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2014. Fuga dall’Italia.

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Secondo il 19° rapporto della Fondazione ISMU – Istituto per lo Studio della Multietnicità, nel 2012 sono stati circa 68.000 gli italiani che si sono trasferiti all’estero, ossia 18.000 in più del 2011. Le cause? Mancanza di lavoro e sistema sanitario insufficiente. Non è che sia una sorpresa, ma la realtà in cifre preoccupa, è inutile negarlo.
La prima causa è senza dubbio quella del mercato del lavoro bloccato, che non lascia possibilità ai giovani e ai disoccupati e inoccupati. Per questa ragione, in particolare, gli italiani emigrano e vanno a vivere in altri Paesi.
Il diciannovesimo rapporto sulle migrazioni presentato a Milano dall’ISMU lo scorso 13 dicembre riporta le cifre relative al 2012, ma non ci stupiremmo se il trend nel 2013 fosse ulteriormente peggiorato. Tant’è che l’Istituto prevede che entro il 2050 dal sud Italia se ne saranno andati 4 milioni di persone. Sembra quasi che tutti vogliano scappare dall’Italia. (Sembra?) Sembra anzi di essere tornati indietro di un secolo. Nel 1913 un italiano ogni 40 partiva in cerca di fortuna altrove. Il problema della disoccupazione, tuttavia, non è solo dei cittadini italiani ma anche di quelli stranieri: cala, infatti, anche il numero dei permessi di lavoro: 67 mila contro i 350 mila nel 2010.
Per gli stranieri, poi, al problema del lavoro si aggiunge anche quello della salute: uno su dieci non si rivolge al Sistema Sanitario Nazionale per motivi economici. Un problema che sta divenendo comune anche a noi cittadini, peraltro. A ciò si aggiunge, inoltre, la condizione degli irregolari (circa il 6 per cento del totale degli stranieri in Italia) che preferiscono non avere rapporti con le istituzioni per paura di essere denunciati.
Le cifre che riassunte fin qui sono disponibili sul sito dell’ISMU:
http://www.ismu.org/

Michele De Sanctis

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Istruzioni in caso di infortuni domestici.

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La l. 493/1999, che per prima in Europa ha introdotto l’assicurazione contro gli infortuni in ambito domestico, stabilisce una serie di caratteristiche e requisiti che delineano la “casalinga/o tipo da assicurare”. In particolare, i soggetti obbligati al pagamento sono quelli con un’età compresa tra i 18 e i 65 anni compiuti, che svolgano le proprie mansioni per la cura dei componenti della famiglia e della casa, che non siano legati da vincoli di subordinazione e che prestino lavoro domestico in modo abituale ed esclusivo.
L’obbligatorietà dell’assicurazione non sempre comporta che il premio assicurativo contro gli infortuni in ambito domestico sia a carico dell’assicurato. Infatti è escluso dal versamento chi abbia un reddito personale complessivo lordo fino a 4.648,11 euro annui e chi faccia parte di un nucleo familiare il cui reddito complessivo lordo non supera i 9.296,22 euro annui.
Il premio è pari a € 12,91 da versare entro il 31 gennaio di ogni anno.
Nel caso in cui si verifichi un infortunio domestico occorre rivolgersi, secondo necessità, ad un ospedale o al proprio medico di famiglia per le consuete prestazioni erogate dal Servizio Sanitario Nazionale, precisando che si tratta di infortunio domestico.
A guarigione clinica avvenuta, se il medico ritiene che dall’infortunio sia derivata un’invalidità permanente pari o superiore al 27% (gradiente in vigore per tutti gli eventi occorsi dopo il 1° gennaio 2007), se l’interessato è in regola con il pagamento del premio annuo (o ha presentato l’autocertificazione perché in possesso dei requisiti reddituali di esonero dal pagamento) e se possedeva i requisiti di assicurabilità (età, reddito, esclusività del lavoro domestico, assenza di vincolo di subordinazione, svolgimento gratuito dell’attività) anche al momento dell’infortunio, l’interessato stesso deve presentare all’INAIL domanda per la liquidazione della rendita. In caso di premio dovuto e non versato si perde il diritto al riconoscimento dell’evento occorso; la successiva regolarizzazione, infatti, non comporta l’indennizzabilità per eventi precedenti a quella data.
Nell’ipotesi in cui dall’infortunio domestico derivi una invalidità pari o superiore al 27%, l’infortunato, a guarigione clinica avvenuta, deve presentare all’INAIL domanda per ottenere la liquidazione della rendita, su apposito modulo predisposto dall’Istituto, reperibile presso le Sedi INAIL e i Patronati.
Nel caso in cui dall’infortunio derivi, direttamente o successivamente, la morte dell’assicurato, la domanda per ottenere la liquidazione della rendita deve essere presentata dai superstiti aventi diritto. Nella domanda, alla quale va allegata la documentazione medica (in primis, il certificato necroscopico come in ogni caso di richiesta rendita superstiti, oltreché tutta la documentazione sanitaria utile ai fini della valutazione da parte del Centro Medico Legale della competente Sede INAIL), vanno indicati il luogo, la data, la causa e le circostanze dell’infortunio.
Nella richiesta di rendita, da presentare alla più vicina Sede INAIL, gli aventi diritto (assicurato o superstiti) devono dichiarare:
• che l’infortunato è assicurato per l’anno nel quale è avvenuto l’infortunio;
• che al momento dello stesso sussistevano i requisiti per l’assicurazione;
• il presidio sanitario che ha prestato il primo soccorso.
Il medico indicherà:
• la data di guarigione clinica;
• le conseguenze della lesione;
• le eventuali preesistenze;
• le previsioni di postumi invalidanti permanenti pari o superiori al 27%.
Per gli infortuni mortali
• data e causa del decesso.
L’effettivo grado di inabilità permanente derivata dall’infortunio è accertato dall’INAIL che, entro 120 giorni dal ricevimento della domanda, comunica all’infortunato l’importo della rendita e gli elementi che sono stati considerati per la liquidazione della stessa.
Entro lo stesso termine l’INAIL è tenuto a comunicare l’eventuale diniego della prestazione, specificandone i motivi, ed indicando la possibilità di presentare ricorso.
Contro la decisione dell’INAIL gli aventi diritto (infortunato o superstiti) possono presentare, entro 90 giorni dalla data del provvedimento, ricorso al Comitato amministratore del Fondo autonomo speciale per l’assicurazione contro gli infortuni domestici.
Il ricorso va trasmesso, a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno, o presentato a mano, con lettera della quale verrà rilasciata ricevuta, alla Sede INAIL che ha emanato il provvedimento e che provvederà al successivo inoltro del ricorso al Comitato.
In caso di decisione negativa del Comitato, o trascorsi 120 giorni dalla presentazione del ricorso senza aver ricevuto risposta, l’assicurato potrà rivolgersi all’Autorità giudiziaria.
L’azione giudiziaria per ottenere la rendita si prescrive nel termine di tre anni dal giorno dell’infortunio.

Redazione BlogNomos

Education and Training 2020.

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di Michele De Sanctis

Tra gli obiettivi di medio e lungo periodo del nostro Paese c’è quello del programma Education and Training 2020. Si tratta di una strategia di cooperazione europea che fissa il programma di lavoro degli Stati membri per il decennio 2011-2020. ET 2020 definisce gli obiettivi strategici condivisi, oltreché un insieme di principi e di metodi di lavoro comuni che fissano le priorità per ogni ciclo di lavoro, come la cooperazione tra Stati membri nell’ambito dell’apprendimento permanente, che deve fare proprio il metodo di coordinamento aperto (MCA /OMC – Open Method of Cooperation), la cooperazione intersettoriale, trasparente e concreta, risultati diffusi e periodicamente rivisti, massima compatibilità con i processi di Bologna e di Copenhagen, rafforzamento della cooperazione con i Paesi terzi e le Organizzazioni Internazionali. Gli obiettivi fissati sono:
1) fare in modo che l’apprendimento permanente e la mobilità divengano una realtà;
2) migliorare la qualità e l’efficacia dell’istruzione e della formazione;
3) promuovere l’equità, la coesione sociale e la cittadinanza attiva;
4) incoraggiare la creatività e l’innovazione, compresa l’imprenditorialità, a tutti i livelli, dell’istruzione e della formazione.
L’Italia è oggi al diciassettesimo posto nella graduatoria dei 27 Paesi dell’Unione Europea, quindi ancora lontano dal traguardo da raggiungere. Questo scenario rappresenta nel contempo una sfida e un’opportunità non indifferente per il rilancio della concertazione di politiche attive del lavoro e della formazione, che dovrebbe essere basata su una chiara visione strategica del Governo e da più efficaci politiche formative regionali e territoriali, sul ritorno ad un apporto significativo delle parti sociali, ma soprattutto sul contributo originale e innovativo del sistema di istruzione e di quello della formazione professionale.
ET 2020 è un obiettivo irrinunciabile, perché le dinamiche del mercato del lavoro sono una vera e propria emergenza sociale. Anche dinanzi al critico scenario che oggi offre il Paese rispetto a tali tematiche.
Per far fronte a questa situazione via via più critica, è necessario che il nuovo Governo, Ministri dell’Istruzione e del Lavoro, così come gli assessori regionali, intraprendano un percorso che permetta di sperimentare politiche integrate attivanti: politiche che puntino a coinvolgere responsabilmente gli attori del sistema economico e sociale, le istituzioni educative e formative e gli stessi giovani e le famiglie.
Occorre, pertanto, un riposizionamento delle politiche industriali, sulle strategie aziendali e sul rilancio delle PMI, poiché per competere sul mercato globale il nostro Paese deve basarsi su un modello medio-alto e basare l’attività produttiva su ricerca, innovazione e qualità dei prodotti.
Ciò di cui necessita l’economia italiana è un’offerta formativa più mirata, programmi di studio più intensi, attenzione maggiore alla formazione scolastica ed universitaria. Ma occorre anche una politica di orientamento allo studio e al lavoro che permetta un coinvolgimento consapevole e responsabile degli studenti e delle famiglie. Il che non vuol dire famiglie che affianchino l’attività didattica di cui la scuola, per mancanza di fondi, accorpamento di classi ed istituti e per mancanza di personale, è carente. È necessario, invece, a fronte di una scuola di buon livello, che le famiglie seguino, pur lasciandoli autonomi e responsabilizzati, gli studi dei propri figli, pretendendone la massima qualità, ossia la giusta qualità che ci si dovrebbe attendere da un servizio pubblico. È necessario, poi, che la pratica di stage e tirocini lavorativi nell’ambito di tutti i percorsi scolastici e universitari diventi obbligatoria, con un ruolo più attivo delle università nell’attività di matching tra domanda e offerta di lavoro.
Nei prossimi sei anni l’Italia deve investire sulla conoscenza. Non possiamo permetterci altri ritardi. Non possiamo permetterci di distruggere il futuro delle nostre imprese e della nostra società.

Una nuova classe dirigente per l’era digitale

L’impetuoso avvento dell’era digitale comporta una profonda revisione delle politiche industriali e macroeconomiche, ma, ancor di più, rende necessaria l’introduzione di una nuova generazione della classe dirigente nazionale.

Infatti, per affrontare in maniera efficace le difficoltà di questo nuovo mondo, occorrono persone nuove capaci d’interpretarlo. L’attuale classe dirigente, per questioni anagrafiche, oltre che per linguaggio, contenuti e scarsa velocità di analisi, ha dimostrato i limiti della propria comprensione di questa nuova era.

 In Italia, manca una vera consapevolezza dell’inadeguatezza del sistema nazionale. Il mondo sta vivendo una delle più grandi rivoluzioni nella storia umana, in quanto l’era digitale rappresenta un nuovo Rinascimento, capace di stravolgere tutti gli schemi cognitivi finora utilizzati per prevedere le direttrici di sviluppo dei grandi paesi industrializzati e non. Purtroppo, la gran parte della nostra classe dirigente politica, industriale e burocratica non ha ben chiari i termini economici e culturali di questa rivoluzione copernicana. Si continua ad interpretare il mondo con gli stessi parametri dell’era analogica, senza rendersi conto che si è nel vivo dell’era digitale.

Questa situazione di stallo impedisce che l’Italia, intesa come comunità, sia capace di elaborare un nuovo modello condiviso di sviluppo culturale, economico e sociale.

 La diretta conseguenza di questa inadeguatezza è la probabile incapacità di approfittare dei primi segnali di nuova crescita che s’intravvedono anche in Europa continentale.

Servirebbero riforme profonde e strutturali, basate su una politica industriale di breve, medio e lungo periodo, totalmente orientata alla definitiva digitalizzazione dell’economia.

Un risultato del generale è perseguibile soltanto attraverso misure capaci di sfruttare il nuovo trend di crescita, che, se necessario, risultino anche traumatiche per il sistema produttivo, ma non per i lavoratori, i quali hanno finora pagato gran parte delle conseguenze di tale incapacità di reazione. Anzi, bisognerebbe prevedere una serie di massicci interventi sul capitale umano, al fine di renderlo adeguato nella gestione delle nuove tecnologie da utilizzare nei cicli produttivi.

L’obiettivo finale da perseguire deve consistere nella capacità di produrre prodotti competitivi, non per il loro basso prezzo di acquisto, ma per il loro elevato valore tecnologico intrinseco, al punto da rendere non strategica la quantificazione del costo della manodopera necessaria per la loro produzione.

 Ovviamente, l’avvio di un nuovo ciclo di crescita comporterebbe sicuramente un mero benessere effimero, che non sarebbe risolutivo, qualora non si sarà capaci di governare bene la cosa pubblica, tenendola al passo della presente rivoluzione digitale. Se la nuova classe dirigente burocratica perdesse questa ulteriore sfida nella sfida, basterebbe un primo segnale di crisi, per disperdere in un attimo tutte le conquiste fino a quel punto ottenuto.

La capacità delle istituzioni pubbliche e della sua dirigenza nel gestire i nuovi temi di questa nuova era digitale risulta essere fondamentale, specialmente se si tiene conto del ruolo dirimente svolto dall’impatto prodotto sulle società e sulle economie dalla velocità del progresso tecnologico, nonché dal contestuale tasso d’introduzione delle innovazioni nella vita quotidiana.

Infatti, negli ultimi anni, lo sviluppo tecnologico ha abbandonato lo schema dello sviluppo lineare, per abbracciare quello dello sviluppo esponenziale generato dalla information technology, rendendo possibile ciò che fino a poco tempo prima sembrava impossibile.

In altri termini, la soglia del concetto di impossibile si sta spostando continuamente in avanti, lasciando inevitabilmente indietro il sistema cognitivo delle passate generazioni, formate e cresciute durante tutta la loro vita lavorativa, in un’epoca nella quale non esistevano la connessione internet, gli smartphones, i tablets ed i social networks.

Tuttavia, sono proprio queste generazioni che mantengono ancora in larga misura la guida del nostro Paese. Ovviamente, non si trascura affatto l’importanza che assume la capacità di aggiornarsi, ma, nell’era digitale, la manutenzione delle proprie competenze da parte di un “nativo analogico” non potrà mai garantire le medesime freschezza ed originalità delle decisioni assunte da persone “native digitali”.

Infatti, l’era digitale si distingue per la finora sconosciuta capacità di avere relazioni, acquisire informazioni e di entrare in contatto con chiunque, in qualunque parte del mondo, sempre e rigorosamente, in tempo reale. Si tratta di un dato cognitivo che, pur essendo stato colto, non è stato ancora ben appreso.

L’era digitale ha moltiplicato all’infinito la capacita cognitiva dei singoli individui. Tuttavia, si tratta di una capacità cognitiva diversa ed, al contempo, inarrivabile per chi, invece, ha dovuto acquisirla nel corso dell’era analogica.

 Queste considerazioni comportano la necessità di realizzare, senza creare alcun conflitto generazionale, una decisa accelerazione del cambio complessivo della classe dirigente, a favore dei nativi digitali. Infatti, solo questi ultimi possono gestire efficacemente lo sviluppo esponenziale del progresso tecnologico, in quanto essi, a differenza dell’attuale classe dirigente “analogica”, non sono condizionati da una visione cognitiva della realtà di tipo esclusivamente lineare.

Questa soluzione comporterebbe un indubbio beneficio per l’intero “Sistema Paese”, ma, inoltre, libererebbe le molteplici energie inespresse di una intera generazione che, dopo aver trascorso anni di studio nel preparare il proprio avvento nella società del lavoro, è attualmente costretta ad invecchiare, restandone ai margini e senza svolgere alcun ruolo strategico.

 

Germano De Sanctis

Knowledge Economy: una via per la ripresa.

di Michele De Sanctis

Con l’avvento delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione la ‘conoscenza’ è diventata un bene economico i cui effetti non solo si ripercuotono sul benessere individuale, ma anche su quello collettivo. E forse sarebbe più giusto dire che gli effetti principali e più apprezzabili, dal punto di vista del mercato, sono proprio quegli effetti che, dopo l’impatto sul singolo, riescono ad avere un impatto collettivo, poiché è lì che, da una conoscenza iniziale, si riesce a produrre altra conoscenza per n numero di volte: è lì, quindi, che si crea il progresso. Il progresso è innovazione, è informazione tecnologica, è ricerca e sviluppo. Tutti i sistemi di new Economy sono infatti caratterizzati dalla produzione di informazione e conoscenza. È ciò che oggi sembrerebbe mancare alle nostre imprese, ciò che riaccenderebbe la nostra capacità di essere competitivi. D’altro canto, se da una prima conoscenza è stata possibile la creazione di esternalità positive, ossia di effetti sulla società, ciò è stato possibile anche grazie (e soprattutto) alla tendenza di lungo periodo all’aumento di risorse destinate alla produzione e trasformazione di conoscenza (istruzione, formazione, ricerca e sviluppo e coordinamento economico). Destinare risorse all’istruzione è quindi un investimento di lungo periodo. Analizzando le politiche economiche di quei Paesi che oggi vengono detti emergenti, infatti, assistiamo a una costante e consistente destinazione di capitale materiale a quello che invece è il cd. capitale immateriale. Alla conoscenza. Ciò interessa molto l’Italia, che da anni ‘fa economia’ lesinando sui fondi destinati all’istruzione. Gary Becker, premio nobel per l’economia nel 1992, ne ‘Il capitale umano’ analizzava come il disinvestimento su ricerca e sviluppo nelle economie in crisi accentui gli effetti della stessa crisi, causando danni che, nel lungo periodo, non sono riparabili, se non dopo diversi anni dalla distruzione di quel capitale umano. Il problema è grave. La nostra era è fondata sulla conoscenza: la Knoledge Economy è un cambiamento epocale, paragonabile solo a quello avvenuto con la nascita della grande industria, è un’economia che genera l’esigenze di nuove teorie e processi di innovazione permanente che richiedono più alti livelli di formazione, capacità di apprendimento e competenze particolari. La specializzazione è diretto corollario di questo tipo di economia. Quando si chiede al Paese di essere competitivo è a questo che ci si riferisce. La conoscenza generica porta l’impresa a creare lo stesso prodotto che a prezzi più bassi viene realizzato nei Paesi emergenti. La specializzazione crea un mercato diverso, alternativo agli altri. Ma la specializzazione si ottiene da un lato con l’investimento dei governi sulla prossima generazione e dall’altro, a livello aziendale, con la formazione specifica del personale. La crisi che viviamo da anni, da così tanti che ormai sembra difficile ricordare come fosse la vita prima, sta distruggendo inesorabilmente il capitale umano attualmente in forza e quello futuro. L’Italia deve trovare una via, diversa dall’austerity, per recuperare il proprio gap. A prescindere da ciò che l’Europa ci chiede. Per il settore della New Economy è, infatti, pressoché impossibile parlare di una traiettoria europea. Questo perché le disparità tra Paesi sono troppo ampie in un numero importante di dimensioni, come saggiamente analizzava Dominique Foray già nel 2000. La struttura degli investimenti in conoscenza, la divisione del lavoro tra pubblico e privato e così via: sono tutti elementi di una diversità tale che è impossibile pretendere lo stesso livello per tutti. Soprattutto tra i Paesi dell’Eurozona e quelli dell’Europa orientale con moneta nazionale e tra quest’ultimi e i cd. PIIGS, svantaggiati rispetto agli altri nelle esportazioni dal cambio con l’Euro. L’alternativa alla roadmap fissata dalla Troika deve necessariamente passare dall’economia dalla conoscenza e dall’abbandono delle politiche di austerity che, finora, hanno soltanto distrutto in nostro bene più prezioso: il capitale umano. In altre parole, il nostro futuro.

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