassazione Civile, Sez. Lav., lo scorso 21 gennaio ha, poi, ribadito come il termine mobbing individui, in ambito lavorativo, un fenomeno sostanzialmente consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori e protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito ovvero dal suo capo, caratterizzati da un intento persecutorio ed emarginatorio, finalizzato all’obiettivo primario di escludere tale soggetto dal gruppo. Anche in questo caso, il lavoratore che si riteneva mobbizzato aveva descritto una serie di condotte e comportamenti posti in essere dal proprio datore di lavoro e, in particolare, da numerosi superiori gerarchici avvicendatisi nel tempo, affermando che, nel complesso, tali condotte evidenziavano la chiara volontà di emarginarlo e discriminarlo. Tuttavia, già in appello era emerso come il ricorrente si fosse limitato a fornire, a distanza di molti anni, una propria versione dei fatti contrapposta a quella della società, sulla base di una serie di affermazioni prive di qualsiasi sostegno probatorio. In relazione agli episodi più gravi che lo vedevano, peraltro, accusato di aggressione ai propri superiori, sia verbale che fisica, si era, infatti, limitato a respingere le accuse a suo carico, negando i fatti, senza, però, fornire alcuna valida prova a sostegno della propria versione degli fatti. Anche secondo la Cassazione, in difetto di elementi probatori, non è, però, emerso alcun intento discriminatorio della società, che si era semplicemente limitata ad applicare, a fronte di palesi atti di insubordinazione o di violazione delle regole aziendali, la sanzione disciplinare più lieve e talvolta, in caso di mancanza di chiari elementi di prova (nonostante l’accusa provenisse da superiori gerarchici del ricorrente) non aveva neppure provveduto disciplinarmente nei confronti del presunto lavoratore mobbizato.

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Da ultimo, con sentenza n. 8804 del 16 aprile 2014, la Cassazione Civile, Sez. Lavoro, ha chiarito che per ottenere il risarcimento del danno alla persona causato da mobbing aziendale (e quindi per provare la sussistenza stessa della fattispecie) il lavoratore deve necessariamente provare che esiste un nesso causale tra le vessazioni subite durante l’attività lavorativa e la patologia insorta. Nel caso di specie, secondo il ricorrente, l’infarto cardiaco, di cui era rimasto vittima, sarebbe insorto a causa dell’azione combinata del sovraccarico di lavoro, delle vessazioni subite dal datore sul luogo di lavoro e della sottoposizione ad alcuni procedimenti penali (successivamente archiviati) legati all’attività lavorativa. La sua domanda era, perciò, volta ad ottenere il risarcimento del danno. La domanda era stata respinta sia in primo che in secondo grado. Di qui il ricorso in Cassazione. Nel rigettarlo, tuttavia, la Suprema Corte ha sottolineato, anche in questo caso, come il ricorrente non avesse assolto al “proprio preliminare onere di dimostrare l’esistenza di una condotta datoriale inadempiente agli obblighi che derivano dall’osservanza delle misure che debbono essere adottate per tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro”. Infatti, solo in presenza della prova del nesso eziopatologico il datore di lavoro è tenuto a dimostrare di aver adottato tutte le misure atte a scongiurare il verificarsi del danno. Ma nel caso di specie, il lavoratore non aveva dimostrato l’esistenza del danno alla salute connesso con la nocività dell’ambiente di lavoro.

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L’orientamento dei Giudici di Piazza Cavour è, quindi, pacifico: nessun risarcimento dei danni alla salute da mobbing spetta al lavoratore che non ne dimostra il nesso causale.

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Pillole di globalizzazione. L’analisi storica del fenomeno

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di Germano De Sanctis e Luigia Belli

Oggi, BlogNomos inizia una serie di post dedicata al fenomeno della globalizzazione, esaminandolo da un punto di vista storico, economico, sociale ed antropologico. Il primo post è dedicato all’analisi storica della globalizzazione in modo da poter permettere ai nostri lettori di avere un quadro esaustivo degli accadimenti che hanno segnato lo sviluppo della società mondiale nel corso dell’ultimo trentennio.

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La crisi economica che imperversa da anni ci ha costretto a familiarizzare con molti termini macroeconomici. In particolare, ricorre sovente il termine “globalizzazione”, per individuare uno dei fenomeni più significativi dell’economia contemporanea.

Tuttavia, raramente ci si sofferma a pensare che la globalizzazione non è un fenomeno recente, bensì rappresenta una caratteristica degli scambi economici da più di trent’anni.
Infatti, il termine “globalizzazione” fu utilizzato per la prima volta dall’economista Theodore Levitt, docente alla Harvard Business School, nel maggio del 1983, quando, in una sua pubblicazione scientifica scrisse che la globalizzazione del mercato era a portata di mano. È bene precisare che Theodore Levitt si riferiva soprattutto all’evoluzione dei consumi e del marketing.
Tale visione macroeconomica s’incanalava su un filone interpretativo, che quindici anni prima era stato avviato sul piano dell’informazione e dei valori culturali dal semiologo Marshall McLuhan, il quale aveva teorizzato la capacità dei mass media di trasformare il mondo in un “villaggio globale”. In altri termini, Theodore Levitt ebbe l’intuizione di trasferire le teorie di Marshall McLuhan su un piano squisitamente economico.
D’altronde, così come aveva presagito McLuhan, le sempre più diffuse nuove tecnologie di comunicazione avevano già reso il mondo più piccolo, al punto tale che i messaggi pubblicitari raggiungevano regolarmente ogni angolo del pianeta, producendo una omogeneizzazione dei desideri dei consumatori, ormai resi inconsciamente assuefatti ai prodotti standardizzati di un unico mercato globale.
Secondo Theodore Levitt, l’avvento di tale nuovo sistema globale avrebbe comportato il declino delle vecchie società multinazionali strutturate per proporre prodotti diversificati e adattati ai singoli gusti dei vari mercati nazionali, per lasciare spazio alle imprese globali capaci d’imporre i medesimi prodotti uniformi ad un unico mercato mondiale, quale espressione di esigenze consumieristiche ormai omogenee. Tale metodo di produzione e vendita standardizzato su scala mondiale sarebbe stato in grado di realizzare immense economie di scala e profitti incommensurabili.

Ovviamente, un unico mercato globale necessita di un’unica strategia di marketing globale. Tale esigenza fu colta, in primis, dalla nota società pubblicitaria Saatchi&Saatchi, la quale riscontrò le enormi opportunità offerte da una politica commerciale capace di abbracciare il mondo intero, attraverso la diffusione di un’unica cultura consumistica.

La globalizzazione mostrò tutta la sua forza espansiva nell’immediatezza della dissoluzione del sistema economico del Comecon (a cui appartenevano, tra l’altro, tutti i Paesi aderenti al Patto di Varsavia), successiva alla dissoluzione dell’Unione Sovietica ed alla la fine dei regimi ispirati al socialismo reale, instaurati in Europa Orientale dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. In altri termini, era scomparso dallo scenario mondiale l’unico sistema ideologico antagonista a quello capitalistico globalizzato.
Gli effetti di questa forza espansiva della globalizzazione possono essere sintetizzati nella simbolica apertura, nel 1990, del suo primo punto vendita sulla Piazza Rossa di Mosca da parte della nota catena di fast food McDonald.

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Tuttavia, in quegli anni, pur godendo di tali fattori favorevoli, il fenomeno della globalizzazione non riuscì a diffondersi con la velocità di cui è stato capace negli ultimi anni, in quanto, all’epoca, le barriere doganali dei singoli Stati erano ancora sufficientemente robuste.

Pertanto, si avviò una stagione caratterizzata da un forte spirito di liberalizzazione degli scambi commerciali, nella convinzione, fortemente radicata nella classe dirigente delle società statunitensi, che la globalizzazione avrebbe costituito una grande opportunità per aumentare i profitti e conquistare nuovi mercati.
Di conseguenza, gli Stati Uniti d’America si resero protagonisti della stipulazione di diversi accordi commerciali internazionali, finalizzati alla liberalizzazione degli scambi commerciali e dei movimenti di capitali. Si tratta della stagione dei negoziati nel GATT e, successivamente, nel WTO, nonché della creazione di uno spazio comune nordamericano di libero scambio (denominato North American Free Trade Agreement – NAFTA). Contestualmente, nasceva in Europa il mercato unico europeo.
Lo spirito di quell’epoca è sintetizzabile nelle parole che l’allora Presidente degli Stati Uniti d’America, Bill Clinton, pronunciò nel 1994, al momento della stipulazione del trattato che istituiva il NAFTA, ereditando gli esiti di un negoziato avviato e gestito in gran parte dall’Amministrazione repubblicana di George Bush senior. Bill Clinton asserì entusiasticamente che il libero scambio significava occupazione, in quanto avrebbe comportato l’aumento dei posti di lavoro per gli americani, precisando, al contempo, che tali nuove occupazioni sarebbero state anche meglio remunerate.
Questa nuova fase avviò definitivamente il processo di globalizzazione, rendendolo irreversibile e imponendo nuove regole all’economia mondiale, mutando il destino di interi popoli e sconvolgendo rapporti industriali e commerciali ormai consolidati dall’inizio della rivoluzione industriale.
È bene evidenziare che, ovviamente, il fenomeno della globalizzazione non si risolve esclusivamente nella stipulazione ed attuazione del NAFTA, ma bisogna prendere atto che tale trattato ha svolto un ruolo importante nell’evoluzione del fenomeno macroeconomico in questione. Infatti, il NAFTA ha abbattuto le barriere doganali negli scambi in tutto il Nord America, facendo, quindi, in modo che Canada, Stati Uniti e Messico diventassero un mercato unico, all’interno del quale potessero circolare liberamente i prodotti ed i capitali, ma non le persone, in quanto i flussi migratori dal Messico verso gli Stati Uniti d’America sono rimasti oggetto di imponenti restrizioni.
Nello stesso momento storico, in Europa si realizzò un’analoga esperienza di libero scambio, attraverso la costituzione del mercato unico europeo, il quale, come il NAFTA, è ispirato all’abbattimento delle frontiere doganali, ma non si è limitato a favorire la sola libera circolazione delle merci, bensì anche delle persone appartenenti agli Stati membri dell’Unione Europea.
Ciononostante, il NAFTA è più importante, poiché il suo ambito d’azione, comprendendo Stati Uniti d’America, Canada e Messico, definisce il più ricco mercato del pianeta, con una popolazione aggregata di circa mezzo miliardo di persone, con un PIL complessivo di quasi 20.000 miliardi di dollari ed un reddito pro capite di circa 40.000 dollari annui.
Inoltre, il mercato unico europeo, pur essendo stato delineato due anni prima del NAFTA (cioè, nel 1992), ne risulta ideologicamente gregario, in quanto come ben ha detto il premio Nobel dell’economia Milton Friedman, tali accordi sono tutti inseribili nell’ambito dell’ideologia neoliberista che, grazie all’opera del presidente statunitense repubblicano Ronald Reagan, dilagava nell’ideologia del mondo occidentale in quegli anni.
Anzi, il neoliberismo reaganiano si spinse fino a privatizzare interi settori dello Stato, fino a quel momento ritenuti essenziali, limitando enormemente il ruolo dello Stato nell’ambito delle politiche di Welfare. Si trattò di un fenomeno talmente radicato nella società statunitense, che la successiva Presidenza del democratico Bill Clinton non provò minimamente a contrastarlo.
Infine, con il passare del tempo, ci si è resi conto che il NAFTA è stato il prototipo del successivo e ben più ampio intervento macroeconomico realizzato dall’economia occidentale, concretizzatosi nelle pressoché contestuale istituzione del “World Trade Organization (WTO)”, ed ammissione della Repubblica Popolare Cinese nella nuova architettura degli scambi mondiali.

Infatti, è possibile scorgere un ruolo parallelo svolto dal Messico e dalla Repubblica Popolare Cinese, rispettivamente nel NAFTA e nel WTO. In entrambi casi, fatte le debite proporzioni di scala, i predetti paesi sono stati i destinatari di un violento e repentino processo di delocalizzazione dei siti produttivi, prima installati nei più ricchi paesi industrializzati. Tale fenomeno coinvolse molte imprese, non soltanto americane, ma anche giapponesi o sudcoreane che producevano per il mercato statunitense. L’obiettivo era ed è approfittare della contestuale presenza di una manodopera a basso costo, della compiacenza di sindacati deboli, della previsione di una modesta pressione fiscale e dell’esistenza di poche regole a tutela dell’ambiente e della sicurezza dei lavoratori.

Bisogna evidenziare che, nel corso degli anni Novanta del secolo scorso, lo sviluppo della globalizzazione fu aiutato anche dalla contemporanea rivoluzione tecnologica, che ha esaltato le potenzialità della mercato globalizzato. Infatti, la diffusione di massa del personal computer, l’avvento degli smartphone, unitamente all’ingresso di Internet nella nostra vita quotidiana, hanno reso ancora più facili ed efficaci le comunicazioni pubblicitarie globali.
Le reti informatiche hanno annullato ogni distanza nel già rimpicciolito mondo globalizzato, al punto che le grandi società statunitensi produttrici di beni di consumo hanno iniziato a trovare molto più conveniente abbandonare i loro tradizionali stabilimenti di produzione siti nella madrepatria, per trasferirli in paesi meno sviluppati e con costi della manodopera molto meno elevati.
Proprio in questo periodo storico, il mercato globale disegnato da Theodore Levitt perse i suoi connotati originari per degenerare in un fenomeno macroeconomico instabile e privo di una chiara regia politica, al punto che si cominciarono a diffondere i primi movimenti di difesa delle identità nazionali e culturali minacciate dalla standardizzazione coatta in corso.

Il definitivo affermarsi della globalizzazione nel corso dell’ultimo decennio del secolo scorso fu accompagnato dalla contestuale nascita dei primi movimenti culturali e sociali di opposizione a siffatto fenomeno. Tali prime forme di protesta (ancora in forma embrionale) furono favorite dalla crisi finanziaria del sud-est asiatico nel 1997, la quale fece emergere il primo leader antiglobalizzazione del Terzo mondo, il premier malese Mahathir Mohamad, che si scagliò contro gli speculatori della globalizzazione (ed in particolare, contro il magnate finanziario George Soros), nonché contro l’incontrollata e pericolosa libertà nei movimenti di capitali. Egli fu subito affiancato in Brasile dal politico e sindacalista Luiz Ignácio da Silva, meglio noto come Lula, il quale, in seguito, divenne anche Presidente del suo paese.
Tuttavia, si dovette aspettare il mese di dicembre del 1999, per vedere il battesimo di piazza del c.d. movimento “no global”. Infatti, in occasione del vertice WTO di Seattle, vi furono violente ed estese manifestazioni contro il processo di globalizzazione. Si trattava di un fronte di protesta molto eterogeneo, in quanto in esso confluivano gli ideali di una società più moderna ed equa, ma anche gli interessi egoistici di una visione del mondo antimoderna. L’attenzione per i problemi del terzo mondo e per l’ambiente coesistevano nel movimento insieme alla xenofobia, al protezionismo agricolo espresso dal francese Josè Bovè ed alla tutela dei privilegi dei c.d. “blue collars” statunitensi contro i meno fortunati colleghi operai messicani.

All’interno di tali movimenti, apparve subito evidente che il problema più preoccupante era riferibile alle condizioni in cui versavano i lavoratori. Tale consapevolezza portò alla ormai famosa “battaglia di Seattle” del 30 novembre 1999, quando quarantamila manifestanti assediarono il summit del WTO.
I rappresentanti dei Paesi aderenti al WTO commisero l’errore di derubricare sbrigativamente tali proteste come forme non organizzate di contestazione antisistemica. Invece, a ben vedere, tra i manifestanti, si poteva riscontrare la presenza dei sindacati statunitensi riuniti nell’AFL-CIO, dei verdi, dei terzomondisti, degli anarchici e dei famigerati “black-block”. Tale palese sordità alle nuove nascenti istanze di antiglobalizzazione era cagionata dal fatto che, in quegli anni, il pensiero unico neoliberista era ancora egemonico nell’establishment mondiale, tanto è vero che anche i dirigenti politici dei partiti di sinistra ne erano suggestionati. Basti ricordare, ad esempio, come tali convinzioni pervasero anche i vertici del partito comunista cinese, il quale vide soltanto i possibili effetti positivi della globalizzazione, escludendo categoricamente che l’adesione al WTO da parte della Repubblica Popolare Cinese potesse trasformare quest’ultima in una colonia industriale del capitalismo occidentale.

 

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Per assistere ad un primo ripensamento sulla bontà del processo di globalizzazione da parte dei vertici politici e dirigenziali nel mondo occidentale, bisogna attendere l’avvento della crisi che, dal 2009, ha coinvolto l’intera economia mondiale.

In quell’anno, Barack Obama, appena insediatosi come Presidente degli Stati Uniti d’America, varò una maxi-manovra antirecessiva del valore di 800 miliardi di dollari, denominata “American Recovery and Reinvestment Act”. Si trattò del primo segnale di un cambio di rotta. Infatti, all’interno di tale atto normativo, il legislatore statunitense introdusse nell’ordinamento giuridico nazionale la c.d. “Buy American Provision”, la quale è una clausola protezionista. Infatti, già dall’esame della sua denominazione (letteralmente, “compra americano”), emerge la volontà di destinare tutte le risorse contenute nella predetta manovra a favore delle imprese statunitensi, per favorire l’acquisto di beni di consumo prodotti negli Stati Uniti d’America. Tale decisione non fu scevra di conseguenze, in quanto molti partner commerciali, a cominciare dal Canada, fecero ricorso, denunciando una palese violazione del NAFTA.

Dopo più di trent’anni dalla sua teorizzazione, la globalizzazione è stata messa sotto processo in tutto il pianeta, a cominciare da quei Paesi e da quei settori culturali che l’avevano, in passato, esaltata.
Addirittura, sul sito internet del WTO, campeggia un approfondito studio avente ad oggetto le possibili soluzioni per rendere la globalizzazione socialmente sostenibile, sul fronte delle delocalizzazioni e dell’occupazione.
Anche il Fondo Monetario Internazionale (FMI), da sempre depositario dell’ortodossia liberista, ha pubblicato sul suo sito internet una ricerca sul fenomeno dettato dalla globalizzazione che porta all’abbattimento dei salari ed al trasferimento all’estero di posti di lavoro.
Il premio Nobel Paul Krugman, che era stato uno dei primi teorici della globalizzazione, ha recentemente affermato che il mercato globale è stato governato malissimo, mettendo in diretta relazione la stagnazione dei redditi da lavoro e la concorrenza dei Paesi privi di sindacati come la Repubblica Popolare Cinese.
Inoltre, gli studi più sofisticati evidenziano come la commistione tra la globalizzazione ed il progresso tecnologico sia stata la causa principale della riduzione della forza lavoro nelle mansioni meno qualificate, nell’ambito dei mercati del lavoro dei Paesi più industrializzati.

Volendo fare un bilancio di questo trentennio di evoluzione del fenomeno della globalizzazione, il dato che emerge più chiaramente è il suo nefasto impatto sociale sulle popolazioni di tutto il pianeta, associato alla degenerazione del sistema capitalistico portato alle sue estreme conseguenze.

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